CAPITOLO DUE
“Tutti gli esseri umani
vogliono essere felici;
peraltro, per poter
raggiungere una tale condizione,
bisogna cominciare col
capire
che cosa si intende per
felicità”.
Rousseau.
“Ho riconosciuto la
felicità
dal rumore che ha fatto
andandosene”.
Jacques Prévert.
“Dottore, che sintomi
ha la felicità?”
Jovanotti.
Scrivere è una fonte di potere inesauribile.
Anche se nella vita sono una merda, un fallimento completo,
al cospetto di una pagina bianca mi sento un leone. Nessuno mi ferma. E le
imbratto con l’inchiostro, queste dannate pagine… e che sia maledetto il giorno
in cui sono nato.
Credo che nessuno abbia voglia di venire al mondo per poi
soffrire.
Alla fine mi sono ritrovato a vivere di istanti, spesso anche
perduti tra i residui di un passato in rovina, una Roma antica ormai
sprofondata sotto i freschi muri della capitale odierna. I miei mosaici lì sono
ancora ben conservati, ma sono appunto nascosti sotto uno strato di terra e di
costruzioni recenti che mi rende impossibile il lasciarli riaffiorare.
Ecco, vorrei tornare a essere quel bimbo spensierato e grassoccio
che rideva continuamente, senza pensieri per la testa. Vorrei che questo
passato tornasse a riemergere, miscelandosi con l’insipido e frenetico
presente.
Non vorrei più essere l’Alex malinconico, quello con lo
sguardo perso verso l’orizzonte, colui che sembra sempre imbronciato e
pensieroso. No, sono nato per essere felice e spensierato.
Eppure, la felicità dove è finita? Se premettiamo che la
felicità è comunque un concetto generale abbastanza soggettivo, si potrebbe
anche pensare che in fondo scovarla non sia poi così difficile.
Alla faccia, però! Io con le mani vado a fondo tra fanghiglia
e poltiglia varia, scavo pure con la vanga, ma non la so trovare.
Cavolo, penso che nulla sappia nascondersi meglio di un
istante di felicità pura. Fugace, anche. Illusoria.
La vita è uno schiaffo continuo, devo ancora abituarmi che
dovrò subire, e subire ancora.
Almeno sulla carta posso essere chi voglio, scrivere quello
che voglio, costruire ciò che più desidero. Con l’inchiostro anche i sogni
possono diventare realtà.
Da quando ho smesso di vivere con il corpo, ho iniziato a
farlo con la mente, tramite la scrittura.
Una notte buia e
tempestosa. Il vento flagella le chiome degli alberi, già pronte a spogliarsi.
Il freddo è accompagnato
da una pioggerellina leggera, di quelle gelide che t’imbrattano il giubbotto e
ti entrano fin nelle ossa.
Parcheggio la mia
Mustang a pelo del marciapiede, nel posteggio riservato.
Mentre tolgo la chiave
dal cruscotto sbuffo e inizio a odiare questo maltempo autunnale. E siamo solo
all’inizio, l’inverno ci attende. Mi faccio coraggio e abbandono la mia auto,
dopo averla chiusa opportunamente a chiave.
Mi avvio verso la porta
di casa bestemmiando e imprecando in molteplici lingue. Chi me lo fa fare? Chi?
Pure io sto cambiando, ormai, dopo tanti anni a vigilare l’incolumità dei
cittadini della contea di Franklin.
Una contea di quelle
simili a tutte le altre omonime negli Stati Uniti, in cui accadono sempre le
solite cose.
E poi, cosa dovrebbe
capitare a un semplice poliziotto come me? Ho già cinquantacinque anni, presto
mi ritirerò. Una vita trascorsa a dirigere il traffico lungo le strade e a
sostituire i semafori rotti con l’apposita paletta. Non mi è mai stato affidato
nessun caso di rilievo.
Nella stradale ho avuto
modo di soccorrere diverse persone in difficoltà dopo alcuni incidenti
abbastanza gravi, ma sulle pagine dei giornali sono apparsi i miei superiori,
non io.
Dopo trent’anni di
servizio mi hanno spostato tra i poliziotti di quartiere, e ho passato i miei
ultimi mesi a intervenire a seguito di piccoli furti. Ormai conosco i colleghi,
ho buoni rapporti con le alte cariche e con tutti, ma resto pur sempre un uomo
pronto a mollare. E mollo senza aver lasciato alcun segno, nonostante una vita
di impegno, fatica e lavoro. Giorno e notte, a seconda dei turni.
Un brivido mi percorre
quando mi ritrovo al cospetto della porta di casa e sembra che mi stia
addormentando in piedi, sommerso dalla stanchezza e dalla delusione.
Non appena varco la
soglia a me tanto familiare, vengo affolto dal profumo intenso dei plum-cake
appena sfornati. Immerso nella mia malinconica frustrazione interiore, a volte
dimentico quanto amo mia moglie.
Nonostante sia ormai
tardi, la mia compagna mi aspetta ancora in piedi, e dal rumore soffuso della
tv accesa realizzo che probabilmente anche i ragazzi lo sono.
“Amore” la saluto,
facendo il mio ingresso in cucina. La luce soffusa della lampada appesa sui
fornelli è calda ma allo stesso tempo getta numerose ombre su di noi, e questo
rende tutto ancora più romantico. Le ombre coprono i miei vestiti umidi e le
rughe di fine giornata.
Tiffany mi sorride e mi
abbraccia, venendomi subito incontro.
“Sei fradicio” afferma,
tastando la mia divisa e scoccandomi un rapido bacio sulle labbra.
“Non esagerare. È solo
un po’ di umidità”.
Leonardo e Jason, i
nostri due figli, fanno a loro volta irruzione nella stanza e mi vengono a
salutare, interrompendo il dialogo tra me e la loro madre.
“Papà, rientri sempre
più tardi” mi fa notare Jason.
Jason ha sedici anni,
ma ne dimostra molti di più. Con un repentino movimento della testa scuote la
sua chioma mossa e abbastanza allungata, tipo moda anni Settanta. Il Beatles,
lo chiamo scherzosamente. Lui però adora affermare che si ispira ad Harry
Style, il suo cantante preferito.
Adoro sentirlo parlare
e mi mette sempre di buon umore.
“Non è colpa mia. Il
lavoro chiama” rispondo con diplomazia.
Leonardo, invece, resta
un attimo dietro al fratello minore.
Leo ha un nome
italiano, scelto appunto per elogiare Da Vinci, uno dei più grandi uomini della
Storia. In realtà non è venuto speciale come invece gli avevamo augurato
chiamandolo così. Ha già ventisei anni, sulla carta è adulto, ma è rimasto un
ragazzino dentro di sé. Non ha mai saputo staccarsi da noi, anche se delle
volte ha degli istinti ribelli, tuttavia restiamo pur sempre una famiglia molto
unita. Basti pensare che nei fine settimana usciamo sempre tutti assieme.
Leo è un giovane molto
chiuso e difficile da comprendere, il mio primogenito tanto amato. Per quanto
Jason sia simpatico e dolce, il fratello maggiore riesce a modo suo a
conquistarsi il giusto spazio.
Sono padre di ragazzi
ormai grandi, però appunto sarò il loro genitore in eterno, e finché avranno
bisogno di me, io ci sarò.
Alla fine, il maggiore
si fa avanti e mi batte il solito cinque. Non aggiunge niente, tra noi non c’è
bisogno di parole. È tutto a posto così.
Adesso mi sento felice,
assieme alla mia famiglia. A mia moglie, ai miei figli… il mio tesoro più
grande, nel complesso. Vivo e lavoro per loro. Se non ci fossero stati, penso
sarei finito a cadere nella triste spirale della depressione.
“Che dici? Ceniamo?”
Tiffany fa cenno verso
il tavolo imbandito e da me finora ignorato.
Le sorrido.
“Non dovete aspettarmi,
lo sapete… mangiate quando avete fame. Io sono sempre più in ritardo” spiego e
ripeto, come ho già fatto tante altre volte. So che loro però mi aspetteranno
sempre. Sono la mia famiglia, la mia salvezza. La mia unica certezza. L’unica
cosa bella che ho saputo costruire durante il corso della mia monotona vita.
Almeno, grazie a loro,
posso dire che la mia esistenza non è stata vana.
Mi rassicurano con le
solite frasi di rito, però sono convinto che mi attendano con grande piacere.
Così, come ogni sera
che si rispetti, ci mettiamo a cenare con il sorriso sulle labbra. Iniziamo a
parlare del più e del meno mentre mia moglie dà sfoggio della sua grande
abilità culinaria, servendoci pietanze da acquolina in bocca.
Ci sono tuttavia
momenti in cui all’improvviso accade un avvenimento che stravolge tutto. Questa
è la sensazione immediata che provo a pelle non appena il mio cellulare inizia
a squillare, interrompendo il meritato e disteso pasto.
Nessuno mi chiama mai a
quest’ora, non ho idea di chi sia, né di cosa voglia, per questo tentenno un
attimo ad estrare il telefonino dalla tasca dei pantaloni.
Lo sguardo rassicurante
dei ragazzi e di mia moglie mi spinge a procedere.
Sullo schermo
illuminato troneggia il numero del mio capo.
“Signore” rispondo
immediatamente.
“Agente Barley, grazie
per rispondermi anche a fine turno” breve sosta da parte del severo Ramsey, che
gestisce tutto in ufficio, “volevo chiederle se potesse presentarsi un po’
prima, domattina. C’è una faccenda che mi è stata presentata poco fa, piuttosto
urgente, e di cui dovrei parlarle”.
“D’accordo. Alle sette
e trenta sono lì, va bene?”. Il mio turno inizierebbe alle otto, ma se devo
andare prima…
“A posto. Buona
serata”. Di poche parole come sempre, Ramsey riaggancia.
Gli sguardi
interrogativi dei miei famigliari però mi colgono un po’ di sorpresa.
“Niente, domattina mi
attendono in anticipo…” rispondo, evasivo, e sorrido a tutti, anche se non so
cosa aspettarmi. Durante tutti questi anni di servizio non sono mai stato
convocato in anticipo né i pochi casi che mi sono stati sottoposti erano
urgenti.
Non voglio grattarmi il
capo prima del previsto e mi rilasso, tanto so che sono prossimo alla fine
della mia carriera lavorativa quindi di certo non sarà nulla di grave o di
impegnativo. Forse una rapina a mano armata, alla peggio.
Ne approfitto allora
per donare tutto me stesso a chi mi sta più a cuore, conversando con i ragazzi
e sommergendo di complimenti mia moglie, la donna più bella e meritevole che io
abbia mai conosciuto.
Mi siedo al tavolino esterno del bar. Come ogni mattina.
Vengo dalla campagna e la mia camicia vintage troneggia sul mio corpo.
Il paese più vicino alla mia località amena è mezzo spopolato
e di dimensioni ridicole, proprio per questo mi conoscono tutti di vista; sanno
chi sono, anzi, sanno di chi sono il figlio. Nessuno mi rivolge mai la parola e
ognuno ha la sua precisa idea su di me.
Avverto gli occhi degli anziani mentre mi studiano, pensano
di sapere ogni cosa e quegli sguardi spesso intorpiditi dalle cataratte non si
perdono un attimo del mio show. È uno spettacolo questo, in fondo, no? Cazzo
vengo a sedermi qui tutte le mattine, a mostrarmi cialtrone e pure mezzo
idiota? Ma certo, a fumarmi quella mezza sigaretta che mi fa sentire un po’ più
figo del solito.
No, questo è solo il mio riflesso. Sotto questo strato di
inutile pelle, sono molto diverso. E un giorno lo dimostrerò.
Intanto smetto di pensare a quelle fottute storie che mi
frullano continuamente per la testa, sono stanco di immaginare e di avere quel
bisogno patologico di scrivere.
Devo vivere, no? Vivere questa vita in prima persona, per
provare a sfidare quello che sembra un fottuto destino avverso.
Mi accomodo meglio sulla seggiolina da bar e lascio che lo
scarico delle auto che scorrazzano a pochi passi da me mi avvolga e si fonda
con il leggero fumo che lascio uscire dalle mie labbra socchiuse.
Sono un amante assiduo delle storie complicate. Devo
smetterla e trovare la mia libertà. Ma soprattutto imparare a volare e a
voltare pagina.
Davvero mi ritengo così sfortunato e sfigato? Porca boia.
È quindi il momento per riflettere davvero.
Lascio alle mie spalle quegli sguardi senili, che non mi
appartengono né rispecchiano affatto.
Sono in attesa del mio momento. Del mio giorno.
Magari fosse perfetto, ma la perfezione si sa, non esiste.
Mi accontento, o, meglio, mi saprò accontentare.
NOTA DELL’AUTORE
Ringrazio di cuore chiunque abbia letto il primo capitolo, e
ovviamente anche questo.
Vi ringrazio tanto; mi avete piacevolmente sorpreso… non mi
aspettavo così tanti lettori per questa umile storia!
Storia che affronterà tematiche molto delicate.
La vicenda non è autobiografica, come starete di certo
comprendendo… o quando meno non nella sua totalità xD per fortuna non sono Alex
xD e non so nemmeno se alla fine avrà un senso. Comunque… questo è solo l’inizio…
un assaggio, diciamo… spero di non avervi atterrito… o che non sia troppo
antipatico come testo…
Grazie ancora a tutti ^^