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Autore: paige95    21/07/2020    5 recensioni
La guerra in Afghanistan è il filo rosso che lega il destino di due uomini e due famiglie, due mondi distanti che non sanno di essere molto vicini tra loro.
Nell'estate del 2018, in pieno conflitto, il tenente comandante dei Navy SEALs Christian Richardson e l'inviato speciale del Los Angeles Times Samuel Clark verranno chiamati al fronte, lasciandosi alle spalle vissuti, affetti e i vasti territori californiani.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Destino'
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Il prezzo di una vita





 
Los Angeles – St. Vincent Medical Center, 1 settembre 2018

 
Le mani della dottoressa Clark erano umide e reduci dall’ultima operazione; aveva appena terminato un intervento di tre ore a cuore aperto, era stanca, ma i muscoli e i nervi erano ancora carichi di adrenalina. La tensione era stata palpabile in sala operatoria, il paziente che le era stato affidato era in condizioni critiche; alle sei del mattino era prossima a smontare e invece un codice rosso in pronto soccorso aveva protratto il suo turno notturno. Aveva prestato immediato intervento ad un uomo di mezza età affetto da malattia coronarica cronica, soffriva di un principio di infarto cardiaco; gli aveva salvato la vita, eppure non riusciva ad esserne entusiasta.
Delilah aveva acquisito il diploma di laurea presso la Harvard Medical School, specializzandosi in cardiochirurgia con il massimo dei voti; aveva scelto un percorso di formazione impegnativo, aveva deciso di dedicare la sua vita al prossimo, aveva preso con coscienza una strada diametralmente opposta a quella del padre. Quando vestiva i panni della dottoressa Clark riusciva a dimenticare l’origine del suo cognome, con grande beneficio del suo cuore.
Avrebbe dovuto riposare dopo un intervento delicato e complesso; il suo turno giornaliero aveva sforato le dieci ore, la sua mente era vigile per eventuali emergenze da troppo tempo. Non era il momento di rincasare, non sarebbe riuscita a posare il capo sul cuscino. Erano inutili i continui squilli silenziosi da parte di sua madre; non l’aveva avvertita, il ritardo della figlia era oscuro alla signora Clark, eppure avrebbe dovuto ricordare quanto non fossero inusuali le urgenze in ospedale. Delilah accostò lo schermo del cellulare alla scrivania in legno di noce del suo ambulatorio, nel quale si era rifugiata. Indossava ancora il camice bianco personale, lo stetoscopio solcava il suo collo; fece passare lo strumento accanto al colletto della divisa e lo posò sul ripiano con pacatezza. Era pervasa da una falsa tranquillità. Recuperò dal taschino alto un paio di sottili occhiali da lettura; soffriva di una leggera presbiopia e non era il momento di fraintendere ciò che si apprestava ad esaminare. Doveva trovare il coraggio di aprire la cartelletta medica candida che si trovava davanti a lei e sfogliarne il contenuto.
La donna era rimasta qualche minuto a contemplare il nome riportato sulle analisi: Daniel Clark.
Non era arida quanto lui, Delilah scongiurò che gli esami effettuati fossero funesti. Era riuscita a procurarsi i risultati in anteprima grazie ad un collega di reparto che si occupava di effettuare l’ecocardiografia e tutti gli esami invasivi – e non – del caso; attendevano di essere letti dalla sera precedente, ma solo l’adrenalina dell’intervento appena concluso le aveva infuso l’audacia necessaria. Lo sguardo attento della dottoressa sfiorò le foto digitali dell’ecografia; esaminò i battiti immortalati di un cuore che misurava l’amore come se fosse un’arma letale, dalla quale guardarsi bene. Era lo stesso cuore di un padre che si dilettava fin da bambina ad insinuarle nella mente quanto lei non fosse degna di essere amata. Iniziava a credere che il rapporto poco sano e sofferto che da sempre intesseva con Daniel avesse un ruolo nel fallimento del suo matrimonio; aveva forse preteso troppo da parte di suo marito, troppe attenzioni che non avrebbero comunque colmato quelle del genitore, era solo un’effimera illusione. Era assurdo, ma l’idea di perdere il padre per una malattia le infondeva una drammatica impotenza, non a livello medico – su quel piano il giuramento di Ippocrate le imponeva di fare tutto ciò che era in suo potere –, ma a causa degli scarsi vissuti condivisi con quell’uomo. Non desiderava vivere nel rimpianto, eppure ultimamente ne stava collezionando parecchio. Appena sotto le anteprime dell’ecografia, un post-it azzurro recitava poche parole, ma estremamente intense.
 
Avevi ragione. Mi dispiace.
 
Morris, il collega di reparto addetto alle analisi, si era premurato di rivolgerle solidarietà e con essa anche la triste conferma. Delilah sospettava che suo padre fosse affetto da un grave disturbo alle arterie coronarie e così era. Non ebbe necessità di leggere la prognosi, il dottor Wood le aveva risparmiato con disarmante crudeltà la fatica.
Lasciò la cartelletta in disordine e si avvicinò alle ante scorrevoli della finestra che si trovava dietro lo schienale della sedia. L'imposta era leggermente socchiusa, l’aria di settembre inondava il suo viso, segnato dalla stanchezza fisica e spirituale; Delilah sfilò gli occhiali e li appese per un’asta al leggero decoltè della camicetta floreale, incrociò le braccia sotto il seno e contemplò il panorama che si estendeva ai suoi piedi dal quinto piano del maestoso edificio. Un’ambulanza si stava dirigendo verso l’ingresso a sirene spiegate; una collega di turno era già accorsa per accogliere il nuovo paziente. Cosa avrebbe provato se al posto di quell’uomo, quella donna o quel bambino ci fosse stato Daniel? Come di consueto, avrebbe messo in moto ogni singolo neurone pur di salvarlo, non avrebbe mai lasciato che un infarto o un’ischemia lo strappasse alla vita. Doveva scongiurare un ricovero d’urgenza, doveva parlare con il medico di suo padre e fissare la data dell’intervento, per sperare di tamponare l’insorgenza di sintomi ben più gravi di un dolore al braccio; doveva evitare che nell’arco di quelle ore le mani tremassero, catturate dal timore di dover vivere per sempre l’ennesimo rimpianto. Delilah aveva prosciugato la gola di saliva per mettere in guardia suo padre sui rischi del fumo attivo, ma le parole della figlia erano solo acqua fresca che scivolava su di lui e che ignorava, mentre era intento ad accendere il quarto sigaro nel giro di un paio d’ore. Si ripeté che sarebbe stata colpa di Daniel, se lo avesse perso prematuramente, lei, da figlia, aveva fatto tutto ciò che era in suo potere; ogni sorta di rimpianto e ricordo perduto avrebbe portato la firma di quell’uomo, eppure Delilah non era arida quanto lui e avrebbe spartito tra loro le colpe. Informare un paziente della diagnosi era uno degli aspetti più difficili del suo lavoro, specie se il soggetto in questione era un uomo che affrontava la vita con spavalderia, difficilmente comprendeva i propri errori prima di sfiorare il gelido fondo. La dottoressa Clark non era certa che stavolta avrebbe riscoperto uno stile di vita più sano; si sarebbe accontentata di vederlo in salute. Lei non era come lui, lo ripeteva a se stessa fino a convincersene; desiderava che il cuore arido dell’uomo che le aveva dato la vita fosse sano. Lei era diversa, generosa, pronta ad oscurare se stessa, pur di scorgere l’ombra di un sorriso sereno sul volto delle persone che amava. Voleva bene a suo padre, era innegabile, non lo nascondeva a se stessa e nemmeno a Daniel, anche se non meritava di sentire il calore di un affetto che non era in grado di trasmettere. Daniel per lei era stato emotivamente assente fin da quando la coscienza si era impossessata di lei e le era consentito ricordare la sua infanzia, eppure lei avvertiva l’impellente necessità di esserci per lui. Era assurdo.
«È un brutto momento? Am … Delilah, ti disturbo?»
La donna era stata riportata alla realtà dalla voce inconfondibile dell’uomo con il quale aveva trascorso otto anni della sua vita. Nathan aveva dato una leggera spinta alla porta accostata, dalla quale proveniva per la dottoressa uno spiffero d’aria piacevole, creando una leggera corrente con la complicità dell’anta aperta della finestra. Non era sgradevole nemmeno la comparsa del marito; il suo aspetto era sempre gradevole, i suoi capelli castani erano inondati dalla penombra della tapparella per un quarto abbassata. Le iridi nocciola dell’uomo dichiaravano, prima ancora che potesse farlo lui, tantissima confusione sul loro rapporto e sulla posizione raccolta della moglie.
«Nat. Cosa fai qui?»
«Ho atteso che terminassi l’intervento per consegnarti alcuni vestiti che hai dimenticato a casa. Non so se possano servirti. Desidero anche ringraziarti per avermi consentito di rimanere in casa nostra provvisoriamente, non me la sento di tornare dai miei»
Delilah colse con facilità il disagio dell’uomo, puntava lo sguardo ovunque tranne sulla sua interlocutrice; era triste, ma chi non lo sarebbe stato in procinto di dichiarare il fallimento del proprio matrimonio? L’uomo posò una borsa sulla sedia che di norma era riservata ai pazienti; comunicò con quel gesto alla dottoressa che era una visita veloce, avrebbe tolto presto il disturbo, non si sarebbe accomodato per tenerle compagnia qualche minuto. Delilah scoprì di avere bisogno di una parola di conforto da parte sua; pensò di trattenerlo con qualche scusa.
«Ha chiamato l’avvocato ieri nel pomeriggio. Pare manchino alcuni documenti per concludere le pratiche di divorzio»
«Sì, lo so, ha chiamato anche me. Sono entrato nell’archivio civile del tribunale, ma non ho trovato l’atto di matrimonio. Oggi provo a rovistare nell’archivio cartaceo. Ci fossimo sposati a Las Vegas potrei capire. Non preoccuparti, lo trovo, da qualche parte deve esserci una copia»
Nathan era elegante, ma non retrò; odiava cravatte e accessori simili, il suo stile gli conferiva un’aria fresca e affascinante. Delilah ricordava di essersi innamorata del suo portamento, prima ancora che del suo discorrere forbito, d'altronde era pur sempre un uomo di legge.
«Tu non sei un avvocato penalista? Come mai hai accesso a quegli archivi?»
«Sì, infatti se infrangessi qualche legge sarei sempre pronto a difenderti. Per gli archivi, ho il favore di qualche collega in debito con me»
«Già, le tue arringhe sanno essere convincenti»
La dottoressa si accostò alla scrivania, abbassò gli occhi su di essa intenzionata a riordinare gli oggetti fuori luogo. I movimenti della donna erano lenti, a tratti distratti e carichi di malinconia; non spostò la cartella incriminata, sfiorarla l’avrebbe resa reale e avrebbe risvegliato il subbuglio di emozioni contrastanti che si era annidato nel suo cuore. Nathan era a pochi passi da lei, li divideva solo il tavolo; buttò un occhio su di esso e scorse, tra parole per la maggior parte incomprensibili, un nome familiare.
«Cos’ha mio suocero?»
La stava fissando con sincero interesse, ma lei non era pronta a dar voce a quelle analisi, le avrebbe rese troppo vere. Percepiva su di sé lo sguardo indagatore del marito; era alla ricerca di un movente spinto dalla sua deformazione professionale.
«Delilah. Ti conosco troppo bene, sei preoccupata. Tuo padre ha una salute cagionevole?»
La donna diede un leggero segno di assenso.
«Non è proprio un buon periodo»
Nathan condivise la frustrazione della moglie, fu una considerazione amara, sofferta, che gettava dubbi persino sulle scelte che di comune accordo avevano preso. La dottoressa Clark iniziava a provare disagio in compagnia dell’avvenente avvocato; se le loro pratiche di divorzio non fossero state avviate da settimane, avrebbe cercato conforto tra le braccia dell’uomo, come fosse un’oasi in mezzo al deserto, ma le sembrava un’azione sfrontata e ambigua. La donna posò i palmi sul ripiano in legno, cedette all'amarezza; abbassò lo sguardo e si lasciò catturare da un pianto silenzioso. Il marito vide solo l’ombra scura dei suoi capelli lisci sovrastarla; lei aveva creato un muro tra loro, che fosse intenzionale o meno. Delilah sussultò, quando la mano di Nathan sovrastò la sua più minuta.
«Se posso fare qualcosa per te, non esitare a chiedere»
Era solo un pessimo momento della loro vita, uno dei peggiori. Divorzi, guerre e malattie incombevano su di loro. Un leggero sorriso si dipinse sul volto di Delilah; doveva ricordare per quale ragione lo stesse lasciando. Era colpa di lei ed era troppo pretendere che un uomo accorto come Nathan fosse disposto a colmare vuoti del suo passato; ammettendo che lo volesse, la dottoressa non gli avrebbe mai consentito di portare sulle spalle insieme a lei una simile zavorra; aveva osato per troppo tempo, il loro rapporto ne aveva sofferto, doveva lasciarlo libero di vivere la sua brillante carriera in compagnia di una donna emotivamente stabile.
«Ci siamo ripromessi di lasciar trascorrere un lungo periodo, prima di tornare a frequentarci come amici. Ora non credo di essere pronta, è troppo presto»
«Ciò non toglie il fatto che per te ci sarò sempre»
Le guance di Delilah erano elegantemente solcate da lacrime. Era indubbio che Nathan l’amasse, non avevano mai nascosto i loro sentimenti; scorgere la sofferenza sul volto della moglie era una pugnalata nel cuore; era a conoscenza del rapporto che intercorresse tra lei e il padre, le aveva sempre mostrato vicinanza.
«Daniel conosce l’esito degli esami?»
«Non ancora. Gli ho ripetuto centinaia di volte di preservare la salute, è il bene più prezioso che possediamo, non mi ha mai ascoltata. È così dannatamente attaccato alla vita, ma non gli è mai importato dei rischi che correva»
«Lilah, sono convinto che sarai in grado di aiutarlo. Sei il miglior medico che io conosca»
Anche Nathan si era appoggiato alla scrivania per poterla sfiorare; aveva impiegato la sua solita dolcezza per invocarla. Il loro atto di matrimonio era scomparso per qualche strana ragione; stavano divorziando, ma i contatti fisici accendevano ancora l’attrazione. L’uomo raccolse con il pollice una lacrima che stava sfuggendo al controllo di Delilah. L’emotività aveva gettato sul lastrico il loro matrimonio, Nathan restava l’unico in grado di accogliere le sue fragilità, ma Delilah non aveva alcun diritto di pretendere così tanto da lui. Si stava avvicinando pericolosamente a lei e alle sue labbra, l’avrebbe raggiunta se una voce ferma sulla porta dell’ambulatorio non li avesse bruscamente interrotti.
«Dottoressa Clark. Mi rincresce disturbarla, ma suo fratello al telefono domanda di lei. Credo sia urgente, il ragazzo sembra piuttosto agitato»
Delilah voltò in ansia lo schermo del cellulare e si accorse che vi erano almeno cinque chiamate perse da parte di Samuel. Daniel e Nathan l’avevano distratta a tal punto da non essere pronta ad accogliere il bisogno dell'unico uomo con il quale aveva instaurato un rapporto sano e appropriato.


 
 
Periferia Ovest di Kabul, 2 settembre 2018 (ora locale)
 
 
Maryam era corsa da Samuel, era stato il primo nome che era passato per la mente della ragazza. Lui era quel gancio in mezzo al cielo inaspettato e salvifico, il miracolo in un deserto materiale e dell’anima. Il futuro era meno incerto da quando il reporter aveva posto piede sul suolo afghano. La notte, che avevano attraversato per tornare al villaggio, era meno scura in compagnia di Samuel.
Sarebbe stato bello credere che la salvezza fosse giunta dal continente americano, il medesimo che prometteva pace, ma allo stesso tempo dichiarava guerra. Convincersi che il giornalista con il quale avevano stretto amicizia fosse estraneo ai soldati, avesse obiettivi diversi da quelli propri degli eserciti di più nazioni che si erano radunati nella loro Patria, accendeva la speranza che il mondo al di là dei confini dell’Afghanistan stesse davvero provando a liberarli e non li facesse solo affondare giorno dopo giorno sempre più nelle sabbie mobili.
La figlia del mullà si fidava di Samuel, ma non estendeva la buona fede agli amici del ragazzo. Christian si era offerto di accompagnarli, attraversare a quell’ora strade impervie e dissestate era rischioso per due giovani. Maryam non era inesperta, lei era cresciuta nel pericolo, era prudente quanto bastava e non aveva bisogno che un militare la proteggesse, era in grado di prevenire le insidie a diversi metri di distanza. Nel lungo tragitto che avevano affrontato, la giovane era stata in grado di risparmiare a Samuel ogni sorta di minaccia che giungesse dalla terra grezza e rivoltata dalle bombe esplose e in agguato; in cambio la presenza del reporter garantiva alla giovane protezione da eventuali malintenzionati che si aggiravano nelle ore notturne, sia all’interno che all’esterno della città. L’afghana aveva guidato Samuel attraverso scorciatoie che solo i nativi potevano conoscere così bene; dovevano cercare di giungere a destinazione il prima possibile.
Si erano difesi reciprocamente, senza sapere che il vero pericolo si trovava tra le mura del villaggio; Maryam ne era a conoscenza solo in parte, non era esperta di medicina e si rese conto che avrebbe potuto ricevere qualche utile lezione da Karim se solo fosse stata più scaltra. La porta dell’umile casa del medico di Herat era appena accostata, Samuel aveva il cuore in gola, ogni parola che tra le lacrime la ragazza gli aveva comunicato era stata al pari di una lama che non solo affondava nel suo petto, ruotava su se stessa e infieriva su ferite sanguinanti. L’americano aveva allontanato con urgenza l’imposta, la quale si era scagliata contro il muro provocando un frastuono simile ad un’esplosione. Era stato un rumore familiare per Karim, si era voltato verso i due intrusi, ma persino la luce flebile della luna infastidiva la sua vista debole.
«Karim!»
Samuel era corso dall’amico, accomodato sul giaciglio che accompagnava da anni ormai le sue notti insonni; si era inginocchiato ai suoi piedi spaventato di vedere il viso avvolto da un lenzuolo di pallore e sudore; azzardò sulla scia di una intensa scarica emotiva, provò ad afferrargli la mano, ma il dottore la ritrasse risoluto, aveva impiegato le poche forze che gli erano rimaste in quel magro tentativo di protezione.
«Non vuole che ci avviciniamo, teme di essere infetto e contagioso»
Maryam aveva imparato a comprendere i gesti dell’infermo, aveva allontanato anche lei diverse ore prima; voleva solo aiutarlo, eppure, anche in condizione critiche, desiderava essere lui soccorso per gli altri e non viceversa mettendo a rischio la loro vita.
«Infetto da cosa?»
Karim non rispose a Samuel, si voltò in direzione del lato opposto all’amico e diede due colpi di tosse nel palmo. L’interno della mano venne inondato da grumi dalle tonalità vermiglie; Samuel li intravide, per il medico furono solo una drammatica conferma alle sue ipotesi. Il giovane americano lasciò che il cuore divampasse in brucianti sensi di colpa; si era allontanato da loro, aveva frequentato per qualche giorno la base militare, li aveva abbandonati nel momento del bisogno e la loro condizione era precipitata.
«Perché il sangue, Karim?»
Temeva a chiedere, non era mai sintomo di salute, ma doveva sapere; strinse i denti, la notizia lo avrebbe devastato, avrebbe affiancato il senso di impotenza che lo stava soffocando.
«È tubercolosi»
La voce di Karim risultò roca, come se la tosse avesse già iniziato ad usurare le corde vocali e il liquido ematico stesse inibendo la sua facoltà di parola. Samuel subì il contraccolpo, ma il desiderio di vincere la malattia, qualunque essa fosse, si era annidato nel suo cuore prima ancora che Karim la rivelasse.
«Faccio tutto il possibile per aiutarvi, te lo prometto. Qui hanno bisogno di te, ti prego non ti arrendere»
Il ragazzo gli pose una mano sulla fronte; la temperatura era alta, sudore ardente lo stava inzuppando. Il medico afferrò il polso del reporter e lo abbassò; aveva esaurito la forza muscolare, ma era suo dovere placare l'ardimento del giovane.
«Samuel, fammi un favore. Stammi lontano. Hai una famiglia e una fidanzata che ti aspettano. Vai via»
Karim aveva scelto, prima ancora di domandare un parere ai diretti interessati; aveva deciso che la sua vita valesse meno di quella dei due giovani presenti in una casa che non era definibile neppure tale.
«Te la caverai, andrà tutto bene»
«Non hanno farmaci per curarmi. Non andrà tutto bene per me, ma se mi ascolterai per voi andrà molto meglio»
Lo sapeva, un medico del posto conosceva molto bene i limiti del suo Paese a livello di progresso, spesso aveva avuto l'occasione nei suoi studi di confrontare l'Afghanistan con il resto del mondo; era certo che quello sarebbe stato il suo destino accanto ai malati, aveva solo sperato di avere più tempo. Lanciò un’occhiata colma di dispiacere verso la ragazza distante pochi metri da loro; Karim colse gli occhi annacquati della giovane, anche se era in controluce rispetto al chiarore color avorio della luna; era stata una figlia per lui, era orgoglioso della donna che stava diventando, ogni giorno sempre più, faceva male il pensiero di dover lasciare che affrontasse da sola l’inferno della guerra e del suo matrimonio.
«Samuel, avevi ragione, devi aiutare Maryam. Ti prego, aiutala, non permettere che lei soffra»
«L’aiuteremo insieme, quando starai meglio»
Il giornalista gli aveva risposto distratto; il tono flebile dell’amico non lo aveva discosto dal telefono; non si sarebbe arreso senza combattere, ma sua sorella non rispondeva. Qualunque impegno la dottoressa avesse, era importante che lei lo interrompesse. Samuel non esauriva gli squilli a disposizione, ricomponeva il numero ogni volta che i primi due segnali acustici cadevano nell’oblio. Al quinto tentativo, compose disperato il numero del St. Vincent Medical Center pervarso dalla speranza che lei fosse di turno; avevano alzato quasi subito la cornetta, ma non era la persona giusta ad averlo fatto. Il giovane attese impaziente che andassero a cercarla, era urgente ed era chiaro dall’ansia che traspariva anche attraverso una linea remota e difficoltosa dall’altro capo del mondo.
«Delilah! Grazie a Dio ti ho trovata»
«Samuel, cosa succede?»
«Ho bisogno di un medico»
Era assurdo che lo dicesse, aveva un valido dottore proprio davanti ai suoi occhi; era inverosimile vederlo debilitato e bisognoso a sua volta.
«Misericordia, Samuel, cos’hai? Sei ferito?»
«Non è per me. Un amico sta male, dice che ha la tubercolosi. Delilah, non so come aiutarlo»
La dottoressa Clark impiegò qualche istante per realizzare le parole del fratello; venne pervasa dal sollievo, Samuel stava bene, ma non era del tutto serena.
«Sam, la tubercolosi è contagiosa, non stargli vicino. Mi hai sentito?»
«Non posso lasciare che muoia»
Possedeva il suo stesso dannato istinto di salvare tutti; doveva essere un difetto di famiglia, o forse no, solo lei e il fratello ne soffrivano.
«Samuel, per favore, non hanno cure laggiù, se ti ammali non torni a casa vivo. Le scarse condizioni igieniche in cui stai vivendo e la malnutrizione non ti daranno scampo, stanno abbassando le tue difese immunitarie. Devi preservare la tua salute con più attenzione, altrimenti ti contagerai con troppa facilità»
«Non preoccuparti. Dimmi piuttosto cosa posso fare per lui»
Delilah si stava scontrando con una roccia; lei era in pena per la prevenzione, lui per una cura inesistente; decise di assecondarlo, non aveva altre vie percorribili.
«Servono antibiotici. Non ne avete in Afghanistan»
«Conosco un ufficiale dell’esercito, può aiutarci. Mi premurerò io stesso di cercarli in ogni ospedale da campo. Quando può averla contratta?»
«Non meno di due mesi fa»
Conoscere il periodo di incubazione non rincuorava Samuel, ma placava i sensi di colpa, lui in quel periodo era ancora negli Stati Uniti, anzi non avrebbe mai immaginato di partire per raggiungere zone di guerra, piuttosto di sposarsi ed iniziare una nuova vita insieme a Margaret. Non aveva affatto ignorato l’avvertimento della sorella, la malattia che stava maneggiando con poca cura era contagiosa, Karim era stato contagioso ancora prima di manifestare i primi sintomi; non era certo che sarebbe tornato a casa, ma nel breve soggiorno che aveva già vissuto e che era ormai parte della sua memoria aveva attraversato indenne qualche pericolo, vi era la possibilità che quello non fosse il suo ultimo viaggio e che avrebbe rivisto e riabbracciato la sua fidanzata. Mai come in quel momento l’idea della morte lo aveva attraversato, dal momento che la intravedeva nelle iridi febbricitanti di Karim; era inutile ammettere che non la temesse, ma il trapasso non era un problema per lui, certo non se avesse avuto la possibilità di salvare una vita umana senza che rimasse incastrata nella sua coscienza; temeva piuttosto il dolore che avrebbe inferto ai suoi cari, temeva più di ogni cosa di spezzare il cuore della donna che amava. Il medico di quel villaggio restava una salvezza per molti bambini, donne e uomini; se avesse avuto la possibilità di risentire di nuovo Margaret, le avrebbe raccomandato di pregare per lui e di non smettere almeno per un paio di mesi, il tempo dell’incubazione. Non aveva dato modo alla sorella di contestare; la dottoressa aveva suggerito a lui di abbassare la temperatura, in assenza di paracetamolo avrebbe potuto solo sfruttare qualche metodo che per la civiltà era antico, per luoghi infestati dalla guerra invece era l’unica risorsa da cui avrebbero potuto attingere. Maryam aveva recuperato un catino di acqua fresca; Samuel aveva impedito alla ragazza di avvicinarsi, si era premurato lui stesso di porgergli qualche benda umida sulla fronte. Aveva costretto Karim a sdraiarsi, contrastare la spossatezza propria dell'infezione l'avrebbe solo accentuata. Il medico non sapeva più dove trovare la forza per ribellarsi alle cure, le palpebre erano diventate macigni, la frescura che passava sulla sua fronte lo rilassava dai dolori che stavano squarciando il suo petto.
«Samuel. Se mi addormento, svegliami. Devo aiutare la mia gente»
Con un sussurro Karim aveva dichiarato la sua resa alla stanchezza, ma non alla vita. Fece sorridere il ragazzo la determinazione che quell’uomo conservava dentro di sé; era troppa persino per lui conservarne così tanta in un muscolo così piccolo nella gabbia toracica, ma il suo doveva essere molto più flessibile di altri, come ad esempio quello del direttore Clark.
«Se reclamano il tuo aiuto, ti chiamo io. Ora riposa»
Samuel bagnò una pezza di stoffa, la inzuppò e ripulì l’amico dal sangue che si era incrostato sulle sue mani; Karim avrebbe fatto lo stesso per una persona nelle sue condizioni, forse anche di più, ma di certo non lo avrebbe abbandonato al suo destino. Meritava aiuto, aveva salvato troppa gente per essere abbandonato in caso di bisogno. Buttò la stoffa sporca di sangue, stando attento a non entrarvi in contatto e raggiunse Maryam, accostata alla parete esterna dell’abitazione. La ragazza aveva lo sguardo perso verso l’orizzonte, forse verso un futuro incerto che di sicuro aveva solo risvolti negativi e nefasti, quelli non sarebbero di certo mancati.
«Perché lui? Senza Karim ci viene tolta ogni speranza. Karim ha ragione, non abbiamo farmaci, non abbiamo niente. Niente!»
Si era abbandonata alle lacrime lasciando che la schiena scivolasse contro la dura pietra; non fece male l’impatto con il suolo, l’anima bruciava sempre di più, impazziva quasi, si contorceva alla ricerca di una soluzione che non vedeva e che non sarebbe mai potuta giungere da una ragazzina di sedici anni. Lei non era spaventata di un possibile contagio, lei non temeva la morte, era la vita a spaventarla, la sofferenza, oltre quella avrebbe solo trovato pace. L’idea di andare incontro alla stessa fine di sua madre l’aveva sfiorata, quasi sperata, era certa non si fosse nemmeno accorta di morire. Samuel però era lì, una flebile speranza continuava a bruciare, la candela era bassa e sottile, ma non ancora spenta. Il ragazzo le aveva accarezzato una guancia, oltre il niqāb il contatto era stato nitido, ma Maryam non aveva la forza di ribellarsi, non voleva neppure più. Il ragazzo l’aveva invitata a sfogarsi sulla sua spalla, gli aveva concesso un supporto, benché lui per primo fosse sfinito di fronte ad una tale sofferenza.
«Karim è un uomo forte e tenace. Non si farà abbattere dalla malattia, niente vincerà su di lui»
Samuel era convinto delle sue parole, ma non mancò di alzare uno sguardo al cielo sereno. Un aiuto divino sarebbe pur sempre tornato comodo; sperò che senza l’ingombro delle nubi le preghiere silenziose raggiungessero prima la loro destinazione tra gli arcangeli e i cherubini.
 
 

Ciao ragazzi!
Mi scuso con tutti gli esperti di medicina nel caso ci fosse qualche errore a riguardo, non è il mio mestiere, ma ho cercato di informarmi attraverso le mie solite ricerche.
Le chiamate misteriose sono la mia passione e stavolta è toccato alla povera Delilah. Infliggo tantissimi drammi ai protagonisti di questa storia, ma la storia non è affatto terminata, anzi tutto il contrario.
Vi ringrazio di cuore per tutto il supporto che mi regalate, dedico un ringraziamento speciale alle fanciulle che mi donano tempo lasciandomi sempre un prezioso ed emozionante parere <3
Alla prossima!
Un abbraccio grande
-Vale

 
   
 
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