CAPITOLO TREDICI
“Lui come uomo, (…)
solo camicia diversa.
Capire inganno,
arrabbiarsi, capire intorno.
Proprio come uomo”.
Vladimir Arsen’ev,
Dersu Uzala.
“Tutte le verità
passano attraverso tre stadi.
Primo; vengono
ridicolizzate;
secondo; vengono
violentemente contestate;
terzo; vengono
accettate come evidenti”.
Arthur Schopenhauer.
Sono quelle miserevoli teste di cazzo a farmi diventare viola
dalla rabbia. Dio, quanto detesto i prepotenti e quelli che pretendono a priori
di sapere tutto!
Io odio chi sfida ma soprattutto chi rompe i coglioni agli
altri. I rovina vite, li chiamo. E dei rovina vite ne capitano tanti nella mia
vita.
Fino a qualche tempo fa, con il mio comportamento mite e
senza eccessi, ne accoglievo tanti e ascoltavo la caterva delle cazzate che
avevano da dire. Giustamente, ogni storia ha due punti di vista, come minimo;
ed ho avuto modo di comprendere che questi non solo non riconoscono ciò, ma
vogliono rendere il loro pensiero superiore a ogni altro.
Allora cosa vieni a rompere l’anima a me con le tue
stronzate, quando le risposte che vuoi sentire le sai te e te le ripeti da
solo?
Inseguo G mentre tutto il resto è solo un contorno.
Dentro di me brucio e ribollo come una pentola sul fuoco. Il
mondo è un vorticare di colori che non afferro più.
G è la mia terapia; la mia dolorosa terapia, quella che mi
sono autoimposto per provare a sentirmi un po’ meglio, un minimo. Invece sono
ridotto peggio di prima.
Sono al bar, seduto a suo fianco, e lo odo ridere mentre le
macchine sfrecciano a pochi passi da noi, lungo la strada, come fossero missili
lanciati verso la Luna. Avverto i suoi occhi castani fissi su di me, al di là delle
lenti degli occhiali che porta sempre sul naso ben fatto; mi studia, ed io
studio lui. A modo mio, perché sono più confuso che mai.
La sua vicinanza mi fa perdere il controllo.
A questo punto viene spontaneo chiedersi di cosa possano
parlare due uomini così diversi d’età e d’aspetto, d’estrazione sociale e d’impiego.
Be’, ovvio, no? Tre sono gli argomenti che accomunano quasi tutti i discorsi
tra soli uomini; cibo, calcio e sesso.
Naturalmente è l’ultimo aspetto che G sceglie di affrontare
con me, poiché il calcio lo odio da quando la mia squadra ha fallito miseramente
e del cibo ne ho il ventre ben gonfio.
“Allora, con la gnocca come va?”
Ma porco, porco Giuda. Dovevo aspettarmelo, tutte le volte
così, o i bengalini o la gnocca. Se per i bengalini è una faccenda di guadagno
personale, per tirare acqua al suo mulino, la gnocca è il jolly che utilizza
per farmi arrossire e vedermi in imbarazzo.
Cazzo, quando me lo chiede così, ogni volta mi ritrovo
interdetto per qualche istante; annaspo nei pensieri, annego in essi. Provo ad
appigliarmi alla mia scarsa simpatia per estrarre dal cilindro una qualche
battuta miserevole, ma non ci riesco mai.
E, ogni caspita di volta, finisco per diventare di un
colorito bordò.
Immaginate che la persona per cui vi siete presi una bella
cotta, maschio e realizzato, vi chieda come va a gnocche; che cosa potrei dire?
Oh, sei tu il mio gnoccone! Molto romantica come mezza battuta, ma di certo fuori
luogo, in un certo senso. Sono di quelle cose che non si possono dire; lui,
così etero, così figo, così… così tutto! Sposato da ragazzino giovanissimo,
padre a vent’anni, nonno a meno di quaranta, genitore affiatato e amorevole.
Ebbene, resto per l’ennesima volta inebetito al suo cospetto,
ad arrossire con una forza spiazzante, e il bello è che più ci penso a come
perdo il controllo e più il mio viso s’imporpora. Mi sento uno zerbino, un uomo
che non ha nemmeno padronanza con il colorito della sua pelle.
Abbasso lo sguardo dopo il lungo silenzio e il rossore
evidente, prima di provare per l’ennesima volta a rispondere con dignità.
Girovago per la città
per ore, fin quando il tramonto fa arrossire l’orizzonte. Sono stanco e
confuso.
Sono fuori servizio ma
non telefono a casa, voglio tenere la famiglia fuori da quello che sta
accadendo e forse io stesso non sono ancora pronto per parlarne, non con tutte
le domande che mi frullano per la mente.
Mi limito a guidare,
concentrato e pensieroso, sfogando così la tensione.
Il traffico attorno a
me inizia a diventare meno fluente con il sopraggiungere della sera, e credo
quindi che sia giunto il momento di tornare a casa, prima che qualcuno si
preoccupi. Mi fermo a un grande semaforo della periferia, con decine e decine
di auto che mi circondano e che strombettano, i conducenti nervosi e desiderosi
di rincasare dopo una lunghissima giornata lavorativa.
E proprio adesso che
inizio a rilassarmi, ecco che squilla il cellulare.
Aggancio la chiamata
con un gesto secco e istintivo, senza nemmeno controllare il numero che la sta
inoltrando, pensando intensamente che si tratta di mia moglie. Invece, la voce
gracchiante di Ramsey mi giunge alle orecchie con una decisione tagliente,
quasi chirurgica.
“Agente Barley,
l’aspetto al più presto nel mio ufficio”.
Resto in silenzio,
sorpreso.
“Subito?” domando dopo
un attimo.
“Appena può.
Immediatamente, se riesce” e riaggancia. Il tono di voce glaciale e l’estrema
sintesi non mi lasciano presagire nulla di buono, ma realizzo che probabilmente
deve essere rimasto colpito dalle prove che gli ho consegnato, non può essere
altrimenti.
Torno quindi a
dirigermi verso il commissariato.
L’ufficio di Ramsey ha
la porta chiusa. Busso educatamente.
Attorno a me aleggia un
silenzio ovattato, poiché oltre la metà dei colleghi è già a casa e l’altra è
impiegata lungo le strade e in interventi d’urgenza.
In questa atmosfera
surreale, la porta si spalanca.
Ramsey mi osserva con
gli occhi socchiusi, quasi torvi, sembrano stanchi; non trapelano nulla se non
una discreta preoccupazione. Avverto un nodo alla gola.
“Prego” mi invita a
entrare.
Appena varco la soglia,
noto immediatamente la figura slanciata e attempata dello sceriffo, che a
braccia incrociate all’altezza del petto mi osserva con insistenza, appoggiato
con la schiena al muro. Sembra un boss.
“Dove ha trovato
queste, agente?” chiede subito, senza nemmeno lasciarmi accomodare. Sbatte
sulla scrivania di Ramsey i fogli che gli ho consegnato diverse ore prima e
anche l’audiocassetta.
“Sono frutto di
scrupolose indagini” soffio, provando a salvarmi in extremis.
In realtà non so che
pesci pigliare. Non so se fidarmi, non so niente… mi lascio crollare il mondo
addosso e vincere dagli eventi…
“Non sono indagini. Lei
ha dichiarato soltanto ieri di non avere uno straccio di prova, poi questa
mattina si è presentato qui con queste… che non so nemmeno come definirle. A
che gioco sta giocando?” è il turno di Ramsey di incalzarmi. Uno si è
posizionato da un lato, uno dall’altro; è come se mi stessero accerchiando.
Questo sta diventando
un interrogatorio.
“Non importa, servivano
prove ed io, lavorando giorno e notte, le ho fornite” provo a difendermi.
“Nessuno le ha chiesto
di ammalarsi per questo caso, agente speciale Barley. Anzi, le avevamo detto di
prepararsi ad archiviarlo”.
Lo sceriffo è
imperturbabile.
“Credo che sia meglio
per lei sospendere questa operazione. Ci consegni pure il distintivo da agente
speciale, da adesso in poi è di nuovo declassato”.
I miei occhi passano da
uno all’altro, frastornati. Resto per qualche istante a bocca mezza aperta;
cosa ho sbagliato, per essere punito così?
“Io…”.
“Lei non deve dire
niente, né pensare” taglia corto il più anziano, “ha sbagliato, sbagliato
tutto. Lasci perdere, non è un lavoro che fa per lei; le sarà più utile tenere
a bada i fogli su una scrivania, oppure andare a sostituire un semaforo quando
si rompe”.
Sono mortificato,
avverto il mio viso che avvampa.
“Allora?” Ramsey
incalza e allunga la mano destra; pretende il distintivo.
Lentamente, lo estraggo
dalla tasca e glielo consegno. Fine della mia avventura da agente speciale.
“Entro domani firmerà
l’autorizzazione per archiviare il caso. Ufficialmente non c’è uno straccio di
prova, è tutto inesistente” prosegue lo sceriffo, mentre afferra i fogli che ho
consegnato a Ramsey e si mette a strapparli a pezzetti piccolissimi, “questi
infatti sono documenti falsi. Ha commesso un grave errore ad accettarli e a
leggerli, evidentemente chi glieli ha fatti avere aveva interesse a metterla
fuori dalle indagini. E lei ci è cascato in pieno”.
Abbasso lo sguardo, mentre i frammenti di
carta finiscono nel bidone.
“La nostra
chiacchierata finisce qui, agente Barley. Domani pomeriggio sarà in servizio
nel suo nuovo ufficio, sia puntuale” e così mi liquida.
Ramsey fa una leggera
pressione contro il mio braccio destro, spingendomi verso l’esterno, e in
effetti mi sento meglio solo quando sono fuori da quella stanza infernale.
A quel punto, il mio
superiore mi dona un’altra occhiataccia, prima di lasciarmi andare.
“Non dica a nessuno di
questo breve colloquio e si faccia gli affari suoi in silenzio. Non ci
piacciono i chiacchieroni. Dica una sola parola e si ritrova fuori da questo
commissariato, con tanto di una bella denuncia a pendere sulla sua testa”.
“Denuncia… per cosa?”
riesco a chiedere, deglutendo.
“Per quei documenti
falsi che ha consegnato. Ha dimostrato di essere un pericoloso ingenuo” così
dicendo, mi dà le spalle e torna a chiudersi nel suo ufficio.
A risuonare per un
istante nel silenzio che mi circonda è solo il rumore prodotto da
un’audiocassetta che viene frantumata sotto una scarpa.