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Autore: alessandroago_94    21/07/2020    14 recensioni
Alex è un giovane uomo pieno di dubbi e di voglia di mettere in carreggiata la propria vita, che spesso gli appare senza senso. È infatti vittima di un’ossessione, quella riguardante una persona idealizzata, o forse un suo stesso personaggio inventato; il fantomatico G.
Alla ricerca costante di questa persona si aggiunge una ricerca interiore, quella riguardante sé stesso.
Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, l’agente James Barley, prossimo al pensionamento, si ritrova immischiato in una vicenda quasi assurda. Immerso in una società dell’orrore dove regnano bugie e disonestà, e dove sono solo i soldi a fare la differenza tra gli esseri umani, indagherà a riguardo di una clinica privata in cui si effettuano strani e proibiti esperimenti.
Le due vicende si intrecciano, anche se non si incontrano mai definitivamente. Possibile che anche questo racconto sia tutta una grande bugia? Un Limbo, appunto. Un Limbo dei Bugiardi. Un luogo immaginario in cui regnano solo le maschere.
Genere: Azione, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo tredici

CAPITOLO TREDICI

 

 

 

 

 

 

 

“Lui come uomo, (…) solo camicia diversa.

Capire inganno, arrabbiarsi, capire intorno.

Proprio come uomo”.

Vladimir Arsen’ev, Dersu Uzala.

 

“Tutte le verità passano attraverso tre stadi.

Primo; vengono ridicolizzate;

secondo; vengono violentemente contestate;

terzo; vengono accettate come evidenti”.

Arthur Schopenhauer.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono quelle miserevoli teste di cazzo a farmi diventare viola dalla rabbia. Dio, quanto detesto i prepotenti e quelli che pretendono a priori di sapere tutto!

Io odio chi sfida ma soprattutto chi rompe i coglioni agli altri. I rovina vite, li chiamo. E dei rovina vite ne capitano tanti nella mia vita.

Fino a qualche tempo fa, con il mio comportamento mite e senza eccessi, ne accoglievo tanti e ascoltavo la caterva delle cazzate che avevano da dire. Giustamente, ogni storia ha due punti di vista, come minimo; ed ho avuto modo di comprendere che questi non solo non riconoscono ciò, ma vogliono rendere il loro pensiero superiore a ogni altro.

Allora cosa vieni a rompere l’anima a me con le tue stronzate, quando le risposte che vuoi sentire le sai te e te le ripeti da solo?

 

Inseguo G mentre tutto il resto è solo un contorno.

Dentro di me brucio e ribollo come una pentola sul fuoco. Il mondo è un vorticare di colori che non afferro più.

G è la mia terapia; la mia dolorosa terapia, quella che mi sono autoimposto per provare a sentirmi un po’ meglio, un minimo. Invece sono ridotto peggio di prima.

Sono al bar, seduto a suo fianco, e lo odo ridere mentre le macchine sfrecciano a pochi passi da noi, lungo la strada, come fossero missili lanciati verso la Luna. Avverto i suoi occhi castani fissi su di me, al di là delle lenti degli occhiali che porta sempre sul naso ben fatto; mi studia, ed io studio lui. A modo mio, perché sono più confuso che mai.

La sua vicinanza mi fa perdere il controllo.

A questo punto viene spontaneo chiedersi di cosa possano parlare due uomini così diversi d’età e d’aspetto, d’estrazione sociale e d’impiego. Be’, ovvio, no? Tre sono gli argomenti che accomunano quasi tutti i discorsi tra soli uomini; cibo, calcio e sesso.

Naturalmente è l’ultimo aspetto che G sceglie di affrontare con me, poiché il calcio lo odio da quando la mia squadra ha fallito miseramente e del cibo ne ho il ventre ben gonfio.

“Allora, con la gnocca come va?”

Ma porco, porco Giuda. Dovevo aspettarmelo, tutte le volte così, o i bengalini o la gnocca. Se per i bengalini è una faccenda di guadagno personale, per tirare acqua al suo mulino, la gnocca è il jolly che utilizza per farmi arrossire e vedermi in imbarazzo.

Cazzo, quando me lo chiede così, ogni volta mi ritrovo interdetto per qualche istante; annaspo nei pensieri, annego in essi. Provo ad appigliarmi alla mia scarsa simpatia per estrarre dal cilindro una qualche battuta miserevole, ma non ci riesco mai.

E, ogni caspita di volta, finisco per diventare di un colorito bordò.

Immaginate che la persona per cui vi siete presi una bella cotta, maschio e realizzato, vi chieda come va a gnocche; che cosa potrei dire? Oh, sei tu il mio gnoccone! Molto romantica come mezza battuta, ma di certo fuori luogo, in un certo senso. Sono di quelle cose che non si possono dire; lui, così etero, così figo, così… così tutto! Sposato da ragazzino giovanissimo, padre a vent’anni, nonno a meno di quaranta, genitore affiatato e amorevole.

Ebbene, resto per l’ennesima volta inebetito al suo cospetto, ad arrossire con una forza spiazzante, e il bello è che più ci penso a come perdo il controllo e più il mio viso s’imporpora. Mi sento uno zerbino, un uomo che non ha nemmeno padronanza con il colorito della sua pelle.

Abbasso lo sguardo dopo il lungo silenzio e il rossore evidente, prima di provare per l’ennesima volta a rispondere con dignità.

 

Girovago per la città per ore, fin quando il tramonto fa arrossire l’orizzonte. Sono stanco e confuso.

Sono fuori servizio ma non telefono a casa, voglio tenere la famiglia fuori da quello che sta accadendo e forse io stesso non sono ancora pronto per parlarne, non con tutte le domande che mi frullano per la mente.

Mi limito a guidare, concentrato e pensieroso, sfogando così la tensione.

Il traffico attorno a me inizia a diventare meno fluente con il sopraggiungere della sera, e credo quindi che sia giunto il momento di tornare a casa, prima che qualcuno si preoccupi. Mi fermo a un grande semaforo della periferia, con decine e decine di auto che mi circondano e che strombettano, i conducenti nervosi e desiderosi di rincasare dopo una lunghissima giornata lavorativa.

E proprio adesso che inizio a rilassarmi, ecco che squilla il cellulare.

Aggancio la chiamata con un gesto secco e istintivo, senza nemmeno controllare il numero che la sta inoltrando, pensando intensamente che si tratta di mia moglie. Invece, la voce gracchiante di Ramsey mi giunge alle orecchie con una decisione tagliente, quasi chirurgica.

“Agente Barley, l’aspetto al più presto nel mio ufficio”.

Resto in silenzio, sorpreso.

“Subito?” domando dopo un attimo.

“Appena può. Immediatamente, se riesce” e riaggancia. Il tono di voce glaciale e l’estrema sintesi non mi lasciano presagire nulla di buono, ma realizzo che probabilmente deve essere rimasto colpito dalle prove che gli ho consegnato, non può essere altrimenti.

Torno quindi a dirigermi verso il commissariato.

 

L’ufficio di Ramsey ha la porta chiusa. Busso educatamente.

Attorno a me aleggia un silenzio ovattato, poiché oltre la metà dei colleghi è già a casa e l’altra è impiegata lungo le strade e in interventi d’urgenza.

In questa atmosfera surreale, la porta si spalanca.

Ramsey mi osserva con gli occhi socchiusi, quasi torvi, sembrano stanchi; non trapelano nulla se non una discreta preoccupazione. Avverto un nodo alla gola.

“Prego” mi invita a entrare.

Appena varco la soglia, noto immediatamente la figura slanciata e attempata dello sceriffo, che a braccia incrociate all’altezza del petto mi osserva con insistenza, appoggiato con la schiena al muro. Sembra un boss.

“Dove ha trovato queste, agente?” chiede subito, senza nemmeno lasciarmi accomodare. Sbatte sulla scrivania di Ramsey i fogli che gli ho consegnato diverse ore prima e anche l’audiocassetta.

“Sono frutto di scrupolose indagini” soffio, provando a salvarmi in extremis.

In realtà non so che pesci pigliare. Non so se fidarmi, non so niente… mi lascio crollare il mondo addosso e vincere dagli eventi…

“Non sono indagini. Lei ha dichiarato soltanto ieri di non avere uno straccio di prova, poi questa mattina si è presentato qui con queste… che non so nemmeno come definirle. A che gioco sta giocando?” è il turno di Ramsey di incalzarmi. Uno si è posizionato da un lato, uno dall’altro; è come se mi stessero accerchiando.

Questo sta diventando un interrogatorio.

“Non importa, servivano prove ed io, lavorando giorno e notte, le ho fornite” provo a difendermi.

“Nessuno le ha chiesto di ammalarsi per questo caso, agente speciale Barley. Anzi, le avevamo detto di prepararsi ad archiviarlo”.

Lo sceriffo è imperturbabile.

“Credo che sia meglio per lei sospendere questa operazione. Ci consegni pure il distintivo da agente speciale, da adesso in poi è di nuovo declassato”.

I miei occhi passano da uno all’altro, frastornati. Resto per qualche istante a bocca mezza aperta; cosa ho sbagliato, per essere punito così?

“Io…”.

“Lei non deve dire niente, né pensare” taglia corto il più anziano, “ha sbagliato, sbagliato tutto. Lasci perdere, non è un lavoro che fa per lei; le sarà più utile tenere a bada i fogli su una scrivania, oppure andare a sostituire un semaforo quando si rompe”.

Sono mortificato, avverto il mio viso che avvampa.

“Allora?” Ramsey incalza e allunga la mano destra; pretende il distintivo.

Lentamente, lo estraggo dalla tasca e glielo consegno. Fine della mia avventura da agente speciale.

“Entro domani firmerà l’autorizzazione per archiviare il caso. Ufficialmente non c’è uno straccio di prova, è tutto inesistente” prosegue lo sceriffo, mentre afferra i fogli che ho consegnato a Ramsey e si mette a strapparli a pezzetti piccolissimi, “questi infatti sono documenti falsi. Ha commesso un grave errore ad accettarli e a leggerli, evidentemente chi glieli ha fatti avere aveva interesse a metterla fuori dalle indagini. E lei ci è cascato in pieno”.

 Abbasso lo sguardo, mentre i frammenti di carta finiscono nel bidone.

“La nostra chiacchierata finisce qui, agente Barley. Domani pomeriggio sarà in servizio nel suo nuovo ufficio, sia puntuale” e così mi liquida.

Ramsey fa una leggera pressione contro il mio braccio destro, spingendomi verso l’esterno, e in effetti mi sento meglio solo quando sono fuori da quella stanza infernale.

A quel punto, il mio superiore mi dona un’altra occhiataccia, prima di lasciarmi andare.

“Non dica a nessuno di questo breve colloquio e si faccia gli affari suoi in silenzio. Non ci piacciono i chiacchieroni. Dica una sola parola e si ritrova fuori da questo commissariato, con tanto di una bella denuncia a pendere sulla sua testa”.

“Denuncia… per cosa?” riesco a chiedere, deglutendo.

“Per quei documenti falsi che ha consegnato. Ha dimostrato di essere un pericoloso ingenuo” così dicendo, mi dà le spalle e torna a chiudersi nel suo ufficio.

A risuonare per un istante nel silenzio che mi circonda è solo il rumore prodotto da un’audiocassetta che viene frantumata sotto una scarpa.

   
 
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