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Autore: Tenar80    27/08/2020    2 recensioni
2032
Victor e Yuuri gestiscono un'accademia di pattinaggio in Giappone.
Otabek e Yurio si sono da poco accasati in Inghilterra.
La vita scorre, non sempre sui binari che erano stati progettati.
Questa storia conclude la serie "Stagioni".
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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Hasetsu

 

    Yuuri varcò l’ingresso dell’Ice Castle con un sottofondo d’ansia nello stomaco.

    Nell’atrio, come sempre, trovò ad attenderlo le gigantografie e come sempre accarezzò il pensiero di togliere quella che lo ritraeva alle Olimpiadi del 2022. Era passato troppo tempo e dava l’idea di una pista più protesa al passato che al futuro. Seguendo questa linea di pensiero, però, avrebbe dovuto togliere anche quella di Victor al corto delle Olimpiadi del 2018 e questo sarebbe stato un delitto. Era già abbastanza terribile constatare che alcune delle nuove leve neppure se la ricordavano quell’olimpiade. Alcuni addirittura pensavano che Victor fosse stato sempre e solo un allenatore… Scosse il capo, colpito da quell’idiozia, mentre passava sotto il trionfante Yurio del 2030, affiancato dall’Otabek dei mondiali del 2023 (quando quei due pazzi si erano rimessi insieme era stato naturale appendere di nuovo anche la foto. Con tutte le estati trascorse lì, anche Otabek apparteneva di diritto all’Ice Castle). Infine la foto più recente, la vittoria di Luzt a Skate America, l’anno prima. Yuuri si fermò un istante a contemplarla. Lutz non aveva mai raggiunto il podio in una grande finale internazionale. Era arrivata quinta ai mondiali nel 2028, sesta alle olimpiadi nel 2030 e da che Yurio si era ritirato era la loro atleta migliore. Per molti era la prova che loro non sapevano davvero allenare, Plisesky era un portento della natura, lo sapevano tutti, un diamante grezzo che era stato Yakov a lucidare a dovere. Nonostante Victor lo avesse allenato per dodici anni, qualcuno non dava davvero il merito a lui per le sue vittorie. Ovviamente questo tralasciava una quantità piuttosto importante di particolari. Il fatto che fosse estremamente difficile convivere con una personalità come quella di Yurio, ad esempio. Non che lui fosse davvero così insopportabile, beh, insomma, un po’ lo era, ma la leggenda di Plisesky, quella sì che era un peso schiacciante. Adesso avevano due ragazzi junior, uno di quindici e uno di sedici anni, che promettevano bene, ma in pratica avevano iniziato a provarci davvero solo quando Yurio si era ritirato. Il secondo problema era che Victor rifiutava quasi tutti. Continuava a seguire con tenacia le idee di Yakov, secondo cui un atleta andava cresciuto fin dagli undici, dodici anni al massimo. C’era un limiti, però, ai talenti che un posto come Hasetsu poteva sfornare e non erano molte le famiglie disposte a mandare lontano dei bambini di quell’età o a trasferirsi per una vaga idea di futuro. E questo era il motivo per cui quel giorno Yuuri era solo, oltre che per il concomitante arrivo di Chris con Joseph e Igor. Victor gli aveva solennemente promesso che se Mira gli fosse piaciuta l’avrebbero allenata. E a Yuuri Mira Novak piaceva già. O, meglio, a Yuuri Mira era piaciuta immensamente due anni prima, quando a quattordici anni appena compiuti aveva vinto i mondiali junior per la Polonia con il miglior triplo Axel del circuito femminile. Poi era sparita dai radar. Infortunio si era detto, frattura a una gamba. Quindi, per quanto avessero bisogno di un talento per rilanciare la pista, Yuuri doveva essere pronto a spezzare in cuore a una sedicenne che aveva attraversato da sola il mondo per avere una seconda possibilità. 

    

    No, pensò Yuuri un’ora dopo, quando se la trovò davanti. Non ci sarebbe stato alcun bisogno di  spezzarle il cuore. Qualcuno aveva già provveduto a farlo.

    Il giapponese ricordava la quattordicenne spavalda che si era mangiata le avversarie con la tracotanza tipica di chi si crede invincibile, la stessa assoluta certezza nelle proprie capacità che aveva avuto Yurio quando lo aveva conosciuto. Adesso, se non avesse avuto la conferma anagrafica, Yuuri non avrebbe riconosciuto Mira. Era cresciuta, ovviamente, come solo a quell’età  si poteva crescere. La ragazza dai lunghi capelli biondi e mossi che si era seduta compunta davanti a lui doveva essere alta almeno un metro e sessantacinque, se non di più. Troppo, secondo gli standard di alcune scuole di pattinaggio, che volevano soltanto atlete leggerissime, in grado di ruotare con facilità i salti.  Forse era per sembrare più bassa che se ne stava seduta ingobbita, con gli occhi che cercavano in ogni modo di sfuggire quelli del giapponese. Sembrava in uno studio medico, costretta a confessare di aver fatto qualche sciocchezza imbarazzante, invece che nel luogo che doveva dare una svolta alla sua vita. 

    – Ho guardato le lastre e gli altri referti, mi sembra che tutto indichi che puoi tornare all’agonismo – disse Yuuri, dato che l’altra non sembrava intenzionata a proferir parola.

    Forse era una questione di lingua? Il giapponese non era mai sicuro del proprio inglese, nonostante lo usasse quasi giornalmente e, dal momento che la ragazza aveva una madre russa, durante le videochiamate aveva parlato quasi sempre con Victor, in russo.

    – Ti sei allenata prima della partenza? – riprovò.

    Lei annuì come faceva Yuuri a scuola, quando era quasi sicuro, ma non del tutto, di sapere la risposta.

    – Mi alleno da due mesi. Ho ripristinato tutto le triple, tranne l’Axel, ma non ho provato i quadrupli – disse infine.

    L’inglese non era il problema.

    – Perché vuoi allenarti proprio da noi? – chiese Yuuri.

    Era abbastanza abituale che alla loro porta bussassero dei ragazzi. Quasi tutti senior partiti pieni di speranze e che si erano poi trovati a sbattere il naso con la difficoltà della categoria maggiore. Ragazzi sui vent’anni che Victor rimandava sistematicamente indietro. Le ragazze erano pochissime e quasi tutte giapponesi. Loro finivano per lo più a ingrossare le fila del gruppo seguito da Yuuko, quello delle brave atlete che non avrebbero mai fatto del pattinaggio la loro professione.

    – Mamma dice che avete esperienza con i recuperi da infortunio – si decise a rispondere Mira. – Non avete mai sbattuto fuori qualcuno perché si era fatto male.

    – È questo quello che è successo? Ti hanno escluso dal tuo gruppo perché di eri infortunata?

    – No…

    Mira si guardò le mani. Su ciascuna unghia era disegnato un perfetto arcobaleno che usciva da una minuscola nuvoletta. 

    – La vostra atleta migliore ha ventidue anni e gareggia ancora… Anche se non vince molto…

    Yuuri sospirò.

    – Non ti sentirai vecchia a sedici anni?

    – No…

    – La tua allenatrice ha preferito qualcuno di più giovane, piuttosto che investire sul tuo recupero?

    – No…

    – Perché hai rotto con la tua vecchia squadra, Mira? – chiese Yuuri. – Se dobbiamo collaborare dobbiamo conoscerci.

    Sospirò anche lei.

    Yuuri era preparato al fatto che l’incontro sarebbe stato difficile, ma così stava diventando una tortura per entrambi.

    – Quando Victor ha deciso di allenarmi ero reduce da un anno in cui avevo sistematicamente buttato via tutte le gare nel tentativo di far dimenticare alla Federazione Giapponese anche la mia esistenza, ne so qualcosa di idiozie in campo sportivo – buttò lì.

    Lei alzò lo sguardo come un condannato al supplizio.

    Era stato anche lui così terribile? Come aveva resistito Victor alla tentazione di prenderlo a sberle?

    – Sono cresciuta – esalò Mira.

    – E…? 

    – Sono cresciuta – ripetè Mira, più decisa. – Dieci centimetri in una sola estate… Poi ho preso peso… Quindi ho cercato di dimagrire il più possibile.

    Ecco. Per tutti i pattinatori il peso era un’ossessione. Lo sapeva benissimo. Per molte pattinatrici era una malattia. Anche per molti pattinatori, certo, ma l’incidenza nel settore femminile era ancora più alta.

    – Hai smesso di mangiare e ti sei infortunata – disse.

    – No… Mia madre mi ha fatto ricoverare in clinica. Mi hanno detto che non avrei pattinato per mesi… E io ho cercato di scappare dalla finestra.    

    Questa volta Yuuri si assicurò di cercare lo sguardo della ragazza.

    – Scappare o buttarti? – chiese, cercando di mantenere un tono neutro.

    – Scappare. Sono scivolata. E mi sono rotta la gamba.

    D’istinto, Yuuri le credette. Ma avrebbe poi fatto davvero differenza? Ragazzine la cui vita ruotava tutta intorno allo sport, per cui uno stop era la fine di tutto. Ogni anno qualcuna si fermava per esaurimento nervoso, un grave disturbo alimentare, una causa non meglio specificata.

    – E poi? – chiese il giapponese.

    Lei si strinse nelle spalle, cercando con lo sguardo una finestra che non c’era in quell’ufficio interno.

    – Sono tornata in clinica. Mia madre mi ha fatto fare psicoterapia. Poi fisioterapia. Ancora psicoterapia. Però per la mia allenatrice continuavo a essere troppo grassa, così mia madre ha deciso che avrei cambiato allenatore.

    – Tua madre sembra assennata.

    E anche piuttosto ingombrante, pensò Yuuri. A volte anche le migliori intenzioni finiscono per essere troppo.

    Mira si strinse di nuovo nelle spalle. Fosse stata una tartaruga, avrebbe ritratto del tutto la testa nel guscio.

    – Siamo solo noi due. Si è trasferita per permettermi di allenarmi al meglio. Ha investito tutto nella mia carriera.

    Tutto. Ogni energia fisica, mentale ed economica. In un’impresa ad alto rischio di fallimento. Yuuri sapeva fin troppo bene come ci si sentiva. Merce avariata. Per Mira, e sua madre, il Giappone era l’ultima possibilità in cui investire quello che restava. Solo se avesse vinto i nazionali polacchi, a dicembre, la federazione avrebbe coperto parte delle spese, fino ad allora era tutto sulle spalle della famiglia.

    – Se ti prendiamo anche tua madre vivrà qui?

    Mira scosse il capo.

    – Non può lasciare di nuovo il lavoro.

    – Però è stata tua madre a spingerti a venire da noi. Tu cosa avresti fatto? – chiese.

    – Non lo so. Le scuole russe sono quasi impenetrabili. Quelle americane o canadesi… Alcune costano troppo. In altre sei solo un numero, troppo facile rimanere una delle tante promesse junior sparite nel passaggio a senior…

    – E tu cosa vuoi?

    Mira rialzò la testa di scatto, il suo viso era di colpo così duro da appartenere a una persona diversa, una donna già adulta.

    – Io voglio vincere. È mamma che non vuole più che sia a qualunque costo.

    Yuuri resistette all’impulso di spostare la sedia all’indietro.

    Non aveva bisogno di chiedersi dove avesse già visto quel misto di totale mancanza di autostima e di disperato desiderio di vincere. Quello che non sapeva era se avesse voglia di allenare la versione femminile di se stesso.

*

Newcastle

 

    Yuri alzò lo sguardo dall’app del cellulare con una sorta di incredulità.

    – Tre e cinquanta? Tre e cinquanta sui mille metri li fa il mio allenatore di ottantasei anni, col cuore rattoppato due volte, saltando su un piede solo!

    L’interlocutore, un dodicenne dalla pelle olivastra, sudato e semidraiato sul tartan della pista di atletica ci mise un istante per raccogliere il fiato per replicare.

    – Cazzo me ne frega, oggi c’ho le palle in giostra.

    – Me ne frega niente delle tue palle, Martinez, adesso alzi il culo, torni alla partenza e vedi di farmi almeno un tre e trenta! – sbraitò il russo.

    – Ho detto che c’ho le palle in giostra, oggi non prendo ordini da una checca!

    Yuri resistette all’impulso di gettagli il cellulare su quel viso brufoloso da preadolescente e cercò imitare la miglior posa di Otabek.

    – Eccone un altro che torna a casa correndo davanti al pulmino – disse, laconico. – Sono quattro miglia per casa tua, vero?    

    – Eccheppalle! – fu la risposta di Martinez.

    Con fatica, tenendosi una mano sul fianco, il ragazzo si rialzò per andare a caracollare sull’erba semi incolta al margine della pista di atletica. Chissà cosa si era scofanato prima dell’allenamento per essere messo ko in quel modo da un singolo mille metri? Non che Martinez avesse mai avuto la possibilità di diventare un campione, ma era, drammatica constatazione, il meglio che avevano per coprire il mezzofondo maschile.

    – Ehm… Mister?

    Otman, un compagno di scuola di Martinez, gli si avvicinò con ancora il giavellotto in mano 

    – Sì? – si sforzò di non sbranarlo Yuri.

    – Non ha pranzato, Martinez – disse Otman, con un filo di voce. – La madre non ha pagato la mensa e oggi ha passato la pausa pranzo in corridoio.

    Yuri si passò una mano sulla fronte per pensare a come rispondere. Faceva caldo, porca miseria, rischiava seriamente di tornarsene a casa color pomodoro. Fottutissimo paese. Solo Otabek poteva scegliere di vivere ai confini del nulla, in un posto che passava in tempo zero da pioggia torrenziale a solleone. 

    Sei mesi prima, quando aveva iniziato, Yuri avrebbe ribattuto che si fosse fatto fermare da un singolo pasto mancato sarebbe rimasto per sempre in una periferia asfittica tale e quale quella che loro adesso vivevano. Ma ormai aveva imparato. L’atletica per quei ragazzi non era una via di fuga. Era un’ora d’aria.

    Quel giorno erano sei, Kamalika, che invece di fare gli esercizi stava leggendo sdraiata sull’erba, con i suoi sette anni era la più piccola, mentre Manila, quattordici anni e almeno una spolverata di talento per il salto con l’asta, era la più grande. Nessuno aveva neppure un briciolo di DNA inglese. L’accento di Otman era persino peggiore del suo. Solo Safia, un tre e quarantacinque sui mille tutto sommato onesto per i suoi undici anni, viveva con entrambi i genitori, ma anche con sette tra fratelli e sorelle. Che ne sapesse Yuri, solo Kamalika non era sull’orlo della bocciatura, anche se a quanto pareva con alcuni docenti si rifiutava ostinatamente di proferir parola. Facevano atletica solo perché quella pista con il tartan che si staccava a zolle e l’acqua che usciva color ruggine dalle docce era l’unico impianto che il comune si era sentito di far usare all’associazione In corsa per il futuro. La quale, a sua volta, era probabilmente la più sgangherata tra le associazioni di volontariato della città e il suo unico pregio, agli occhi di Yuri, era stato quello di non essere implicata in qualsivoglia religione né essere in mano a qualche imbarazzante hippie invecchiato. Del resto, che fosse quello il modo in cui passava la maggior parte dei pomeriggi liberi dai suoi mille non lavori, era una cosa che non avrebbe rivelato ai giornalisti neppure sotto tortura.

    – Quindi che si fa, Mister? – chiese Otman.

    Yuri sospirò, buttando un occhio all’ora.

    Manila, che poi era l’unica per cui l’allenamento avesse in senso stretto una ragion d’essere, almeno se l’obiettivo era qualificarsi per le nazionali puntando agli ultimi posti, aveva finito. Martinez non si reggeva in piedi. Otman e Safia avevano voglia di correre più o meno come la sua gatta di diciannove anni, Kamalika aveva finito di fare i compiti e Abdul di cercare insetti a cui strappare le ali.

    – Doccia e merenda – sentenziò. – Chi puzza non mangia.

    Aveva comprato la frutta? Otabek rompeva sempre le scatole sul fatto che dovesse fornire del cibo sano, ma il russo era sicuro che fosse per le patatine, non per le arance, che i ragazzi venissero lì quasi ogni giorno. 

    Scosse il capo, mentre si dirigeva verso il pulmino, comprato a proprie spese, per prendere le provviste. Per quanto le patatine non mancassero mai, non aveva ancora capito davvero perché quei ragazzi continuassero a venire ogni pomeriggio. Lui la conosceva la periferia, la conosceva davvero. Era il motivo per cui Otabek non si era stupito quando infine aveva ammesso che sì, forse aveva troppo tempo libero, almeno in certi periodi dell’anno, che no, grazie, non voleva davvero nessun lavoro a tempo pieno oltre a quello di atleta da esibizioni, specialista di salti per cinque o sei piste, aiuto coreografo e modello e che tutto sommato avrebbe fatto qualche progetto con dei ragazzi. Della periferia, però, Yuri capiva sopratutto il desiderio impellente di fuggire. Se non fosse stato il pattinaggio sarebbe stato qualcos’altro, supponeva. Questi ragazzi, invece, erano del tutto assuefatti al loro destino di marginali. Neppure sognavano di essere qualcosa di diverso dagli sfigati che erano.

    – Quello che offri loro è del tempo per sognare una vita differente – gli aveva detto una volta Otabek. – Se li portiamo a gareggiare contro i fighetti delle squadre delle scuole bene e non arrivano ultimi abbiamo già dimostrato loro qualcosa.

    Yuri si strinse nelle spalle. Era probabile che Otabek avesse ragione, ma secondo lui venivano per le patatine.

 

    Quando i ragazzi riemersero dalle docce con un grado di igiene quasi passabile (quasi, perché Otman aveva un’ostinata allergia al sapone), Yuri aveva già disposto le provviste su una stuoia in mezzo al prato e raccolto altre due iscrizioni per il campus di quell’estate. Quella era stata un’idea di Otabek, ma a quanto pare funzionava. Yuri non aveva nessunissima voglia di allenare sul serio. Grazie tante, viaggiava già abbastanza per le esibizioni e i set delle pubblicità, senza dover fare la pallina da flipper su e giù per il circuito internazionale dietro ad adolescenti in panico. D’altro canto aveva davvero pena di come saltassero certi così detti atleti, incapaci di distinguere un filo di stacco e dall’altro, con delle tecniche tanto patetiche che il rompersi una gamba in modo così drammatico da doversi ritirare era quasi un atto di pietà. Così a fine luglio, dopo il tour in Giappone, dieci junior sarebbero arrivati per cercare di raddrizzare i loro salti tremebondi. Otabek si era occupato della logistica, coinvolgendo il campus dell’università, praticamente vuoto in quei giorni, mentre a lui sarebbe toccato sbraitare contro ai ragazzini. Il suo primo quasi lavoro serio da ex atleta, che impressione!

    – Posso prendere due pacchetti di patatine, Mister? – venne a chiedere Martinez, con tono ben diverso da quello di poco prima.

    – Solo se prendi due porzioni di frutta. La regola la conosci, un pacchetto, un frutto.

    – Ma oggi non hai portato le banane!

    – C’erano le ciliegie in offerta, a chi non piacciono le ciliegie?

    Martinez fece una faccia schifata.

    – Se le mangio posso evitare di tornare a casa a piedi?

    – Non è che ti faccia male correre, sei un atleta. E poi mi hai chiamato «checca». Quindi con la checca sul pulmino non ci sali… Ehi, ferma tu, cosa si dice?

    Mentre era impegnato a battibeccare con Martinez, Kamalika, la scurissima cingalese, si era intrufolata in mezzo a loro, appropriandosi del pacchetto di ciliegie più grosso. Per tutta risposta la bambina rivolse a Yuri i suoi enormi occhi neri e lo sguardo quasi perennemente imbronciato, poi fece alcuni passi indietro, senza dire niente e con le ciliegie ben strette tra le mani. Yuri sospirò. Era una di quelle giornate in cui Kamalika non avrebbe detto nulla. Almeno, non a lui. In quel momento, infatti, da dietro gli spalti spuntò un uomo con ancora il casco della moto sulla capo e Yuri potè vederne l’effetto nel viso della bimba. Il cipiglio si distese all’istante, tutta la posa contratta di rilassò, mentre Kamalika prendeva a sorridere e ad alzare la mano.

    – Otabek! – gridò, mentre già gli correva incontro. – Mi devi far vedere quella cosa lì… Le potenze!

    Yuri sbuffò, stringendosi le braccia al petto.

    Niente da fare, quel microbo scuro voleva fregargli il suo uomo seducendolo con la matematica! Piccola ingrata sleale!

    Intanto Otabek si era tolto il casco e già si dedicava tutto a lei, scompigliandole i capelli neri.

    – Dammi un attimo e fammi vedere il quaderno che ti spiego.

    – Ci saremmo anche noi, eh – brontolò Yuri.

    Per tutta risposta, però, Otabek si limitò a posare il casco sull’erba e a prendere un sacchettino di ciliegie.

    – Maledetta Matematica Uno, non solo è piena di zucconi irrecuperabili, mi ha anche fatto saltare il pranzo.

    – Non si muore per un pasto saltato – disse Yuri, a voce abbastanza alta perché anche Martinez lo sentisse.

    Poi prese un pacchetto di patatine e si sedette a fianco di Otabek.

    – Dovresti mangiare la frutta, per l’esempio – lo rimproverò il kazako.

    Yuri si limitò a scuotere la testa e ad aprire il proprio pacchetto.

    Poco più di due anni prima, quando si accingeva a partecipare alle Olimpiadi che avrebbero posto fine alla sua carriera non riusciva davvero a immaginarsi il dopo. L’impressione era quella di stare per tuffarsi in un pozzo scuro e profondissimo, probabilmente con il fondo ricoperto dai teschi di chi si era buttato prima di lui, come il cenote che aveva visto l’estate precedente in Messico. Non si sarebbe  mai immaginato seduto sul prato asfittico a fianco del campo di atletica in rovina a mangiare schifezze con dei ragazzi disastrati.

*

Hasetsu

 

    Era la quindicesima volta che Igor e Joseph salivano fino in cima alla struttura tridimensionale che svettava al centro dell’area gioco davanti al bar della stazione di Hasestu. Facevano a gara a chi arrivava primo in cima, per potersi appendere con le gambe, buttarsi all’indietro, raggiungere con le braccia l’asticella sotto di loro e fare un giro su se stessi per iniziare la discesa. Altro che atleti olimpici! Chris, seduto accanto a Victor a uno dei tavolini, sembrava appena uscito da un tritacarne.

    – Cosa gli hanno dato in treno? Cocaina? – chiese Victor.

    Lui era famoso nell’ambiente per non risentire quasi per nulla per il jet lag. Ai tempi d’oro era in grado di scendere da un volo intercontinentale e andare ad allenarsi. Ma non si sarebbe mai arrampicato per divertimento per ormai diciassette volte dopo aver attraversato il mondo.

    Chris scosse la testa.

    – Che tu ci creda o no, adesso è niente rispetto a quando aveva quattro o cinque anni. Ho pensato di mettergli una cintura fatta di placchette di piombo, ma poi ho capito che lo avrei solo allenato.

    Igor scese velocissimo dalla struttura e in un battito di ciglia fu al tavolo.

    – Zio, ho sete! – disse, in russo.

    Victor represse il piccolo se stesso esultante che in qualche modo si impadroniva della sua mente ogni volta che veniva chiamato «zio» e si impose una faccia seria.

    – Ah! In inglese. Gli accordi erano chiari. Per una settimana tu, Joseph e Norio dovete parlare sempre in inglese. Almeno fino a che qualcuno altro può sentirvi.

    – Water, please – disse il bambino, compunto.

    Victor, con lo stesso sorriso che aveva riservato al punteggio con cui Yurio aveva vinto le olimpiadi del 2030, gli riempì il bicchiere.

    Appena il tempo di trangugiare l’acqua e stava di nuovo correndo.

    – Hai detto che ci sarà una persona con loro? – chiese conferma Chris.

    – Dalle nove del mattino alle tre del pomeriggio staranno con una ragazza inglese che Yuuko ci ha trovato non saprei dire come. Per una settimana sarai un papà part time.

    – Sia lodato il Cielo – esclamò Chris, mentre con lo sguardo seguiva il figlio che, quella volta, la stava spuntando sul russo.

    – Quindi adesso ne hai l’affido esclusivo? – chiese Victor.

    Chris bevve una lunga sorsata dalla sua bibita, un’insospettabile gazzosa a cui era stato aggiunto solo uno spicchio di limone.

    – Beh, lei lo può vedere quando vuole, il problema è che non ne ha tutta questa voglia, ma almeno abbiamo finito di farci la guerra in tribunale.

    Il russo annuì anche se, anche a distanza di anni, aveva tutto ancora dell’incredibile. O, meglio, che Chris ogni tanto si concedesse delle scappatelle era nella natura delle cose. Ma ormai c’erano prove inconfutabili che una di queste fosse stata con una rampante modella di origine etiope e che avesse avuto degli esiti del tutto imprevisti. Joseph sembrava la miglior somma possibile dei suoi genitori. Era una guizzante creatura dalla pelle ambrata, i capelli neri e ricci e gli occhi smeraldo. Nulla di strano che fosse già apparso in alcune pubblicità di abbigliamento infantile. Suo nipote, dovette ammettere Victor, non aveva la stessa fortuna genetica. Aveva il naso un po’ storto e la tendenza ad assumere, quando era soprappensiero, un’espressione che non era proprio la migliore pubblicità alla sua intelligenza. Ma aveva due genitori che lo adoravano, anche se lavoravano entrambi dieci ore al giorno in Siberia, e il russo non aveva dubbi su quale dei due invidiasse l’altro.

    – Lui come la sta prendendo? – chiese Victor.

    Chris rimase un poco a guardare il figlio.

    – Per ora sembra sereno. La psicologa però dice che l’adolescenza sarà un incubo. Dici che posso criocongelarlo verso i dodici anni e scongelarlo ai venti?

    – E perderti tutti quegli impagabili momenti? La prima sbornia, la prima canna, il primo preservativo dimenticato in giro…

    – Oppure potrei murarlo in taverna… – lo svizzero emise un sospiro stanco. – Non ti ho ancora ringraziato. Sarà bello per lui compiere otto anni qui e avere qualcosa di meglio da ricordare del fatto che sua madre non si è neppure degnata di chiamarlo perché, sai, deve lavorare.

    Victor si pulì una lente degli occhiali che ancora non si era abituato a portare.

    – Non so i dettagli di quello che hanno organizzato Yuuko e le ragazze per giovedì sera all’Ice Castle, ma sul fatto che avrà qualcosa da ricordare puoi stare tranquillo… Spero solo che per allora non abbiano già fatto fare l’infarto al povero Norio.

    Il figlio della sorella di Yuuri era un decenne ai limiti dell’obesità e con la vitalità di un panda durante la digestione. I genitori, e suo marito, continuavano a dire che era così sensibile e intelligente, ma Victor era felice che non fosse quello il suo unico nipote. Lasciato a se stesso, probabilmente, avrebbe viziato Igor in modo inverecondo. Come sempre, Klara aveva preso le redini della cosa mettendo in chiaro che di fare i parenti poveri con lo zio ricco che elargiva doni dal Giappone anche no, grazie. Tuttavia, Victor poteva sentirsi libero di spendere quanto voleva per l’istruzione del bambino e aveva scoperto di avere un ampio spazio di manovra coperto dalla parola «educativo». Tuttavia era la prima volta che Igor veniva in Giappone senza i genitori e nonostante la ragionevole certezza che nulla di drammatico poteva davvero succedere, per la prima volta in vita sua il russo provava quella sensazione di ansia immotivata che il marito gli aveva descritto così spesso. 

    Victor represse un sospiro e si risistemò gli occhiali. Odiava portarli, anche se secondo Yuuri la montatura sottile gli dava un’aria seria e intellettuale.

    – E tu? – chiese a Chris. – Sempre anacoreta?

    – Sempre – rispose l’amico, esagerando un’espressione disperata. – Se anche dovesse capitarmi di fare sesso potrei non ricordarmi più come si fa.

    – Esagerato.

    – Tu ancora non l’hai tradito Yuuri?

    Era la domanda che lo svizzero gli faceva sempre quando si vedevano. Ormai era una sorta di rituale.

    – So che ti sembra assurdo, ma non mi interessa farlo.

    – Non mi sembra assurdo. Ormai mi sembra leggendario il sesso.

    – Ma Max lo vedi ancora.

    Chris trovò per qualche istante molto interessante le bollicine della sua gazzosa.

    – Ah, sì. Lo vedo. Grandi chiacchierate. Ceniamo insieme ogni tanto. Ha un ottimo rapporto con Joseph. Se lo voglio veder sparire all’istante e non aver più sue notizie per un mese basta che gli chieda di fermarsi per la notte.

    Alzò gli occhi verso il cielo, dove le nubi si rincorrevano in alta quota.

    – Però non si vede più con l’architetto – aggiunse.

    Victor terminò il proprio caffè americano senza dire niente. Otto anni erano un tempo decisamente lungo per fare l’offeso e tenere il muso. Oppure troppo corto per ricominciare a fidarsi. Lui non poteva neanche immaginarsi di tornare in una relazione dopo un così plateale tradimento, gli sembrava già un azzardo che Chris invitasse a cena il proprio ex. Fosse stato in Max ne avrebbe approfittato per avvelenarlo. Ma, in fin dei conti, che cosa ne sapeva lui di relazioni? Aveva trovato per puro caso il suo incastro perfetto e tutta la sua strategia si era risolta nel stare abbastanza vicino a Yuuri per evitare che gli scappasse. Era consapevole del fatto che potesse non essere una ricetta universale. 

    – Che dici, li recuperiamo? – disse, accennando ai bambini. – Andranno lavati prima di poter essere portati a pranzare in un posto decente.

    

*

Newcastle

 

    Yurio prese Potya, acciambellata sul divano al fianco di Otabek e la spostò più in là verso il bracciolo. La gatta non diede prova di essersi accorta della manovra se non per un lieve vibrare dei baffi.

    Otabek alzò gli occhi dal libro che stava leggendo.

    – Sicuro che sia ancora viva?

    Il russo passò una mano vicino al naso dell’animale e poi vi avvicinò il viso.

    – Respira. Non credo te ne libererai così presto.

    – No, non credo – sorrise il kazako.

    – Cosa leggi? – chiese Yurio, sistemandosi al posto della gatta.

    Era un modo gentile per dire che avrebbe acceso la televisione e guardato in streaming uno di quegli improbabili reality russi di cui si drogava.

    – La guida della Namibia – disse Otabek, mostrando la copertina.

    – Cartacea? Ne esistono ancora?

    Yurio afferrò il volume e lo osservò come se fosse un antico reperto archeologico.

    – Così la posso annotare, ragiono meglio se scrivo a mano – spiegò l’altro, riacciuffandola.

    – È una vacanza, non una tesi di laurea! E poi manca ancora un secolo.

    – Agosto non è tra un secolo. E, se non te ne sei accorto, in Namibia c’è il deserto. Non voglio correre il rischio di trovarmi con la moto in panne a cinquanta gradi in mezzo alle dune.

    – Possiamo anche non andarci, se è così stressante – borbottò Yurio, cercando il telecomando.

    Di sicuro aveva finito per appoggiarci sopra la gatta.

    – Non è uno stress. Organizzare è la metà del divertimento – ribatté Otabek, allungando una mano per sfiorare la nuca dell’altro.

    Yurio incurvò il collo per godersi appieno la carezza.

    – Dev’essere stressantissimo essere te – sentenziò.

    Otabek aveva questa necessità di organizzare e pianificare tutto che il russo trovava snervante. Anche se era piuttosto pratico vivere con uno così. Per le vacanze, ad esempio, lui non avrebbe avuto nient’altro da fare che godersi il viaggio, scattare foto e assaggiare cibi improbabili.

    – Lo è, se si mette su casa con uno come te.

    – Nessuno ti ha obbligato.

    – Lo so.

    Era piuttosto vero il contrario. Yurio non pensava mai a Otabek come a suo marito. Quella parola era troppo mielosa, troppo Victyuuri. Ma legalmente, almeno lì in Inghilterra, erano sposati. Il giorno delle libero delle olimpiadi, la sua ultima gara, quando alla fine era riuscito ad approdare alla propria camera, Yurio aveva trovato sul proprio letto una cartellina anonima. Dentro c’era la lista dei documenti necessari al matrimonio e l’elenco delle persone che Otabek pensava di invitare. Se glielo avesse chiesto in un qualsiasi altro modo, il kazako si sarebbe trovato con ogni probabilità con un pugno sul naso e un secco «non sono una checca». Ma quella notte, con la stanchezza che sembrava volergli sbriciolare ad una ad una le ossa e la consapevolezza assurda che anche quel dolore gli sarebbe mancato, Yuri nello scorrere quei fogli, così asettici e burocratici, si era sentito invadere da un senso di calore che poteva definirsi solo come “necessario”.

    – Allora cosa ci tocca questa sera? Gente che si sposa senza conoscersi o che deve sopravvivere in un’isola deserta con solo tre oggetti a caso? – domandò Otabek.

    –Più estremo. Gente che ha sempre vissuto in una villa e che si trasferisce in un monolocale.

    Il kazako sogghignò.

    Entrambi avevano sempre avuto poco spazio in cui vivere. Per dieci anni Yurio aveva vissuto in un bilocale a due passi dall’Ice Castle, ad Hasetsu. Otabek, quando si erano rimessi insieme, stava in tre stanze, di cui una era praticamente un ripostiglio. Quindi avevano finito per allargarsi un po’. Ogni tanto Potya ancora si perdeva in giro per casa. In giardino non avevano mai osato farla uscire.

    – Ci credi che in università c’è chi pensa che abbia perso la testa per un bello e impossibile che si fa mantenere? – Rivelò Otabek.

    – E questa da dove vien fuori? – rise Yurio.

    Era assurdo come la consapevolezza di essere quello con più soldi lo rassicurasse. Come se la solidità di Otabek, la sua snervante razionalità lo facesse sentire perennemente in difetto all’interno della relazione e questo riequilibrasse un poco i rapporti.

    – Pettegolezzi – si strinse nelle spalle il kazako, con un mezzo sorriso.

    Yurio posò di nuovo il telecomando.

    Era raro veder far capolino il suo lato più frivolo. Quando succedeva, però, Otabek era in grado di dire con tono soave le più impensabili cattiverie a proposito dei suoi colleghi. Di solito, poi, la serata prendeva una piega assai più interessante dei reality russi.

    Alla fine, pensò Yurio, non era così male lasciarsi cullare dalla prevedibilità del suo beh… Quella cosa lì.

   
 
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