In the still of the night
18.
-
Le hai tirato un coltello addosso? – è Peeta, ad urlare.
-
Non l’ho fatto apposta! Si è intromessa nella mia linea di tiro – riconosco la
voce di Gloss.
Mi
isolo, abbassando lo sguardo sul punto del mio corpo che è stato appena ferito.
La maglia della divisa è strappata e sporca di sangue, il mio sangue. La
sollevo, rivelando il lungo taglio che mi percorre il fianco. Col cavolo che
non l’ha fatto apposta: quello di Gloss è stato un lancio calcolato alla
perfezione. Se mi fossi spostata anche solo di mezzo centimetro, mi avrebbe
squarciato il fianco. Gemendo, premo la mano sulla ferita, che è poco più che
un taglio superficiale, ma non smette di sanguinare.
Perché
Gloss mi ha lanciato un coltello addosso? Neanche un’ora fa stavamo intrecciando
amache insieme a Cashmere e adesso… osservo il coltello che giace poco lontano
da me, che nessuno ha ancora osato toccare. Perché ha lanciato un coltello
contro il mio bambino?
Il
bambino: ecco perché.
Alle
voci concitate di Peeta e Gloss si sono aggiunte quelle di Finnick e Chaff, e
anche quelle di qualche addestratore che stanno tentando, insieme, di placare
l’eventuale zuffa che potrebbe scaturire da un momento all’altro. Ho della
gente attorno, ma non riesco a capire di chi si tratta e non tento di capirlo.
Sono paralizzata, non posso fare altro che guardare le mie mani macchiate di
sangue strette sulla pancia. Scopro di non avere paura per me: ho paura per
lui. È la prima volta che ne sono davvero totalmente consapevole. Non è più
solo un’ipotesi, o una teoria: è reale. È tutto troppo tremendamente reale.
La paura di potergli fare del male, di causargli dolore, o che qualcun altro
oltre a me possa provocargli dolore… si sta concretizzando tutto alla velocità
della luce, ed io non posso impedirlo in alcun modo. Non potrò fare nulla per
impedirlo…
-
Vieni, cara, vieni con me. Sta tranquilla, andrà tutto bene – una voce delicata
e dolce mi avvolge. Le mani di una donna mi sorreggono ed insieme mi sospingono
da qualche parte. Ci vuole un po', ma riemergo dal torpore appena in tempo per
rendermi conto di essere stata portata in una piccola stanza adibita ad
infermeria. Oltre ad una donna in camice bianco, già munita di guanti e garze
pulite, c’è Cecelia, la donna del Distretto 8. È sua la voce tranquillizzante,
e sue sono le mani che mi hanno accompagnata fino a qui e che stringono ancora
le mie per infondermi sicurezza.
-
Dov’è Peeta? – riesco a chiedere con voce tremante. Vorrei raggiungerlo, ma la
dottoressa mi impedisce di muovermi. Sta pulendo la ferita con qualcosa che
brucia, e devo trattenere un gemito per il fastidio.
-
Tra poco lo raggiungerai, tranquilla. È qui accanto – dice Cecelia. – Ci
vogliono solo pochi minuti, vero?
-
Esattamente. Per fortuna non servono punti – dice la dottoressa. Sorride anche
lei, quindi in qualche modo posso fidarmi di ciò che dicono entrambe.
-
Il bambino sta bene? – esprimo a parole ciò che ho sempre e solo pensato nella
mia mente fino ad ora.
-
Certo. Sono forti, questi piccoletti, sai? – Cecelia mi sorride, rassicurante.
La
guardo. In questo istante, capisco che lei è l’unica persona in questo posto
che è realmente in grado di capire il subbuglio di sentimenti e di sensazioni che
sto provando. Lei ha lasciato tre bambini a casa, tre bambini che ha visto
crescere davanti agli occhi e che per nove mesi le sono cresciuti dentro la
pancia. Può capire le mie paure ed il mio senso di inadeguatezza.
-
Possiamo controllare – dice la dottoressa. – Hai mai fatto un’ecografia prima
d’ora?
Dieci
minuti dopo, Cecelia stringe una delle mie mani ed ha l’altro braccio sulla mia
schiena mentre mi riaccompagna verso la palestra. Sono un po' più tranquilla:
il peggio, per ora, è passato. Adesso ho una grossa benda sul fianco e una
casacca pulita con cui ho potuto sostituire quella della divisa, ormai sporca
ed inutilizzabile. La mano libera è sulla pancia e non riesco proprio a
metterla giù. È come se volessi sincerarmi che sia davvero tutto a posto, che
sto bene. Che stiamo bene. È questo l’importante.
Appena
mettiamo piede in palestra, ho giusto il tempo di notare che non ci sono segni
di lotta o altro che qualcuno mi abbraccia. Mi stringe forte, mormora il mio
nome. Peeta.
-
Ti lascio col tuo innamorato – mi saluta Cecelia. Sento Peeta che la ringrazia mentre
si allontana. Io chiudo gli occhi e gli stringo la vita, posando la guancia
contro il suo petto. Peeta rafforza la presa sul mio corpo, sospira contro la
mia pelle. – Stai bene? – mormora.
-
Stiamo bene – lo rassicuro.
Haymitch
è già davanti alle porte dell’ascensore, pronto ad accoglierci, quando
risaliamo dalla palestra. Ha l’aria arcigna. Sembra uno sul piede di guerra. –
Ti hanno davvero lanciato addosso un coltello?
-
Tranquillo, Haymitch. Mi hanno rattoppata per benino – dico, cercando di non
mostrargli quanto la cosa mi abbia in realtà scossa, e non poco. – Come girano
in fretta, le voci…
-
Smettila – mi rimprovera Peeta, severo.
-
Fammi vedere – ordina Haymitch.
Controvoglia,
sono costretta a sollevare la casacca e a mostrare il bendaggio che mi copre il
fianco. Non contento, Haymitch lo solleva piano per vedere la ferita,
nonostante le mie proteste.
-
Chi è stato? Gloss?
-
Se lo sai perché lo chiedi?
-
Me lo stai appena confermando, dolcezza – dice. Scuote piano la testa
come se stesse soppesando ciò che ha in mente. – Questo non fa altro che rimarcare
ciò che vi ho detto stamattina: vi hanno preso di mira e lo faranno ancora. Per
questo dovete avere degli alleati nell’arena. E da adesso in poi, state lontani
dai fratelli del Distretto 1.
Sbuffo.
– Peccato. Volevo che fossero miei amici…
-
Smettila! – ripete seccato Peeta.
Il
nostro mentore mi osserva stranito. - A parte l’incidente… a che punto siete?
So che parecchi ti vogliono in squadra, nonostante tutto.
-
L’hanno vista tirare con l’arco – il tono di Peeta si è un po' addolcito,
adesso.
-
Voglio Wiress, Beetee e Mags – dico in fretta.
-
Ah! Bene – Haymitch ride. Anche lui sembra improvvisamente più tranquillo. –
Dirò che ci state ancora pensando. Andate a cambiarvi, su.
Ho
giusto il tempo di fare una rapida doccia e di iniziare a vestirmi che mi
ritrovo Peeta in camera, con i capelli fradici e la camicia abbottonata per
metà. – Non mi serve un babysitter – dico, ignorandolo.
-
Sì, invece, se qualcuno vuole farti fuori prima del tempo – mi riprende. Si
siede sul letto e mi osserva.
Ho
solo la biancheria addosso, quindi ha una visuale completa del mio corpo. Gli
do le spalle e continuo a cercare nell’armadio qualcosa da mettere. Afferro un
abito morbido e dall’aria comoda e lo infilo rapidamente. A corto di roba da
fare per occupare il tempo, decido di raggiungerlo. Gli accarezzo i capelli,
più scuri a causa dell’acqua che ancora li inzuppa, e lui posa la fronte contro
il mio ventre.
-
Non farmi più scherzi del genere – dice piano.
-
Non sono mica stata io a volerlo.
-
Lo so… ma non mi sarei sentito tranquillo se non te lo avessi detto.
-
Va bene. Niente scherzi.
-
Bene – mormora, abbracciandomi.
I
due ragazzi sicuri di sé che solo ieri sera sfilavano davanti a migliaia di
persone, mostrando a tutti la loro forza e superiorità, si sono volatilizzati
nel giro di pochi istanti. Ed è bastata un’arma, un coltello scagliato contro
di me. È bastato per renderci piccoli ed indifesi, messi alle strette davanti
alle nostre più grandi paure. Non dovevamo mostrare in alcun modo le nostre
debolezze agli altri, ma ci hanno costretti a farlo. Adesso sanno che non siamo
altro che due ragazzini spaventati, nonostante l’immagine da invincibili che i
media ci hanno costruito addosso nell’ultimo anno. Adesso sanno come colpirci,
come farci male. Come ucciderci. E forse lo hanno sempre saputo. Forse, quel
coltello non sarebbe comunque servito allo scopo.
-
C’è una cosa che devo dirti – dico a Peeta. Magari, questo può alleggerire un
po' la tensione.
-
Mh? – mugugna.
Come
posso dirglielo?, penso. Qual è il modo migliore di
confessargli cosa ho scoperto poco fa?
Cecelia
ha promesso che non avrebbe aperto bocca con nessuno, e di lei mi fido. È una
così brava donna, e penso che potrei chiedere ad Haymitch di aggiungerla alla
possibile lista degli alleati. Mi ha aiutata, mi è stata accanto in un momento
in cui non ero in me per il terrore. Era con me quando ho scoperto cosa c’è
nella mia pancia.
-
Sai… è una lei – dico. Mi scappa un sorriso nel farlo.
-
Cosa è una “lei”? – domanda lui, alzando gli occhi verso di me.
-
Non ci arrivi?
Ci
mette un po', ma alla fine ci arriva. Eccome, se ci arriva! Mi godo la sua
reazione: sopracciglia inarcate, bocca imbronciata, poi occhi sgranati e bocca
spalancata in una muta esclamazione. Guarda la pancia, poi di nuovo me. E le
sue labbra si tendono nel più bello dei suoi sorrisi. Il mio sorriso preferito.
-
Ma… non stai scherzando? – ansima, alzandosi in piedi.
-
No… ah! – Peeta mi ha presa tra le braccia ed ha iniziato a farmi girare per la
stanza, ridendo. È felice! Felice di sapere che sarà una bimba, che c’è una
bimba dentro di me. L’ho reso felice, finalmente. Mi lascio contagiare dalla
sua felicità e scoppio a ridere a mia volta.
-
Oh, mio Dio! – esclama quando mi rimette giù, senza però smettere di
abbracciarmi. – Katniss! Una bambina! – dice, incredulo. Prende il mio viso tra
le mani e mi bacia, all’inizio piano, e poi con trasporto. Le nostre labbra non
cercano, o non hanno alcuna voglia, di separarsi.
Eh,
sì. L’ho proprio reso felice.
Mi
ronzano tutti intorno. Non sono mai davvero da sola.
Nei
restanti due giorni di allenamento, i tributi degli altri distretti sembrano
aver stretto uno strano patto tra di loro, un patto che riguarda me ed in cui
anche Peeta sembra esserne coinvolto in qualche modo. Mi parlano, si accertano
del mio stato di salute, mi coinvolgono nelle loro attività. Gli unici momenti
in cui mi permettono di stare da sola sono quelli in cui mi reco al gabinetto,
e per fortuna devo andarci più di qualche volta durante la giornata. Uno degli
inconvenienti della gravidanza è il bambino che preme sulla vescica. Ho un
continuo bisogno di fare pipì.
Gloss
viene a scusarsi con me il mattino dopo l’accaduto, appena io e Peeta, mano
nella mano, entriamo in palestra. Si dice sinceramente dispiaciuto per ciò che
è accaduto e che non aveva nessuna intenzione di ferirmi, che aveva già
lanciato il coltello per colpire un manichino quando io mi sono messa in mezzo
per sbaglio. In definitiva, era colpa sua così come era colpa mia. Ho accettato
le sue scuse, tagliando corto. Inutile dire che con Gloss non ho più voluto
avere a che fare, anche se più di qualche volta mi sono ritrovata a fare
esercitazioni nello stesso gruppo in cui era presente anche lui.
-
Cazzate – dice Haymitch appena gli riferisco l’avvenimento. – Non
credere ad una sola parola, l’ha fatto apposta. Pensava che avessi un cuscino,
o un qualcosa, a simulare la pancia. Voleva scoprire se fosse davvero una
montatura.
-
E tu che ne sai? – chiedo, scioccata.
-
Le voci girano in fretta – ribatte, bevendo il vino che ha nel
bicchiere.
Non
avvengono altri incidenti, per fortuna. In realtà, queste giornate insieme si
rivelano molto piacevoli, più di quanto mi aspettassi. Imparo a conoscere
meglio gli altri tributi, imparo di più sulle persone che tra meno di una
settimana diventeranno i miei avversari. Imparo ad apprezzarli, il che è un
problema. Come si fa ad uccidere una persona che conosci e che apprezzi? Alcuni
di loro non sarebbero mai diventati miei amici neanche tra un milione di anni,
ma sono comunque esseri umani. Forse, sto semplicemente diventando troppo
sensibile. Troppo suscettibile alla vulnerabilità dell’essere umano.
Il
fatto di avere una sempre costante massa di gente attorno rende Peeta
abbastanza tranquillo, tanto che alla fine cede alla tentazione di volermi
avere sempre sotto gli occhi e si mette a gironzolare da solo tra le varie
attività da apprendere. Ma, essendo un essere umano anche lui, torna sui suoi
passi quasi sempre, e non mi molla un istante.
-
Sei paranoico – gli dico ad un certo punto.
-
No, sono solo protettivo – mi corregge. – Hai mai usato le tecniche di
mimetizzazione?
Ovviamente
no, ma ho ancora ben chiaro nella mente l’eccellente prova di mimetismo che ha
creato su sé stesso nell’arena l’anno scorso. Così lo assecondo, e trascorriamo
diverse ore piacevoli ad usare i colori. Con noi ci sono sempre i tributi del 6,
i ragazzi morfaminomani. Sono così assuefatti dalla sostanza, ed i loro fisici
così provati dagli anni di abusi continui, da essere totalmente innocui.
Vederli ti stringe il cuore, ma sono anche così appassionati in quel che fanno
e che gli piace fare che il loro stato di salute passa in secondo piano.
Dipingono le mie braccia e la mia faccia di fiori, spronati da Peeta che sembra
divertirsi un mondo nel vedermi così colorata. I disegni sulla mia pelle
sembrano tatuaggi: potrei benissimo passare per la sorella minore di Venia.
Arriva
il giorno dedicato alle sessioni private. Siamo tutti riuniti nella saletta del
pranzo ed attendiamo, uno ad uno, che chiamino i nostri nomi per essere
esaminati. Mi chiedo che talento posso mostrare loro stavolta, dato che sanno
già che me la so cavare benissimo con arco e frecce. Mags dice che ne
approfitterà per schiacciare un pisolino. Potrei imitarla, perché la sua idea
non è per niente male. Altrimenti, se i morfaminomani mi lasciano a
disposizione un po' dei loro colori, posso mettermi a disegnare qualche fiore.
Pian
piano se ne vanno via tutti. Chiamano Seeder, del Distretto 11, e nella saletta
restiamo solo io e Peeta. Ci teniamo per mano, ma non è una semplice stretta:
abbiamo le dita intrecciate. Costantemente, continuamente, le nostre dita sono
intrecciate. Le mie sono piccole, con le unghie molto corte e rosicchiate – non
c’è più traccia del lavoro di Venia su di esse -, quelle di Peeta invece sono
lunghe e hanno delle unghie normali, pulite, tagliate regolarmente.
Non
potremmo avere delle mani più diverse.
Osservo
la piccola macchia marrone che ha nell’incavo tra il pollice e l’indice della
mano destra. Una voglia. Io non ne ho neanche una, di voglia. Ho molti nei, ma
nessuna voglia. È una di quelle macchie con cui ci si nasce, non compaiono col
tempo. Ci si nasce e basta. Anche la piccola avrà una voglia come questa?
Non
mi accorgo che chiamano il nome di Peeta, è lui a farmelo notare. Deve andare.
-
Ci vediamo tra poco – mi dice. Dovrebbe muoversi, ed invece si prende del tempo
per salutarmi come si deve, con un bacio. Quando lo chiamano di nuovo si decide
a lasciarmi andare, e così mi ritrovo ad aspettare da sola il mio turno. Ho un
quarto d’ora davanti a me per capire cosa mostrare agli Strateghi. Pisolino,
decisamente.
Ne
sono parecchio convinta quando entro in palestra, una volta convocata, ma la
mia risolutezza vacilla dopo neanche un minuto dal mio arrivo. Peeta non c’è:
dopo aver finito, i tributi escono da una porta secondaria e non incrociano più
quelli che attendono il loro turno. Lo fanno per non lasciarsi sfuggire ciò che
hanno mostrato, come se nascondessero un segreto. Ed in effetti è un segreto:
non devi mai, mai mostrare il tuo talento nascosto, quello che potrebbe
proclamarti vincitore degli Hunger Games, al tuo futuro nemico. Mi chiedo se
sia ancora necessario nascondere i nostri talenti dato che siamo tutti dei vincitori,
stavolta. Sappiamo già cosa siamo in grado di fare, no?
E
Peeta non vuole che il suo talento rimanga un segreto: ha lasciato in bella
mostra ciò che ha mostrato agli Strateghi. Ciò che ha voluto mostrare.
Ciò che io stessa, la notte di Capodanno, gli ho raccontato. Le mie parole lo
hanno aiutato a realizzare il dipinto di Rue ricoperta di fiori nell’arena.
E
Rue, ricoperta di fiori nell’arena, è ciò che trovo dipinto sul pavimento della
palestra.
Mi
inginocchio ed osservo il disegno da vicino. Non riesco a trattenere le lacrime
ed alcune cadono sui colori ancora freschi. Osservo Rue addormentata, avvolta
da una cornice di fiori bianchi, e piango come se la vedessi per la prima
volta. È un’immagine che non smetterà mai di far male, mai.
Plutarch
Heavensbee, il Capo Stratega, mi ricorda che il tempo a mia disposizione si va
esaurendo in fretta. Ma non ho bisogno di molto tempo per fare ciò che devo. Non
voglio più schiacciare un pisolino, adesso. Adesso, mi serve solo una corda.
Devono
essere trascorsi poco più di cinque minuti dal mio arrivo, che già vado via. Mi
inchino agli Strateghi, mi volto, mi incammino dignitosamente verso l’uscita
senza essere congedata.
E
lascio alle mie spalle un manichino impiccato.
Un
manichino con il nome di Seneca Crane scritto col sangue.
-
Hai impiccato un manichino e hai scritto il nome di Seneca Crane col sangue?
– urla Effie durante la cena.
-
Beh, non con il sangue. Era succo di ribes – tento di giustificarmi, e ricevo
l’effetto opposto a quello che desideravo: invece di calmarsi, Effie si
arrabbia ancora di più.
-
Ma cosa ti è passato per la testa? – urla ancora.
-
Quindi il mio dipinto di Rue non rappresenta alcun problema – aggiunge Peeta,
lanciandomi un’occhiata d’intesa.
-
Hai dipinto… - Effie chiude gli occhi e se li copre con una mano, gemendo.
Sembra che sia in procinto di svenire. Meno male che si trova già seduta,
penso. Avrebbero dovuto raccoglierla dal pavimento, altrimenti.
-
Cosa volevate dimostrare? – chiede Haymitch, rassegnato. Sì, rassegnato è la
parola esatta per descriverlo in questo momento. Non sembra neanche avere più
la forza di rimproverarci, ormai.
-
Non lo so bene. Volevo solo che si sentissero responsabili, anche solo per
un momento – spiega Peeta. – Di aver fatto morire quella ragazzina.
-
Questo genere di pensieri può solo attirare guai su di voi. Non sono pensieri
da esprimere ad alta voce – mormora Portia.
-
A che serve evitare altri guai, ormai? Ci vogliono già morti. Dobbiamo solo
aspettare tre giorni prima che possano farlo liberamente – dico. Infilzo con
più forza del solito un pezzetto di carne nel mio piatto, e questo vola via, dritto
sulla tovaglia.
-
Non pensi alla ragazzina che hai dentro la pancia? Non pensi che dovresti
salvaguardarti per lei? Almeno per lei, Cristo Santo! – esclama
Haymitch.
Già,
dovrei. Ma a che serve? Lo sanno tutti che è un’impresa disperata, anzi,
persa in partenza. Ancora prima di partire. – La uccideranno comunque.
Non
è la prima volta che il mio pessimismo cronico e le mie non celate intenzioni
irritino Peeta, ma è sicuramente la prima volta che lo costringo ad abbandonare
la tavola in preda alla rabbia. Getta con stizza il tovagliolo sul piatto mezzo
pieno e se ne va in camera. Sbatte la porta con forza dietro di sé.
-
Quel ragazzo ha la pazienza di un santo, ma anche la pazienza ha un limite. E
tu non gli stai rendendo le cose facili – conclude Haymitch.
Resto
zitta.
Peeta
non ci raggiunge in salotto per vedere i punteggi che abbiamo ottenuto nelle
prove. Stavolta so di averla fatta grossa, ma non faccio nulla per migliorare
le cose. Resto seduta sul divano tra Cinna e Portia, mi mangio le unghie ed
osservo i voti degli altri tributi. I Favoriti, ovviamente, prendono punteggi
alti. Anche Johanna ottiene un ottimo punteggio, mentre il resto prende voti
medio-bassi.
Io
e Peeta otteniamo entrambi dodici punti, il massimo. Haymitch sospira
rumorosamente.
-
Perché l’hanno fatto? – chiedo.
-
Così gli altri non potranno fare altro che prendervi di mira – dice Haymitch
senza scomporsi. – Va via, ragazza, non sopporto la tua vista. Va a
chiedere scusa a quel poveretto.
No
che non ci vado, penso, ma la faccia omicida di
Haymitch mi fa passare interamente la voglia di provare a ribellarmi. Saluto in
silenzio gli altri e percorro il corridoio a passo funereo, diretta verso la
camera di Peeta, come se stessi andando al patibolo. Non busso, apro
direttamente la porta, che scopro non essere chiusa a chiave. Non abbiamo le
chiavi, effettivamente.
Peeta
è steso sul letto e guarda il soffitto, con le braccia incrociate dietro la
testa. Non muove un muscolo e non fa il minimo cenno, come se non mi avesse
sentita entrare nella stanza. Mi ignora, così come tante volte l’ho ignorato
io. Vado verso il letto e mi sdraio accanto a lui, sul fianco. Anche se mi
ignora.
-
Mi dispiace per prima – sussurro. La mia bocca è quasi a tiro del suo orecchio.
-
Sai che odio quando parli in quel modo – mi dice con voce dura dopo lunghi
istanti di mutismo.
-
Lo so.
Riconosco,
a malincuore, che moltissimi dei nostri discorsi dell’ultimo periodo si sono
svolti in un altalenante andirivieni di “Lo so” e “Mi dispiace”. Un copione
scritto, riscritto, recitato e strarecitato.
-
E allora perché lo fai? – chiede. Stavolta, però, volta il viso.
Mi
prendo qualche secondo prima di rispondergli. – Perché potrebbe essere vero.
I
suoi occhi azzurri vacillano, perdono un po' della loro luminosità. Non può
ignorare le mie parole, è intelligente dopotutto. Ed è realista, e vede
benissimo come stanno andando le cose: stanno andando a scatafascio. È un
disastro annunciato a cui manca solo l’ordine risoluto degli Strateghi per
poter prendere il via. Lo sa meglio di me che non sopravviverò all’arena.
Forse, se siamo totalmente sfortunati, non sopravviverà neanche lui. Ma io
conto ancora sull’aiuto di Haymitch: in due, lui fuori ed io nell’arena, forse
riusciremo a riportarlo a casa.
-
Non riesci ad avere una visione positiva del futuro? – chiede ancora.
-
Una visione positiva in cui noi due sopravviviamo, il presidente Snow ci
lascerà vivere in pace e potremo giocare alla famigliola felice? – chiedo. - Sei
un illuso se continui a pensarla così, Peeta.
-
Sono un illuso se voglio riuscire a salvare la mia famiglia? Se è così, allora
continuerò ad essere un illuso fino alla fine.
Continuerà
ad illudersi perché non può fare altrimenti: non vuole pensare al peggio. Non
vuole pensare alla mia morte, alla morte di nostra figlia. Il suo incubo
ricorrente non è cambiato di una virgola in questi mesi: ci sono sempre io che
muoio davanti ai suoi occhi. Ed io, sempre io, sono e sarò l’unica cosa che lo
rallenterà nell’arena, l’unica cosa che potrà concretizzare la realizzazione di
quell’incubo. E non riesce a vedere al di là di questo.
Non
riesce a lasciarmi andare.
-
Potrebbero essere i miei ultimi giorni di vita, Peeta. I nostri ultimi
giorni – mormoro. Non può ignorarlo, non deve ignorarlo. E devo
farglielo capire con tutte le mie forze. Sollevo il viso per posizionarlo sul
suo, gli sfioro delicatamente l’angolo della bocca con la mia. – Cosa pensi
che dovremmo fare nei nostri ultimi giorni di vita?
I
suoi occhi sono lucidi quando mi risponde: - Io voglio soltanto passare ogni
minuto che mi resta da vivere insieme a te.
-
Facciamolo, allora – propongo, accarezzandogli il mento con la punta
dell’indice. Non si tira indietro quando poso le labbra sulle sue, non mi
scaccia via. Ricambia, e mi stringe.
Mi
mostra il modo in cui vuole trascorrere i nostri ultimi giorni di vita sulla
terra.
Il
mattino dopo, quando ci svegliamo, troviamo una sorpresa: le prove per
l’intervista di domani sera sono state annullate.
-
Come mai? – chiedo a Peeta, che si è alzato dal letto per prendere il
bigliettino che uno degli inservienti senza voce ha dovuto consegnare. Non
voglio davvero sapere la risposta, però. Avere la giornata libera, senza
doversi preoccupare di imparare a camminare sui tacchi e a parlare in pubblico,
è già una risposta soddisfacente per me.
-
Effie dice che non ne abbiamo bisogno. Il Tour della Vittoria è stato
sufficiente – mi informa lui, tornando a sedersi in mezzo alle lenzuola
spiegazzate.
-
Forse sono ancora arrabbiati per ieri… - la butto lì.
-
Oppure è davvero come dice Effie – Peeta agita il cartoncino, poi lo getta sul
pavimento. – Quindi… cosa vuoi fare?
-
Tu che cosa vuoi fare? – chiedo a mia volta. Non mi aspettavo un intero giorno
di libertà e non ho idea di come potremmo occuparlo. Mi ero quasi rassegnata
alle ore in cui Effie mi avrebbe torturata per benino…
-
Che ne dici di fare colazione, per cominciare?
-
Mi sembra perfetto – rispondo, sporgendomi in avanti per dargli un bacio.
Peeta
ordina la colazione e la consumiamo stando a letto, cosa che non avevamo mai
fatto prima d’oggi. Non insieme e da soli, almeno. Cenare, pranzare, fare
colazione… c’è quasi sempre stato qualcuno insieme a noi. Questa è la prima
volta che mangiamo da soli dal giorno della mietitura. Sembra, di nuovo, la
vita di qualcun altro.
Peeta
sembra felice e soddisfatto di vedermi divorare la maggior parte del cibo che
ci hanno portato. Mangio le frittelle, la frutta, il pane con burro e
marmellata, bevo succo d’arancia e cioccolata come se fosse il mio ultimo pasto
su questa terra. Non scherzavo, quando dicevo che il mio stomaco è migliorato
molto da quando ci troviamo a Capitol City. È decisamente uno scherzo di
cattivo gusto. È meglio vomitare tutti i giorni che essere qui ad ingozzarmi,
mentre aspetto l’inizio della fine.
Dopo
aver mangiato restiamo ancora un po' a crogiolarci tra le lenzuola:
chiacchieriamo, e ogni tanto ci scappa anche una risata. Nessuno viene a
disturbarci.
-
Potrei restare qui tutto il giorno – farfuglio, in preda ad uno sbadiglio.
-
No, non te lo permetto – scherza Peeta. Scende dal letto e mi afferra una mano,
tirandola affinché lo segua. – Ti porto a fare un pic-nic.
-
Ma dove? Non possiamo andare da nessuna parte – mi lamento.
-
Un posto c’è – dice, indicando verso l’alto.
Alzo
il viso verso il soffitto, come se quest’ultimo dovesse rivelarmi la
destinazione che mi sta indicando Peeta, ma poi ci arrivo. Il tetto del Centro
di Addestramento: ecco dove. La fortuna di avere l’attico come appartamento.
Faccio
una capatina nella mia stanza per cambiarmi d’abito, recuperando un abitino
leggero dal guardaroba; perdo qualche altro minuto per lavare i denti e
pettinare i capelli nella solita, vecchia treccia. Quando esco, Peeta mi sta
già aspettando con alcune coperte sottobraccio e un cesto da pic-nic nella mano
libera.
La
giornata è davvero calda, e meno male che ho deciso di indossare qualcosa di
leggero! Le coperte, data la temperatura, non servono per ripararci dal freddo
inesistente ma per stenderle per terra, proprio come in un classico pic-nic sul
prato. Il sole bacia la nostra pelle, così ci sdraiamo per godere il più
possibile dei suoi raggi. Mangiucchiamo qualcosa, ed io intreccio fiori mentre
Peeta fa pratica di nodi con alcuni viticci; quando la mia ghirlanda è pronta,
gliela metto sulla testa, divertita. Lui si vendica facendomi il solletico ai
fianchi. E mi bacia, anche. Baciare Peeta rimane il mio passatempo preferito.
Il
resto della giornata va via così, una giornata che resterà per sempre impressa
nella mia memoria. Scopro che vorrei averne all’infinito, di giornate come
questa.
Quando
il pomeriggio si inoltra verso la sera, accarezzo pigramente i capelli di Peeta,
trattenendoli leggermente tra le dita prima di ricominciare daccapo. Lui riposa
con la testa sulle mie gambe, ha gli zigomi arrossati per tutto il sole che
abbiamo preso durante queste ore. Io ho la schiena premuta contro il muro, ed
osservo il cielo che inizia a tingersi di arancione. L’arancione preferito di
Peeta, quello dei tramonti. Potrei stare ore ed ore a vedere un tramonto, solo
per godere della pace che mi regala. Pace che non durerà ancora a lungo.
La
pace, per ora, viene disturbata solo dall’esserino che mi cresce nella pancia.
Guardo in basso, toccandola. Non riesco a trattenere un sorriso di meraviglia;
fino ad ora ho cercato di non cadere dalle nuvole, come invece fanno tutte le
donne che si trovano nella mia stessa situazione, ma diventa sempre più
difficile ogni giorno che passa. È impossibile ignorarla e restare indifferenti
davanti allo spettacolo della vita che prende forma, cresce, e si manifesta
attraverso qualcosa di così semplice come un tocco. Premo sul punto che la
bambina ha colpito e dopo neanche due secondi, lei mi risponde. Soffoco una
risata. È così reattiva… e non è ancora nata.
Come
ho fatto ad ignorare tutto questo fino ad ora? Quanto sono stata cieca? Istinto
di sopravvivenza, immagino. L’istinto di sopravvivenza ti fa ignorare le cose
belle, sapendo che prima o poi potresti perderle. La paura di perderla mi fa
serrare lo stomaco. Ma sono realista, proprio come ho detto a Peeta ieri sera:
è qualcosa che può accadere, e non siamo preparati. Per niente. Nemmeno io lo
sono, nonostante il mio pessimismo possa dimostrare l’esatto contrario.
Ignoro
il pessimismo per una volta, dato che questa è una giornata così bella, e
sarebbe un vero peccato rovinarla con pensieri pessimisti. È la vita di qualcun
altro, in fondo, e decido di viverla come se fossi un’altra persona: una
persona che non ha la falce della morte in attesa sulla testa, pronta a colpire
al primo passo falso. Una persona felice di avere accanto un marito, un
compagno, e una figlia in arrivo. Una figlia che amiamo, nonostante tutte le
avversità che la vita ci ha inflitto durante il cammino. Immagino di essere in
un mondo senza sofferenza, senza Hunger Games, dove vivere non fa paura: è un
mondo dove la bambina di Peeta può vivere felice e al sicuro…
Osservando
i movimenti che la bambina provoca, ben visibili attraverso il tessuto
dell’abitino, decido di provare a fare una cosa. Ho sentito varie volte dire
che i bambini nella pancia sono in grado di ascoltare, anche se sono immersi in
uno strano liquido che li protegge e fornisce loro il necessario per crescere e
svilupparsi, e che parlargli non è sbagliato, anzi: loro imparano a riconoscere
la voce di chi gli sta parlando, soprattutto quella dei loro genitori. Io non
le ho mai parlato prima d’ora.
Non
saprei nemmeno cosa dire, ad un esserino immerso nell’acqua…
Canto.
È quasi un anno che non canto una canzone. E decido di farlo per lei, per la
mia bambina. Solo per lei.
Deep in the meadow, under the willow
A bed of grass, a soft green pillow
Lay down your head, and close your sleepy eyes
And when again they open, the sun will rise…
Questa
ninna nanna mi riporta indietro di un anno, a me che la canto a Rue in punto di
morte. È la prima canzone che mi è venuta in mente, e questo è forse dovuto al
fatto che è una canzone per i bambini che non riescono a prendere sonno, o che
fanno i capricci per non dormire. È buffo, il parallelismo che si va a creare
adesso: la sto cantando ad una vita non ancora nata, e l’ho cantata in passato
per una vita che si andava spegnendo… no, non è buffo. È amaro. È
un’amara realtà.
Riprendo
a cantare, cercando di non pensare a Rue.
Here it’s safe, here it’s warm
Here the daisies guard you from every harm
Here your dreams are sweet and tomorrow brings them
true
Here is the place where I love you…
-
Fallo ancora.
Peeta
è sveglio e mi osserva da basso, ancora con la testa sulle mie gambe. Alza una
mano e la posa sul mio ventre. – Canta ancora.
Lo
faccio, assecondando la sua richiesta. Riprendo la canzone dal punto in cui mi
sono interrotta e guardo Peeta mentre lo faccio, ma poi guardo di nuovo la
pancia perché la bambina riprende a muoversi. Le voci sono vere, devo
riconoscerlo: negli istanti in cui calco con la voce, lei scalcia un po' più
forte. Un piedino – perché quello deve essere per forza un piede! – preme con
decisione sulla parte bassa della pancia, esattamente dove si trova la mano di
Peeta. A dividerli, solo diversi strati di carne, pelle e tessuto. Così vicini,
eppure allo stesso tempo così lontani.
Lui
sorride, estasiato. È totalmente preso dalla piccola magia che abbiamo davanti
agli occhi. È innamorato.
-
Vorrei poter fermare il tempo e vivere così per sempre – dice.
-
Anch’io – mormoro. Gli accarezzo di nuovo i capelli.
Anch’io
lo vorrei. Ma non abbiamo il potere di fermare il tempo.
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Tranquilli, non mi sono
dimenticata dell’aggiornamento ;)
Mi sono fatta perdonare per aver
terminato bruscamente lo scorso capitolo? Spero di sì ^^’
Ma quindi i nostri piccioncini
aspettano una bambina! E Katniss inizia a sbilanciarsi sulla gravidanza: non
riesce più a viverla da “estranea”, e capisce di non essere immune ai
sentimenti. Capisce, o almeno sta cominciando a capire, di amare sua figlia.
Sono felice di aver scelto di rendere questa Katniss più vulnerabile ai
sentimenti, più “umana” in questo senso di quanto non lo fosse la Katniss
creata dalla Collins. La adoro lo stesso, sia chiaro, ma almeno mostrami di non
essere la sorella di Lord Voldemort.
Ci vediamo la prossima settimana
col nuovo capitolo! L’intervista: a parte questo, non aggiungo altro ^^
D.