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Autore: Belarus    13/10/2020    2 recensioni
"Dall’alto dei suoi due metri e delle batoste prese nella sua breve vita, Kidd la osservò mordicchiarsi la bocca e un pensiero lo investì, facendogli lanciare di mal grazia la rivettatrice nel carrello degli attrezzi.
«Che si fottano loro e tutta la classe dirigente di Marijoa. Puoi stare da me.» annunciò serio, facendo scappare a Killer la saldatrice accesa di mano."

[AyaKiddAU con la simpatica collaborazione di Law in veste di vicino]
Storia partecipante{o quasi} al Writober2020 indetto su Fanwriter.it
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eustass Kidd, Nuovo personaggio, Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Teru-Teru Bouzu '
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Titolo: Shiawasenashi - La morte felice
Genere: Generale, Commedia.
Prompt: Diversità
Personaggi: Nuovo personaggio; Eustass Capitano Kidd.
Note: Dunque, dunque… questa shot è più lunga delle altre e non escludo possano essercene altre che la supereranno, ma mi sono soffermata per dare una chiave di lettura su Aya. C’è un attimo del suo passato in questa oneshot e avevo il desiderio impellente di far sentire quanto sia felice e angosciata dalla sua libertà al tempo stesso. Essere braccata da una famiglia come la sua, dalla Marina – che qui è la polizia cittadina – a volte la fa sentire fuori posto, le provoca dolore, ma si sa, a tutto o quasi c’è una medicina. Quindi beccatevi Kidd che fa proposte oscene agli incroci e Aya che si sente morta perché le hanno messo le bacchette dritte sul take away (una roba tremenda in Giappone eh! Non fatelo mai, ma proprio mai! Ò – Ó) Un ringraziamento come sempre a chi legge, recensisce o passa soltanto, merci mes amis~




#05. Diversità





Nel mondo che aveva abbandonato, di corsa e in segreto, lei era quella diversa. Quella da evitare. Non è che facesse chissà cosa per esserlo e ciò di cui la si accusava non era, a suo parere almeno, poi tanto tragico. Ovviamente però i suoi genitori non la pensavano così, sua sorella non la pensava così, i suoi parenti vicini e lontani, i conoscenti, i vicini, gli amici degli amici dei suoi. C’era un’intera città a pensare il contrario e per un po’ Aya si era chiesta con coscienza cosa ci fosse esattamente in lei che non andava. La sua famiglia aveva avuto grandi piani per il suo futuro: doveva crescere bella, a modo, distaccata e inarrivabile per chiunque, tranne che per coloro che lo avessero meritato con agganci giusti e un conto in banca da far raccapriccio; a quel punto avrebbe dovuto sposarsi, sfornare qualche bambino che portasse avanti il nome della loro famiglia e allora, solo allora, avrebbe potuto godersi in pace gli anni che le restavano con i trastulli più in voga. Una prospettiva senza dubbio rosea. Aveva provato ad accontentarli, si era impegnata, ma per quanto provasse, non le riusciva. In lei c’era sempre qualcosa che stonava, un dettaglio, una frase di troppo, abitudini difficili da nascondere, quella sua palese avversione verso il sistema in cui si era trovata a nascere e che non mancava più o meno velatamente di criticare. E poi beh, c’era la sua inguaribile voglia di scappare che più di una volta l’aveva resa preda succulenta per inseguimenti da togliere il fiato ai migliori action movie del millennio. Quella vita le sarebbe stata stretta, l’avrebbe uccisa, lo sapeva e così aveva fatto l’unica cosa che andasse fatta: se n’era tirata fuori. Laggiù, nascosta nell’ombra dei grattacieli lucidi dentro cui avrebbe dovuto trovarsi, nessuno badava più di tanto a lei: cosa sognasse di fare, chi volesse diventare e a che costo, erano aspirazioni misere in confronto a ciò per cui la gente comune faticava ogni singolo giorno tra quelle strade umidicce. Lei era solo una di tredici milioni, un fantasma tra i fantasmi, eppure sapeva che non sarebbe durato a lungo. Glielo ricordò quell’auto.
La osservò sfrecciare lussuosa per la via commerciale ignorando i semafori sino a fermarsi ad una decina di metri da lei e strinse i denti attorno al labbro, il guardrail freddo che pungeva sotto le gambe e il marciapiede, occupato a quell’ora solo da pendolari diretti in stazione che la ignoravano con sguardi vuoti.
«Qualcuno che conosci?» s’informò nel raggiungerla Kidd, intercettando serio e con occhio allenato l’auto.
«Chi lo sa, forse sono solo di passaggio per i quartieri alti… cos’è?» mormorò con un sospiro pesante, osservando l’incarto giallo che l’altro le stava quasi schiantando in faccia pur di distrarsi.
«La cena, Killer ha da fare stasera.» borbottò il rosso, la fronte aggrottata.
«Non ha l’aria invitante…» giudicò Aya, estraendo con una piccola smorfia le waribashi che vi avevano infilzato in mezzo e persino in verticale, proprio mentre l’auto ripartiva in uno stridere di gomme peggiore di poco prima.
Quel suono le fece perdere un battito ed entrambe le bacchette le volarono via di mano, dritte dentro una pozzanghera scintillante per i neon dei palazzi. La seguì in silenzio, finché non si vide più nulla per la via alle sue spalle, se non altri mezzi meno costosi, autobus e qualche taxi illuminato e solo allora cercò di recuperare le sue posate, ma erano ormai zuppe e raccattarle da terra sarebbe stato persino meno igienico del pescarle dal grande contenitore dove stavano rinchiuse solitamente.
Le era passato improvvisamente l’entusiasmo per quella passeggiata imprevista e non aveva del tutto a che fare con quello che obiettivamente non era uno dei manicaretti da manuale di Killer. Certo, l’aspetto imprecisato e quelle bacchette da funerale non l’aiutavano, ma in altri momenti avrebbe fatto comunque i salti di gioia per una simile novità e dovette giungere alla stessa conclusione anche Kidd.
«Fosse per te andresti avanti felice solo con quelle schifezze piccanti. Mangia o impara a cucinare, cazzo.» ringhiò polemico, passandole le proprie waribashi e tirandola su affinché si desse una mossa.
Non era da lei starsene ferma impalata e trascorrere il resto della notte davanti quel chiosco psichedelico neppure lontanamente ammissibile, per cui lo seguì senza troppe storie.
«Cucinare non rientrava nei miei piani per il futuro e non mangio solo quelle…» bofonchiò a guance gonfie.
«Neanche nei miei sfamarti, ma eccoci qua. Ora ficcatelo in bocca.» le ordinò Kidd e tre dei quattro salaryman fermi con loro all’incrocio si girarono per guardarlo sconvolti.
Se il quarto non fece lo stesso fu solo perché era davvero troppo sbronzo per capire persino di trovarsi lì, Aya ne era sicura, ma quella piccola constatazione non l’aiutò comunque a non sprofondare per la vergogna.
Lei era abituata ai modi pittoreschi di Kidd, li trovava persino divertenti, ma il resto del mondo…
«Che cazzo avete da guardare voi? Volete un invito a cena?!» li rimise al loro posto il rosso e lei lo tirò per il giaccone, il segnale acustico del semaforo che li incitava a togliersi dai piedi.
«Kidd per piacere, possiamo…?» quasi lo supplicò stanca.
I tre poveretti rimasero ammutoliti a guardarli, mentre si avviavano sulle strisce, decidendo forse fosse il caso di mettere distanza tra loro e al termine del tempo concesso per attraversare furono ancora lì. L’unico ad essersi smosso paradossalmente era stato l’uomo ubriaco, ma il suo slancio di vita improvviso aveva avuto come unico risultato quello di farlo crollare contro le macchinette della linea tre di un convenience store. Aya lo osservò con una smorfia, prima di regalarne una a Kidd che ignaro stava per voltargli le spalle.
A Kidd importava dell’opinione che la gente aveva di lui. Ad intermittenza però e su argomenti ben precisi. Passare per il rozzo scimmione che dava direttive indecenti in strada non rientrava tra quelli evidentemente.
«Cos’è quell’espressione adesso, hm?» s’informò scocciato, vedendola ancora ferma.
«È che… tu sai sempre come rendere indimenticabile ogni cosa.» appurò con piatto sarcasmo, mentre lui buttava giù l’ultimo pezzo della sua cena fritta e imprecisata.
«E tu come farne una tragedia, siamo a posto, no?!» le fece il verso, strappandole via la porzione intatta che ancora teneva in mano per gettarla in quello che ovviamente era un cestino solo per lui.
La donna del negozio di manicure, osservò con sdegno il contenuto colare sulla graziosa pianta che aveva sistemato davanti l’entrata e tentò di aprire bocca, ma le uscì un verso imprecisato nel vedere quasi a rallentatore anche il cartone dell’asporto scivolare in una chiazza bruna sulle mattonelle della strada.
«Faceva davvero cagare. Come diavolo si fa a vendere della roba di merda del genere?! Ah! Andiamo a prendere qualcosa al mercato, così Killer avrà di che rompere e tu potrai mangiare rafano anche stasera… non sia mai che il tuo cazzo di stomaco rimanga senza qualcosa che lo mandi a fuoco e magari ti togli anche quel broncio dalla faccia.» lamentò tutto da sé e sarebbe stato nella norma, se non le avesse passato con indifferenza una mano tra i riccioli della frangia a ciuffo per darle gratis un look simile a quello che senza dubbio doveva aver pagato oro sonante la donna delle manicure per il suo cane.
Non lo faceva spesso, quasi mai a dirla tutta. Kidd non era un tipo da effusioni pubbliche o gesti premurosi, lo innervosivano e imbarazzavano data la poca affinità con la sua natura. Le volte in cui Aya si ritrovava con le sue mani addosso erano… beh, di solito non per la strada o con altri a guardarli, per quanto poi esibizionista ed egocentrico lo fosse, ma di certo non erano carezze. Quei raptus di gentilezza incontrollata erano rari, un po’ goffi e terminavano talmente in fretta da lasciarle sempre il dubbio che fosse successo davvero, eppure le scaldavano il cuore. Perché venivano da qualcuno che non li regalava facilmente, perché erano preziosi e per nulla dovuti, perché avrebbero dovuto esserlo d’altronde? Negli anni che aveva trascorso lontano da quella città così piena di differenze, solo un’altra persona le aveva dimostrato tanto e anche allora Aya aveva pensato lo stesso.
Lei era quella diversa. Era quella da evitare. Le carezze non le spettavano, erano premi per chi riusciva in tutto e lei era in grado solo di deludere in tutto. Un giorno forse lo avrebbe fatto anche con Kidd, un giorno magari il suo sogno da fantasma tra i fantasmi sarebbe finito e le sarebbe rimasto solo il ricordo appannato sul finestrino d’un auto lussuosa. Eppure in quel momento, mentre Kidd marciava su per la strada, un po’ per allontanarsi con la mano che l’aveva toccata ficcata per bene nel giaccone di dubbio gusto e la gente che si scostava per non essere buttata giù a spallate, Aya si sentì meglio. Anche Kidd era diverso, diverso da lei e diverso dagli altri. Tutti in quella città erano un po’ diversi a modo loro e a chi più chi meno importava dell’opinione altrui, ma il mondo era bello per quello e poi, chi decideva cosa fosse normale e cosa no? A lei ad esempio le maniere di Kidd andavano bene… più o meno.
«Ne voglio due.» stabilì di corsa, aggrappandoglisi senza riflettere troppo al braccio.
«Hai deciso di mettere su peso, donna?»
«Ho fame…»
«Così la pianti di fare quei bocconi che sembrano cibo per uccelli.»
«Solo perché li taglio e non li ingurgito alla cieca, non vuol dire che siano cibo per uccelli.»
«Perché, che problemi hanno i tuoi denti?»
«I miei denti stanno be-Oh kami… Lasciamo perdere.»
E nel sentire un piccolo sorriso snervato affiorarle sulla bocca, decise di rivalutare quella passeggiata.
Era tutto normale. Lei era normale, i battibecchi con Kidd erano normali. A modo loro, ma lo erano. La sua era una normalità diversa e le andava benissimo così. Non l’avrebbe scambiata con nulla al mondo.




  
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