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Autore: Bibliotecaria    16/10/2020    3 recensioni
In un mondo circondato da gas velenosi che impediscono la vita, c’è una landa risparmiata, in cui vivono diciassette razze sovrannaturali. Ma non vi è armonia, né una reale giustizia. È un mondo profondamente ingiusto e malgrado gli innumerevoli tentativi per migliorarlo a troppe persone tale situazione fa comodo perché qualcosa muti effettivamente.
Il 22 novembre 2022 della terza Era sarebbe stato un giorno privo di ogni rilevanza se non fosse stato il primo piccolo passo verso gli eventi storici più sconvolgenti del secolo e alla nascita di una delle figure chiavi per questo. Tuttavia nessuno si attenderebbe che una ragazzina irriverente, in cui l’amore e l’odio convivono, incapace di controllare la prorpia rabbia possa essere mai importante.
Tuttavia, prima di diventare quel che oggi è, ci sono degli errori fondamentali da compire, dei nuovi compagni di viaggio da conoscere, molte realtà da svelare, eventi Storici a cui assistere e conoscere il vero gusto del dolore e del odio. Poiché questa è la storia della vita di Diana Ribelle Dalla Fonte, se eroe nazionale o pericolosa ed instabile criminale sta’ a voi scegliere.
Genere: Angst, Azione, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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1. Quando la vita cambia
 

22 novembre 2022 della terza era, dopo una banale mattinata a scuola, una comunissimo pomeriggio passato a casa di un mio amico con una parte della classe, mentre consumavamo uno dei piatti più comuni in casa, una zuppa. I miei genitori sganciarono la bomba. “Diana.” Alzai lo sguardo per un istante. “Sì papà?” Chiesi disinteressata continuando a guardare il mio piatto. “Io e Lisa abbiamo deciso.” Non riuscivo a immaginare cosa avevano deciso la mamma e papà, ma non riuscii a formulare la domanda poiché fu mia madre a darmi la risposta. “Accettiamo il lavoro in città. Ci trasferiremo dopo la fine del primo quadrimestre.” Disse pacata mia madre con un’indifferenza innaturale. “Cosa!?!” Urlai incredula lasciando cadere il cucchiaio nel piatto. “No…” Per un’istante sentii il vuoto. Io, lasciare la mia città, i miei amici, la mia scuola, la mia casa-caserma, la mia vita, i miei progetti: impensabile. La collera riempì ben presto quel senso di vuoto facendomi esplodere. “No! Io non mi trasferisco né ora né mai!” Urlai con tutto il fiato che avevo in gola sbattendo i palmi delle mani sul tavolo e alzandomi con uno scatto; persino Michele, il nostro tuttofare-maggiordomo, rimasto saggiamente in disparte, si scompose nel sentire le mie urla. “Bada a come parli ragazzina quando andrai all’università potrai fare ciò che vuoi, ma fintanto che vivrai qui, o dipenderai da noi, resterai sotto le nostre regole e farai ciò che diciamo!” Decretò mio padre furibondo alzandosi da tavola a sua volta. Ci scambiammo uno sguardo carico d’ira: i miei occhi verdi contro i suoi occhi marroni. Una parte di me urlava e strepitava per togliere quell’aria di superiorità a mio padre con un gancio ben assestato, l’altra invece stava già razionalizzando la cosa: erano anni che volevano trasferirsi, lo sapevo che sarebbe successo, ma contemporaneamente non arrivava mai la promozione, mi ero convinta che si sarebbero arresi e invece, a quanto pareva, la loro occasione era arrivata. Mi limitai ad arretrare e a distogliere lo sguardo, sapevo di non avere voce in capitolo. “Non ho più fame. Con permesso.” Corsi in cantina, dove c’era la stanza degli allenamenti disponibile per la nostra famiglia assieme ad altre tre, una palestra piena di pesi, attrezzi vari e una decina di sacchi. Mi infilai i guanti rinforzati con scatti d’ira, litigando un paio di volte con la chiusura a strappo, usando i denti per stringerli a dovere. Non riuscivo a ragionare, ero frustrata e arrabbiata, non solo per il trasferimento, ma anche perché i miei genitori non avevano voluto parlarne con me prima di prendere una decisione definitiva, neanche avvisarmi di una concreta possibilità. Avrei voluto sfogarmi direttamente su di loro, ma ero abbastanza intelligente da sapere che non avrei cambiato nulla lamentandomi come una bambina. Così avevo ripiegato sul prendere a pugni dei sacchi che era sempre stato il piano di riserva per sfogare la rabbia, che era pur sempre tanta, troppa per un corpo solo. Iniziai a picchiare a morte uno dei sacchi in cuoio che fungevano da vittime per le mie sfuriate. Non badai né alla tecnica ne alla velocità, colpivo a testa bassa quel vecchio sacco logoro e nel frattempo farneticavo discorsi privi di una vera connessione logica, maledicendo i miei genitori, la S.C.A. e qualsiasi cosa mi venisse in mente. Maledicevo ogni più piccolo dettaglio del trasferimento e nel frattempo colpivo con una forza sempre maggiore per non sentire le mie parole, poiché sapevo che, in qualunque caso, si trattava di discorsi vani: non potevo smuovere i miei genitori o far cambiare loro idea. Avrei voluto che avessero sentito e capito quelle parole confuse, comprendere quanto fossi dannatamente arrabbiata, e non solo per il trasferimento, ma per tutta una lunga serie di questioni che mi rodevano dentro. In quegli anni avevo un fuoco che si accendeva per nulla e si manifestava in rabbia e frustrazione accecandomi la vista e la ragione.

Ad un certo punto ruppi il sacco, non era stato un colpo tanto potente a mio avviso, ma so che fu l’ultimo quel giorno. Avevo le mani doloranti da quanto forte e insistentemente avevo colpito quel attrezzo, ero sudata e affiatata, le energie che avevo conservato mi furono appena sufficienti per trascinarmi in bagno e buttarmi nella vasca. Avevo le nocche sbucciate e le mani si erano gonfiate, il giorno dopo avrei fatto fatica a scrivere e avrei dovuto mettere il ghiaccio e fasciarle a dovere, ma non era importante, la rabbia era in gran parte scemata, o almeno non sentivo più il bisogno di uccidere le due persone nella stanza da letto accanto. Ora c’era un’estrema lucidità, e grazie a questa potei convincermi che, per quanto fossi profondamente e irrevocabilmente contraria, tra almeno un paio d’anni sarei andata via di casa comunque: per diventare un avvocato o un giudice Lovaris non era il posto migliore dato che l’università più vicina era a tre ore di corriera, aveva un livello d’istruzione mediocre e tra le facoltà proposte non c’era quella che mi serviva. Uscii dalla sala da bagno con i capelli ancora fradici, entrai in stanza e sbattei la porta il più rumorosamente possibile, per ricordare ai miei genitori che malgrado non avrei fatto altre scenate non dovevano infastidirmi per almeno una settimana, chiusi a chiave la porta, ero proprio una ragazzina all’epoca su certe cose. Misi la musica rock a tutto volume fino a mezzanotte ora in cui la stanchezza perse il sopravvento, fu gesto parecchio infantile ma avevo solo diciassette anni e volevo farla pagare ai miei genitori. Quando spensi il giradischi mi lasciai travolgere dal silenzio, dai residui di rabbia e rifiuto così da lasciar posto alle lacrime e ai singhiozzi.

La mattina seguente tutti si accorsero che palesemente qualcosa non andava e l’interrogatorio dei miei compagni arrivò puntuale. “Molto bene capitano. Cosa succede?” Mi chiese Zafalina indicando le mie mani fasciate da cui proveniva l’odore nauseabondo della medicina. “Niente.” Mentii spudoratamente, non avevo le forze per affrontare l’argomento e poi non avrebbe cambiato nulla. A cosa sarebbe servito? Eravamo al quarto anno, presto o tardi le nostre strade si sarebbero separate, io sarei andata all’università, mi sarei laureata in giurisprudenza e, forse, sarei diventata un buon avvocato e magari tra un decennio avrei trovato un piccolo spazio per mettere su famiglia, loro d’altro canto, appena usciti da scuola, avrebbero passato l’estate a cercare un lavoro o a diventare ufficialmente dei lavoratori nella bottega di famiglia, alcuni si sarebbero sposati a breve, probabilmente una volta raggiunti i vent’anni e la maggiore età, e avrebbero sfornato qualche marmocchio. Quindi, tutta questa storia avrebbe anticipato i nostri destini di un anno e sette mesi. Per i miei genitori forse non sarebbe cambiato nulla ma per me quei pochi e preziosi mesi prima di diventare ufficialmente un’adulta erano tutto. “Bugiarda. Non serve leggerti il pensiero per sapere che c’è qualcosa di grave sotto quel Niente. E poi hai le mani sbucciate il che vuol dire che hai fatto a botte e, visto che ieri non ce le siamo suonate, ti devi essere sfogata con quei poveri sacchi di cuoio a casa tua. Avanti cosa succede?” Per un istante odiai profondamente Denin per essere così maledettamente intuitivo e non essere capace di capire quando bisogna lasciar perdere un argomento, ma tutti erano già attorno a me e mentire serviva a ben poco, così mi decisi a dire la verità: inspirai a fondo, guardai tutta la classe, che si era disposata intorno al tavolo, e parlai. “Io e la mia famiglia ci trasferiamo in città a gennaio prima dell’inizio del penta maestre.” Nessuno reagì per un intero minuto ma quando ci alzammo per andare a lezione tutti esplosero con pareri e commenti. Tuttavia non li ascoltai: rimasi passiva a quelle critiche. Mi sentivo più leggera per aver detto la verità ma contemporaneamente sentivo che le lacrime stavano per uscire. Le scacciai scuotendo la testa e mi focalizzai sulle successive ore che passarono in fretta, arrivando in fretta alla quinta ora con Religione.

“Buongiorno ragazzi!” Ci salutò la professoressa Bevi L’Acqua con il suo solito sorriso, ma le bastò uno sguardo per capire che qualcosa non andava. “Che cosa sono quella facce da funerale?” Nessuno rispose. “Ragazzi… se non mi dite che succede come posso aiutarvi?” Ci scambiammo uno sguardo d’intesa generale e Andrea rispose per tutti. “Diana alla fine del semestre si trasferirà in città.” “Oh.” Passarono degli istanti in cui l’espressione di Bevi L’Acqua mutò da sorpresa, a triste, passò per pensierosa, fino ad arrivare a furbetta. “Allora dobbiamo fare la più grande festa d’addio della storia!” La guardai scettica: non ero in vena di festeggiare ma ero talmente depressa che riuscii solo ad abbassare lo sguardo verso la cattedra rassegnata. “Perché?” Chiesi svogliata. “Perché per te sarà un nuovo inizio. Pensaci: in questa classe nessuno potrà mai lasciare questa città a parte te.” Disse la donna allegra mentre la maledicevo per ricordarmi la verità. “Sì, ma io avrei preferito aspettare ancora un po’” Borbottai seccata sperando che non mi avesse sentita. “Mai fare domani ciò che puoi fare oggi!” Alzai gli occhi al cielo, il suo ennesimo detto, se li avessi dovuti scrivere tutti probabilmente avremmo ricoperto l’intera area vivibile del pianeta. Mi guardai attorno tutti erano speranzosi ed eccitati all’idea e, dato che l’ultima cosa che volevo era dar loro un dispiacere, cedetti. “Allora facciamolo.” Decretai il più svogliatamente possibile, vi fu un urlo di esultazione generale. Subito si misero a fare progetti e ipotesi su come e dove attuarlo. Optammo per il 22 o il 23 dicembre al Fauno, avremmo ordinato trenta nove tortine di riso, le mie preferite, come torta d’addio, e quarantotto al cioccolato, le seconde mie preferite ma molto più popolari, come seconda torta d’addio, poi tramezzini, pizzette e bevande a volontà. Alla fine dell’ora successiva dovetti costringere la squadra a suon di minacce ad andare agli allenamenti tanto erano presi dal organizzare la festa. Negli spogliatoi Zafalina mi interrogò su dove sarei andata e gli risposi di non saperlo, ero troppo arrabbiata per badare a certi dettagli la sera precedente.

Lo sport che praticavo si chiama Arena, come il luogo in cui i gladiatori andavano a combattere per ottenere la gloria nella prima era e in parte nella seconda. Siccome non è più tanto praticato come quando ero giovane farò un sunto per non lo sapesse di cosa io stia parlando. Ci sono due squadre avversarie che si sfidano il cui obbiettivo è quello di sconfiggere tutti i componenti della squadra avversaria, una specie di battaglia simulata. Quest’ultime sono composte dai nove agli undici componenti con totale libertà di uso delle armi e degli stili di combattimento. L’unica cosa che li contraddistingue dai giochi originali è la proibizione di infliggere danni mortali o comunque altamente lesivi, ovviamente non era permesso usare attacchi magici visto dato che questa è stata bandita al inizi del millequattrocento della terza Era con la presa della città elfica da parte degli uomini. L’equipaggiamento era piuttosto costoso, ma mio padre da giovane faceva parte della squadra della sua università quindi ci forniva sempre dei nuovi equipaggiamenti sia per me che per i miei compagni. All’epoca era costituito da una tuta che ricordava una corazza, un casco e un arma a scelta tra: spada, lancia, pugnale, arco, coltelli da tiro, tridente o rete, ovviamente nessuna di queste era affilata ed erano fatte per lo più in legno. Per il resto il gioco si basava su tattica, forza, velocità, agilità, un duro allenamento e simulazioni con i fantocci e altre squadre. L’allenamento lo regolavamo noi ragazzi ed era diviso in tre fasi: il riscaldamento, dove facevamo esercizi di fiato e resistenza per lo più, l’allenamento vero e proprio, in cui ci esercitiamo a livello tecnico e strategico, ed infine l’esercitazione, dove simuliamo una battaglia con un’altra classe.

Cercai di distrarmi con la fatica durante l’allenamento, ma non funzionò, così rimasi con quella malinconia che mi accompagnava dal mattino. A fine allenamento avrei dovuto incoraggiarli, ma le uniche parole che riuscivo a formulare erano di rabbia, per tanto lascia questo compito al vice-capitano Oreon uno dei miei più cari amici nel gruppo. Avevo detto che dovevo schiarirmi le idei e di restare da sola per un po’, lui capì che intendevo l’intero pomeriggio, mi fece solo un cenno d’assenso con la testa e andò a parlare ai ragazzi. A quel punto mi cambiai velocemente in spogliatoio, uscii da scuola e mi feci una corsa fin fuori città, superai i campi a est e raggiunsi il mio rifugio preferito al limite dei monti in un bosco. Ci andavo spesso ma la sua collocazione era segreta a tutti, anche a Zafalina che era la mia amica più cara. Lì, in un certo senso, vi era la mia vita: la casetta di rami per i giorni piovosi, il mio diario, che tenevo da quando avevo sei anni, nascosto nel albero cavo, con tanto di gomma, matita e temperino, e la gomma di un camion bucata che un tempo usavo come altalena. Contemplai quel posto per un po’ incredula al idea che stavo per lasciarlo. Andai in un vecchio albero e da una radice tirai fuori la vecchia cassetta di latta rossa e gialla in cui avevo nascosto il mio diario, forse avrei dovuto portare via almeno quello, stavo per andare via ma qualcosa mi bloccò, incominciai a scrivere e a riflettere. Scrissi molto a lungo lasciando che i pensieri fluissero razionali, finalmente. Non scrissi molto, appena tre pagine, ma in quel momento mi resi conto che mancavano solo due pagine alla fine del diario. Rimasi scioccata: non tenevo regolarmente quel diario, ci scrivevo solo ogni tanto quando avevo qualcosa che stava diventando insopportabile da tenere dentro e che non faceva altro che alimentare la mia rabbia restando lì. Oppure ci scrivevo qualche evento felice come quella volta che ero andata a teatro a vedere La bambina e il fauno oppure quando avevo dato il mio primo bacio, della mia prima volta, ma per il resto non c’era niente, alle volte non lo toccavo per quasi un anno, per questo ero così scioccata. Forse era segno che un capitolo della mia vita stava per concludersi, che questi mesi sarebbero stati gli ultimi così. Trassi un profondo respiro e lasciai che la foresta mi avvolgesse: i suoi odori, rumori, sensazioni, colori e sapori, la pace, finalmente. Guardai verso il sole, non ero mai stata una persona particolarmente religiosa, né lo era mai stata la mia famiglia, ma ci trovavo qualcosa di affascinante nel idea che il Sole e la Luna fossero due amanti che si prendevano cura dei figli della loro figlia prediletta, Akki, la nostra terra, e veglino sui suoi abitanti. Così lo guardai negli occhi in cerca di una risposta, che ovviamente non ottenni, ritrassi lo sguardo quando gli occhi iniziarono a lacrimare. Rimasi lì finché non vidi che il sole iniziava a calare costringendomi di tornare alla realtà e ricordandomi che dovevo tornare a casa.

Non parlai con i miei per un’intera settimana ma loro non cambiarono idea, non che mi fossi illusa di riuscirci, anzi me lo ricordavano dicendomi di iniziare a preparare le valige per andare a Meddelhok, la nostra nuova casa e parlavano spesso dei vantaggi che avremmo ottenuto e di molte altre cose. Tuttavia erano solo loro a parlare, io restavo lì immobile a mescolare e rimescolare il piatto concentrata, quasi come se aspettassi che la minestra si trasformasse in dolce da un istante all’altro. Avrei voluto gridare loro in faccia che non intendevo andare con loro per nessun motivo al mondo. Mi ripetevo che qualunque cosa sarebbe stato fiato sprecato dato che quando decidevano qualcosa nessuno poteva fermarli, lo sapevo fin troppo bene, avevo preso da loro.

Inevitabilmente i giorni precedenti alla partenza si assottigliarono e, di conseguenza, arrivò il giorno della festa in mio onore. Come promesso vennero tutti. Avrei voluto che quella serata non finisse mai. Riesco a ricordarla per filo e per segno. Eravamo vestiti appena più eleganti del solito, il cibo, sistemato sui vari tavoli spostati alle pareti per l’occasione, era squisito, Fil si era veramente superato. Avevo appena finito di ammirare le bellissime luci colorate di blu che erano state attaccate al soffitto che tutti si catapultarono verso di me per porgermi un regalo ben impacchettato. “Aprilo! Ora! Niente complimenti!” Si impose Zafalina ponendolo a due centimetri dal mio naso, sospirai e strappai la carta floreale che avevano adoperato rivelando un foulard molto lungo, rosso acceso, la stoffa era spessa, resistente, fresca, morbida e lasciava un buon odore di cotone. “Una foulard?” Domandai sorpresa: non avevo mai indossato sciarpe in vita mia, neanche quando nevicava, tanto meno foulard. “Beh! Accontentati! Questo siamo riusciti a trovare. Almeno così ti vestirai con un po’ più di femminilità.” Disse Kallis notando il mio disappunto. “Ve l’avevo detto ragazze, era meglio regalarle un bracciale in cuoio.” Continuò Lukas divertito dal espressione seccata di Kallis. “Tu sta zitto, che ci devi ancora la percentuale!” Lo riprese Kallis. “Ehi, ehi!” Li richiamai mentre continuavo a ridacchiare. “Facciamo così, la utilizzerò tutte le volte che non mi vorrò far riconoscere quando andrò alle manifestazioni.” Promisi loro, e a ripensare a quello che è successo dopo quella promessa così sciocca e innocente sarebbe stata mantenuta forse anche un po’ troppo bene. “Vedi solo di non farti arrestare, sennò rischi di perderla.” Mi avvisò Gahan dandomi una gomitata al ginocchio facendomi perdere l’equilibrio per un istante, abbassai lo sguardo maledicendolo: capivo che essendo un nano non poteva arrivare al braccio, ma quanto meno avrebbe potuto colpirmi alla coscia. “Incredibile, vi preoccupate della sciarpa e non all’idea vostra povera compagna d’avventure sola in una cella?” Domandai facendo la melodrammatica. “No, tanto sei raccomandata.” Mi derise Andrea che venne mandato a quel paese dalla sottoscritta.

Ci abbuffammo un po’ i primi minuti poi iniziammo a ballare sotto le note della buon vecchia musica da ballo, l’unica disponibile nel locale, avrei potuto portare il mio giradischi con la mia piccola collezione di musica rock, ma credevo che al giovedì sera alla radio trasmettessero anche qualcosa di un po’ più originale delle canzoni dei miei genitori e dei miei nonni. Tutti pretesero un ballo con me, e spesso fecero il bis ma anche un tris, mi stavano attorno come se fossi un faro in un mare in tempesta, e non sto esagerando, ad un certo punto mi nascosi in bagno per rinfrescarmi un po’ e riprendermi dalla troppa folla e quando uscii mi ritrovai Nami lì ad aspettarmi. “Nami!” Iniziai a metà tra il sorpreso e l’esasperato. “Insomma! Non posso più neppure andare in bagno da sola per dieci minuti? È tutta la sera che mi stai attaccata come una patella!” Fui un po’ dura in effetti, ma Nami non si infastidì, mi fissò con quel suo sguardo innocente e ingenuo, e con semplicità mi rispose. “Non si fa mai abbastanza per un’amica.” Sorrisi, nella sua semplicità, aveva, come sempre, ragione. Nami la predavamo spesso in giro per rappresentare lo stereotipo della sirena: all’apparenza sciocca ma in realtà più profonda di quanto si possa immaginare. Tornata in pista le concessi un ballo che si concluse con un casquè e mi posizionai a due centimetri dal suo volto. “Me lo daresti un bacio?” Le chiesi guardandola con fare seducente, lei in risposta mi mise una mano davanti alla bocca e si voltò diventando rossa come un pomodoro. “Cito testualmente: non si fa mai abbastanza per un’amica.” Dissi avvicinandomi ancora cercando di trattenere una risata. “Sei un’approfittatrice.” Disse Nami mentre subiva il mio clamoroso bacetto sulla guancia.
La serata finì.

Mi svegliai per l’ultima volta col rumore delle sirene che indicavano l’inizio della giornata. Le valigie erano già state caricate tutte nel camion eccetto una, quella piccola e rossa col minimo indispensabile per il viaggio e qualche vestito di ricambio. Mangia per l’ultima volta nella sala da pranzo, senza il tavolo e con l’unica tazza rimasta. Andai in giro per quella casa quasi del tutto svuotata e mi ritrovai a pensare a tutti quegli anni passati lì dentro. Ricordo come mi apparve piccola e priva di identità senza più tutti quei mobili, foto e dipinti. Ascoltai un’ultima volta gli agenti che si allenavano là fuori: i passi rapidi e ritmati, l’eco lontano degli spari provenienti dal pentagono, le urla degli allenatori che incitavano le reclute e le canzoni patriottiche di alcune matricole. Era assurdo, avevo sempre odiato vivere nella caserma ma ora mentre fissavo fuori dalla finestra non potevo fare a meno di pensare che tutto ciò mi sarebbe mancato. “Signorina Diana stanno tutti aspettando lei.” “Sì, grazie Michele di loro che sto arrivando.” Il maggiordomo chinò leggermente il capo stava per uscire. “Michele!” Lo richiamai. “Sì, signorina?” “Ti volevo soltanto chiedere se…” Mi imbarazzava chiedere una cosa così stupida adesso, oramai erano quasi una donna eppure avevo bisogno di sentirmi ancora bambina, anche solo per un’istante. “Se mi può dare un ultimo abbraccio.” Chiesi a testa bassa, mi si avvicinò e mi strinse forte forte proprio come un tempo. Lo faceva sempre quando ero piccola e si prendeva cura di me al posto dei miei genitori quando la nonna non poteva ma dopo la sua morte avevamo smesso di dimostrarci affetto, forse perché associavo il tempo passato con lui a quello con la nonna. “Grazie di tutto.” Gli sussurrai ad un orecchio mentre ricambiavo con forza a quel abbraccio. “È stato un grande onore lavorare per te Diana.” Afferrò la mia valigia e si diresse verso l’auto cercando di incrociare lo sguardo e non potei non notare le lacrime sul suo viso. Intanto nel mio volto si era formato un sorriso pieno di gioia e tristezza, uno di quelli che si hanno quando si vice dopo un ardua battaglia: era la prima volta che mi dava del tu dopo anni che glielo chiedevo. All’uscita diedi gli ultimi saluti ai miei amici e ai loro genitori alcuni stavano piangendo come delle fontane, come Nami, Kallis, Lillà e Denin, che erano in preda alla più totale disperazione, altri erano sul punto di farlo, come Andrea, Tehor, Oreon, Lukas e Salomon, sono io, Zafalina e Gahan ci stavamo sforzando per mantenere il sorriso o quanto meno apparire rilassati. Ma fallimmo tutti miseramente poiché io ressi appena tre saluti e quanto fu il turno di ogni uno dei miei compagni almeno una lacrimuccia sfuggì, invece i genitori e i fratelli dei miei amici cercarono di consolarci ma anche loro erano provati visto che era da quando andavamo al nido che andavo ai compleanni e feste dei loro figli e spesso e volentieri ero stata ospite nelle lunghe giornate estive. Ci impiegai il maggior tempo possibile a salutare ogni uno e spesso dovetti asciugare le lacrime dei miei compagni e loro asciugare le mie. Sollevai di peso tutti i miei compagni e li strinsi forte, persino Gahan si lasciò sollevare malgrado una piccola protesta iniziale. L’unico che non riuscii a smuovere fu Oreon, e in effetti non mi sarei neanche dovuta illudere: un centauro di due metri e dieci e chissà quanti chilogrammi contro un umana di metro e settantaquattro per sessantacinque chili, era una battaglia persa in partenza. Ma fu lui a sollevarmi e stritolarmi. Una volta finita la dolente processione salii in macchina e partimmo. Mi voltai subito per guardare i miei amici salutarmi fin quando l’automobile non girò l’angolo. Mi ero ripromessa di non piangere troppo davanti ai miei genitori ma ciò non impedì alle lacrime di uscire copiose alla stessa velocità di un fiume in piena. Misi su la radio che mi ero portata appresso e, prima che i miei iniziassero qualche discorso consolatori, mi sintonizzai con il primo canale musicale che trovai e alzai al massimo.

Viaggiammo per quasi due giorni e durante quel lungo viaggio nelle ampie autostrade vuote mio padre mi lasciò guidare più volte malgrado non avessi ancora la patente e tecnicamente non avrei potuto guidare ai novanta all’ora, che all’epoca era considerata alta velocità, però in autostrada passava solo qualche sporadico camion. Durante quel viaggio non ci furono discorsi, solo musica, cibo in scatola, pause rinfrescanti nei campi di grano e un cambio ogni tre o quattro ore. Alla fine di quei due giorni arrivammo al Ponte sospeso il vecchio ponte costruito dai centauri durante la seconda era che permetteva l’accesso a Meddelhock da sud-est, passando sopra lo strapiombo. Ancora mi domando come diamine avessero fatto a costruirlo. Guardai la capitale economica della nostra repubblica: aveva numerosi grattacieli nella zona nord ovest che spiccavano al orizzonte già da prima di arrivare a quel ponte di oltre sei chilometri e mezzo. Mentre, un po’ più nel cuore storico svettava il palazzo di giustizia, una struttura in marmo con il tetto in rame, oramai verde. Mentre mano a mano che mi avvicinavo riuscivo a vedere il mercato nuovo, che in realtà sarebbe il mercato più vecchio della città, dove le piccole case e negozi dagli innumerevoli colori corniciavano bancarelle con ogni sorta di oggetto. “Dovremmo venirci un giorno, non credi, Diana?” Mi domandò mia madre. “Sì, con un giubbetto anti proiettile.” Disse mio padre adocchiando ogni Altro nella strada, ovvero ogni singolo passante. “Klaus!” Lo riprese mia madre. “Amore, lo sai che se si sbaglia quartiere questi ti sparano. Non siamo più a Lovaris.” Guardai mia madre e mio padre riprendere a bisticciare, ma li ignorai: ero troppo stanca per instaurare un discorso, il viaggio mi aveva risucchiato tutte le energie. L’unica cosa che pensai mentre guardavo quelle casucce fu che adesso ero nel cuore della pianura occidentale, la città nel mezzo, Meddelhock.
   
 
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