Sabato arrivò più in fretta di quanto avessi sperato.
Se, per tutta la settimana, avevo creduto che i giorni stessero trascorrendo
troppo lentamente, quella mattina arrivai alla conclusione che non era così e
che avevo bisogno di altro tempo per prepararmi, quanto meno psicologicamente,
all’appuntamento.
Mentre ero ancora affannata a rovistare nel mio armadio, al
culmine della disperazione, sentii due colpi alla porta.
«Totta!» ululò la
voce di mio fratello Alessandro da fuori. «Sono le cinque meno un quarto!
Sbrigati! Cacciati addosso la prima cosa che ti passa tra le mani e corri via,
altrimenti arriverai in un ritardo mostruoso.»
«Sono pronta!» mentii
afferrando la prima maglietta che mi capitò tra le mani. «Sto arrivando.»
Mi
vestii in fretta, senza nemmeno fare caso a ciò che stavo indossando,
consapevole che mio fratello aveva ragione. Gabriele ed io avremmo dovuto
incontrarci alle cinque e un quarto in centro e ci avrei messo almeno quaranta
minuti per arrivare lì.
Uscii dalla mia stanza di corsa, lasciando che la
porta sbattesse alle mie spalle. Mi precipitai in garage agguantando al volo il
giubbetto che avevo lasciato sull’attaccapanni, decisa a fare più presto
possibile, ma quando vi arrivai mi fermai all’improvviso.
Era lì, davanti a
me.
Il mio fedele motorino. Mirko l’aveva recuperato il giorno dopo
l’incidente. Lo osservai per qualche istante.
Non aveva riportato grandi
danni: a parte una lunga rigatura sulla scocca azzurra era in perfette
condizioni. Mi tornò in mente il giorno in cui l’avevo portato dal mio amico
Marco perché lo dipingesse. Quando gli avevo spiegato di volere delle coccinelle
sullo sfondo azzurro mi aveva fissato con un misto di incredulità e compassione
sul volto e aveva accettato solo dopo che gli avevo promesso che non avrei
raccontato in giro che aveva accettato una simile richiesta.
Quanto ero
affezionata a quella moto! L’idea di lasciarla ad arrugginire in garage mi
tormentava, eppure ero terrorizzata all’idea di guidarla di nuovo. Se chiudevo
gli occhi vedevo ancora Gioele che spariva sotto alla carrozzeria, il suo volto
insanguinato, confuso… E se fosse successo di nuovo? Se avessi di nuovo perso il
controllo, se non fossi riuscita a rimanere in carreggiata? Sarebbe potuto
scoppiare un altro acquazzone…
Alla fine mi risolsi di prendere l’autobus.
Sarei arrivata in ritardo e avrei congelato durante l’attesa alla fermata, ma
non me la sentivo di mettermi di nuovo alla guida.
Feci per voltarmi e uscire
dal garage quando sentii una mano che si poggiava sulla mia spalla.
«Dovresti
davvero prendere la moto.» Commentò Mirko con un sorriso. Non mi diede il tempo
di spiegargli le mie motivazioni e continuò: «E’ il modo migliore. Se non
ricominci subito, finirai per averne paura tutta la vita. Non capita tutti i
giorni di investire qualcuno, sai? E poi, non hai detto che non si è fatto
nulla?»
«Nulla di grave.» Lo corressi. «E’ a scuola con me. L’ho
visto due giorni fa. Ha un livido su tutta la faccia e un taglio spaventoso
sulla fronte.»
«Avrebbe potuto essere una tragedia. Invece non è successo
niente di così straordinario. Ascolta me, d’accordo? Sali su quel motorino e vai
all’appuntamento. Oggi è limpido, non si metterà a piovere
all’improvviso.»
«Non me la sento.»
«Non pensare a quello che è successo!»
esclamò allora lui, severo. «Vuoi vivere nel terrore di fare
del male a qualcuno per il resto dei tuoi giorni? Sali su quel motorino e fila
all’appuntamento, sei già in ritardo e se non ti vede arrivare il tuo amichetto
se ne andrà, vedrai se non ho ragione. Corri!»
Seguii il suo consiglio,
riluttante.
Trascinai lentamente il motorino fuori dal garage e lo accesi.
Quando salii sentii che mi tremavano le mani, ma appena diedi gas la sensazione
cambiò.
Mi sembrava che l’incidente non fosse mai accaduto. Ero di nuovo
sulla strada, più attenta che mai, ma comunque padrona di me stessa e del mio
mezzo.
Mi presi la libertà di accelerare un poco in mezzo alla carreggiata
pressoché deserta, consapevole di essere già in ritardo.
Arrivai in centro un
quarto d’ora dopo l’orario stabilito, scesi dal motorino con un salto e mi
sfilai il casco guardandomi intorno alla disperata ricerca di Gabriele.
E se
si fosse stancato di aspettare, se avesse deciso di andarsene? Non avrei certo
potuto dargli torto; non era stato carino, da parte mia, arrivare con un tale,
mostruoso ritardo.
«Totta!» esclamò all’improvviso una voce maschile dietro
di me. Mi voltai con un’espressione colpevole e un sospiro di
sollievo.
«Scusa.» dissi in fretta, imbarazzata.
«Credevo avessi deciso
di darmi buca!» rise Gabriele avvicinandosi a me e scoccandomi un bacio sulla
guancia. Arrossi e sentii lo stomaco contrarsi violentemente a quell’improvviso
contatto fisico che non mi aspettavo e a cui non ero preparata.
«C’ho messo
più tempo del previsto per prepararmi.» confessai con il volto ancora in fiamme.
Lui mi lanciò un’occhiata divertita e mi passò un braccio attorno alle spalle,
spavaldo.
«L’avevo immaginato.» commentò, allegro. «Anche mia sorella ci
mette sempre un sacco di tempo quando deve uscire con qualcuno. Devo quindi
dedurre che hai passato il pomeriggio immersa tra i vestiti, in cerca di
qualcosa di adatto?»
«Ci sei andato vicino.» risposi ridendo. A dire la
verità ci aveva proprio azzeccato. Aveva solo dimenticato di citare i miei
innumerevoli tentativi di truccarmi e la decisione finale di lasciare perdere, e
le scarpe che, in un impeto di rabbia, avevo gettato dalla finestra. Le
maledette erano finite nell’unica pozzanghera rimasta nel giardino di casa,
costringendomi così a recuperarle dal fango, a gettarle in lavatrice e ad
asciugarle con il phon, ormai in preda a una terribile crisi isterica.
«Beh,
sei molto carina.» si complimentò, compiaciuto, e io avvampai. In realtà
sospettavo che lo dicesse per farmi un piacere; i miei abiti non avevano niente
di speciale, dato che li avevo indossati il giorno prima per la scuola, avevo il
volto arrossato per il vento che mi aveva colpito la faccia mentre andavo in
motorino e i capelli arruffati dal casco.
A pensarci bene, riflettei, il mio
aspetto doveva dare l’impressione che fossi una povera disperata. Nonostante
questo, però, non potei impedirmi di rallegrarmi per il complimento.
Una
folata improvvisa di vento mi fece rabbrividire. Il viaggio in moto aveva
contribuito a congelarmi più di quanto non fossi alla partenza, e l’aria umida
di quella giornata grigia mi si attaccava alla pelle, facendomi tremare.
«Allora…» esordii. «Ti andrebbe di andare a bere qualcosa di caldo?»
proposi, sperando che accettasse.
«Qualcosa di caldo?» ripeté lui, stranito,
come se lo avessi appena distratto da chissà quali pensieri.
«Sì.» annuii.
«Qualcosa di caldo. Molto caldo.»
Mi fissò per un attimo,
pensieroso, poi scoppiò a ridere.
«Ma certo!» acconsentì. «Non vorrei
davvero che tu congelassi qui.»
«Fa freddo e sono venuta in moto.» mi difesi,
imbarazzata. A sentire parlare lui mi parve che la mia fosse una richiesta
assurda.
«Conosco un posto molto carino vicino alla piazza.» m’informò. «Ti
andrebbe di andare lì? E’ tranquillo, non rischiamo di incontrare nessuno di
indesiderato.»
Il suo tono era leggero e spensierato, ma avevo il forte
sospetto che temesse l’intrusione da parte di qualcuno dei suoi amici, o, peggio
ancora, di uno dei suoi tanti fratelli.
«Sei pedinato?» domandai, fingendomi
seria.
«Sembra di sì.» si interruppe un istante mentre camminavamo
lentamente verso la piazza, mi rivolse un sorriso sardonico che gli conferiva
un’aria assolutamente irresistibile e aggiunse: «Ma anche tu lo sei, perciò stai
attenta. Credo di aver visto la tua amica con i capelli rossi poco fa. Passava
per caso, o almeno questo è quello che dava l’impressione di fare, ma credo che
oggi nessuno dei nostri amici sia da queste parti per
caso.»
L’informazione mi irritò, ma dentro di me avevo sempre saputo che
Ines non si sarebbe lasciata sfuggire l’occasione per seguire un pettegolezzo
così succulento. Erano anni che cercavo di attirare l’attenzione di Gabriele, in
qualche modo, e quando alla fine ero riuscita nel mio intento non avevo
resistito all’impulso di raccontarlo alle mie amiche, anche se sapevo che ciò
avrebbe significato una perdita immediata della privacy.
E anche in quel
momento, mentre camminavo accanto a lui con la sensazione di viaggiare tra le
nuvole, mentre ancora mi teneva stretta a sé, non riuscivo a credere di essere
davvero a un appuntamento con Gabriele.
Era stato lui a prendere l’iniziativa
e lo aveva fatto in modo del tutto inaspettato. Fino a pochi
mesi prima l’avevo conosciuto solo di vista, attraverso suo fratello Sandro, che
era in classe con me, e avevo avuto occasione di parlare con lui solo poche
volte, e mai per più di una decina di minuti.
E poi, durante un caldo
pomeriggio di giugno, mentre ero sola in casa, aveva squillato il telefono.
Ricordavo che il cuore mi aveva saltato un battito quando avevo riconosciuto,
all’altro capo della cornetta, la voce melodiosa di Gabriele, che aveva asserito
d’aver sbagliato numero e aveva iniziato a chiacchierare con me con una scusa.
Quando avevo riagganciato avevo immaginato che fosse stato tutto un
meraviglioso, irrealizzabile sogno, ma il giorno dopo il telefono aveva
squillato di nuovo e a salutarmi era stata di nuovo la sua voce.
E quella
consuetudine era durata fino all’inizio della scuola, quando l’avevo trovato ad
attendermi all’uscita dalle lezioni. Mi aveva accompagnata a casa, chiedendomi
di raccontargli di me, cercando di sapere tutto il possibile su ciò che amavo e
ciò che, invece, non sopportavo.
E soltanto due settimane prima, quando,
com’era ormai d’abitudine, era venuto a prendermi alla fine delle lezioni, mi
aveva chiesto di uscire con lui, un pomeriggio, per quello che aveva
scherzosamente definito un primo appuntamento.
«Eccoci qui!» esclamò
allegro Gabriele quando giungemmo davanti a un piccolo bar quasi invisibile
dalla strada.
Capii immediatamente perché mi avesse portato lì. Di sicuro né
Ines né qualcuno dei suoi amici avrebbe mai pensato di cercarci in un posto
simile.
L’ambiente era piccolo e caldo, con le pareti colorate di chiaro e il
pavimento di legno tirato a lucido. Dietro al bancone un anziano barista si
affaccendava attorno a tazzine e bicchieri con il volto arrossato per il caldo e
la fatica. Quando ci vide entrare ci rivolse un sorriso raggiante e ci salutò
con un cenno del capo.
«Buongiorno!» esclamò. Eravamo gli unici clienti,
perciò ci dedicò tutta la sua attenzione. «Cosa vi posso portare?»
«Per me un
caffè.»
Gabriele sollevò un attimo la testa per guardare il soffitto.
Appariva quanto mai concentrato, come se la scelta fosse troppo difficile per
lui.
«Un cappuccino.» decise alla fine. Mi circondò le spalle con il braccio,
mi scoccò un bacio sulla fronte e mi condusse verso il tavolino più isolato del
locale.
Il barista arrivò dopo pochissimo con le nostre ordinazioni e subito
dopo si ritirò dietro al bancone, concedendoci un po’ di privacy.
«Allora.»
esordii Gabriele con un sorriso splendente che mi fece attorcigliare
piacevolmente lo stomaco. «Ho sentito dire in giro che hai lasciato la squadra
di pallavolo. Non sarà mica vero? Sei brava, ti ho vista giocare.»
«Neanche
la metà di quanto sarebbe necessario.» mi schernii, ma sorrisi compiaciuta dal
complimento. «Comunque, alla fine ho dovuto smettere. Rischiavo di essere
bocciata l’anno scorso, quindi ho dovuto scegliere…» Mi sentii assalire da
un’ondata di nostalgia, perciò mi sforzai di sorridere e proseguii: «D’altra
parte, se non avessi smesso in questo momento sarei a una partita e non certo in
un bar insieme a te.»
Scoppiò a ridere, mi guardò e ammiccò.
«Allora forse
è meglio se hai lasciato perdere!» concluse allegramente. «Anche se immagino che
non sia stato facile, per niente. Ma sai com’è… ci saranno altre occasioni,
suppongo.»
«Forse.» scrollai le spalle. «O magari no. Ma non sono qui per
deprimermi. Perciò parliamo d’altro, ok?»
«Hai ragione.» approvò.
Per
qualche lunghissimo istante calò un velo di silenzio imbarazzato.
«Dunque…»
disse dopo un po’ lui, un sorrisetto ironico stampato sul volto abbronzato, gli
occhi neri che rilucevano di curiosità. «Vediamo se sei una ragazza seria come
sembri…»
Scoppiai a ridere e rischiai di soffocarmi con il mio
caffè.
«Seria?» ripetei. «Credo che tu sia uscito con la Carlotta
sbagliata!»
«Bè, a vederti lo sembreresti.» si difese lui senza smettere di
sorridere. «Sei brava a scuola?»
Inarcai le sopracciglia,
divertita.
«C’eri poco fa, quando ti ho detto che rischiavo di essere
bocciata?»
«Certamente.» poggiò il gomito sul tavolo e mi fissò con apparente
serietà, agitando il dito davanti al mio volto. «Quando hai detto che l’anno
scorso rischiavi di essere bocciata. Ma io parlo di quest’anno.»
«Ok, è
vero.» ammisi. «Comunque, sono riuscita a migliorare un po’. Anche se, come i
professori non fanno che ricordarmi, potrei fare molto di più.»
pronunciai le ultime parole imitando la voce della mia insegnante di latino, che
mi ripeteva quella frase ogni volta che avevo la sfortuna di essere abbastanza
vicina da poter sentire la sua voce. «Tu, invece? Sandro dice che sei il
migliore della classe.»
«Sandro esagera.» replicò lui serio. «Sono i miei
compagni che vanno malissimo, per questo sembra che io sia un secchione. Ma non
è affatto così, credimi. E’ che quel poco che studio mi basta. E poi, sono uno a
cui piace fare altro.»
«Del tipo?» indagai, incuriosita.
«Del tipo
guardare la televisione. In quello, credimi, non mi batte nessuno. Sono campione
nazionale di zapping, che cosa credi?»
Risi. In effetti, Sandro mi aveva
accennato qualcosa riguardo al fatto che Gabriele aveva preferito abbandonare la
squadra di calcio in cui giocava perché, come sosteneva lui, il fratello era una
persona estremamente pigra, ma ero sempre piuttosto scettica riguardo a quello
che mi diceva.
«Bè, complimenti.» scherzai. «Immagino ci sia voluto un certo
impegno per guadagnarti il titolo.»
«E’ così.» mi assicurò. S’interruppe un
istante, pensieroso, poi riprese: «Ma leggo, anche. Parecchio. Sì, direi che è
uno dei miei hobby preferiti.»
Arrossi leggermente, imbarazzata. Io, in tutta
la mia vita, avevo completato sì e no quattro libri e tre di questi mi erano
stati imposti dalla mia insegnante di italiano, che sosteneva che i miei temi
sarebbero migliorati moltissimo con un po’ di lettura. Ma non ero riuscita a
resistere al potere soporifero che mi dava la carta stampata e ben presto avevo
abbandonato tutti i miei propositi di impegnarmi a leggere di più.
Quando
glielo confessai, un po’ a disagio, lui dapprima mi lanciò un’occhiata scettica,
poi, dopo qualche istante di silenzio, sorrise.
«Suppongo che non sia così
importante. Insomma, tu fai un sacco di altre cose che io odio e non ci trovo
proprio niente di male.»
Annuii, ma mi resi conto che, con quella frase, la
conversazione assumeva un tono più distaccato. L’imbarazzo che si era creato era
terribile ed entrambi ne eravamo vittime.
Mi rigirai la tazzina del caffè
ormai vuota tra le mani, in silenzio, fino a che lui non si alzò per andare a
pagare. Appena feci per prendere i soldi mi rivolse un sorriso sconvolgente e
scosse la testa.
«Ma sei matta?» mi redarguì, allegro. «Che non si venga mai
a sapere che porto fuori una ragazza e poi le faccio pagare il caffè! Per
carità, lasciami fare il cavaliere.»
«Come vuoi.» replicai rimettendo in
tasca il portafogli, felice che fosse tornato a sorridere come prima.
Uscimmo dal bar e l’aria fredda che ci investì ci fece
rabbrividire.
«Definitivamente si stava meglio dentro.» commentò lui con
leggerezza. «Ma suppongo che sia del tutto impossibile teletrasportarsi, perciò
penso che faremmo meglio a incamminarci verso il tuo povero motorino con le
coccinelle. Mi credi se ti dico che non ne ho mai visto uno simile?»
«Certo
che ti credo. L’ho fatto dipingere io da una persona che mi ha fatto promettere
che non avrei mai detto in giro quello che aveva fatto. Dice che ha contribuito
ad aumentare la mia follia.»
«Credo che abbia ragione!» esclamò Gabriele
mentre iniziavamo a incamminarci verso il parcheggio. «Sai, qualcuno pensa che
tu non stai su questa terra con la testa.»
Lo squadrai con un finto sguardo
indagatore e sussurrai con tono da cospiratore:
«Hai parlato con mia madre,
recentemente?»
«Credo che non ho mai avuto la fortuna di incontrarla. Ma
Sandro mi ha raccontato alcune storielle molto divertenti su alcune cose che hai
fatto a scuola…»
Mi sentii ghiacciare.
«Non voglio sapere che cosa ti ha
detto.» sibilai prima che potesse emettere un altro suono. «Ma sappi che lunedì
ucciderò tuo fratello, tanto per precauzione.»
«Come vuoi.» commentò con un
sorriso sghembo che mi fece per un attimo perdere la lucidità. «Ma non era
niente di così terribile. E’ vero che hai detto a un professore che avrebbe
fatto meglio a lavarsi le orecchie, se proprio non sentiva quello che gli stavi
dicendo?»
Mi sbattei una mano sulla faccia quando mi tornò in mente quella
orrenda scena. Era stata durante una giornata molto stressante che era culminata
con un litigio di classe per alcuni problemi che erano sorti durante una lezione
particolarmente noiosa, che era degenerato fino al punto in cui avevo accusato
il professore di non stare ad ascoltare ciò che avevamo da dire, fino a quando,
infuriata, gli avevo gridato quella frase che Gabriele aveva ripetuto.
Mi ero
subito resa conto della tremenda maleducazione con cui mi ero rivolta
all’insegnante e così lui, che mi aveva affibbiato un meritato due sul registro,
una nota di demerito e la convocazione dei miei genitori. Da quel giorno avevo
imparato a tenere la bocca chiusa, e speravo che nessuno mi avrebbe riportato
alla mente quello spiacevole avvenimento.
«Siamo arrivati.» constatò Gabriele
quando giungemmo davanti al mio motorino. «Direi che è stato piacevole, ma più
un incontro tra amici che un primo appuntamento.» sospirò con aria
melodrammatica e aggiunse, guardandomi di sottecchi: «Spero proprio quindi che
vorrai accettare di uscire con me ancora, in futuro, così potremo risolvere
questa terribile mancanza.»
Arrossii e annuì, sorridendo. L’idea di un
secondo appuntamento con Gabriele mi elettrizzava e così, quando mi chinai a
prendere il casco, non mi accorsi che mi si era avvicinato. Nel momento in cui
mi drizzai mi ritrovai il suo viso abbronzato a pochissimi centimetri dal mio.
Chiusi gli occhi per un istante, mentre un debole profumo di dopobarba mi
arrivava alle narici. Sentivo il suo fiato caldo sul volto e già mi stavo
perdendo in quelle piacevoli sensazioni quando sentii le sue labbra premute
sulle mie.
Riaprii gli occhi, esterrefatta, e lui mi sorrise.
«Ho pensato
che magari sarebbe stato un bel modo per concludere l’appuntamento.» spiegò
accarezzandomi la guancia.
Incapace di parlare, con il cuore che mi
rimbalzava in bocca per l’emozione, fui in grado solo di fare un cenno di
assenso con il capo.
«Ci metteremo d’accordo per uscire ancora, ok?»
aggiunse, e nuovamente annuii, senza essere capace di smettere di sorridere. «Ci
si vede!»
«Ciao.» riuscii a mormorare dopo un po’, quando lui mi aveva già
voltato le spalle e aveva già iniziato ad allontanarsi.
Mi infilai il casco
in testa, salii sul motorino, lo accesi e diedi gas.
Mentre sfrecciavo sulla
strada, piacevolmente intontita da quel bacio inaspettato, sentivo ancora le
labbra che scottavano nel punto in cui le sue le avevano toccate.
Bè, direi che ho aggiornato abbastanza in
fretta. Sono piuttosto soddisfatta di me stessa, sì.
Ci tengo a ringraziare
tantissimo tutte le persone che hanno letto, commentato o inserito la storia tra
le seguite o tra le preferite, mi fa un grandissimo piacere! Spero che questo
capitolo vi sia piaciuto.
Baci,
rolly too