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Autore: alessandroago_94    24/12/2020    9 recensioni
Alex è un giovane uomo pieno di dubbi e di voglia di mettere in carreggiata la propria vita, che spesso gli appare senza senso. È infatti vittima di un’ossessione, quella riguardante una persona idealizzata, o forse un suo stesso personaggio inventato; il fantomatico G.
Alla ricerca costante di questa persona si aggiunge una ricerca interiore, quella riguardante sé stesso.
Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, l’agente James Barley, prossimo al pensionamento, si ritrova immischiato in una vicenda quasi assurda. Immerso in una società dell’orrore dove regnano bugie e disonestà, e dove sono solo i soldi a fare la differenza tra gli esseri umani, indagherà a riguardo di una clinica privata in cui si effettuano strani e proibiti esperimenti.
Le due vicende si intrecciano, anche se non si incontrano mai definitivamente. Possibile che anche questo racconto sia tutta una grande bugia? Un Limbo, appunto. Un Limbo dei Bugiardi. Un luogo immaginario in cui regnano solo le maschere.
Genere: Azione, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo diciassette

CAPITOLO DICIASSETTE

 

 

 

 

 

 

 

“Non aspettatevi niente dai bugiardi,

perché loro non cambiano,

al massimo trovano solo

modi diversi per mentire”.

Nicola Aghilar.

 

“Uno sguardo al mondo dimostra

che l’orrore non è altro che realtà”.

Alfred Hitchcock.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi ritrovo al cospetto dell’ingresso della clinica Mary’s House, così come altre volte in precedenza. Eppure questa volta ho la certezza che nulla sarà più come prima.

Suono al campanello e ad aprire la porta viene un infermiere che non ho mai visto in precedenza. Non saluta, mi osserva in cagnesco.

Nemmeno io saluto e gli mostro direttamente il distintivo.

Lui si volge a digitare qualche parola sul tablet, poi mi fa entrare e se ne va, muto come un pesce. L’impressione che mi stiano attendendo è palpabile.

Con la porta richiusa dietro di me, avverto all’improvviso il cuore che batte all’impazzata. Non voglio ammetterlo ma ho una paura folle, è come se mi avessero messo in trappola.

Il mercenario della Stradford è in macchina che mi aspetta, sicuro che non mi torceranno un capello e che tutto filerà nel migliore dei modi, però lui è solo un detective e di queste situazioni secondo me non capisce un emerito cazzo. Il suo parere quindi non mi è di conforto, e il suo invito di alzare la voce e di fare il leone non mi aiuta.

 Questa volta non mi viene incontro un accomodante Zayne, bensì Morrow, lo psicoanalista, e anche con un’espressione piuttosto torva.

“Agente speciale Barley, non è un piacere averla di nuovo qui” va subito al punto. Il suo volto è di pietra e mi impressiona il fatto che sia proprio venuto lui ad accogliermi, il mastino della clinica. La sua cattiveria è proverbiale e la si nota a prima vista, poi dopo che ho ascoltato quella registrazione, be’, sono rimasto sconvolto. So quindi dove può arrivare un essere del genere e il batticuore non smette, anzi, aumenta.

Per qualche istante ho il nodo in gola e faccio fatica a dire qualcosa di sensato, mentre tutti i brutti pensieri possibili e immaginabili mi frullano selvaggiamente per la testa in modo caotico.

“Immaginavo” borbotto, rompendo il silenzio con una vocina fioca che mi spinge ad arrochirla, “ma un’altra visita era d’obbligo”.

“Credo che lei non si stia comportando in modo corretto. Una nostra infermiera non si è più presentata al lavoro, poiché si ritiene spaventata dalle continue indagini sul nostro conto. Queste diffamazioni sono di certo attribuibili al suo recente operato”.

E magari questa infermiera, prima di non presentarsi più, ha anche rovistato nei vostri cassetti in cerca di materiale utile per accusarvi, mi viene da pensare all’istante.

“Non penso proprio” affermo deciso a non volermi sbilanciare, proprio come sta facendo il mio interlocutore.

“Comunque non sono venuto qui per fare delle chiacchiere o una visita di cortesia, come le altre volte” e gli schiaffo sotto al naso il mandato di perquisizione.

“Molto bene, nessun problema” afferma il dottore, dopo aver letto, “nessun problema”.

“Bene” dico io, più per rassicurarmi che per altro. Il cuore ancora batte forte ed è come se mi attendessi una pugnalata da un secondo all’altro.

“Sto solo facendo il mio lavoro” gli ricordo, come a volerlo tranquillizzare. Morrow però è un pezzo di ghiaccio e non si dimostra minimamente sfiorato dalle mie parole.

“Inizi pure da dove vuole, non ha importanza. E metta già in conto che non troverà niente”.

Non replico e mi metto in azione.

Non ho mai svolto una perquisizione, se non i classici sopralluoghi dove sono avvenuti furti. So che quelle dei colleghi non sono proprio del tutto uguali a quelle che propongono le serie tv, dove si mette tutto a soqquadro, al fine di non fare troppo casino. In genere, si cerca nei punti in cui è probabile trovare qualcosa di utile; io, che sono pure solo, tenterò così.

Mi chiedo, quindi, cosa mi aspetto di trovare; altre prove? Improbabile, poiché dopo la fuga e il saccheggio dell’infermiera quel poco che è rimasto è stato di certo distrutto o non si trova più nella struttura.

Quindi? Ovvio, incutere loro timore. Gironzolare e aprire qualche cassetto, buttare l’occhio ovunque, con fare assorto. Far capire che non si è al sicuro dalla Legge.

Decido di fare così e proseguo, scongelandomi un po’. I vari ambulatori dei medici presenti in struttura sono tutti vuoti e le porte aperte, quindi posso ficcanasare e far scivolare gli occhi sui vari fascicoli aperti e in fase di scrittura sulle scrivanie, eppure tutto è a posto, come sospettavo. Regna un ordine che nelle volte precedenti non mi era parso di notare, e aumenta la certezza che fossi atteso.

Passo in rassegna tutti gli ambulatori, circa una decina, e poi ricomincio il giro, come a voler ammazzare la noia.

Dopo un po’, incrocio Morrow nel corridoio, e mi relega un altro sguardo colmo di disprezzo.

“Allora?” e incrocia le braccia al petto.

“Dove sono i vari medici?” domando io, evitando la sua domanda indagatrice.

“Al lavoro, ovvio. I pazienti richiedono cure di ogni genere”.

“D’accordo” concludo, “penso che per oggi possa bastare”.

“Oh!” afferma lui. “Ci lascia così presto? Proprio adesso che inizio a lavorare? Resti almeno per vedere cosa succede qui dentro, per ora ha solo osservato una schermata d’ordine e di pace”.

Sto per ribattere che per adesso ritengo di aver concluso la perquisizione, però si spalanca la porta in fondo al corridoio, quella che separa il nucleo operativo della clinica dal reparto riservato ai pazienti, e l’infermiere che un’ora e mezzo prima mi ha accolto freddamente trascina di fronte a noi un uomo piegato in due.

“Grazie, Frank. Puoi andare” dice Morrow con cortesia, poi afferra a braccetto il signore e lo conduce al suo ufficio. “Venga con noi, agente speciale” m’invita con pacata scortesia.

Non posso non seguirlo, se me ne andassi ora avrei svolto il lavoro a metà.

Li seguo e osservo l’uomo; è indubbiamente un paziente, indossa la camicia di forza ed è per metà rannicchiato su sé stesso. Biascica qualcosa, come se fosse un sottofondo. Nel complesso i capelli bianchi sulla testa sono tutti dritti, il volto segnato dalle rughe è avvolto da una barba grigia posticcia. Il tutto stona con il perfetto e curato look dello psicoanalista.

Morrow ci porta nel suo ambulatorio e mette a sedere il paziente.

“Allora, signor Brown, come si sente oggi?” chiede. Non ottiene nessuna risposta.

“Ha dormito bene questa notte? Sua figlia dice che ha problemi nel sonno, e che si sveglia di frequente. Si trova meglio in questa struttura, dove nulla la stressa?”.

Ancora nessuna risposta, solo un borbottio incoerente.

“Lo vede, agente? Questi qui sono tutti pazzi in fin di vita. In testa hanno delle cicale, non sente che biascicano e fischiettano? Sanno solo fare questo. Crede che sia facile lavorare con persone così e tenerle d’occhio, lei che è giunto fin qui per perseguitarci e per incolparci di un crimine assurdo? Ricordi che possiamo dimostrare che se questa gente resta libera un attimo non perde tempo ad ammazzarsi”.

“Signor Brown?” provo a chiedere io. Non ho altre speranze se non verificare.

L’uomo incredibilmente volge la testa verso di me, dimostrando almeno una base di coscienza.

“Signor Brown” mi fa eco Morrow, ma il paziente non lo guarda. Fissa me.

Resto a specchiarmi in quegli iridi scuri, con le palpebre socchiuse come se volessero esprimere rabbia, oppure malignità. Capisco che lo psicoanalista teme che si instauri chissà quale contatto tra me e Brown, quindi si alza in piedi.

“Va bene, per oggi può bastare. Chiederò a Frank di mandarmi il prossimo” si avvicina al paziente e fa per prenderlo a braccetto e aiutarlo ad alzarsi.

L’uomo però evita il suo braccio, e con il busto quasi completamente bloccato esegue una mezza torsione opposta al braccio del medico.

“Non le voglio quelle punture!” grida poi con tutto il fiato che ha in petto.

Per un secondo resto basito dalla furia dell’urlo, mentre Morrow si butta di peso addosso al paziente e con tutta la forza di cui è disposto lo spinge a rialzarsi e poi lo sbatte contro il muro, inerme.

Brown batte anche la testa. E poi, come se tutto riemergesse di colpo nella mia mente, la domanda del secolo…

“Fate abitualmente iniezioni ai vostri pazienti?”

“Si tratta di calmanti” risponde Morrow, scomposto e con il fiatone, “vede, sono completamente pazzi e pericolosissimi”.

“Non mi sembra però giusto il modo in cui li trattate” faccio notare. Lo psicoanalista compone il numero di emergenza sul suo tablet e subito avverto passi in avvicinamento.

“Mi fate del male! Le punture no! Quelle cose, quegli aghi in testa, no! No! Oggi no! No! Oggi no!” Brown diventa furioso e ingestibile. Cerca di muoversi ancora ma è fortemente limitato, oltre che essere pure gracile per natura, e Morrow torna a sovrastarlo e a spingerlo contro il muro, mozzandogli il fiato con l’urto.

Sono sgomento e sconvolto. A interrompere il rapido susseguirsi degli eventi è Frank, che irrompe di corsa e recupera l’uomo, ancora agitato.

“Avanti signor Brown, stia calmo” lo avverte il giovane palestrato, che a sua volta lo sovrasta. Si mostra amorevole nei suoi confronti e quasi lo tiene abbracciato, per portarlo via.

A sconvolgermi ulteriormente è lo sguardo che ci scambiamo, poco prima che venga portato via. Brown mi rivolge un’occhiata non più malevola, bensì atterrita.

“Credo che abbia ragione, agente. Per oggi ha visto abbastanza” dice Morrow, riscuotendomi. Il paziente è già nel corridoio, badato dall’infermiere.

“Non sta a lei decidere, dottore”.

L’uomo torna a rabbuiarsi e a mostrarsi apertamente scortese, come all’inizio.

“Non faccia tanto il pavone” pare volermi redarguire.

“Stia calmo anche lei. Evidentemente, i riferimenti a punture e ad aghi la turbano” gli faccio notare. Punto nel vivo, Morrow cala la maschera e si avvicina a me a impettendosi.

“Agente speciale James Barley, al contrario di tutti gli altri agenti lei ha voluto strafare. Ricordi solo una cosa; se conosce una o due persone influenti, noi della clinica ne conosciamo almeno quaranta volte tante. La smetta di voler fare l’eroe e di fomentare una donna che dovrebbe finire qui dentro, come è capitato a suo padre, povera anima”.

È il mio turno di avvertire il coltello che si rigira nella piaga.

“Queste risposte sono indice di una qualche colpevolezza? Di qualcosa che la turba e che non può e non vuole ammettere?” all’improvviso mi faccio coraggioso, spinto dall’orgoglio.

“In ogni caso, non sono affari suoi. Torni a badare i semafori rotti”.

Incasso il colpo, brutale e assoluto.

“Sa che potrei arrestarla? Oltraggio a pubblico ufficiale”.

Morrow scuote la testa, sorridendo per la prima volta.

“Vede che si è montato la testa? Torni a casa e smetta di fare l’eroe, ma soprattutto rifletta sul perché è qui. Sul perché l’hanno incaricata. Sul perché l’hanno tolta dalle strade un attimo prima del congedo. Torni a casa sua e si metta l’animo in pace; certe guerre si possono vincere con i soldi, certo, ma soprattutto con il potere, l’eterno sconosciuto per una persona piccina e ormai sola come lei”.

Se ne va, lasciandomi lì impietrito. È una minaccia? Direi di sì.

Sono andato a segno? Direi di sì.

Missione compiuta, al momento? Assolutamente sì.

Lascio la clinica in fretta e furia, con un altro infermiere scortese che mi guarda torvo finché non scompaio dalla sua vista.

 

“Sono pazzi” affermo, non appena entro in auto. Il detective, che fuma con la mano sinistra a penzoloni dal finestrino, mi rivolge uno sguardo divertito.

“Te ne accorgi adesso?”

Resto in imbarazzante silenzio.

“Credo che sia ora che ti racconti tutta la storia dall’inizio, e anche nei dettagli, visto che le testimonianze che ti ho fatto pervenire non le hai lette tutte”.

 

Con Mario, è tutta una maratona sessuale. Non che mi dispiaccia, e nemmeno mi vergogno di farlo con un uomo sposato. È in crisi, dice continuamente che vuole lasciare la moglie, però mi allontana subito in fretta e furia non appena la sua carnalità è stata sfogata.

Cosa penserà lei se venisse a scoprire che in realtà suo marito è omosessuale? Che promette di amare un giovane uomo al posto suo, che le dice alle spalle tutte le più terribili cattiverie?

 

Mario in realtà è l’uomo più fetente di questo mondo. L’ho visto in giro con la moglie; ho visto come cercavano l’uno le mani dell’altra, come le loro dita si intrecciavano. E lui come poi le ha donato un dolce bacio sulle labbra.

Non che io sia geloso, anzi, sono felice se tra loro le cose vadano meglio, ma di certo non deve venirmi a dire che non prova più niente per lei e cose simili. Glielo faccio presente proprio mentre siamo nel loro letto, e mi tiene stretto forte tra le sue braccia villose.

“Dobbiamo creare di nuovo una buona atmosfera in casa. Non si può mica litigare tutto il giorno” mi risponde, impassibile.

“Ma certo, non sto giudicando questo. Avrei solo piacere che tu la smettessi di dirmi ti amo, quando in realtà non è vero”.

Mi stringe più forte a lui.

“Amore, ti fai troppe paranoie. Io amo te, solo te, follemente. E presto te lo dimostrerò. Adesso però stringimi e baciami, fammi sentire vivo come solo tu sai fare…”.

Obbedisco alle sue parole; è un po’ come se il gioco di dominanza iniziale si sia affievolito. Non ho più voglia di impormi su di lui e lui stesso non me ne offre più l’opportunità. A letto, il nostro rapporto diventa sempre più paritario.

“Ti amo tantissimo…” mi sussurra, mentre ormai siamo un corpo solo. Una parte di me stride e mi dice no, non è vero, ma alla fine vince quella che crede alle sue parole.

Sorrido e lo riempio di dolcezze, nella convinzione che, almeno in questo limbo, lui sia il bugiardo che non mente mai a me. Questo mi fa tornare a vivere dopo la sparizione di Alice. Eppure, mi fa tornare anche a sentirmi lurido.

   
 
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