CAPITOLO DICIASSETTE
“Non aspettatevi niente
dai bugiardi,
perché loro non
cambiano,
al massimo trovano solo
modi diversi per
mentire”.
Nicola Aghilar.
“Uno sguardo al mondo
dimostra
che l’orrore non è
altro che realtà”.
Alfred Hitchcock.
Mi ritrovo al cospetto dell’ingresso
della clinica Mary’s House, così come altre volte in precedenza. Eppure questa
volta ho la certezza che nulla sarà più come prima.
Suono al campanello e
ad aprire la porta viene un infermiere che non ho mai visto in precedenza. Non
saluta, mi osserva in cagnesco.
Nemmeno io saluto e gli
mostro direttamente il distintivo.
Lui si volge a digitare
qualche parola sul tablet, poi mi fa entrare e se ne va, muto come un pesce.
L’impressione che mi stiano attendendo è palpabile.
Con la porta richiusa
dietro di me, avverto all’improvviso il cuore che batte all’impazzata. Non
voglio ammetterlo ma ho una paura folle, è come se mi avessero messo in
trappola.
Il mercenario della
Stradford è in macchina che mi aspetta, sicuro che non mi torceranno un capello
e che tutto filerà nel migliore dei modi, però lui è solo un detective e di
queste situazioni secondo me non capisce un emerito cazzo. Il suo parere quindi
non mi è di conforto, e il suo invito di alzare la voce e di fare il leone non
mi aiuta.
Questa volta non mi viene incontro un
accomodante Zayne, bensì Morrow, lo psicoanalista, e anche con un’espressione
piuttosto torva.
“Agente speciale
Barley, non è un piacere averla di nuovo qui” va subito al punto. Il suo volto
è di pietra e mi impressiona il fatto che sia proprio venuto lui ad
accogliermi, il mastino della clinica. La sua cattiveria è proverbiale e la si
nota a prima vista, poi dopo che ho ascoltato quella registrazione, be’, sono
rimasto sconvolto. So quindi dove può arrivare un essere del genere e il
batticuore non smette, anzi, aumenta.
Per qualche istante ho
il nodo in gola e faccio fatica a dire qualcosa di sensato, mentre tutti i
brutti pensieri possibili e immaginabili mi frullano selvaggiamente per la
testa in modo caotico.
“Immaginavo” borbotto,
rompendo il silenzio con una vocina fioca che mi spinge ad arrochirla, “ma
un’altra visita era d’obbligo”.
“Credo che lei non si
stia comportando in modo corretto. Una nostra infermiera non si è più
presentata al lavoro, poiché si ritiene spaventata dalle continue indagini sul
nostro conto. Queste diffamazioni sono di certo attribuibili al suo recente
operato”.
E magari questa
infermiera, prima di non presentarsi più, ha anche rovistato nei vostri
cassetti in cerca di materiale utile per accusarvi, mi viene da pensare
all’istante.
“Non penso proprio”
affermo deciso a non volermi sbilanciare, proprio come sta facendo il mio
interlocutore.
“Comunque non sono
venuto qui per fare delle chiacchiere o una visita di cortesia, come le altre
volte” e gli schiaffo sotto al naso il mandato di perquisizione.
“Molto bene, nessun
problema” afferma il dottore, dopo aver letto, “nessun problema”.
“Bene” dico io, più per
rassicurarmi che per altro. Il cuore ancora batte forte ed è come se mi
attendessi una pugnalata da un secondo all’altro.
“Sto solo facendo il
mio lavoro” gli ricordo, come a volerlo tranquillizzare. Morrow però è un pezzo
di ghiaccio e non si dimostra minimamente sfiorato dalle mie parole.
“Inizi pure da dove
vuole, non ha importanza. E metta già in conto che non troverà niente”.
Non replico e mi metto
in azione.
Non ho mai svolto una
perquisizione, se non i classici sopralluoghi dove sono avvenuti furti. So che
quelle dei colleghi non sono proprio del tutto uguali a quelle che propongono
le serie tv, dove si mette tutto a soqquadro, al fine di non fare troppo
casino. In genere, si cerca nei punti in cui è probabile trovare qualcosa di
utile; io, che sono pure solo, tenterò così.
Mi chiedo, quindi, cosa
mi aspetto di trovare; altre prove? Improbabile, poiché dopo la fuga e il
saccheggio dell’infermiera quel poco che è rimasto è stato di certo distrutto o
non si trova più nella struttura.
Quindi? Ovvio, incutere
loro timore. Gironzolare e aprire qualche cassetto, buttare l’occhio ovunque,
con fare assorto. Far capire che non si è al sicuro dalla Legge.
Decido di fare così e
proseguo, scongelandomi un po’. I vari ambulatori dei medici presenti in
struttura sono tutti vuoti e le porte aperte, quindi posso ficcanasare e far
scivolare gli occhi sui vari fascicoli aperti e in fase di scrittura sulle
scrivanie, eppure tutto è a posto, come sospettavo. Regna un ordine che nelle
volte precedenti non mi era parso di notare, e aumenta la certezza che fossi
atteso.
Passo in rassegna tutti
gli ambulatori, circa una decina, e poi ricomincio il giro, come a voler
ammazzare la noia.
Dopo un po’, incrocio
Morrow nel corridoio, e mi relega un altro sguardo colmo di disprezzo.
“Allora?” e incrocia le
braccia al petto.
“Dove sono i vari
medici?” domando io, evitando la sua domanda indagatrice.
“Al lavoro, ovvio. I
pazienti richiedono cure di ogni genere”.
“D’accordo” concludo,
“penso che per oggi possa bastare”.
“Oh!” afferma lui. “Ci
lascia così presto? Proprio adesso che inizio a lavorare? Resti almeno per
vedere cosa succede qui dentro, per ora ha solo osservato una schermata
d’ordine e di pace”.
Sto per ribattere che
per adesso ritengo di aver concluso la perquisizione, però si spalanca la porta
in fondo al corridoio, quella che separa il nucleo operativo della clinica dal
reparto riservato ai pazienti, e l’infermiere che un’ora e mezzo prima mi ha
accolto freddamente trascina di fronte a noi un uomo piegato in due.
“Grazie, Frank. Puoi
andare” dice Morrow con cortesia, poi afferra a braccetto il signore e lo
conduce al suo ufficio. “Venga con noi, agente speciale” m’invita con pacata scortesia.
Non posso non seguirlo,
se me ne andassi ora avrei svolto il lavoro a metà.
Li seguo e osservo
l’uomo; è indubbiamente un paziente, indossa la camicia di forza ed è per metà
rannicchiato su sé stesso. Biascica qualcosa, come se fosse un sottofondo. Nel
complesso i capelli bianchi sulla testa sono tutti dritti, il volto segnato
dalle rughe è avvolto da una barba grigia posticcia. Il tutto stona con il
perfetto e curato look dello psicoanalista.
Morrow ci porta nel suo
ambulatorio e mette a sedere il paziente.
“Allora, signor Brown,
come si sente oggi?” chiede. Non ottiene nessuna risposta.
“Ha dormito bene questa
notte? Sua figlia dice che ha problemi nel sonno, e che si sveglia di
frequente. Si trova meglio in questa struttura, dove nulla la stressa?”.
Ancora nessuna
risposta, solo un borbottio incoerente.
“Lo vede, agente?
Questi qui sono tutti pazzi in fin di vita. In testa hanno delle cicale, non
sente che biascicano e fischiettano? Sanno solo fare questo. Crede che sia
facile lavorare con persone così e tenerle d’occhio, lei che è giunto fin qui
per perseguitarci e per incolparci di un crimine assurdo? Ricordi che possiamo
dimostrare che se questa gente resta libera un attimo non perde tempo ad
ammazzarsi”.
“Signor Brown?” provo a
chiedere io. Non ho altre speranze se non verificare.
L’uomo incredibilmente
volge la testa verso di me, dimostrando almeno una base di coscienza.
“Signor Brown” mi fa
eco Morrow, ma il paziente non lo guarda. Fissa me.
Resto a specchiarmi in
quegli iridi scuri, con le palpebre socchiuse come se volessero esprimere
rabbia, oppure malignità. Capisco che lo psicoanalista teme che si instauri
chissà quale contatto tra me e Brown, quindi si alza in piedi.
“Va bene, per oggi può
bastare. Chiederò a Frank di mandarmi il prossimo” si avvicina al paziente e fa
per prenderlo a braccetto e aiutarlo ad alzarsi.
L’uomo però evita il
suo braccio, e con il busto quasi completamente bloccato esegue una mezza
torsione opposta al braccio del medico.
“Non le voglio quelle
punture!” grida poi con tutto il fiato che ha in petto.
Per un secondo resto
basito dalla furia dell’urlo, mentre Morrow si butta di peso addosso al
paziente e con tutta la forza di cui è disposto lo spinge a rialzarsi e poi lo
sbatte contro il muro, inerme.
Brown batte anche la
testa. E poi, come se tutto riemergesse di colpo nella mia mente, la domanda
del secolo…
“Fate abitualmente
iniezioni ai vostri pazienti?”
“Si tratta di calmanti”
risponde Morrow, scomposto e con il fiatone, “vede, sono completamente pazzi e
pericolosissimi”.
“Non mi sembra però
giusto il modo in cui li trattate” faccio notare. Lo psicoanalista compone il
numero di emergenza sul suo tablet e subito avverto passi in avvicinamento.
“Mi fate del male! Le
punture no! Quelle cose, quegli aghi in testa, no! No! Oggi no! No! Oggi no!”
Brown diventa furioso e ingestibile. Cerca di muoversi ancora ma è fortemente
limitato, oltre che essere pure gracile per natura, e Morrow torna a
sovrastarlo e a spingerlo contro il muro, mozzandogli il fiato con l’urto.
Sono sgomento e
sconvolto. A interrompere il rapido susseguirsi degli eventi è Frank, che
irrompe di corsa e recupera l’uomo, ancora agitato.
“Avanti signor Brown,
stia calmo” lo avverte il giovane palestrato, che a sua volta lo sovrasta. Si
mostra amorevole nei suoi confronti e quasi lo tiene abbracciato, per portarlo
via.
A sconvolgermi
ulteriormente è lo sguardo che ci scambiamo, poco prima che venga portato via.
Brown mi rivolge un’occhiata non più malevola, bensì atterrita.
“Credo che abbia
ragione, agente. Per oggi ha visto abbastanza” dice Morrow, riscuotendomi. Il
paziente è già nel corridoio, badato dall’infermiere.
“Non sta a lei
decidere, dottore”.
L’uomo torna a
rabbuiarsi e a mostrarsi apertamente scortese, come all’inizio.
“Non faccia tanto il
pavone” pare volermi redarguire.
“Stia calmo anche lei.
Evidentemente, i riferimenti a punture e ad aghi la turbano” gli faccio notare.
Punto nel vivo, Morrow cala la maschera e si avvicina a me a impettendosi.
“Agente speciale James
Barley, al contrario di tutti gli altri agenti lei ha voluto strafare. Ricordi
solo una cosa; se conosce una o due persone influenti, noi della clinica ne
conosciamo almeno quaranta volte tante. La smetta di voler fare l’eroe e di
fomentare una donna che dovrebbe finire qui dentro, come è capitato a suo
padre, povera anima”.
È il mio turno di
avvertire il coltello che si rigira nella piaga.
“Queste risposte sono
indice di una qualche colpevolezza? Di qualcosa che la turba e che non può e
non vuole ammettere?” all’improvviso mi faccio coraggioso, spinto
dall’orgoglio.
“In ogni caso, non sono
affari suoi. Torni a badare i semafori rotti”.
Incasso il colpo,
brutale e assoluto.
“Sa che potrei
arrestarla? Oltraggio a pubblico ufficiale”.
Morrow scuote la testa,
sorridendo per la prima volta.
“Vede che si è montato
la testa? Torni a casa e smetta di fare l’eroe, ma soprattutto rifletta sul
perché è qui. Sul perché l’hanno incaricata. Sul perché l’hanno tolta dalle
strade un attimo prima del congedo. Torni a casa sua e si metta l’animo in
pace; certe guerre si possono vincere con i soldi, certo, ma soprattutto con il
potere, l’eterno sconosciuto per una persona piccina e ormai sola come lei”.
Se ne va, lasciandomi
lì impietrito. È una minaccia? Direi di sì.
Sono andato a segno?
Direi di sì.
Missione compiuta, al
momento? Assolutamente sì.
Lascio la clinica in
fretta e furia, con un altro infermiere scortese che mi guarda torvo finché non
scompaio dalla sua vista.
“Sono pazzi” affermo,
non appena entro in auto. Il detective, che fuma con la mano sinistra a
penzoloni dal finestrino, mi rivolge uno sguardo divertito.
“Te ne accorgi adesso?”
Resto in imbarazzante
silenzio.
“Credo che sia ora che
ti racconti tutta la storia dall’inizio, e anche nei dettagli, visto che le
testimonianze che ti ho fatto pervenire non le hai lette tutte”.
Con Mario, è tutta una maratona sessuale. Non che mi
dispiaccia, e nemmeno mi vergogno di farlo con un uomo sposato. È in crisi,
dice continuamente che vuole lasciare la moglie, però mi allontana subito in
fretta e furia non appena la sua carnalità è stata sfogata.
Cosa penserà lei se venisse a scoprire che in realtà suo
marito è omosessuale? Che promette di amare un giovane uomo al posto suo, che
le dice alle spalle tutte le più terribili cattiverie?
Mario in realtà è l’uomo più fetente di questo mondo. L’ho
visto in giro con la moglie; ho visto come cercavano l’uno le mani dell’altra,
come le loro dita si intrecciavano. E lui come poi le ha donato un dolce bacio
sulle labbra.
Non che io sia geloso, anzi, sono felice se tra loro le cose
vadano meglio, ma di certo non deve venirmi a dire che non prova più niente per
lei e cose simili. Glielo faccio presente proprio mentre siamo nel loro letto,
e mi tiene stretto forte tra le sue braccia villose.
“Dobbiamo creare di nuovo una buona atmosfera in casa. Non si
può mica litigare tutto il giorno” mi risponde, impassibile.
“Ma certo, non sto giudicando questo. Avrei solo piacere che
tu la smettessi di dirmi ti amo, quando in realtà non è vero”.
Mi stringe più forte a lui.
“Amore, ti fai troppe paranoie. Io amo te, solo te, follemente.
E presto te lo dimostrerò. Adesso però stringimi e baciami, fammi sentire vivo
come solo tu sai fare…”.
Obbedisco alle sue parole; è un po’ come se il gioco di
dominanza iniziale si sia affievolito. Non ho più voglia di impormi su di lui e
lui stesso non me ne offre più l’opportunità. A letto, il nostro rapporto
diventa sempre più paritario.
“Ti amo tantissimo…” mi sussurra, mentre ormai siamo un corpo
solo. Una parte di me stride e mi dice no, non è vero, ma alla fine vince
quella che crede alle sue parole.
Sorrido e lo riempio di dolcezze, nella convinzione che,
almeno in questo limbo, lui sia il bugiardo che non mente mai a me. Questo mi
fa tornare a vivere dopo la sparizione di Alice. Eppure, mi fa tornare anche a
sentirmi lurido.