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Autore: Marti Lestrange    04/01/2021    5 recensioni
L’Istituto Correttivo per Giovani Maghi e Streghe di Haydon Hall non è un bel posto, e basta una sola occhiata per dirlo, ma James Sirius Potter è costretto a trascorrervi un intero anno, per scontare una punizione che in fondo sa di meritare. Quando mette piede nella Scuola non si aspetta, però, che l’atmosfera da incubo lo trascinerà in un incubo vero, con radici profonde in parti della storia magica che nessuno vuole più ricordare, segreti di famiglia e purezza di sangue, lacrime e morte. Una storia in cui la giovane Emma Nott, studentessa ribelle appena arrivata alla Scuola, non può non rimanere invischiata, il richiamo del suo stesso sangue troppo forte per opporsi.
[ dal testo: Nessuno sa quando tutto è cominciato, qui alla grande casa. C’è chi dice che l’inverno del 1981 sia stato uno dei più duri, sia per coloro che vivevano al villaggio, sia per chi abitava tra queste mura fredde e spoglie; c’è chi asserisce che non ci sia stata primavera più bella di quella che ne è seguita, quando cespugli di rose sono cresciuti, a maggio, nei giardini e tra le siepi, e si sono arrampicati sulla facciata ovest, per poi morire ai primi freddi successivi. ]
Genere: Horror, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: James Sirius Potter, Michael Corner, Nuovo personaggio, Pansy Parkinson, Theodore Nott
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Nuova generazione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'GENERATION WHY.'
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THE HAUNTING OF HEYDON HALL


 

CAPITOLO NOVE

 

 

“Quello che non sai non può farti male, vero? 
Se un uomo attraversa una stanza buia 
dove c’è una voragine, 
se ci passa a pochi millimetri, 
non c’è bisogno che sappia che 
c’è mancato poco a cascarci dentro. 
Non c’è bisogno di avere paura. 
Basta che le luci restino spente.”
S. King, Cujo

 

 

Heydon Hall, Norfolk, 18 settembre 2023

«Non sono stata io», si difese ancora Emma.

«Sì che è stata lei, l’abbiamo vista», snocciolò Shay tutto d’un fiato. Tutti si girarono a guardarla.  «L’abbiamo vista. Non è vero, Joanna?» aggiunse voltandosi verso l’amica. Le due si guardarono per un attimo, e poi Joanna annuì con convinzione. «L’abbiamo colta in fallo, signora Parkinson», confermò.

Emma non poteva credere alle sue orecchie. «State scherzando, spero? Stanno scherzando», aggiunse rivolgendosi a Pansy. «Non sono stata io, e loro sono arrivate qui solo qualche minuto dopo di me, stavo cercando il libro di Pozioni… Il letto era già così…»

Pansy la guardava, le mani appuntate sui fianchi. «Penso sia arrivato il momento di convocare suo padre, signorina Nott.»

 

[NUOVI GUAI CONFERMATI]

 

Emma la fissò come se le avesse appena detto che quell’anno avrebbero annullato il Natale. «Mio padre?»

«Venga con me», rispose solo la donna facendole un cenno del capo. «Voi due ripulite tutto, non voglio che le bambine più piccole lo vedano o finiranno di strillare a Pasqua», aggiunse rivolgendosi alle altre due ragazze. 

«Dobbiamo pulire?» esclamò Shay. 

«Perché?» protestò quindi Joanna. «Cosa c’entriamo noi?»

«Non voglio sentire una parola di più», alzò la voce Pansy, gli occhi sbarrati. «Avete sentito cosa vi ho detto.» Così dicendo girò loro le spalle senza degnarle di un altro sguardo. Emma rivolse loro un sorrisetto, segretamente compiaciuta che Pansy avesse lasciato a quelle due vipere quell’incombenza. Le altre due la guardarono malissimo, ma lei si limitò a dar loro le spalle e a seguire Pansy fuori. Quest’ultima non disse una parola finché non raggiunsero la saletta riservata al personale, che in quel momento era deserta, fatta eccezione per il signor Lamb, che sedeva in poltrona fissando un punto imprecisato del tappeto sdrucito. Alzò solo vagamente gli occhi quando le vide entrare, ma poi tornò alla sua avvincente attività. 

 

[DA SOLA CON PANSY]

 

Pansy fece cenno ad Emma di sedersi su una sedia, mentre lei rimase in piedi, guardandola dall’alto. 

«Spero che non dicesse sul serio, prima…» iniziò quindi Emma spezzando il silenzio. «Se convocasse mio padre—»

Pansy la interruppe alzando una mano. Emma si rimangiò ciò che stava per dire, cioè che non avrebbe sopportato di leggere altra delusione negli occhi di suo padre, non dopo ciò che era successo negli ultimi tempi. L’aveva mandata a Heydon Hall fiducioso che quel posto l’avrebbe fatta riflettere sui suoi errori, e ora lo stavano per convocare per dirgli che sua figlia non aveva riflettuto affatto. I suoi genitori non le avevano ancora scritto dopo aver ricevuto il gufo che li informava della festa clandestina e della sua conseguente punizione, e quel silenzio la preoccupava. Sentiva la nausea salirle ad ondate, incentivata da ciò che era appena successo in dormitorio, da quelle parole scritte col sangue, dal loro significato, e da chi doveva averle scritte: la signora di Heydon Hall. Ormai non aveva più dubbi. Si chiedeva solo perché, perché avesse deciso di metterla nei guai in quel modo. Se davvero il significato implicito di quelle parole era difenderla, e quindi “mettere in guardia Isabelle”, allora esplicitamente l’avevano solo messa in casini ancora peggiori di quelli dai quali il fantasma ci teneva tanto a proteggerla. Stava complicando le cose senza volerlo, ed Emma avrebbe tanto voluto dirle di smetterla, ché era in grado di difendersi da sola, come aveva sempre fatto. 

«È la procedura. Alla luce di ciò che è appena successo, unito ai fatti di venerdì notte, mi sento in dovere di convocarlo, temo che un altro gufo non basti.» Era tornata a parlarle in modo informale, come aveva sempre fatto, ma la cosa non la consolava.

«Non sono stata io», tentò di difendersi nuovamente Emma. «Lo giuro.»

Pansy la guardò, pensierosa, le braccia conserte. «Mi piacerebbe crederti, Emma, ma quelle ragazze dicono di averti colta sul fatto, ed eri l’unica in quella stanza che avrebbe avuto motivo di farlo.»

«Mi odiano!» esclamò lei saltando in piedi. «Mi odiano da quando sono arrivata, ecco perché stanno cercando di incolparmi! Vogliono vedermi espulsa!»

«Abbassa la voce, per favore, non stai parlando con Potter, ma con me», rispose l’altra guardandola severamente. Emma si rimise a sedere, sentendosi pungere sul vivo con quell’accenno a James, l’ennesima persona che avrebbe visto delusa da lei. In quel momento, si rese conto che quel pensiero era forse il peggiore, lo scenario più scoraggiante che potesse dipingerlesi davanti: James che la guardava deluso, amareggiato, e che la osservava andar via da Heydon Hall, lasciandolo solo con il fantasma - lasciandolo solo e basta. 

«Le prove parlano chiaro, e non posso escludere così su due piedi la testimonianza di due persone, mi dispiace. Oggi pomeriggio scriverò a tuo padre e gli chiederò di presentarsi qui domani stesso. E lui e il preside decideranno il da farsi insieme.»

In quel preciso istante, un pianto disperato spezzò la tensione e l’apparente calma della stanza. Emma sobbalzò e si rannicchiò su se stessa, le mani sulle orecchie. 

 

[IL PIANTO DI HEYDON HALL]

 

Non aveva mai sentito un pianto tale, intriso di disperato e agghiacciante dolore, come se la persona dal quale proveniva fosse preda di immani sofferenze, se fisiche o mentali, o entrambe, non avrebbe saputo dire, ma enormi sì, e tali da scuotere i muri e l’intero edificio. 

«Emma?» sentì Pansy chiamarla. «Emma, cosa succede?» Le si accucciò accanto e la prese per le spalle. Emma intanto era scivolata sul pavimento, la testa avvolta dalle sue stessa braccia, e Pansy cercò di farla riemergere da quel suo mondo fatto di sofferenza e dolore. Quel pianto le penetrava nelle tempie e non le dava pace. Azzardò uno sguardo a Pansy, chiedendosi come facesse ad essere così calma. I suoi occhi le danzavano sul viso, preoccupati, ma non sembrava turbata.

«Il pianto», biascicò quindi Emma. «Questo pianto… Mi sta trapanando la testa…»

«Quale pianto, Emma?»

Alzò la testa a guardare la donna di fronte a lei. Possibile che non lo sentisse? Possibile che lo udisse solo lei e nessun altro? Girò lo sguardo su Pince: l’uomo aveva alzato la testa dal tappeto e la guardava. La guardava come se sentisse - la guardava come se sapesse. Due file di lacrime gli solcavano le guance rugose. 

 

🥀

 

Emma camminava a passo spedito lungo il corridoio, diretta in biblioteca. 

 

[L’EMMA FURIOSA]

 

Con tutto quello che era successo, ormai la lezione di Pozioni l’aveva persa, e l’ora di buco prima di quella di Erbologia era intenzionata a trascorrerla in solitudine, cercando di sbollire in santa pace. Se avesse incontrato anche solo un essere umano, in quell’esatto momento, se lo sarebbe mangiato tutto intero. Era a Heydon Hall da soli diciotto giorni e avrebbero già convocato suo padre per la sua - presunta - cattiva condotta. A Hogwarts non aveva mai tenuto segreta la sua irrequietezza, e non si era mai nascosta dietro una menzogna quando veniva colta in fragrante, nell’atto di compiere una malefatta (o subito dopo), anzi, ne rivendicava la colpevolezza quasi con orgoglio. Invece questa volta era diverso, questa volta lei non c’entrava niente con quelle grottesche e inquietanti scritte comparse sul letto di Isabelle, e sentiva di odiare a morte Shay e Joanna per le loro bugie. Mai come in quel momento avrebbe avuto bisogno di qualcuno che semplicemente le dicesse «lo so, Emma, che non sei stata tu, io ti credo», e invece si ritrovava sola - a parte per la rabbia che le inondava il petto e non la faceva né ragionare, né respirare. 

A pochi passi dalla biblioteca, incontrò forse l’ultima persona sulla terra che in quel momento avrebbe voluto incontrare: James. In realtà, se avesse dovuto essere completamente sincera con se stessa, allora avrebbe dovuto ammettere che Potter avrebbe potuto essere l’unico in grado di placarla - e forse l’unico in grado di crederle. Dall’altro lato, però, non voleva confessargli quell’ultimo guaio, la goccia che aveva fatto straboccare il calderone, ciò che avrebbe potuto costituire la base per la sua espulsione da Heydon Hall. 

James era poggiato ad una parete e sembrava che stesse riflettendo. Se ne staccò quando la vide arrivare, ed Emma non ebbe modo di fare dietrofront o quanto meno nascondersi. 

«Ti stavo cercando», cominciò lui. 

«Ah, sì? Ora mi hai trovata, quindi ciao», rispose solo superandolo senza neanche guardarlo. 

Lo sentì raggiungerla e affiancarlesi. «Pansy mi ha detto cos’è successo in dormitorio…»

Emma aprì la porta ed entrò. All’interno non c’era nessuno, come sempre. «Devo finire un tema, Potter, non ho tempo.»

«Perché non ne vuoi parlare?»

Alzò gli occhi al cielo, raggiungendo il tavolo al quale avevano pranzato insieme solo un paio di ore prima, sbattendo la borsa con fragore. «Secondo te? Non ho niente da dire.»

«Ho sentito la storia da Pansy, voglio sentirla da te, ora», insistette lui incrociando le braccia sul petto, risoluto. E dannatamente cocciuto. 

«E io non ho nessuna voglia di raccontartela, tanto non mi crederesti, come non mi crede nessuno, in questa stupida scuola», esplose lei. «Come possono pensare che sia stata io? Quella scritta è stata fatta col sangue! Pensano davvero che io sia così pazza da sgozzare un maiale e usare il sangue per imbrattare il letto di una mia compagna? Solo perché di cognome faccio Nott, allora pensano che il sospetto sia dovuto?»

«Emma, io non penso—» iniziò James facendo un passo avanti, ma lei alzò una mano a fermarlo. Non voleva che lui la compatisse, non voleva che se ne uscisse con qualche bel discorsetto edificante e pieno zeppo di spiccia morale da quattro Zellini in pieno stile-Potter, non aveva né la voglia, né la forza per stare ad ascoltarlo. 

«Non mi interessa cosa pensi, Potter», disse quindi, e sentì la sua stessa voce uscire dalla gola dura come l’acciaio, e fredda come il ghiaccio. Voleva ferirlo, voleva allontanarlo, solo così sarebbe stata completamente sola, proprio come si meritava, proprio come era giusto. «Forse pensi che siamo amici, ma non è così. Non mi servono le tue stupide prediche da Grifondoro.»

Lo vide adombrarsi per un momento, ma il ragazzo non si mosse, non retrocedette neanche di mezzo centimetro. «Lo so perché fai così. Ti conosco. Sei tale e quale a mio fratello.»

Emma scosse la testa, ridendo, e quella risata le uscì più come un ghigno. Fece qualche passo avanti per raggiungerlo, e gli si fermò ad un palmo dal naso. Lo vide deglutire. «Tu pensi di conoscermi, ma non mi conosci affatto.» Allungò una mano e gliela passò sul petto, continuando a guardarlo da sotto le ciglia. «Ci sono cose di me che non capirai mai, Potter, per quanto tu ti possa sforzare.»

James la stupì afferrandole la mano e scostandogliela dal suo petto, ma senza lasciarla andare. «Aiutami a capirle, allora.»

Lei scosse la testa e si liberò dalla sua presa. Rise. «Sembri crederci davvero, la cosa quasi mi commuove. Il fatto è che nessuno vuole avere a che fare con una come me, con un cognome così scomodo come il mio.»

«Non farla tanto lunga, Emma», esclamò quindi James alzando leggermente la voce. «Il migliore amico di mio fratello di cognome fa Malfoy, e ti ricordo che esce con mia cugina. E Albus stesso è fidanzato con una Zabini. Credo che questi siano solo stupidi pretesti che tiri fuori perché non vuoi scoprirti, non vuoi abbassare la guardia, con nessuno e tanto meno con me.»

 

[UNA BRECCIA NEL MURO]

 

Lei lo guardò con occhi sottili. Era incredibile come riuscisse a fare breccia, sempre e comunque, ma lei non lo avrebbe lasciato entrare, no, avrebbe difeso quel residuo di muro che si era erta intorno. Si rese conto che non aveva desirato altro che vederlo cadere, da quando aveva conosciuto James Potter, non aveva desiderato altro che lui lo facesse crollare - la facesse crollare - ma in quel momento realizzò anche che quel crollo l’avrebbe lasciata scoperta, e indifesa, sotto quegli attacchi. Si sentiva spaccata a metà: da un lato desiderava che James fendesse le sue difese, dall’altro ne era terrorizzata, ché mai nessuno ci era andato così vicino, pericolosamente vicino. Capì anche che Potter quel suo cuore, oltre che tenerlo al sicuro, avrebbe benissimo potuto spezzarlo, in tanti piccoli frammenti, talmente fini che ricomporlo sarebbe risultato impossibile. E allora si trincerava dietro il suo essere Serpeverde, dietro il suo cognome, dietro un assalto che era una difesa. 

«Non sai di cosa parli, Potter», rispose quindi, abbassando lo sguardo sulla borsa e cominciando a tirare fuori dei libri a caso. Sostenerne lo sguardo e mentire stava diventando sempre più difficile, per lei. 

Lo vide avvicinarsi con la coda dell’occhio, e fermarlesi di fianco. Si ritrovò a trattenere inevitabilmente il respiro. «Mi puoi ascoltare solo un attimo? Per favore.»

«Devo finire un tema, ho detto», replicò risoluta. Si allontanò per avvicinarsi ad uno dei ripiani, facendo finta di leggere e scorrere i titoli, mentre cercava di riprendere fiato, sperando che Potter si stancasse e se ne andasse - proprio come facevano tutti. 

Invece lo sentì dietro di sé, e quando lui le afferrò un braccio, con fermezza ma anche con gentilezza, e la fece voltare verso di lui, lei fece cadere il libro che aveva sfilato dallo scaffale, e questo colpì il pavimento con un tonfo sordo. Ora guardare James divenne insostenibile: i suoi occhi caldi lampeggiavano, e la guardavano come non l’avevano mai guardata fino a quel momento. Emma non riuscì a decifrarli, ma tutto ciò che sentì le compresse la gabbia toracica, stritolandole le vertebre, e scese fin nello stomaco, sventrandoglielo, e poi giù nelle gambe, che ora sembravano di gelatina. La mano di James sul suo braccio era calda, caldissima, così come il suo fiato quando le parlò, a pochi centimetri dal suo viso già accaldato.

«Ho trovato una scritta anche io», snocciolò tutto d’un fiato, molto probabilmente per paura che lei lo interrompesse di nuovo. Quello che James non sapeva era che lei non era più in grado di interromperlo, o di fermarlo, ché si sentiva alla sua mercé, come mai le era capitato nella vita, prima di quel momento. «Sulla parete sopra il mio letto. Diceva solo “stai vicino ad Emma, io non posso raggiungerla”. Lo capisci? Capisci cosa significa, vero? Quindi, quando fai il diavolo a quattro dicendo che tutti ti pensano colpevole, per favore non generalizzare. Io non sono tutti. Io ti credo, Emma. Io ti credo.»

 

[GRAVITÀ]

 

Emma non seppe cosa la spinse a farlo, se la gravità che li avvolgeva, una gravità tutta loro che annullava ogni distanza, o se quel qualcosa che l’aveva spaccata in due, annullando ogni sua resistenza, o se per quella forza che l’attirava e allo stesso tempo la sospingeva in avanti, ad afferrargli il davanti della camicia per tirarlo a sé, i loro corpi finalmente a contatto, le labbra unite, un cozzare di denti e la lingua di lui sulla sua, gli occhiali che volavano via e le mani che si cercavano, svelte, quelle di lui sulla sua vita, a tenerla stretta a sé, quelle di lei intorno alla sua nuca, a non volerlo lasciare andare, la schiena poggiata allo scaffale, solo la stoffa sottile della camicia a separarli. Emma gli passò una mano tra i capelli, mentre James scese a baciarle la mascella, e i loro sospiri erano altissimi in quelle sale deserte. Le mani sottili di Emma scivolarono sul suo petto, cercando i bottoni della camicia, ché sentiva che non avrebbe trovato pace finché non gliel’avesse tolta. James si lasciò spogliare, mentre era tornato a baciarle le labbra, in un modo in cui non l’aveva mai baciata nessuno - Potter se la cavava davvero bene. Emma gli passò le mani sul petto e lo sentì tremare sotto il suo tocco, sperando quindi che nessuna lo avesse mai toccato così, prima di lei. Quando però gli prese una mano e se la infilò sotto la gonna, in un chiaro ed esplicito invito ad approfondire, lo sentì irrigidirsi sotto il suo tocco, frenandola. Stupita, alzò lo sguardo su di lui. 

«Non penso sia il caso, Emma…» le disse. 

Lei aggrottò le sopracciglia. In poche, semplici parole, Potter aveva ucciso il momento. Lo odiò un pochino. 

«Okay, nessun problema…» replicò allontanandolo con uno spintone. Lui barcollò leggermente, guardandola con occhi sbarrati e sorpresi. Emma si sistemò la camicia, infilò i libri a casaccio nella borsa e afferrò la giacca. 

«Emma…» lo sentì iniziare. 

«Sono in ritardo per Erbologia.»

«Emma, non intendevo—»

«Non ho capito se hai più paura per la tua virtù o per la mia, Potter, ma in entrambi i casi non parliamone più. Sono in ritardo, ci vediamo in giro.» Così dicendo gli rivolse un’ultima occhiata e si diresse all’uscita, il passo svelto. Voleva mettere quanta più distanza poteva tra sé e James Potter. 

 

[MAI SOLO AMICI]

 

Nessuno l’aveva mai respinta, e si sentiva doppiamente cretina per essersi esposta così, per averlo invitato ad andare oltre senza prima essere sicura che fosse propenso a farlo, per aver abbassato la guardia così facilmente. Ora si chiedeva come le cose sarebbero potute tornare come prima, ma la semplice risposta era che non potevano, niente sarebbe più stato lo stesso, d’ora in poi, non da quando l’aveva baciata così, non da quando lo aveva baciato così. Avevano superato il limite e non c’era possibilità di rimediare. E lei e Potter non sarebbero mai stati solo amici. Dentro di sé, era sempre stata ben conscia del rischio che stavano correndo, le avvisaglie c’erano tutte, ma pensava anche che, una volta che uno dei due avesse fatto il primo passo, allora sarebbe stata tutta discesa, ché il problema era stato sempre e solo uno: chi avrebbe ceduto per primo? E invece James pensava che “non fosse il caso”, per tutta una serie di ragioni che Emma non comprendeva, e che forse nemmeno voleva comprendere. Forse non le importava. Tutto ciò che le importava era che James Potter l’aveva respinta, e il nodo che ora sentiva allo stomaco era un concerto di vergogna e rabbia e frustrazione che avrebbe richiesto molto tempo per sciogliersi. 

Si ficcò in un bagno e si guardò allo specchio. I capelli erano sconvolti, la camicia era stropicciata, e aveva le labbra e il collo rossi laddove James l’aveva baciata. Lasciò cadere la borsa e la giacca a terra e si chinò per sciacquarsi il viso con l’acqua fredda. Aveva esattamente cinque minuti per correre fino all’aula di Erbologia e sperò ardentemente che Archie non si accorgesse di niente, l’ultima cosa che voleva era farsi fare il terzo grado da lui. 

Uscendo dal bagno, l’occhio le cadde su una fila di ragni che, pazientemente, sfilava sotto uno dei lavandini e scompariva in una fessura del pavimento. 

 

🥀

 

La guardo dormire, quella donna spregevole. Sembra dormire il sonno dei giusti, anche se immeritatamente. So tutto di lei, la morte ti regala chiarezza, seppur in mezzo alle tenebre; so tutto del suo cognome, del suo passato, di chi è stata e chi ha servito; so tutto di lei. Non si merita di respirare la stessa aria di Emma, non si merita di avere l’opportunità di camminarle accanto, starle vicino, senza sapere che io darei qualsiasi cosa per essere al suo posto, per poterle anche solo sfiorare una mano. 

 

Ho pianto calde lacrime di angoscia e dolore, oggi. Emma non si merita di non essere creduta, e sto male al pensiero che ora soffra per causa mia, per qualcosa provocato da me. Il fatto è che volevo solo avvertire quella stupida ragazza bionda di cosa sarebbe andata incontro se solo avesse continuato nella sua vile opera di derisione nei confronti della mia Emma. Voglio che si senta osservata, e tenuta d’occhio; voglio che si senta in pericolo, e costantemente in bilico tra la vita e la morte; voglio vederla soffrire come lei fa soffrire Emma. 

 

E adesso tocca a Pansy Parkinson. Adesso pagherà per ciò che ha detto e fatto, per le sue vuote minacce, per le sue sporche intenzioni. Pagherà e rimpiangerà tutto quanto. Sono accecata da una rabbia senza controllo e senza quartiere, mi sento potente, come non sono mai stata in tutta la vita, sento il sangue scorrermi dentro anche se non ho più un corpo che lo contenga, sento la testa esplodermi, e devo canalizzare la mia ira, devo farla uscire

 

Così mi inchino sopra il letto di Pansy, le sussurro parole di morte all’orecchio, e incubi pieni di terrore e angoscia, ma senza svegliarla, no, non le darò il piacere dell’evasione da quel sogno, anzi, la terrò imprigionata in esso finché mi aggraderà. La faccio alzare, poggiare i piedi nudi sul pavimento freddo. Indossa solo una stupida camicia da notte rosa ed è così patetica. 

 

Ci avventuriamo fuori, nel corridoio buio, e solo la luce della luna, sempiterna amica e sorella, illumina la nostra via - nonostante non ne abbia alcun bisogno. Lentamente, faccio procedere Pansy in avanti, i piedi che si trascinano dietro lo sporco e la polvere, gli occhi chiusi e le mani protese davanti a lei. Ad un occhio esterno, sembrerebbe solo una sonnambula; ma internamente, la sento soffrire. 

 

Apro l’ingresso alle mie stanze, le pesanti catene cadono a terra con un tonfo sordo. Ora Pansy lascia le impronte sulla polvere spessa, ma non si ferma - io non la faccio fermare. Entriamo nel giardino d’inverno, un misto di piante sempreverdi e magici fiori che si schiudono a mezzanotte e poi periscono, e natura morta da anni, rinsecchita e secca, rimasta lì come un grottesco e triste souvenir della vita. 

 

So benissimo dove voglio condurla. Alzo lo sguardo sul ballatoio in ferro battuto, sulla scala a chiocciola, molto simile a quella installata all’interno, ma che non è mai stata stabile, almeno non quanto dovrebbe esserlo per reggere una persona adulta. Ed è proprio ciò che desidero. 

 

La spingo in avanti, la osservo salire, un piede davanti all’altro, mentre tutta la scala cigola e geme e soffre - così come geme e soffre lei stessa, ossa scricchiolanti e muscoli intorpiditi e il cuore palpitante di angoscia e di un nero timore senza nome. Le mie labbra si incrinano in un sorriso.

 

Continua a salire, Pansy, e più sale, più il volto di Emma mi invade lo sguardo. È così bella. E intelligente. E coraggiosa. È tutto ciò che ho sempre sperato di essere, ma che non sono stata. Ed è proprio il pensiero di Emma a farmi vacillare, ed esitare. Il contatto mentale con Pansy si rompe e il suo grido terrorizzato è ciò che mi riscuote dal torpore. 

 

La guardo, aggrappata alla ringhiera, là in alto, il volto trasfigurato dalla paura, e mi guarda anche lei, e dentro le sue orbite vuote, ricolme di orrore e sgomento, riesco a vedere il mio riflesso. Mi sta guardando. Mi vede. Lei sa

 

Mi lascio dissolvere con una risata alta e amara, abbandonandola al suo triste, ma meritato, destino. Nessuno correrà a salvarla. Nessuna la sentirà. La notte ingoierà il suo richiamo. 

 

🥀

 

James era andato a dormire scombussolato e tremendamente desolato. 

 

[STUPIDO STUPIDO STUPIDO]

 

Non penso sia il caso, Emma…”: quanto era stato deficiente? Quanto? Quelle parole gli rimbombavano nella testa da ore, da quando Emma se n’era andata dalla biblioteca come una furia e lo aveva lasciato lì, la camicia aperta sul petto, il viso arrossato e la testa nel pallone. 

“Emma…”

“Sono in ritardo per Erbologia.”

“Emma, non intendevo—”

“Non ho capito se hai più paura per la tua virtù o per la mia, Potter, ma in entrambi i casi non parliamone più. Sono in ritardo, ci vediamo in giro.”

Si vergognava come un verme, a ripensarci. Stupido stupido stupido. E ancora stupido. Cioè, desiderava baciare Emma da giorni, non riusciva a tenere la mani al loro posto e si sentiva costantemente irrequieto, e poi cosa combinava? Quando finalmente la situazione si era spinta più in là, lui se n’era uscito con quelle parole patetiche… Stupido stupido stupido. 

A cena di Emma non c’era stata neanche l’ombra, e la immaginò seduta sul suo letto, a cercare di stregare una bambola voodoo che lo rappresentasse - e a ragione. Lui aveva distribuito i vassoi come un fantoccio senza vita e senza linfa, non si era avvicinato nemmeno per sbaglio al tavolo di Archie e Tyler, per paura che Archie gli leggesse tutto in faccia, e non aveva rivolto loro neanche un mezzo sguardo. Poi se n’era andato mestamente, la coda tra le gambe, e aveva rifiutato la solita compagnia serale di Pansy e Lamb nella stanza del personale, adducendo un mal di testa improvviso, prendendo la sua tazza di tè e rintanandosi in camera sua. Si era fatto una doccia quasi fredda, mentre il pensiero di Emma non riusciva a uscirgli dalla mente. Stupido stupido stupido. Pensava che ora, molto probabilmente, non gli sarebbe più capitata un’altra occasione, che Emma non avrebbe più voluto saperne di lui, anche perché come avrebbero fatto a gestire l’imbarazzo che si sarebbe inevitabilmente creato tra loro e derivante dall’aver intrecciato le lingue a quel modo? No, Emma non gli avrebbe più rivolto la parola, e forse nemmeno uno sguardo - e gli sarebbe stato solo bene. Per Godric, perché aveva aperto quella boccaccia? 

 

[LA GIUSTIFICAZIONE DI JAMES]

 

A sua discolpa, poteva dire che aveva fermato Emma non per il gesto in sé - anzi, la cosa lo eccitava parecchio e non era uno sprovveduto, sapeva cosa fare - ma più perché qualcuno avrebbe potuto scoprirli e vederli, e alla figuraccia causata da quell’evidente e compromettente situazione si sommava anche la regola che i due avevano infranto senza alcun tentennamento, cioè “nessun rapporto sentimentale tra un membro del personale e uno del corpo studentesco”. Anche la loro amicizia era tecnicamente fuori luogo, per questo avevano sempre cercato di non dare nell’occhio e non farsi vedere insieme, figuriamoci se fosse trapelato che erano stati scoperti a darci dentro in biblioteca. Emma sarebbe stata espulsa e lui cacciato via, e chissà cosa ne sarebbe stato del suo anno di servizi utili… Probabilmente avrebbe finito per scontarlo da un’altra parte. Certo, per lui non sarebbe stato un grosso problema, ma non si poteva dire lo stesso per Emma. E non voleva che lei finisse in guai seri per colpa sua - e di una pomiciata, che seppur rovente e decisamente eccitante, li avrebbe spediti entrambi fuori da lì senza passare dal via. 

Tutte quelle motivazioni, che lì per lì gli erano sembrate più che sensate, ora, analizzandole e pensandole alla luce di quanto era successo dopo, gli erano apparse solo come una stupida e banale scusa per non approfondire, e forse ad Emma erano apparse come un fermo rifiuto, e una prova tangibile di quanto fosse stata avventata a baciarlo. Quindi doveva sentirsi una stupida anche lei - seppur mai quanto lui. No, nessuno lo avrebbe battuto, in quanto a stupidità, neanche tutte le Isabelle Williams del mondo messe insieme. 

Dopo la doccia aveva bevuto il suo tè ormai freddo e si era messo a letto, cercando di prendere sonno, ché forse lo avrebbe aiutato a dimenticare. Forse, si sarebbe svegliato il mattino dopo e si sarebbe reso conto che era stato tutto un sogno, e che avrebbe avuto ancora un’occasione, con Emma, che non aveva mandato tutto al diavolo con la sua stupidità. Nutriva scarse speranze, in merito, ma cullarsi in quell’illusione lo faceva sentire meno scemo - anche se di poco. Pochissimo. 

 

[GRIDA NEL CUORE DELLA NOTTE]

 

Quando si ridestò, nel cuore della notte, gli sembrò di aver dormito per un tempo eterno, quando in realtà l’orologio sul comodino segnava solo l’una e mezza. Un grido spaventoso aveva scosso le fondamenta stesse di Heydon Hall. James afferrò gli occhiali e la bacchetta, accese la luce e uscì in corridoio. Lamb era sulla porta della sua stanza, i capelli spettinati e solo mezzo occhio aperto. 

«Cosa diamine succede?» esclamò. 

Da un’altra porta emerse il viso mummificato di Cordelia Pince, i bigodini in testa e le labbra strette. «Lambert?» chiamò il figlio con voce stridula ma autoritaria. «Cosa succede, Lambert?» 

Lui corse dalla madre. «Non ti preoccupare, mamma, torna a letto…»

«Sembra che arrivi dall’ala ovest», convenne James sulle spine. Desiderava correre fin là e verificare cosa stesse succedendo. 

«L’ala ovest…» cominciò la Pince, gli occhi sbarrati.

«Torna a letto, mamma!» esclamò ancora Lamb, la voce stridula tanto quanto quella della sua esimia genitrice. Sembravano due cornacchie sparute dalle gambe sottili. 

«Avete sentito anche voi?» La voce baritonale di Corner irruppe nel corridoio. Il preside era l’unico membro del corpo insegnante a dormire a Heydon Hall. Indossava una vestaglia sopra il pigiama ma sembrava sveglissimo, come se non stesse affatto dormendo. «Sembrava la voce di Pansy…» James si chiese da quando la donna fosse diventata solo “Pansy”, per il preside, ma tenne quella domanda per sé, non era il momento di fare speculazioni. 

Senza aggiungere nulla, James si diresse alla porta della collega, che era l’ultima del corridoio, e la trovò spalancata. All’interno, le coperte erano scostate, come se la donna si fosse alzata, ma le ciabatte erano ancora al loro posto. 

 

[DOV’È PANSY?]

 

«Pansy non c’è», disse tornando in corridoio. 

In tutta risposta, Corner gli diede le spalle, correndo via senza dire niente, probabilmente diretto all’ala ovest. James scattò in avanti.

«Lamb, tu e madame Pince andate a controllare i ragazzi e le ragazze nei dormitori, avranno sentito tutto e avranno bisogno di rassicurazioni, io corro dietro al preside», snocciolò tutto d’un fiato. 

Lamb aprì bocca per replicare, ma James non gli diede il tempo. Gli lanciò un’ultima occhiata d’intesa e corse via. Quando raggiunse l’ala ovest, vide il bordo della vestaglia di Corner scomparire dietro l’angolo. Lo seguì, varcando la soglia della stanza che, giorni prima, aveva esplorato con Emma.  Ora le grida erano altissime, e stridule, e intrise di terrore. Era inequivocabilmente la voce di Pansy. Intravide il preside entrare nel giardino d’inverno, così corse in avanti per raggiungerlo. Una volta entrato, vide tutto quanto: Pansy era in piedi sul vecchio e arrugginito ballatoio in ferro battuto, leggermente accoccolata sulle ginocchia, la camicia da notte rosa sporca di polvere, i capelli arruffati, e gli occhi spalancati per la paura. Quando li vide, le urla si placarono leggermente, unendosi però ai singhiozzi. 

 

[PANSY È IN PERICOLO]

 

«Pansy…» cominciò Corner riacquistando l’uso della parola. James gli si affiancò e gli lesse in viso la stessa paura di Pansy, lo stesso terrore cieco. Notò che gli tremavano le mani. «Cosa…» Non riuscì ad articolare nient’altro, così James decise di prendere in mano la situazione. Gli si piazzò davanti e lo prese per le spalle. 

«Preside Corner, ci penso io, okay? Lei resti qui.»

James fece qualche passo avanti, ma Corner lo afferrò per un braccio. Lui si voltò a guardarlo, trattenendo un’imprecazione. Non c’era tempo per esitare troppo, il ballatoio rischiava di cedere da un momento all’altro, facendo cadere Pansy nel vuoto. James non era sicuro che la magia sarebbe servita, in quel caso. 

«Dovrei andare io», disse il preside lanciando un’occhiata a Pansy. «Dovrei essere io a salvarla, io—»

«Non dica sciocchezze», lo interruppe James. «Io sono più leggero e, non si offenda, più agile. Andrò a prendere Pansy e la porterò giù sana e salva, si fidi.»

Lo vide annuire, di nuovo muto come un pesce, ma boccheggiante. Così James gli diede le spalle e alzò gli occhi su Pansy, che continuava a gemere impaurita. 

 

[JAMES PRENDE IN MANO LA SITUAZIONE]

 

«Ora ho bisogno che mi ascolti, Pansy», cominciò. Lei lo guardò, singhiozzando più forte. Almeno le urla si erano placate. «Ho bisogno che, lentamente, tu ti sposti di qualche centimetro verso la scala, piano piano. Così sarà più facile per me venirti incontro e aiutarti a scendere. Vuoi?»

«Ho paura…» la sentì sussurrare. «Se lei… Se lei tornasse…»

Lei

Era possibile che si riferisse al fantasma?

James cacciò via quel pensiero che, in quel momento, non gli era di nessun aiuto.

«Lo so che hai paura», continuò lui, imperterrito. «Lo so bene. Ma ho bisogno che tu faccia questa cosa per me, solo così riuscirò ad afferrarti la mano e farti scendere da lì.»

«È stata leiLei mi ha messa qui…»

«Ti credo, Pansy.» James preferì incoraggiarla e assecondarla. «Ti credo e ti capisco. E guarda, noi siamo corsi ad aiutarti, vedi? Il preside Corner e io siamo qui per te.»

«Michael», sussurrò quindi lei spostando lo sguardo sul preside, come se non lo avesse ancora visto. Era strano sentirlo chiamare per nome, ma James immaginò che fosse quasi normale, per due persone che lavoravano insieme da tanto tempo, e a così stretto contatto. Sentendosi chiamare, Corner sembrò ridestarsi dal suo torpore. 

«Pansy…» rispose facendo un passo avanti e affiancandosi a James. «Pansy, ascolta James. Per favore

James pensò che in quel “per favore” fossero racchiuse molte cose, più di quelle che i due lasciavano intendere, ma anche in quel caso preferì non farsi altre domande. Fece qualche altro passo avanti, fermandosi ai piedi della scala. Sembrava molto più pericolante e dissestata di quella che avevano salito lui ed Emma nell’altra stanza e deglutì. Dentro di lui si insinuò un piccolo dubbio, una stilla di rimorso per essersi offerto di salire prima di Corner, una goccia di egoismo che lo spingeva a dirsi che avrebbe benissimo potuto farsi gli affari suoi, invece di continuare a rischiare la vita, da dannato Grifondoro qual era - e che sarebbe rimasto sempre. Ma poi il coraggio tornò a invadergli ogni terminazione nervosa, insieme all’adrenalina, e si sentì nuovamente pronto a tutto. 

«Sto salendo, Pansy, ma prima ho bisogno che tu faccia quella cosa per me. Per noi», aggiunse, sperando che il pensiero del preside l’aiutasse e le infondesse coraggio. Finalmente, dopo tanto pregare, Pansy strisciò in modo maldestro di qualche centimetro, avvicinandosi all’imboccatura della scala. James fece allora un respiro profondo e mise un piede sul primo scalino. La scala ondeggiò pericolosamente, e lui si fermò qualche secondo, ponderando la situazione e sperando che la fortuna lo assistesse. Con cautela, un passo dopo l’altro, facendo attenzione che la struttura reggesse, James riuscì a raggiungerne la cima. Da lassù, si accorse che il ballatoio era davvero in alto, e capì perché Pansy fosse così tanto terrorizzata. Lui era abituato alle altezze, giocando a Quidditch, ma ovviamente capiva che non poteva essere così per tutti. Il preside Corner intanto si voleva rendere utile e si era quindi messo a reggere la scala, cercando di tenerla ferma per evitare che oscillasse troppo. James intanto si era accucciato di fronte a Pansy e le aveva teso una mano. La donna gliela strinse, e lui cercò i suoi occhi, intenzionato ad infonderle un po’ di coraggio. 

«Ci siamo», disse quindi a bassa voce, quasi come se temesse che parlare troppo forte avrebbe potuto farli precipitare entrambi nel vuoto. «Ora, con calma e lentamente, scendiamo, d’accordo? Il preside Corner è qui sotto che ci aspetta.»

Vide Pansy annuire, ma senza dire niente. James l’aiutò, sempre tenendola per mano, a fare qualche altro passo, ed entrambi sedettero sul primo scalino, il fiato corto per l’agitazione. James ponderò nuovamente la situazione, anche se ovviamente non c’era proprio nulla da ponderare: ora che era arrivato lassù, non gli restava che scendere. Avrebbe potuto far Levitare Pansy fin giù, ma non era sicuro di esserne in grado, così si voltò verso di lei e cercò di sorriderle, incoraggiante. «Si scende», disse solo. Pansy annuì nuovamente, ma senza guardarlo: ora aveva lo sguardo puntato su Corner. «Al mio tre, tu vienimi dietro. Non ti lascio andare, okay?» La donna annuì una seconda volta. «Uno… due… » James inspirò copiosamente, «… tre!»

 

[SI SCENDE]

 

La discesa fu velocissima. Macinarono tutti e dieci gli scalini come se stessero volando, e arrivarono al fondo esausti, come se avessero corso per dieci chilometri. Pansy si lasciò cadere nelle braccia di Corner, che l’afferrò subito, i riflessi pronti. James invece si accasciò a terra, sfinito. La scala aveva oscillato davvero tantissimo e continuava a cigolare pericolosamente sopra le loro teste.

«Spostiamoci da qui sotto», riuscì ad esclamare lui senza fiato. E così si trascinarono fuori dal giardino d’inverno, nuovamente all’interno di Heydon Hall. James riaccese la bacchetta e si lasciò cadere su uno dei divani coperti da lenzuola, sospirando e chiudendo gli occhi. Per un momento, mentre scendeva da quella maledetta scala, aveva davvero temuto che sarebbe crollato tutto sulle loro teste. 

 

[PANSY E MICHAEL]

 

Quando riaprì gli occhi, vide che Pansy e Corner erano seduti sul divano di fronte al suo, la prima letteralmente accoccolata sul petto del secondo, che la stringeva a sé, le labbra a baciarle i capelli e a sussurrarle affettuose parole di conforto. Ciò che aveva vagamente intuito e presagito si stava ora rivelando fondato: Pansy Parkinson e Michael Corner avevano una relazione. Da non crederci.

James allora si alzò in piedi. Era stufo e stanco e voleva davvero tornarsene a letto, anche se prima avrebbe dovuto farsi un’altra doccia per scrollarsi di dosso tutta la polvere e le ragnatele. Guardò la coppia che gli sedeva di fronte. 

«È meglio portarla in infermeria, vuole che avverta la guaritrice?»

Corner si alzò in piedi, e aiutò Pansy a fare lo stesso. Le drappeggiò la sua vestaglia sulle spalle magre e gliele cinse con un braccio. 

«Andiamo in infermeria, intanto, così Pansy potrà stendersi un attimo», rispose Corner. «Dopo aver avvertito Lamb - può chiamare lui la guaritrice - tu te ne torti a letto, però, ho abusato abbastanza del tuo aiuto, per stanotte.»

James annuì. «Non deve preoccuparsi, ho aiutato volentieri.»

Corner gli sorrise, il viso teso e stanco, e poi si avviò fuori, sempre con Pansy al suo fianco. James corse avanti per precederli e li scortò fino in infermeria, dove il preside fece stendere una Pansy ancora tremante su uno dei letti, rimboccandole le coperte fin sotto il mento. James li lasciò soli, e uscì per andare a cercare Lamb. Lo trovò fuori dalla stanza del personale, agitato e impensierito. 

«James!» esclamò quando lo vide arrivare.

«I ragazzi sono okay?» lo anticipò James.

Lamb annuì. «Sì, stanno tutti dormendo. Ma cos’è successo?»

«Ora ho bisogno che chiami subito la guaritrice, Lamb. Poi vai in infermeria, là troverai Pansy e il preside Corner, che ti spiegherà tutto.»

«Va bene, vado subito. Tu stai bene?» gli chiese poggiandogli una mano sul braccio.

«Sto bene, sì, non preoccuparti», annuì James. Poi guardò Lamb correre via e si trascinò quindi nella sua stanza. Richiuse la porta e vi si appoggiò contro, chiudendo gli occhi. Si sentiva davvero stanco. Stanchissimo. 

 

[JAMES È FINALMENTE SOLO]

 

Ebbe la forza per togliersi il pigiama lurido e farsi un’altra doccia, cercando di lavare via la polvere e lo sporco che si sentiva ancora addosso, appiccicato alla pelle. Ripensò a ciò che era successo, alle mille mila ipotesi e teorie che gli si erano formate in testa, ma soltanto una lo dominava, e gli impediva di valutarne delle altre: il fantasma di Heydon Hall aveva attaccato volontariamente Pansy, l’aveva condotta fin lassù e aveva cercato di farla fuori. Non c’era altra spiegazione per la scena che si era svolta nel giardino d’inverno. E quel che era peggio era che c’era una precisa ragione per la quale il fantasma doveva aver deciso di attaccare Pansy, l’unica, possibile ragione che, da qualche tempo a quella parte, la spingeva a fare ciò che faceva: proteggere Emma. Pansy aveva incolpato Emma di aver imbrattato il letto di Isabelle, decidendo di convocare Theodore, e Pansy ora veniva punita dal fantasma, addirittura rischiando la sua stessa vita. James si chiese fin dove la dama si sarebbe spinta, in quel suo gioco pericoloso, quali tasti sarebbe arrivata a toccare e quali atti di efferata violenza sarebbe giunta a compiere, pur di proteggere Emma. E si domandò anche cosa l’avesse fermata, questa volta. Durante l’incidente con Charles era stata Emma, ma ora? Ovviamente, nessuno sarebbe stato in grado di fornirgli la risposta che cercava, nessuno tranne la stessa Pansy. Avrebbe dovuto parlarle, non appena si fosse ripresa, e sperava presto, visto che la sua testimonianza poteva rivelarsi decisiva per le loro indagini. Le loro indagini? Esistevano ancora, queste indagini? Oppure Emma era fermamente intenzionata a evitarlo e a cancellarlo dalla sua esistenza? 

 

[ANCORA RAGNI]

 

James indossò un pigiama pulito, si rimise gli occhiali e tornò in camera. Sotto la finestra, una fila di ragni caracollava a nascondersi in un’intercapedine. 

 


Note.
 

Be’, intanto TANTI AUGURI A ME 🥳 ebbene sì, oggi è il mio compleanno, e giorno di pubblicazione di questo (da me attesissimo, ché non vedevo l’ora di farvelo leggere) capitolo nove. I nostri eroi finalmente sfogano almeno un pochino i loro bollenti spiriti ma, MA, James non tiene chiusa la sua boccaccia e rovina tutto. Pensavate davvero che sarebbe stato /così/ facile? AH AH chi mi conosce sa quanto sotto sotto io sia crudele 👀 Vabbe’, a parte gli scherzi, io spero tanto che questo capitolo vi sia piaciuto perché, oltre che al primo limon— EHM, bacio, tra Emmina e James, leggiamo anche ciò che è successo alla cara, vecchia Pansy, tutto perché non ha creduto ad Emma e ha deciso di convocare Theodore (che tornerà nel prossimo capitolo, quindi tenetevi forti perché il decimo sarà esplosivo); molti di voi avranno pensato “ben le sta”, lo so. E invece la relazione tra lei e Corner ve l’aspettavate? Non credo, fatemi sapere cosa ne pensate, mi raccomando - e non solo di questa 🔮

 

Concludo queste note mettendovi al corrente che ho terminato i capitoli già scritti e pronti per la pubblicazione, quindi non è affatto detto che io riesca a pubblicare regolarmente ogni lunedì, d’ora in avanti; insomma, adesso i capitoli dovrete attenderli, e spero che questa cosa non vi faccia scappare, anzi, che sia occasione di ulteriore suspense 👀

 

A presto e grazie mille come sempre, Marti 🐍

 
 
   
 
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