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Autore: Circe    04/02/2021    1 recensioni
Il veleno del serpente ha effetti diversi a seconda delle persone che colpisce. Una sola cosa è certa: provoca incessantemente forte dolore e sofferenza ovunque si espanda. Quello di Lord Voldemort è un veleno potente e colpisce tutti i suoi più fedeli seguaci. Solo in una persona, quel dolore, non si scinde dall’amore.
Seguito de “Il maestro di arti oscure”.
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Rabastan Lestrange, Rodolphus Lestrange, Voldemort | Coppie: Bellatrix/Voldemort
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'Eclissi di sole: l'ascesa delle tenebre'
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Dal grimorio di Bellatrix : “Edipo re”


I giorni passavano, ma quasi non me ne accorgevo. Il tempo era scandito solo dal sole che sorgeva e illuminava la stanza attraverso finestre semichiuse e la notte che poi arrivava, lasciando entrare il buio e il silenzio totale. 
Noi stavamo quasi sempre nel letto e facevamo l’amore ripetutamente.
Mi sentivo assolutamente bene fra le sue lenzuola, avvolta dal suo profumo, nell’odore del sangue che in quelle giornate accompagnava ogni attimo della nostra vita lì.
Avevo sofferto, ma era tutto perfettamente mescolato nella passione e nell’eccitazione. La notte il dolore e l’amore prendevano il sopravvento, di giorno mi addormentavo in una pace irreale, una sorta di abbandono che rasentava la perdita dei sensi e solo quando mi svegliavo realizzavo meglio la presenza delle ferite sulla pelle, le macchie di sangue sulle lenzuola.
Di momenti di passione ricordavo soprattutto la presenza del sangue che si espandeva ovunque accanto a noi e alla potenza di quegli orgasmi macabri. Ripensavo alla sua bocca, la lingua calda sulle mie ferite, il bruciore che mi provocava il suo tocco, era sempre veleno, puro e potente.
Naturalmente più passavano i giorni, più procedevamo in quelle pratiche, più mi sentivo debole e stanca.
Talvolta, nonostante questo stato di totale spossatezza, ero così presa dalla frenesia da non sentire la stanchezza, ma poi dimenticavo i particolari, mi sfuggivano dei momenti, non riuscivo a trattenerli nella memoria.
Il corpo cominciava a cedere, non resisteva più alle continue perdite di sangue.
Lo intuii una mattina in particolare, probabilmente perché la notte prima avevamo rallentato il tenore di quelle pratiche e quindi mi sentivo più lucida. Forse avevo anche dormito più del solito ed ero più riposata.
Guardai la luce fuori dalle imposte: era già alta. 
Decisi di alzarmi dal letto dopo vari giorni che non mi spostavo da lì, feci un bagno veloce e mi rilassai nell’acqua calda. Osservai bene le ferite: non erano brutte e profonde, il mio maestro ci era stato attento, ma erano tante.
Davvero troppe. 
Il sangue perso era tanto e infatti mi sentivo molto debole. Uscendo dalla vasca mi guardai allo specchio e mi vidi davvero molto pallida, con le occhiaie.
Dovevamo davvero smetterla, almeno per un certo tempo.
Presi un accappatoio e mi ci avvolsi dentro, qualche ferita si aprì nuovamente, ma niente di preoccupante.
Tamponai i tagli con garbo e rimasi avvolta in quel morbido calore.
Mi asciugai i capelli davanti al fuoco e tornai a letto, da lui.
Silenziosamente mi rimisi accanto al mio maestro e lo osservai: incredibilmente era calmo, dormiva. Vidi dei segni anche sulla sua pelle, pochi, ma profondi, avevano un brutto aspetto e stentavano a rimarginarsi.
Pensavo volesse solo avere il mio sangue, non pensavo volesse quasi privarsi del suo. 
Avrei dovuto immaginare, in realtà, che si sarebbe fatto male anche lui, che sarebbe stato estremo, come sempre.
Lo guardai ancora.
Gli accarezzai i capelli con lo sguardo, poi il viso.
Mi fece male il suo pallore eccessivo.
Sono stata sciocca a proporre questo gioco, lui è bravissimo a farsi del male. Quale occasione migliore di questa per portare il dolore all’estremo, vicino alla rovina e all’apice, mescolarlo poi col piacere.
Ci eravamo divertiti, non si poteva negare.
Mi venne un impulso forte di abbracciarlo, ma mi trattenni.
Sembrava volesse morire e rinascere grazie al mio sangue, sembrava volesse sostituirlo al suo.
Improvvisamente pensai di nuovo, dopo molto tempo, alla coppa, al nuovo elemento, la terra. La nascita e la rinascita.
Era questo che doveva fare con quella coppa: rinascere. 
Voleva sempre rinascere ad ogni incantesimo, diventare diverso, più forte ancora e più potente. 
E dire che a me piaceva tanto già così.
Intuii, anche se non in maniera precisa, il significato che mi mancava dell’elemento terra: la morte e la rinascita successiva, ciò che avveniva in natura grazie alla terra.
Per un istante lo avevo capito, poi era di nuovo sfumato.
Comunque qualcosa avevo colto e me lo feci bastare.
Ora però non potevamo continuare in quel modo, il mio Signore sarebbe diventato troppo debole. Avrebbe dovuto affrontare un incantesimo distruttivo di lì a poco tempo e non potevo lasciare che si rovinasse ancora di più.
Probabilmente lui sfidava le sue capacità, ma io dovevo essere più razionale, sapevo che era arrivato il momento di fermarci.
Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso, era tanto bello, quasi perfetto. 
Mi chiesi, guardandolo, se si rendeva conto del suo stato, della sua debolezza e se si ricordasse dell’incantesimo a Beltane.
Non era certo tipo da scordare le cose, lo avrebbe fatto sicuramente lo stesso l’incantesimo e, se gli avessi detto qualcosa del mio pensiero, probabilmente si sarebbe innervosito perché, a detta sua, non gli riconoscevo la sua grandezza ed estremo potere.
Non era affatto così, naturalmente, mi preoccupavo perché lo amavo, nient’altro.
Lo guardavo ancora, ero come ipnotizzata da lui, non riuscivo a staccarmi, ad allontanarmi da lì. 
Eppure bisognava fare qualcosa, subito.
Mi alzai da letto e mi misi una sottoveste leggera, aumentai il fuoco nei camini e mi recai nella stanza adiacente.
Mi sforzai di pensare agli ingredienti di una pozione adatta. Cercai le boccette e trovai velocemente l’occorrente.
Mescolai tutto portando a volume con un pochino di acqua distillata e agitai: la pozione era pronta.
Presi dell’ovatta e la provai sulle mie ferite.
In pochi attimi il rossore diminuiva, la pelle cicatrizzava velocemente: mi sembrò riuscita bene.
Tornai in camera in silenzio e mi misi accanto a lui. Impregnai ancora l’ovatta nel liquido e mi fermai un istante: non volevo svegliarlo per cui prima scaldai la pozione con le mie mani e poi gliela misi, delicatamente, su uno dei suoi tagli.
Li osservai bene: tagli profondi, precisi e netti, fatti senza esitazione, che stentavano a rimarginarsi. 
Guardai lui ancora, era difficile per me accettare il suo irrefrenabile potere autodistruttivo, mi sforzai di non pensarci, misi il batuffolo sul braccio e attesi.
Il sangue si fermò subito, la ferita prendeva un aspetto più bello, lentamente si rimarginava. Ne fui contenta, ma non feci in tempo a spostare il batuffolo che lui aprì gli occhi, mi guardò cupo e si allontanò palesemente contrariato. 
“Scusatemi, maestro, ma volevo solo…”
Era duro, arrabbiato.
“Come osi? Come ti viene in mente?”
Tentennai. Erano le cose che più lo facevano innervosire quelle e lo sapevo molto bene, ma ero convinta che bisognasse agire per limitare i danni.
“Scusatemi, mio Signore, non mi permetto più.”
Gli porsi la pozione con l’ovatta.
“Fatelo voi però. Sono giorni che andiamo avanti così e ne stiamo risentendo. Mio Signore, non per me, non perché non continuerei ad esaudire i vostri desideri, ma perché dovete fare un incantesimo potente, avrete bisogno di tutta la vostra energia. Invece in questo modo potreste indebolirvi.”
Il mio era un eufemismo, in verità io ero debolissima, lui palesemente era distrutto.
Restammo fermi a valutarci e studiarci.
Ritenevo quantomeno strano che da me si facesse toccare, baciare, leccare, che facessimo l’amore insieme e che ormai conoscessi tutto il suo corpo, ma che non potessi mettergli una pozione su una ferita, o fargli una carezza sui capelli e altre cose di questo genere. 
Eppure era fatto così e c’era poco da pretendere.
“Non ne ho bisogno.”
La sua ostinazione era esasperante, non sapevo come fare per convincerlo, provai dunque a fare l’opposto.
“Scusatemi, volevo semplicemente servirvi al meglio. La pozione la riprendo e la getto via se non vi aggrada, non volevo in nessun modo contrariarvi, mio Signore.”
Allora, senza dire una parola, mi prese l’ovatta dalle mani e la appoggiò sulla pelle, tamponando le cicatrici senza molta cura.
Finito di rimarginare i tagli, lo vidi sdraiarsi di nuovo sul letto, lentamente e stancamente. Sembrava anche  un pochino sofferente. Era infatti solito fare così quando era stanco, o dolorante.
Si coprì gli occhi col braccio e rimase per qualche istante zitto e fermo in quella posizione.
Io rimasi a lungo ferma a guardarlo, fu lui ad interrompere il silenzio.
“Il tuo sangue è caldo, Bella.”
Mi avvicinai a lui nel letto, posai la pozione sul pavimento per non rovesciare tutto.
“Come dite, mio Signore?”
Mi misi accanto a lui.
“Dico ciò che percepisco. Dopo questi giorni di frenesia, di amplessi sanguinosi, sento il sangue più caldo nelle vene, si è mescolato al tuo. Il mio sangue è freddo, congelato, il tuo è fuoco.”
Sorrisi a quelle parole. Gli risposi quasi scherzando.
“Mio Signore, il mio sangue è uguale al vostro non noto questa differenza…”
Non feci quasi in tempo a terminare la frase che mi afferrò il braccio in modo fulmineo, violento. Mi fece male, stringeva in maniera inumana. Mi guardò così malamente che fui costretta a gemere dal dolore e dalla paura di quegli occhi.
Cosa mai avevo detto di tanto sbagliato?
“Non osare prendermi in giro, il tuo sangue non è uguale al mio, come anche tu ben sai.”
Solo allora capii. 
Ero stata ingenua: io a quella cosa che riguarda le sue origini non ci penso mai, per me non esiste. Per lui invece sì. 
Me lo ha dimostrato in ogni modo il problema insormontabile che sente, eppure io ho commesso ancora una volta una imperdonabile leggerezza.
Avevo detto quelle parole quasi per scherzo, per ribattere alla sua frase. Invece, molto scioccamente, avevo toccato un punto molto dolente.
Mi venne quasi da piangere: intuivo il suo dolore, ma non lo sapevo capire e comprendere fino in fondo.
“Scusatemi, mio Signore, sono costernata, continuo a non essere alla vostra altezza.”
Mi guardò, continuava a stringere il mio braccio, dovetti andare avanti.
“Vorrei servirvi, starvi accanto, meritare tutto ciò che mi concedete, ma ancora certe cose di voi non le so capire.”
Lo guardai: non sapevo che reazione avrebbe avuto, se cattiva o violenta, oppure mi avrebbe ignorata, allontanata e schifata.
Invece la conversazione prese tutto un altro tono.
“Non potrai mai capire. Non potrai mai capirmi. Eppure è tutto molto semplice, lineare e logico, quasi elementare.”
Mi lasciò lentamente il braccio, restammo vicini, ci guardammo silenziosi.
“Il motivo per cui io voglio stare da solo è perché sono solo, se ti tengo a distanza è perché siamo distanti.”
Non osai proferire parola: per quanto quelle frasi mi sembrassero dure e mi ferissero, sentivo di dover lasciare spazio a lui. Percepivo che, in fondo, quello che stava dicendo era niente più che la cruda realtà.
Eravamo all’apice di un momento molto particolare, ci trovavamo in un equilibrio instabile fra le sue rivelazioni, o una totale ennesima chiusura. 
Se avessi sbagliato una sola impercettibile azione, avrei dovuto rinunciare per sempre ad un momento di confidenze da parte sua, a cui, invece, tenevo molto.
Restai zitta, ma mi mostrai attenta, disponibile. Dopo un lungo silenzio si aprì in un racconto spezzato, tortuoso e sofferto.
“Non è solo questione di sangue, sai? La purezza, il sangue magico. Non è tutto lì.”
Lo ascoltai come incantata dalle sue parole.
Non volava una mosca in quelle ore mattutine in cui la luce, seppur resa fioca dalla nebbia e dalle nuvole fuori, penetrava le imposte e rischiarava la stanza.
Prese di nuovo l’ovatta e, quasi per distrarsi, tornò a tamponare i tagli che ormai erano quasi completamente rimarginati.
Non mi guardava, osservava la sua pelle ritornare integra.
“Nel mio mondo, nel mondo reale, è la sofferenza che conta, non il sangue puro. È la sofferenza che ti segna, già nel momento in cui nasci. Non solo, la senti probabilmente anche prima di nascere e rimane incastrata dentro di te, non te ne liberi più. La rabbia è l’unica possibilità di vita insieme all’istinto, la bestia dentro di te. Un odio freddo e spietato è l’unica reazione possibile, altrimenti non si sopravvive.”
Io ascoltavo attentamente, ma non era facile capire, parlava seguendo le sue idee, le sue esperienze a me sconosciute.
Posò la pozione e riprese a guardarmi fissamente.
“Il sangue puro, o non puro è solo un simbolo, niente di più.”
Si fece silenzio, attesi alcuni istanti, poi provai a parlare lentamente, con tatto.
“Un simbolo di cosa, mio Signore?”
“Un simbolo dell’odio che ho per mio padre. Del rifiuto, della rabbia che sento nei suoi confronti.”
Si appoggiò al cuscino, sullo schienale del letto, parlava mostrando noncuranza, ma dietro la facciata percepivo la fatica per dire poche frasi, vedevo le espressioni terribili dei suoi occhi, i muscoli tirati delle sue mani e sulle braccia nude.
Non mi aveva mai detto quelle cose, non so se le avesse mai dette a nessuno.
Cosa voleva dire quando affermava che il sangue era solo un simbolo? Non lo capivo. 
Il mio mondo era sempre girato attorno al sangue puro, al sangue magico. 
Nella mia famiglia contava solo il toujour pur, per lui era ovviamente molto diverso.
Immaginai che il padre fosse quello senza sangue magico, la madre invece, doveva essere la purosangue. Non mi parlò di lei però, non capii che fine avesse fatto, né perché lui odiasse così tanto suo padre.
Era cresciuto in un posto di quelli che ospitano bambini senza genitori, sapevo solo questo. Dove fossero i genitori quando lui era un bambino, come fossero andate le cose non mi era chiaro. 
“Com’eri tu a sedici anni?”
La domanda mi stupì e mi riportò alla realtà. Mi venne d’impulso di rispondere subito, così da sentire altro dei suoi racconti, capire perché mi aveva chiesto quella cosa. Provai a ricordare quell’età e descriverla in poche parole.
“Ero già brava con la magia, mio Signore, leggevo molto di voi sul giornale, vi cercavo già da allora. Andavo a scuola e andavo bene, ero dotata, ma stavo in una banda di ragazzi con cui facevamo molti guai, non avevo nessun fidanzato. A casa stavo con le mie sorelle e ridevamo tutto il tempo. Cose così, sciocchezze...”
Mi guardava con sguardo enigmatico, forse distante, si scosse i capelli con le dita, ma quelli gli ricadevano comunque sulla fronte scompigliandosi.
“Io a sedici anni viaggiavo da solo nel mondo. A sedici anni ho cercato mio padre e l’ho ammazzato a sangue freddo. Poi ho fatto lo stesso con chi restava della mia famiglia.”
Rimasi a guardarlo, fredda come il ghiaccio.
“Feci una strage, nessuno se ne accorse, fui bravo a non farmi scoprire, ebbi una fredda determinazione ad uccidere e una fredda razionalità ad incolpare chi mi faceva comodo. Mi divertii a vedere come la facevo franca con poco.”
Continuai a tacere e ascoltare, non mi stupì di cosa fosse stato capace, mi stupì quanto fosse fuori dall’ordinario e che me lo stesse raccontando come una semplice chiacchierata.
“Questa cosa mi indusse a capire che potevo fare tutto, bastava solamente che lo volessi.”
Lo guardavo negli occhi scuri e penetranti, riuscivo solo a pensare che mentre io giocavo con la magia, lui la usava per uccidere i genitori, tutto questo a sedici anni.
Quel pensiero, nel profondo del mio animo, mi faceva impazzire dall’eccitazione e dal desiderio.
Lui alzò lo sguardo, incrociò i miei occhi e sorrise, mi sembrò fossimo assolutamente complici in quel momento.
Amavo quel sorriso che mi regalava, così freddo e malato, senza gioia e pieno di passione.
“Ti piace, vero? Ti piace questa cosa che ho fatto e ti ho raccontato? Ti piace e ti eccita quello che sono stato capace di fare quando ero ancora un ragazzino.”
Gli sorrisi, non trovai le parole giuste per dirgli quanto avesse ragione, quanto desideravo averlo dentro di me, quanto volevo mi facesse del male con le sue spinte violente e incessanti. Volevo vedere e sentire la sua violenza.
Mi piaceva da morire quando mi diceva queste cose, si apriva a me e mi raccontava di quanto fosse straordinario.
“Sai cosa mi viene in mente ora?”
Iniziò a parlare con maggiore leggerezza, sembrava leggermente più rilassato.
“Ditemi, mio Signore.”
“Durante le vacanze di Natale di quell’anno, poco prima di compiere sedici anni, appunto, avevo letto un libro: L’Edipo re. Sai bene anche tu che amo molto leggere e quella tragedia, in particolare, mi colpì molto. 
lo rilessi varie volte, volevo capire. Forse è da lì che ho preso l’idea.”
Lo guardai in maniera interrogativa, ogni tanto citava cose che io non conoscevo, faceva forse riferimenti al mondo babbano che per me era completamente sconosciuto. 
La sua vita invece ne era intrisa completamente, questo per me avrebbe dovuto essere motivo di astio, di sdegno, mentre, in verità, diventava motivo di estremo fascino. 
Non capii mai perché, ma mi venne assolutamente spontaneo trovare totalmente affascinante in lui, ciò che odiavo negli altri.
Mi accorsi che mi guardava attento. 
Ricambiai quindi la sua occhiata. Il suo sguardo era diventato più vivace, quasi scherzoso.
“Non lo conosci vero, ragazzina purosangue? Non hai mai sentito parlare di Edipo, tu.”
Scossi la testa un pochino mortificata, ma lui non se ne curò affatto, mi guardava in modo strano, possessivo, quasi maniacale.
“Uccidi il padre, scopa la madre… uccidi il padre, scopa la madre… uccidi il padre, scopa la madre.”
Mentre ripeteva incessantemente quelle poche parole, iniziò ad avvicinarsi a me molto lentamente. Iniziò a battermi forte il cuore solo guardando i suoi occhi e sentendo la sua voce.
“Uccidi il padre, scopa la madre. Era diventato un mantra per me, durò mesi.”
Non avevo la minima idea di cosa stesse parlando, il libro, il mantra, era tutto sconosciuto ai miei occhi. 
Sentivo solo quelle frasi ripetute ossessivamente, con quella voce cupa, profonda e oscura. I suoi occhi ipnotici che si avvicinavano ai miei, sembrava di incrociare lo sguardo di un serpente selvaggio.
Ero così presa da quello sguardo che parlavo senza occuparmi del senso delle mie frasi, distratta da quegli occhi che mi prendevano e mi avvelenavano.
“Mio Signore, avevate promesso che non mi avreste più chiamato ragazzina…”
Piagnucolai un pochino, tornai ai tempi in cui potevo fare la ragazzina coccolata dal maestro, più forte e maturo. 
Lui poteva farmi tutto, solo così mi sentivo davvero viva.
“Tu non conosci la sofferenza e tantomeno la tragedia, vero ragazzina?”
Si prendeva gioco di me, mi faceva arrabbiare di proposito. Era tornato allegro, aveva cambiato umore di nuovo, come cambia il vento: in un istante.
“Mio Signore, ancora con questo ragazzina?”
Insistei a piagnucolare ancora un po’.
“Taci, Bella. Ti chiamo come mi pare. Non solo, ti prendo come mi piace e quando mi piace: sei mia, solo mia, completamente.”
Non potevo resistere a quelle parole, al suo richiamo di possesso. Smisi subito con le lamentele, mi avvicinai a lui scompigliando le lenzuola ancora macchiate, avrei voluto cingerlo tra le mie braccia e offrirmi a lui, ma sarebbe stato troppo.
Mi fermai accanto il suo corpo, ne assaporai l’odore, ne potevo sentire il calore, feci scendere la sottoveste restando quasi completamente nuda.
“Sì, mio Signore, completamente vostra. Il mio corpo, il mio sangue, fatemi male ancora, vi prego.”
I suoi occhi mandarono un particolare bagliore rosso non appena vide il mio seno alzarsi e abbassarsi per i sospiri, per il desiderio di lui.
“Chiedimelo ancora, pregami, se vuoi che ti faccia male.”
Sorrisi a quelle parole, lui mi guardava e non si muoveva, non mi concedeva nulla. Lo pregai nei modi più perversi che conoscevo.
Lo volevo troppo.
“Di più, molto di più. Implorami.”
Si prese tutto il tempo per ascoltare ogni mia singola parola, preghiera e implorazione, per godersi tutto fino in fondo.
Non gli feci mancare nulla.
Lentamente cercò il coltello tra le lenzuola e con esso mi strappò, lentamente, tutta la sottoveste. La fece a brandelli davanti ai miei occhi desiderosi di lui, guardavo la lama e non desideravo altro se non che strappasse via tutto, volevo solo sui sopra di me e lui dentro di me.
La lama era macchiata del nostro sangue incrostato da giorni e giorni di sesso perverso.
Sentii di nuovo la sua pelle sulla mia e i suoi sussurri, le sue frasi viziose che mi davano brividi di piacere.
“Brava, implora. Ti faccio male quante volte vuoi, dammi il tuo sangue, io ti do il mio veleno, ti invado tutta, ti riempio, tu soffoco, tu sei solo mia.”
Entrò velocemente dentro di me. Fu violento, come sempre, non aspettava mai che io fossi bagnata per bene, lo faceva di proposito così il dolore fra le gambe era intenso e profondo proprio come una lama.
Poi solo sangue e piacere.
 
 
   
 
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