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Autore: Yunomi    09/02/2021    2 recensioni
"I pianti, le isterie, i lanci di innocenti gerani oltre i balconcini, gli sguardi accesi dalla passione e dal fuoco che non si placava mai, né con il sesso né con le conversazioni alle tre di notte, aggrovigliati come senatori romani tra le lenzuola bianche, le sigarette, i vizi dannosi, le corse in Corvette. L’amore. Quell’amore deleterio, malsano, quell’amore che mi aveva consumata come un fiammifero e che mi aveva ridotta ad un pugnetto di ossa stanche, il cui unico sostentamento era costituito da niente di più che libri e sigarette. No. Non più"
Sequel assolutamente non richiesto di Big God. La lettura è fortemente consigliata per capirci qualcosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chloe Decker, Lucifer Morningstar, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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The heart of the mutter*
 
 
 
"Lloyd, son finite le energie."
"Mi sembrava di aver notato un certo esaurimento."
"Direi di attivare il generatore di buone notizie..."
"Se mi permette, sir, il generatore alza la tensione emotiva per poco tempo, sir."
"E allora, che si fa?"
"Consiglierei di rivolgersi al sole, sir."
"Con dei pannelli?"
"Con il viso, sir."
"Il caffè fallo servire in terrazza, Lloyd."
"Con estremo piacere, sir."
 
 
Ci sono leggi fisiche ben precise che regolano i delicati equilibri dell’Universo.
Per esempio, è noto ed elementare che l’energia non si può creare né distruggere, ma può essere convertita da una forma all’altra; oppure che una qualsiasi forza genera sempre un qualche tipo di movimento. Che le stelle nascono quando inizia la fusione dell’idrogeno, una volta raggiunta la temperatura di 15 milioni di K, e che quando spalmi di burro una fetta di pane, e ti scivola dalle mani, essa è logicamente destinata a cadere dal lato che hai imburrato, diretta sui pantaloni puliti che hai sapientemente deciso di indossare prima di fare colazione.
Allo stesso modo, se la sera prima decidi che una birra non potrà fare più male di quello che hanno fatto svariati chupiti di gin a stomaco vuoto, è certo con uno scarto di probabilità dello 0,00000000001% che la mattina dopo ti sveglierai con una cefalea inenarrabile, una nausea che nemmeno alle prime tre settimane di gravidanza, e una voglia di vivere così misera che Edgar Allan Poe era un allegro zuzzurellone, in confronto a te.
Nell’esatto istante in cui aprii gli occhi, quel luminoso giovedì mattina, seppi che sarebbe stata una giornata terrificante.
La luce che filtrava dalle finestre era così insopportabile che avrei voluto cavarmi gli occhi.
Mi coprii il viso con un cuscino, premendo forte.
Avevo la testa confusa come se qualcuno l’avesse disinvoltamente svitata dal mio collo e l’avesse agitata come un Martini, per poi riavvitarla al contrario.
Gin. Crisantemi gialli. Nascondino fu la catena logica che il mio cervello mi fece sfilare dietro gli occhi, spacciandoli per pensieri sensati.
La mia risposta a tutto ciò? Ma. Che diamine.
Percepii un movimento, una serie di passi frettolosi diretti verso il letto; il materasso si piegò sotto il peso di qualcuno che vi si era seduto. Una mano che conoscevo bene per il suo tocco accondiscendente si posò sul braccio. Mi arrivò alle narici un profumo di schiuma da barba e doccia appena fatta.
“Buongiorno, splendore.”, disse Thomas.
Gli grugnii. Poi tolsi il cuscino dal viso e lo fissai. “Thomas.”
“Sì?”
“Mi ami?”
“Ora come ora?”
“Ora come ora.”
“Abbastanza.”
“Okay. Prendi il coltello a sega giù in cucina.”
“Mh.”
 “E fammi il piacere di recidermi la testa una volta per tutte.”
“Ti amo perché sei una persona equilibrata e per niente drammatica.”
Sbuffai, colma di insofferenza e fastidio, e riposizionai il cuscino sulla faccia.
“Sono svegli?”, chiesi, sempre con la bocca coperta.
Thomas, che certo era in odore di santità, ma non aveva ancora sviluppato alcuna peculiare capacità di tradurre i miei mugugni in proposizioni dotate di senso, sospirò, e raccogliendo la pazienza come si raccoglie una penna caduta dalla scrivania mi chiese: “Che hai detto?”
Tolsi il cuscino dalla bocca, ma non dagli occhi. Stupida luce mattutina. Ripetei la frase senza riuscire a trattenere un tono piagnucolante.
“Non so. Non sono ancora sceso.”, disse lui.
Mi tolse con gentilezza il cuscino dagli occhi per rivolgermi uno dei suoi soliti sguardi comprensivi. Appoggiò un bacio delicato sulle mie labbra.
Bofonchiai qualcosa che voleva, in via teorica, assomigliare ad un verso di godimento, per spronarlo a ripetere il gesto.
Thomas, che ormai mi capiva meglio di quanto mi capissi io stessa, mi baciò ancora sulla bocca, sulla guancia, sul naso.
“Lo sai che abbiamo giocato a nascondino, ieri sera?”, mi disse, alternando un bacio ad una parola. In quel momento, non me ne poteva fregare di meno di quello che avessimo fatto la sera prima; infatti ignorai.
Le mie mani planarono lascivamente sulla cinta dei suoi pantaloni; iniziai ad armeggiare con la fibbia, impegnandomi ad espropriare quel mal di testa che aveva deciso di risiedere in pianta stabile dietro i miei occhi. Gli rivolsi uno sguardo dolce da cerbiatta.
“Devo andare a lezione.”, disse lui poco convinto, approfondendo il bacio. Sorrisi nel sentire che aveva scalciato le scarpe.
“Sei facilmente corruttibile.”, dissi, ribaltandolo sotto di me. Mi feci togliere la maglietta ed ammirare con una punta di golosità. Mi morsi un labbro, e il suo pollice giunse come una benedizione ad accarezzare il punto dove avevo affondando gli incisivi.
Un calore ben noto mi fiorì dietro l’ombelico, irradiandosi velocemente verso una zona pericolosa. Mi mossi su di lui.
“Mi stai offrendo delle argomentazioni su cui francamente vorrei riflettere.”, ribattè Thomas, attirandomi il viso di nuovo contro il suo.
Gli levai gli occhiali.
Una voce improvvisa tagliò il rumore dei nostri respiri come un coltello. “Bravoni.”
Colpita e affondata, crollai sul letto dalla mia torre di lussuria.
La Papessa se ne stava appoggiata allo stipite della porta con un sorriso da Stregatto ed un vassoio di pasticceria in mano.
“Ma buongiorno.”, disse, con un tono malizioso.
Mi coprii con il cuscino e feci volare una cinquantina di bestemmie in direzione della mia amica. Thomas invece non si scompose; rinfilò la camicia nei pantaloni e inforcò gli occhiali. “Sei spiacevole e inopportuna come un dito nel culo.”, le rispose, franco e sorridente.
“Ah, lei ha studiato a Cambridge, vedo.”, replicò quella. “Alzati, Molly. I tuoi ospiti sono già in piedi.”
Come da consuetudine, mugugnai.
Thomas mi baciò ancora una volta, prima di sfilare davanti alla Papessa scuotendo la testa.
“Nonostante tu abbia superato i quaranta vedo che hai ancora una libido galoppante.”, disse sorniona la mia amica, abbassando lo sguardo in maniera poco elegante sul cavallo dei pantaloni di Thomas. “Mazeltov.”
“La menopausa non rientra nelle mie preoccupazioni. Tu, piuttosto, a che punto sei?”, ribatté Thomas, scappando giù dalle scale prima che lo scapaccione che la Papessa aveva incoccato raggiungesse la sua persona.
Io intanto sorrisi, scuotendo la testa e cercando di infilarmi la maglietta nel verso giusto, pensando a quelle piccole violazioni di domicilio che ci si può permettere solo quando conosci davvero bene una persona.
La Papessa aveva trentasette anni, ed era la cognata di Thomas. Faceva la traduttrice e si dilettava di esoterismo e tarocchi marsigliesi; era una donna misteriosa ed accattivante. Era una di quelle persone che, se entrano in casa tua, cambiano l’acqua ai fiori e aprono le finestre; piccoli gesti, minuzie, davvero, che immediatamente ti fanno stare meglio. Arieggiano il cuore ancora prima delle stanze. E lei si muoveva ovunque come fosse casa sua, perché il mondo era casa sua, e le sue ampie gonne svolazzavano come tende gonfiate dal vento.
La Papessa riordinava istintivamente, e lo faceva senza che te ne accorgessi. Sia che fosse raddrizzare un soprammobile storto o piegare uno strofinaccio abbandonato sui fornelli.
Piccoli, impercettibili dettagli che tuttavia, nell’insieme, ti facevano vivere in maniera più chiara. Era il vento che soffiava nel cielo, trascinando via le nuvole e rendendolo limpido come un lago alpino.
E dopo qualche ora che se n’era andata, al suo posto trovavi sempre una raccolta di poesie irlandesi e un vago aroma di salvia e naftalene.
“Metto su il caffè.”, mi disse la Papessa, scuotendomi dai miei pensieri, solo parzialmente annebbiati. Sorrisi ed inspirai il suo odore: quella mattina aveva i capelli fulvi raccolti, e le labbra dipinte di viola scuro si aprirono in un sorriso malizioso e complice. Un sorriso da fata.
“Per questo sei mia amica.”
Dopo essermi assicurata per telefono che la bambina avesse dormito e stesse bene, aprii l’armadio in cerca di un paio di jeans comodi.
La testa continuava a girare, e mi dolevano terribilmente le tempie, ma stavo iniziando a farmene una ragione.
Mi pizzicai le guance per restituire un po’ di colore alla pelle, spalancai le finestre. L’impatto con l’aria fredda di novembre mi restituì a vita nuova.
 
Appena misi piede in cucina, capii che non ero l’unica ad aver accusato il colpo, quella mattina: non potendo trovare una compagna nella Papessa, che era fresca come una rosa appena sbocciata, franai a sedere accanto a Chloe, che fissava con sconforto una tazza di caffè fumante attraverso un paio di occhiali dalle lenti specchiate.
“Buongiorno.”, dissi, legandomi i capelli in una cipolla bionda.
“Mh.”, rispose Chloe. Alzai le sopracciglia, pensando che mi era appena stato rubato il titolo di bofonchiatrice mattutina.
Thomas si stava servendo di caffè in un angolo, stringendo una brioche tra i denti. Lo maledissi mentalmente: l’unico essere sulla faccia della Terra che riusciva a somigliare ad un modello di Burberry alle otto del mattino. Mi sorrise tronfio perché, come al solito, aveva perfettamente decrittato il mio sguardo.
Dovetti, a malincuore, rettificarmi quando Lucifer fece il suo ingresso trionfale in cucina fischiettando l’inno inglese, con nient’altro che un asciugamano bianco intorno alla vita. Forse ce n’erano due di esseri sulla faccia della terra che riuscivano a sembrare fotomodelli di prima mattina.
Chloe abbassò leggermente le lenti specchiate, e la sentii deglutire a vuoto.
“Buongiorno!”, esultò lui. Si versò un bicchiere di succo d’arancia, che corresse subito con un po’ di whiskey dalla fiaschetta – da dove l’aveva tirata fuori, la maledetta fiaschetta? Lo fissai intensamente.
“La tua imitazione del falco pellegrino sta diventato paurosamente somigliante, complimenti.”, mi schernì Thomas, notando lo sguardo corrucciato che rivolsi a Lucifer.
La Papessa gli fece l’occhiolino. “Bravo. Whiskey e vitamina C: proprio come faceva mia madre.”
Lucifer alzò il bicchiere in direzione della Papessa, felice di aver finalmente trovato qualcuno che approvasse le sue abitudini alimentari.
Chloe li zittì tutti, agitando le mani intorno al capo come un direttore d’orchestra. “Mal di testa.”
Lucifer glissò lo sguardo su di lei; poi si rivolse verso di me, e sulle mie occhiaie. Ritornò a guardare la Papessa.
“Ma… sono messe così per ieri sera?”, chiese, incredulo.
“Non parliamone.”, ribattè la Papessa, scuotendo la testa sconsolata. “E’ imbarazzante. Sono due anni che cerco di elevarla, questa qui.”
“Ti pregherei di finirla.”, disse Thomas, scrutando l’orologio. “Vorrei evitare che sua figlia perdesse la madre in seguito a una cirrosi epatica.”
“Come sei melodrammatico! Per un bicchierino di gin!”
“Quando gliel’ho chiesto ieri sera il conteggio era fermo a dodici, se non sbaglio.”
“Finitela di parlare come se non ci fossi,”, dissi io, massaggiandomi le tempie, “e ragguagliatemi. Ho un vuoto di memoria che sembra la fossa delle Marianne.”
Thomas mi baciò il capo ed indossò il cappotto. Squadrò Lucifer e il suo déshabillé con disappunto e imboccò la porta, lasciandosi dietro un a dopo generale.
La Papessa sedette al tavolo, ed estrasse un foglietto dalla tasca dei pantaloni.
“No, cioè, fammi capire.”, chiese Lucifer, che trovava tutto estremamente spassoso, quella mattina. “Hai preso appunti?”
Mi stupii che non si fosse messo a battere le mani come una scolaretta.
Sedette al tavolo di fianco a me, e il suo odore fresco di doccia mi investì le narici. Ebbi un tremito che sperai vivamente fosse passato inosservato.
La Papessa guardò Lucifer come si guardano gli stolti. “Certo. Sapevo che avreste voluto parlarne, stamane.”
“Oh, per l’amor d’Iddio.”, fece Chloe, esasperata, strappandosi gli occhiali. “Mi sembra tutto così infantile e stupido. La nostra vita sentimentale non è una lezione di sociologia da cui attingere per uno studio!”
“Se parti così alle otto del mattino non so se arrivi a sera.”, le disse la Papessa con un filo di compianto.
“Legga, sua Santità. La prego.”, rispose Lucifer, ignorando lo sguardo al fulmicotone che Chloe gli rivolse.
La Papessa inforcò un paio di occhiali anni Settanta, e si schiarì la voce. “Abbiamo giocato a burraco. Lucifer ha proposto di giocare a strip poker, e Chloe gli ha tirato una scarpa. Poi abbiamo aperto la cassa di Heineken in fondo alla dispensa, quella che abbiamo comprato per quel barbecue.”
“Quando è stato che l’abbiamo comprata?”, chiesi.
“Eri ancora incinta.”
“Ah. Senti, com’è che mi ricordo di una partita a nascondino?”
La Papessa mi fissò intensamente, e qualcosa le attraverso gli occhi: un colpo d’ala, un pensiero fugace che venne prontamente agguantato per le zampe e rimesso in gabbia. Mi voltai verso Lucifer e Chloe, ma stavano parlando tra loro.
La Papessa si schiarì la voce, e attirò la loro attenzione. Continuò a leggere.
“Poi Chloe si è messa a ballare You Should Be Dancing dei Bee Gees e ha rotto il vaso dei crisantemi gialli in salotto con una sculettata un po’ troppo sentita.”
“Oddio. Scusami.”, fece Chloe, portandosi le mani alle labbra. Le rivolsi un gesto di noncuranza con la mano; sapesse quanto me ne poteva fregare dei cazzo di crisantemi. Stavo iniziando a preoccuparmi che la solerte dattilografa altresì nota come Papessa avesse registrato qualche uscita inopportuna da parte mia. Mi guardai intorno con stizza, alla ricerca delle sigarette.
“Aspetta, credo di ricordare il rumore di qualcosa che si sfracellava a terra.”, disse Lucifer, stringendo gli occhi in due fessure per la concentrazione. Lo guardai con un sopracciglio alzato.
La Papessa si levò gli occhiali e mi guardò pensosa. “Sai cosa ho letto sui crisantemi?”
“Prima fammi fumare una sigaretta.”, la interruppi, alzandomi e brancolando in cucina.
Bestemmiai mentalmente al pensiero che Thomas potesse averle nascoste. Lucifer mi chiamò come un fischio: in altre situazioni gli avrei più o meno gentilmente indicato la via per andare a fanculo, datosi che non ero un cane. Tuttavia, una sigaretta americana se ne stava appoggiata sul suo palmo, sdraiata come una salma.
La afferrai senza scomodarmi a ringraziare; dopo il primo tiro tornai ad essere carina ed amabile.
“Cosa hai letto sui crisantemi?”, chiesi, rivolgendomi alla Papessa e tentando di ignorare il borbottio di Lucifer, che mi rimproverava come una suora per la mia maleducazione.
“Ho letto che i crisantemi gialli si portano per chiedere perdono.”
“Io sapevo che si portano ai morti.”, ribadii.
“Mi vuoi dire che se metto piede in salotto troverò un monumento ai caduti di cocci e crisantemi?”
“Beh, io non ho pulito.”, rispose la Papessa, facendo spallucce.
La guardai fissa negli occhi, incredula.
“Cioè, fammi capire: Chloe ha urtato il vaso con il sedere.”
“Sì.”
“Il vaso è caduto.”
“Esatto.”
“Si è rotto.”
“Ja.”
“E tu, che eri l’unica sana, non hai pensato di raccogliere i cocci? Sapendo che io vivo a piedi scalzi in questa casa maledetta?”
La Papessa mi fissò intensamente per qualche istante; poi, come a voler avvalorare ciò che di lì a poco avrebbe esclamato, sventolò il pezzo di carta davanti al mio naso.
“Dovevo prendere appunti.”, mi cantilenò nell’orecchio.
E certo.
 
I'm not angry anymore
Well, sometimes I am
I don't think badly of you
Well, sometimes I do

It depends on the day
The extent of all my worthless rage
I'm not angry anymore

I'm not bitter anymore
I'm syrupy sweet
I'll rot your teeth down to their core
If I'm really happy.

It depends on the day
If I wake up in a giddy haze
Well I'm not angry
I'm not totally angry
I'm not all that angry anymore.

(Paramore)
 
 
Avevamo risolto di accompagnare la Papessa in ufficio, giusto per prendere un po’ d’aria e approfittare del sole che il cielo inglese ci aveva concesso, quella mattina.
Per tutto il viaggio in taxi guardai fuori dal finestrino, un berretto calato fin sulle sopracciglia e un’espressione torva.  
Chloe aveva recuperato in parte il buonumore – sospettai grazie al trattamento che le dedicò Lucifer nel bagno degli ospiti dopo la colazione – e ora stringeva le dita intorno al ginocchio di Lucifer come a voler rimarcare insistentemente i confini di ciò che le apparteneva.
La Papessa dispensava mentine e aneddoti divertenti su ogni angolo di Londra che ci sfrecciava di fianco: mi ritrovai a scambiare con l’autista uno sguardo di mal sopportazione dell’altrui presenza.
In tutta onestà? Avevo timore a restare sola con Lucifer e Chloe; una paura tutta di pancia che non aveva assolutamente intenzione di farsi scalfire dalle numerosi ragioni che il mio cervello sciorinava per tentare di tranquillizzarmi.
Non serviva a nulla cercare di razionalizzare una situazione come quella: secondo i nostri piani, avremmo dovuto incontrarci più maturi e lucidi in grado di sostenere il peso dei ricordi e dei non detti che aveva caratterizzato la nostra vita a Los Angeles fino al giorno dell’Incidente (la Papessa pronunciava quella parola con un tono così grave che per forza l’iniziale aveva dovuto ergersi a maiuscola, nei nostri pensieri).
E invece eccoci lì, a squadrarci come adolescenti acerbi, incapaci di mettere i nostri problemi con le spalle al muro senza l’aiuto di fiumi di alcool. Come vampiri, alla luce del giorno ci ritiravamo timorosi nelle profondità più lontane di noi stessi, mettendo su le maschere di cartapesta degli amici di vecchia data pur di non manipolare troppo la mina vagante sotto i nostri piedi, di cui peraltro non riuscivamo ad ignorare il ticchettio inquietante.
Andammo a guardare le anatre ad Hyde Park.
Lucifer e Chloe parlavano di nuove carte da parati e far fare la revisione alla Corvette, ma io non riuscivo a smettere di pensare.
Mi accesi una sigaretta, un modesto tentativo di asfissiare il criceto che nel mio cervello aveva cominciato a correre sulla sua ruota.
Durante il resoconto della disastrosa serata precedente, la Papessa aveva esitato davanti ad un punto particolare del foglio.
Chloe era troppo stanca, e Lucifer troppo distratto per rendersene conto, ma io la conoscevo. Conoscevo i suoi sguardi, i suoi tentennamenti, i suoi lunghi silenzi carichi di elucubrazione.  Soprattutto, non mi poteva sfuggire la sua imbarazzante inettitudine a dissimulare: quella mattina, dopo aver concluso il lungo catalogo di acrobazie in cui Lucifer si era cimentato, si era schiarita la voce in maniera fin troppo plateale per non sottendere dell’altro; avevo notato nei suoi occhi la fioritura improvvisa di un’agitazione, qualcosa che decisamente non si confaceva al solito aplomb e al contegno che muovevano i suoi gesti. Un guizzo di preoccupazione che aveva cancellato un attimo dopo, fingendo che non fosse stato nulla.
Mi stava nascondendo qualcosa, e quel che peggio, mi nascondeva qualcosa che non avrebbe potuto vivisezionare davanti agli altri.
Guardai Lucifer e Chloe, appoggiati alla ringhiera che divideva il laghetto delle anatre dal selciato: chiacchieravano amabili, dannatamente perfetti per stare insieme, si davano di gomito, si facevano il solletico.
Come se nulla fosse.
Io invece mi sentivo avvolta da una nuvola nera gonfia di pioggia, come se stessi aspettando il momento adatto per sganciare la bomba. Ma quale bomba?
Mi ritrovai a percepire come dolorosa la mancanza del terreno sotto i piedi; mi sentivo dilatata e in procinto di staccarmi dal suolo.
Rimasi imbambolata davanti alle anatre per tutta la mattina, prigioniera di un pensiero che continuava a sfarfallare, come una luce difettosa, impedendomi di vedere chiaramente. Un pensiero che si muoveva tra due estremi opposti, due possibilità assolutamente identiche e ugualmente pericolose: a giudicare da alcuni sguardi che Chloe mi lanciò ripetutamente, aguzzi come pugnali lanciati da un circense bendato, nell’arco di tempo di quel blackout mnemonico dovevo averla fatta grossa.
 
 
 
 
 
Questo capitolo è:
1) dedicato alla cedrata Tassoni
(not sponsored), che mi ha dato quel guizzo di zuccheri necessario per portare avanti questa storia e lo studio dell’esame di estetica – che grazieadioèandatobene.
2) un po' inutile.
3) un po’ … sospeso su fili invisibili.
Non temete: i fili ci sono.

Si scoprirà presto che diavolo (haha.) hanno combinato.
Vi mando un bacio.
Y.
 

*gioco di parole tra “matter”, che completa l’espressione idiomatica “heart of the matter”, il nocciolo della questione, e “mutter”, che significa mugugno, borbottio.
   
 
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