Alla fine dello scorso capitolo
vi avevo promesso che non vi avrei fatto aspettare troppo.
Ecco, avrete sicuramente notato
che ho miseramente fallito.
Sono una frana con le promesse.
Ma sono di nuovo qui, e ho
portato con me un nuovo capitolo.
Spero che sia un buon compromesso
:)
In the still of the night
33.
-
Ne sei sicuro?
-
Non ho cambiato idea negli ultimi dieci secondi, Katniss – dice Peeta, quasi
sbuffando. – Fammi vedere.
Ho
quasi voglia di non seguire il suo ordine, ma alla fine faccio come mi ha
chiesto e sollevo lo specchio davanti a me, in modo che Peeta possa vedere il
suo volto riflesso. Lo specchio, quadrato e dorato, è abbastanza pesante; me lo
ha prestato Effie.
Sì,
Effie è riuscita a trascinarsi dietro uno specchio prima di lasciare Capitol
City.
Osservo
attentamente le espressioni che Peeta, seduto sul suo letto d’ospedale con la
schiena premuta contro i cuscini, assume a mano a mano che prende
consapevolezza di ciò che ha ancora sul viso: i lividi bluastri, i tubicini
dell’ossigeno, ed ovviamente la lunga e spettrale cicatrice piena di punti che
gli attraversa il lato sinistro della faccia. Volta il viso verso destra, poi
verso sinistra, si passa le dita più volte sui segni evidenti. È molto
silenzioso, mentre lo fa. Sulla sua fronte sembrano prendere forma mille
pensieri.
-
Non rimarrà più niente quando guariranno – dico in fretta per tranquillizzarlo.
Ho paura che il suo silenzio sia dovuto a questo.
Peeta
si passa una mano sul resto del viso e comincia ad accarezzare la barba
biondiccia che, nel frattempo, gli ha ricoperto mento e guance. Sorride, smette
di guardare nello specchio e comincia ad osservare me. – Chissà com’è conciato
l’altro – commenta.
Abbasso
lo specchio di botto, inarcando le sopracciglia. – Scherzi?
Ridacchia,
scuotendo piano la testa. – Mi stavo dimenticando quanto fosse divertente
prenderti in giro.
-
Se sapevo che volevi fare solo questo, avrei chiesto agli altri di lasciarti a
Capitol City – esclamo, punta sul vivo, ma alla fine rido anche io.
È
assurdo, completamente assurdo, ritrovarsi a scherzare e a sprecare tempo in
chiacchiere futili dopo una circostanza come quella che ha attraversato Peeta.
È quasi morto, ha rischiato di non raggiungere il Distretto 13 in tempo per
poter ricevere le cure di cui aveva un così disperato bisogno… e adesso,
invece, è davanti a me, e ride come se nulla fosse. Ma forse, a dettare questo
tipo di reazione è l’istinto di sopravvivenza. È lui, ancora una volta.
L’istinto
di sopravvivenza fa accantonare tutto ciò che può farci del male, e ci fa
concentrare sulle futilità della vita. Le risate, ad esempio. Ma può agire
anche nel senso inverso: può farti vedere solo il nero della situazione,
l’orrore, per non mostrare il rosa, la gioia. Può agire in tanti modi, ed
aiutarti in tanti modi. L’istinto di sopravvivenza ti dà coraggio nel momento
del bisogno… ma non sempre si ottiene il risultato sperato.
Ho
scoperto che Peeta ha contato davvero molto sul suo istinto di sopravvivenza.
Qualche
ora fa, quando mi ha mandata alla ricerca di uno specchio, lo ha fatto con uno
scopo ben preciso: voleva, sì, che ne trovassi uno, ma contava anche sul fatto
che ci impiegassi un po' di tempo nel farlo. Non voleva che tornassi subito
perché non voleva assolutamente che sentissi ciò che aveva da dire.
Sin
dalla fine della missione di recupero, Plutarch, la Coin e gli altri membri del
Comando hanno sottoposto i vincitori ad una sorta di interrogatorio per sapere
ciò che era accaduto loro durante la prigionia. Tutto ciò che ricordavano,
tutto ciò che avevano subito, tutto ciò che avevano detto loro: usando una
parola soltanto, tutto poteva essere utile alla causa dei Ribelli.
Johanna ed Annie avevano già svolto il loro dovere, ma non Peeta. Le sue
condizioni, i primi giorni dopo il suo arrivo al 13, non glielo avevano
permesso… ma adesso che era sveglio, e che stava un po' meglio, aveva chiesto
di fornire il proprio contributo. Era stato proprio lui, di sua spontanea
volontà, a chiedere l’incontro.
Non
sono riuscita a scoprire quand’è che questo avrebbe avuto luogo fino a che non
sono tornata in ospedale, non più di due ore fa, con il pesante specchio di
Effie sotto un braccio; ho percorso il corridoio fino alla camera di Peeta ed
ho allungato il braccio libero per spingere la porta, che era socchiusa, ma mi
sono bloccata quando ho sentito la voce di Plutarch.
-
…la prima intervista a cui hai preso parte, Peeta, quando è stata registrata?
-
Una settimana dopo l’esplosione dell’arena – risponde Peeta. – Non più tardi di
una settimana. Ne sono sicuro perché dopo avermi fatto uscire dall’arena, mi
hanno riportato nella mia stanza al Centro di Addestramento. Sono rimasto lì
per sette giorni precisi, senza sapere nulla, finché non è arrivata Portia a
dirmi che dovevo essere preparato per un’intervista.
-
Portia è la tua stilista? – ha chiesto Plutarch prima di continuare. – Ti ha
spiegato perché dovevi essere intervistato?
-
Non sapeva molto nemmeno lei. Sapeva solo che dovevo essere pronto e che dovevo
essere presente nello studio entro due ore, al massimo. Le era stato incaricato
di mostrarmi il filmato della nostra ultima ora nell’arena. Quello… – aggiunge
Peeta, interrompendosi sull’ultima parola.
-
Prenditi qualche minuto se ne hai bisogno, ragazzo – dice Haymitch.
Ma
Peeta riprende a parlare quasi immediatamente.
-
Quando il filmato è terminato è entrato Antonius.
-
Il Ministro della Difesa?
-
Mi ha spiegato a grandi linee ciò che era accaduto a Panem nella settimana in
cui mi hanno tenuto al Centro di Addestramento: mi ha parlato del Distretto 13,
dei Ribelli e della rivoluzione che hanno messo in atto. Mi ha detto che
Katniss era stata catturata dai Ribelli, e che loro l’avrebbero costretta con
la forza a diventare la portavoce della Rivolta.
No,
Peeta, no. Non mi hanno costretta. Sono stata io ad accettare, nessuno mi ha
costretta. L’ho fatto per te, per salvarti…
-
Mi ha detto che dovevo essere dalla loro parte per vendicarmi di ciò che le
avevano fatto. Secondo Antonius, la colpa per ciò che è accaduto a nostra
figlia era da attribuire ai Ribelli, e alla presidente Coin. E a te, Plutarch.
Sento
Plutarch ridere. - È proprio tipico di Antonius scaricare la colpa sugli altri.
Tu non ci hai creduto, vero, Peeta?
-
Forse su di te non aveva tutti i torti.
Stavolta
Plutarch ha la decenza di non ribattere.
-
Quando mi hanno portato nello studio televisivo, mi hanno dato una sorta di
copione da seguire. Dovevo solamente parlare di ciò che è accaduto nell’arena e
di aggiungerci la richiesta del cessate il fuoco sul finire dell’intervista.
-
Quindi il cessate il fuoco non è stata una tua idea?
-
Prima che me lo dicessero loro, non sapevo nemmeno che fosse iniziata una
guerra.
-
Capitol City ha trasmesso la tua richiesta poco più di tre settimane fa. Ci
sono diverse settimane di scarto dalla registrazione in avanti… te la senti di
raccontarci cos’è accaduto dopo?
Sono
rimasta seduta fuori dalla sua stanza ad ascoltare, in silenzio, andando contro
il desiderio di Peeta di volermi tenere all’oscuro di tutto. Sono rimasta seduta
su quel pavimento freddo per parecchio. Sono rimasta lì, ed ho sentito raccontare
dalla sua stessa voce il modo in cui hanno tentato di farlo sentire piccolo, di
schiacciarlo, di annientarlo. I modi in cui hanno cercato di distruggere la sua
anima, ed il suo corpo.
Prima
ci sono state le sedute di elettroshock, accompagnate da lunghi giorni in cui
hanno cercato di estorcergli con la forza anche la più piccola parola che
potesse condurli ai Ribelli; giorni in cui non lo hanno lasciato dormire, giorni
in cui non gli hanno dato cibo ed acqua, giorni in cui la minaccia e l’attesa
del sopraggiungere dei torturatori era essa stessa una tortura. A sentire
Peeta, anche Johanna ha subito più o meno lo stesso trattamento; l’unica
differenza, tra i due, è che Johanna aveva le preziose informazioni di cui
Capitol aveva bisogno, ma non le ha rivelate. Johanna non ha rivelato neanche
mezza parola. Peeta, invece, non sapeva nulla. Ed il suo silenzio, non forzato
ma obbligato, non faceva altro che far infuriare i suoi carnefici.
Con
il vociferare sempre più insistente dell’esistenza dei Pass-Pro, e del mio
ruolo come Ghiandaia Imitatrice per i Ribelli, sono cominciate anche le
percosse. E qui si va ad inserire la seconda intervista, stavolta non
registrata ma in tempo reale, e con un copione intero da recitare alla
perfezione.
-
Dopo quell’intervista hanno scelto un altro modo per cercare di farmi parlare –
mormora Peeta. Si prende qualche momento di silenzio, e poi ricomincia. – Hanno
scelto di farmi assistere ad alcuni interrogatori. La prima persona non era stata
scelta a caso: dovevano aver sentito parlare del costume che Katniss indossava
nei Pass-Pro…
-
Cinna – dice Haymitch, bloccando le parole di Peeta.
-
Cinna – ripete lui.
-
Cinna… - mormoro io.
L’ultimo
ricordo che ho del mio stilista risale alla mattina dell’inizio degli Hunger
Games. Come l’anno precedente, mi ha accompagnata durante il volo in hovercraft
fino all’arena in cui si sarebbe svolta l’azione; mi ha portata nella
stanzetta, giù nelle catacombe, dove mi sono fatta una doccia rapida ed ho
indossato, aiutata dalle sue mani delicate, la tuta leggera che costituiva
l’uniforme per i tributi di quest’anno. Mi ha intrecciato i capelli al solito
modo, mi ha chiesto se volessi provare a mangiare qualcosa, e poi ci siamo
seduti vicini, in silenzio ed in attesa della chiamata. Mi ha stretto la mano per
tutto il tempo. E quando è arrivato il momento di entrare nel tubo di lancio,
sessanta secondi prima di essere spedita nell’arena, mi ha abbracciata forte.
Mi ha baciato la fronte, ha accarezzato le mie guance e la mia pancia. Ero
ancora incinta della mia bambina.
-
Buona fortuna, Ragazza di Fuoco – ha mormorato, e mi ha fatta entrare
nel tubo.
Ho
seguito i suoi occhi per tutto il tempo mentre la pedana mi faceva salire in
superficie, fino a che non sono spariti dalla mia visuale, e non li ho visti
più.
Gli
occhi scuri e gentili di Cinna…
-
Cinna era a conoscenza dell’intero piano – ammette Plutarch.
-
Ma non ha mai rivelato nulla. Neanche alla fine – sussurra Peeta. – Hanno
provato a farlo parlare in tutti i modi, con ogni mezzo a loro disposizione, ma
lui non ha mai confessato niente. Nemmeno quando… - si interrompe. – Neanche
quando gli hanno amputato le dita.
Chiudo
gli occhi e porto le mani sulla bocca per non far sentire il gemito che mi è
uscito dalle labbra. Le dita: gli hanno amputato le dita. Le dita per uno
stilista sono tutto. Ma Cinna non era solamente uno stilista, il miglior
stilista degli Hunger Games e di tutta Panem: era mio amico.
Era.
Parlo
di lui al passato. Non ci vuole molto a capire perché… sono un’illusa, se penso
che lo abbiano lasciato vivere.
-
Le sue ultime parole le ha rivolte a me. “Scommetto ancora sulla Ghiandaia
Imitatrice”… poi gli hanno sparato una pallottola in testa.
Oh,
Cinna.
Peeta
viene messo al corrente di ciò che è accaduto a Portia e ai preparatori, miei e
suoi: sono morti. Tutti morti. Dopo il salvataggio dei vincitori, sono stati
giustiziati in diretta nazionale come monito per tutti coloro che hanno osato,
e osano ancora, ribellarsi contro Capitol City.
Non
presto molta attenzione al resto del suo racconto: è troppo, troppo doloroso.
Peeta aveva ragione nel pensare che dovevo rimanerne all’oscuro, ma allo stesso
tempo sento che è qualcosa che dovevo sapere. Conoscere anche questa parte di
storia è fondamentale, per me, è essenziale. È un modo come un altro per
concentrare la mia rabbia, per indirizzarla su colui che da mesi è diventato il
mio obiettivo primario.
Su
colui che è stata la causa del mio dolore, del dolore di chi amo, e che mi ha
portato via ciò che ho di più caro.
Focalizzare
la rabbia sul presidente Snow mi schiarisce la mente, e mi rende più chiaro il
compito che dovrò fare nell’immediato futuro.
Ucciderlo.
Io
e Peeta stiamo ancora ridendo quando Gale bussa piano alla porta e fa per
entrare.
-
Posso? – chiede, quasi timoroso di disturbare.
-
Certo che puoi – dico subito.
-
Sì, Gale, entra pure.
-
Sono passato a vedere come sta Peeta, e per salutarvi entrambi.
-
Stai andando via? – gli chiede Peeta.
-
Ci mandano al Distretto 2 – risponde.
-
A fare cosa?
-
È l’ultimo distretto che ancora resiste. La Coin vuole farlo cedere il prima
possibile, così da avere campo libero per entrare nella capitale.
L’occhio
mi cade sugli abiti che Gale indossa: non sono i soliti abiti grigi che, qui al
13, indossiamo tutti i giorni, ma è l’uniforme che indossa durante i Pass-Pro.
Ed è, probabilmente, la stessa uniforme che indossava quando è stato a Capitol
City per salvare i vincitori.
Qualcosa
mi suggerisce che non faranno cedere il Distretto 2 con le buone maniere: si
recano lì per combattere.
-
Perché non me ne hanno parlato? – domando, inarcando un sopracciglio.
-
Dicono che ti coinvolgeranno più avanti, appena avranno la vittoria tra le
mani. Hanno ancora bisogno dei Pass-Pro.
-
Ti avrei fatto chiamare, Gale. Volevo parlarti – dice Peeta. – E ringraziarti.
Gale
lo osserva. – Non devi farlo, Peeta, non ce n’è bisogno. Tu avresti fatto lo
stesso per me… lo hai già fatto, in un certo senso.
Il
ricordo della fustigazione di Gale mi invade la mente, scorre davanti ai miei
occhi come se fosse un evento recentissimo, e non vecchio di mesi com’è in
realtà. Non posso dire che le parole del mio amico sono sbagliate, o false: ha
ragione. Quel giorno, Peeta mi ha aiutato a liberarlo dalle corde ed a
trasportarlo insieme agli altri fino a casa mia, per fare in modo che mia madre
potesse curarlo. E nei giorni successivi si è reso utile come poteva.
Se
al suo posto ci fosse stato Gale, torturato e lontano centinaia di migliaia di chilometri,
non ci avrebbe pensato due volte ad offrirsi volontario per andare a salvarlo.
-
Non è solo perché mi hai fatto uscire da quel posto, Gale, ma anche per tutto
il resto. Per Katniss – aggiunge, lanciandomi una veloce occhiata. – Le sei
stato vicino quando io non… ti sarò debitore per tutta la vita.
Gale
scuote la testa. – Non voglio avere debiti con i miei amici – esclama,
sorridendo. Tende una mano verso Peeta, e lui la accetta. Se le stringono a
vicenda in segno di amicizia e di intesa, lasciandomi senza parole.
Osservo
i due uomini più importanti della mia vita stringersi la mano come se stessero
stipulando un patto silenzioso tra di loro, un patto che coinvolge anche me, in
qualche modo. Li osservo, e mi sembra di non scorgere nulla nei loro sguardi:
nessun rancore, nessun segno di rabbia, o di tensione per i trascorsi dei mesi
passati. Sembrano davvero due ragazzi normali. Due amici.
È
molto più di quello che mi potessi aspettare.
Finnick
entra in camera mentre Peeta dorme e non si ferma per molto tempo; dice che è
passato giusto per lasciarmi qualcosa da sgranocchiare.
-
Sono sceso in cucina a rubarle per Annie – dice, soddisfatto.
Le
sue parole mi fanno, ancora una volta, sentire in colpa. Mi ricordano di quanto
sia forte e prepotente il mio egoismo, perché in questi giorni non ho fatto
altro che pensare a Peeta e all’infuori di lui non c’è stato altro.
-
Mi dispiace, Finnick – dico in fretta, sconfortata. – Non ti ho chiesto come
sta Annie – o come sta Johanna, aggiungo mentalmente.
-
Non fa niente, Katniss. Non te ne fare una colpa, è più che comprensibile –
sorride, accarezzandomi dolcemente la schiena. Poi fa scivolare un pacchetto
marrone sulle mie gambe. – Ho pensato che avessi bisogno anche tu di un po’ di
dolce – aggiunge.
-
Che cos’è?
-
Zollette di zucchero.
-
Piano… con calma, Peeta, prenditi il tuo tempo – mormoro. Rafforzo la presa sul
suo fianco, ma senza esagerare.
-
Più piano di così – scherza, guardandomi.
Da
diversi giorni, i medici hanno ritenuto che le ferite di Peeta fossero guarite
abbastanza da consentirgli di scendere dal letto e fare qualche passo per la
stanza; si è stancato subito, all’inizio, ma col passare dei tentativi è andata
sempre meglio. Dai pochi passi del primo giorno, siamo passati ai brevi tratti
lungo il corridoio fuori dalla sua camera… ed ogni giorno allunghiamo, di poco,
la distanza. Gli faccio fare delle piccole pause quando mi accorgo che si sta
stancando, anche se si lamenta perché dice di non averne bisogno. Gli hanno
tolto l’ossigeno, così non abbiamo più l’impedimento di quei tubicini a cui
pensare; il trauma toracico non è ancora guarito del tutto, però, e lo spesso
strato di bende che gli circonda le costole me lo ricorda ogni giorno. I medici
gli stanno riducendo le dosi di antidolorifico. So che prova del fastidio, ma
non me lo dice mai.
Se
c’è una cosa che non evita mai di dimostrarmi, invece, è il suo buonumore. Fa
un sacco di battute.
-
Stai andando benissimo… ma non devi sforzarti. Se vuoi riposare-
-
Ti amo, Katniss, e amo il modo in cui ti preoccupi per me… ma stai esagerando –
Peeta si ferma, poggiando il braccio destro contro la parete e tenendo l’altro
contro la mia spalla. – Riposerò non appena avremo raggiunto la fine del
corridoio.
-
Ho paura che ti stanchi troppo – ammetto.
Dopo
settimane intere in cui non ho fatto altro che pensare alla morte, a Peeta, al
dolore e alle torture, preoccuparsi per qualcosa di futile come la stanchezza è
molto strano. Bizzarro, quasi. Ma preferisco pensare di gran lunga alla fatica,
e a tutto ciò che essa comporta, piuttosto che a tutto il resto.
Pensare
alla fatica mi fa quasi somigliare ad una ragazza normale. Vorrei tanto
essere una ragazza normale…
-
Non succederà – mi rassicura, abbassandosi di poco per sfiorare i miei capelli
con le labbra. – Alla fine del corridoio, promesso.
Stiamo
quasi per arrivarci, alla fine del corridoio, quando qualcuno decide che per
quel giorno abbiamo percorso fin troppa strada; Boggs, infatti, ci viene
incontro e capisco che sta cercando noi dal modo in cui ci fissa. Insieme a
lui, a seguirlo, c’è una biondissima Delly Cartwright. Decisamente, l’ultima
persona che mi aspetterei mai facesse coppia con uno come Boggs.
-
Ciao, Katniss! – mi saluta subito la ragazza, coi suoi soliti modi gentili ed
entusiasti. – Come stai, Peeta?
-
Non c’è male, Delly. Grazie – le risponde Peeta.
-
Mi dispiace interrompervi, ragazzi, ma al Comando richiedono la tua presenza,
soldato Everdeen – si inserisce Boggs.
-
Riguardo a cosa? – chiedo.
-
Non è questo il luogo in cui poterne discutere – dice subito.
Sbuffo.
– Riaccompagno Peeta nella sua camera ed arrivo, Boggs. Grazie.
-
Ho l’ordine preciso di scortarti fino al Comando. La signorina Cartwright è
venuta qui appositamente per sostituirti.
“Sostituirmi”:
ha usato questa parola. Anche se so che l’ha detto in buona fede, e che di
Delly mi posso fidare, non ho nessuna voglia di staccarmi da Peeta. Devo
ripetere più volte a me stessa che sta bene, e che qui dentro non può
accadergli più nulla di male, per convincermi a lasciarlo andare per pochi
minuti.
-
Vai pure, Kat – Peeta sembra aver capito al volo ciò che sta passando nella mia
testa. – Delly mi farà compagnia… ci faremo una bella chiacchierata!
-
Sì, Katniss, gli terrò compagnia fino a che non tornerai! – esclama Delly,
sorridendo a trentadue denti. Ha un viso così dolce e sincero a cui non si può mai
dire di no.
Sospiro,
vinta. – Torno presto – sussurro a Peeta, issandomi sulle punte delle scarpe
per lasciare un leggero bacio sul suo mento. Tante cose sono cambiate, ma lui
rimane sempre alto, ed io sempre bassa. Questo vecchio e ripetitivo gesto sa di
familiare, di casa. È qualcosa che non sono riusciti a portarci via.
Peeta
mi fa l’occhiolino mentre lo lascio alle cure di Delly e seguo Boggs fuori
dall’ospedale, dentro un ascensore e, ai livelli inferiori, lungo i corridoi
che sono diventati così noti ai miei occhi e che mi porteranno nella solita
sala destinata alle riunioni.
-
Come mai mi hanno fatta chiamare? – provo di nuovo a chiedere a Boggs, ma lui
ha le labbra cucite.
-
Lo saprai tra qualche minuto, soldato – risponde. Di qualsiasi cosa si tratti, non
me lo dirà.
Una
volta nella Sala Riunioni, dove come al solito ci trovo la presidente Coin
insieme a Plutarch e a Fulvia, non mi ci vuole molto per capire il motivo.
Tutti e tre sembrano abbastanza scontenti da ciò che sta accadendo al Distretto
2… o, per meglio dire, di ciò che non sta accadendo. Il Distretto 2 resiste
ancora.
-
Non si sono ancora arresi? – chiedo.
-
Lo faranno a breve. Le nostre forze stanno cercando di mettere a punto un piano
per buttare giù le difese dell’Osso…
L’“Osso”
è il soprannome che hanno affibbiato all’enorme montagna che sovrasta il
Distretto, montagna che fa da spartiacque, in qualche modo, tra la capitale e
tutto il resto della nazione. È anche il luogo in cui sono custoditi gli
armamenti, le forze militari di Capitol City, e tutto ciò che può
accompagnarli. Da quel che ho capito, la montagna è piena zeppa di cunicoli
scavati nella roccia, proprio come abbiamo fatto noi nel Distretto 12, nelle
nostre miniere, ed è fremente di attività. È lì che si sono radunati coloro che
ancora resistono, mentre i Ribelli hanno conquistato, giorno dopo giorno, e presidiato
il resto del distretto.
-
…e procederanno non appena li avrai raggiunti.
Devo
aver perso una parte del discorso. – Come?
-
Andrai al Distretto 2 ad assistere alla nostra vittoria – dice la Coin. – Devi
essere lì quando accadrà, e girerai dei Pass-Pro informativi per tutti quanti i
distretti. Partirai stasera stessa.
Stasera.
Non ho, praticamente, nemmeno il tempo per fare i bagagli. Bagagli, poi, è una
parola grossa… da quel che ho capito, l’unica cosa di cui avrò bisogno sarà la
mia uniforme da Ghiandaia Imitatrice. Uno zaino sarà più che sufficiente. Eppure,
non mando giù di buon grado l’ordine di partire che ho appena ricevuto.
-
Come faccio con Peeta? – mi esce dalle labbra.
-
Peeta starà benissimo, Katniss. Non dovrai assolutamente preoccuparti della sua
salute. È in buone mani – mi tranquillizza Plutarch. – Scommetto che quando
tornerai sarà persino stato dimesso dall’ospedale.
Lo
guardo, non del tutto convinta. Fatico a credere a quasi tutto ciò che dire
Plutarch, ormai…
-
Concordo con ciò che ha detto Plutarch: il tuo fidanzato è in buone mani.
Ricordo bene le condizioni con cui hai accettato di essere la Ghiandaia per il
Distretto 13 – aggiunge la Coin. – Ed io mantengo sempre le mie promesse.
Osservo
i suoi occhi, il suo sorriso appena accennato: certo che ricorda. Ricordo anche
io, ed è qualcosa che non si più dimenticare facilmente. Inoltre, la Coin ha un
forte debito nei confronti di Peeta, colui che fino a due settimane fa riteneva
essere un traditore e che ci ha avvertiti di un attacco aereo che avrebbe
potuto seppellirci tutti nel sottosuolo. Non può ignorare questo debito… e sono
sicura che non lo farà. Non se vuole che io continui a fare ciò che faccio.
Ho
giusto il tempo di radunare le mie cose, incluse le mie armi alla Difesa
Speciale, prima di tornare in ospedale per salutare Peeta. Tra poco più di
mezz’ora mi aspetta un viaggio in hovercraft: Boggs sarà il mio accompagnatore,
ed una volta arrivati nel Distretto 2 ci ricongiungeremo col resto della
truppa, inclusi Cressida ed il suo team di riprese. Gale è già sul posto da più
di una settimana; che ci sia lui ad attendermi, forse l’unico vero amico nel
raggio di chilometri, è un piccolo spiraglio a cui posso aggrapparmi.
Quando
raggiungo il mio fidanzato scopro che si trova da solo, seduto sul letto; Delly
deve essere già andata via. Non so da quanto, effettivamente, perché anche io
ho impiegato più tempo del dovuto per fare armi e bagagli. Non voglio
assolutamente lasciare il Distretto 13… non voglio lasciare Peeta. Ma devo
farlo, ed il fatto di avere degli obblighi che mi impediscono di scegliere
liberamente cosa posso o non posso fare rende il tutto ancora più frustrante da
mandare giù. Sono proprio dei bocconi amari, questi.
-
Ciao – lo saluto, posando i miei bagagli accanto alla porta.
-
Ehi – Peeta soppesa con lo sguardo l’ingombro di cui mi sono appena liberata,
poi soppesa il mio viso. – Cosa succede?
Mi
siedo di fronte a lui, sul materasso. - Devo andare al Distretto 2: stanno per
farlo cedere, e mi vogliono laggiù per quando accadrà – gli spiego, facendola
breve.
Annuisce,
prendendo la mia mano. – Gale te lo aveva già accennato, in effetti. Quando
tornerai?
Trattengo
una risata. – Sinceramente? Non ne ho la più pallida idea…
-
Magari sarà una cosa veloce!
-
Già, magari…
Qualcosa
mi dice che non sarà così.
Mi
distraggo, adesso che posso ancora permettermi di farlo, abbassando gli occhi
sulle nostre mani intrecciate. Perdo, quindi, l’attimo in cui Peeta si sporge
sul suo comodino per prendere qualcosa, anche se colgo appena i suoi movimenti.
– Ho qualcosa per te – sussurra, costringendomi a distogliere lo sguardo dalle
nostre dita per puntarlo su di lui, e su ciò che ha posato sul palmo della
mano.
E
non riesco a credere a ciò che vedo.
-
Ma come- balbetto, mentre faccio scorrere gli occhi dal viso di Peeta
all’anello, e viceversa. Come ha fatto a tenersi stretto il mio anello di
fidanzamento?
-
Portia – dice soltanto, ed un sorriso mesto gli compare sulle labbra.
Deglutisce, schiarendosi poi la voce. – Ma non è importante il “come”, Kat.
L’importante, ora, è che posso restituirlo alla sua legittima proprietaria – aggiunge.
Prende la mia mano sinistra nella sua e c’è tanta soddisfazione sul suo viso
mentre fa scivolare l’anello al mio anulare, così come fece quando mi chiese di
sposarlo. Lo rimette nel posto in cui deve stare. Le pietre preziose
scintillano, proprio come le ricordavo. – Così avrai qualcosa di mio, laggiù.
-
Oh, Peeta… - incurante delle sue condizioni, del dolore che potrei provocargli,
e di chiunque possa passare davanti a quella porta, mi sporgo con poca
delicatezza verso di lui e premo le mie labbra sulle sue.
Non
deve provare chissà che gran fastidio, Peeta, se mi abbraccia come mi sta
abbracciando e se ricambia il mio bacio nel modo in cui lo sta ricambiando.
Spronata da questi segnali, intensifico ancora di più il bacio, mordendogli
piano il labbro inferiore per poi passarci sopra la lingua, come per scusarmi
di aver provato a fargli del male. Peeta mi stringe la schiena, e tiene una
mano sul mio collo per tenere ferma la mia testa. Come vorrei poter restare
così per il resto dei miei giorni… ma finisce troppo presto. Come tutto, qui,
finisce troppo presto.
Peeta
lascia un bacio leggero sulle mie labbra, socchiuse e umide, e strofina il naso
contro il mio. Mi osserva attraverso le palpebre socchiuse. – Non dimenticarti
di me mentre sei via – mormora.
Non
potrei mai dimenticarti, penso.
Senza
pensarci, e senza neanche rifletterci in un certo senso, mi stacco da lui per
recuperare e sfilare dal collo la catenina d’argento da cui non mi sono mai più
separata da un mese a questa parte. La catenina con la perla. Vorrei avere
qualcosa di meglio da lasciargli, qualcosa che non mi abbia regalato lui e che
si vede restituire in questo modo, ma al momento è tutto ciò che posso
permettermi. Ci sarà tempo, più avanti, per rimediare.
Per
ora, la perla va benissimo allo scopo.
Faccio
scivolare la catenina attorno al suo collo e afferro il piccolo pendente,
premendolo contro il suo petto. Adesso anche Peeta ha qualcosa che lo farà
pensare a me, ogni volta che osserverà la perla bianca.
-
Non farlo nemmeno tu – sussurro, baciandogli ancora le labbra.
_______________________
Ben ritrovati :)
Sì, lo so: vi è toccato uno
spiegone. Necessario, sotto alcuni aspetti: col tempo – e grazie a non pochi
manuali di scrittura e consigli vari – ho imparato che alcune volte va bene
tagliare il superfluo e riassumere ciò che risulterebbe troppo pesante leggere
per pagine e pagine. Lo dice anche Stephen King – adoroH! E quindi ho cercato
di riassumere, di tagliare e di rendere accettabile qualcosa che altrimenti
sarebbe risultato sgradito. Spero di esserci riuscita :) in caso contrario… perdonatemi
^^’
Grazie per essere arrivati fin qui.
D.