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Autore: Moonlight_Tsukiko    09/03/2021    2 recensioni
Eren Jaeger sogna di vivere in un mondo dove sua sorella è ancora viva e di non dover usare le sue preziose strategie di adattamento per provare qualcosa che non sia dolore. Ma la vita ha il suo modo per distruggere tutto ciò che vi è sul suo cammino, ed Eren si ritrova in una spirale dalla quale non sembra uscirà molto presto.
Come capitano della squadra di football della scuola superiore Shiganshina, Levi Ackerman sembra essere la colonna portante per i suoi compagni di squadra. Ma quando non è in campo e non ha indosso la sua maglia sportiva, diventa semplicemente Levi. Levi Ackerman forse sarà anche in grado di aiutare le altre persone, ma Levi certamente non può difendersi dallo zio alcoldipendente.
Nessun altro ha provato il loro dolore, nessun altro ha vissuto ciò che hanno vissuto loro, e nessun altro potrà mai capirli. Ma tutto cambia una volta che si stabilisce una relazione non convenzionale che li forza a mettere a nudo tutte le loro cicatrici.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Berthold Huber, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Levi Ackerman, Marco Bodt
Note: AU, OOC, Traduzione | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
Capitoli:
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Go Ahead and Cry, Little boy 
Capitolo 23
 
Eren

22:23, camera mia.

Sono seduto alla mia scrivania a fare i compiti. Beh, non proprio. Sto solo dando l’impressione di farlo. In realtà, fisso i fogli bianchi davanti a me e mi chiedo quanto tempo impiegheranno a scomparire.

Mia madre poco fa è entrata dicendo che lei e papà uscivano a cena. Mi avevano invitato ad andare con loro, ma ho rifiutato. Non ero dell’umore di fingere di essere una famiglia felice.

Bussano alla porta e mi muovo per prendere la matita. Fingo di leggere il libro di matematica mentre la porta si apre.

“Non ho fame, mamma.”

“Sono io, Eren.”

Mi irrigidisco e tengo la matita abbastanza stretta da farmi male alla mano. Non faccio attenzione ai segni di morso nel palmo mentre mi giro e guardo Jean.

“Pensavo fossi uscito con i miei genitori,” dico, deglutendo a fatica e fissando il terreno solo per non essere costretto a guardarlo in faccia.

“No,” dice Jean, sospirando. “Ho rifiutato.”

“Perché?”

“Volevo parlare.”

“Parlare?”

“Sì,” dice Jean, appoggiando la spalla contro lo stipite della porta. Rido e mi giro di nuovo.

“Sono occupato. Devo fare i compiti.”

“È venerdì. Hai tutto il fine settimana.”

“Sì, beh, voglio finirli adesso...”

“Non mi escludere, Eren.”

“Non ti sto escludendo. Sono occupato.”

Comincio a scarabocchiare furiosamente un mucchio di numeri senza senso sul foglio. La mia mano trema come una fottuta foglia e sento che la gola inizia a stringersi. Ignoro questa sensazione mentre scavo la punta della matita abbastanza forte da provocare piccoli buchi nella carta.

“Mi dispiace, Eren.”

“Va bene.”

“È per l’appuntamento, giusto?” Domanda Jean, entrando effettivamente in stanza, ma sono ancora concentrato sul far finta che non mancasse tanto così dal cadere a pezzi. “Pensavi che mi stessi dimenticando di Mikasa, vero?”

“Non dirmi cosa ho pensato.”

“Ma ho ragione, no?”

“Non fare il coglione.”

“Sto solo cercando di capirti.”

“Capirmi,” ripeto. “Perché diavolo dovresti farlo?”

“Perché ti voglio bene e ho paura.”

“Giusto,” rispondo con uno sbuffo, appoggiandomi alla sedia. Scricchiola e rabbrividisco al suono. “Perché ho diciassette anni e potrei fare qualcosa di cui mi pentirò.”

“Oh,” dice Jean, sembrando stupito, e rido amaramente. “Allora mi ascolti.”

“Non sono sordo. Semplicemente non mi interessa.”

“Sì, invece.”

“Vuoi giocare al terapeuta?” Sbotto, girandomi in modo da guardarlo. È in piedi dietro di me, le braccia incrociate sul petto, ma l’espressione sul suo volto non è arrabbiata. Il mio stomaco si attorciglia in abbastanza nodi da farmi male e stringo le mani in pugni.

Jean scuote lentamente la testa. “Non sto dicendo che lo sono. Sto solo dicendo che la tua maschera da duro non funziona con me.”

“Senti, se sei venuto qui solo per farmi la ramanzina, allora è meglio se-”

“Non era un appuntamento.”

“Non mi interessa-”

“Stavo andando a bere qualcosa con Mina. Stavamo per uscire. Ma non ci sono andato. Non sono andato perché ti ho visto sconvolto; volevo essere sicuro che non avresti fatto qualcosa di irrazionale e ti fossi fatto del male.”

Prende un respiro traballante e si passa una mano tra i capelli.

“Ho visto molte cose facendo il poliziotto, Eren. Magari pensi che me ne vada in giro a dare multe o interrompere feste, ma ho visto parecchie situazioni tragiche. Ho visto ragazzini della tua età finire in centri di recupero solo perché credevano di dover dimostrare qualcosa.”  

Si avvicina a me e si accovaccia in modo da guardarmi dritto negli occhi.

“Ricordi il mio collega? Luke?”

Alzo le spalle. Certo che lo ricordo. Dato che c’era un enorme divario di età tra Mikasa e me, ero giovane quando l’ho incontrato. Mikasa e Jean avevano ventitré anni e io ne avevo solo dieci. Luke mi aveva portato a fare un giro nella volante della polizia e mi aveva lasciato indossare il suo cappello. L’aveva fatto anche Jean prima di allora, quando aveva appena iniziato a lavorare alla stazione, ma andarci con Luke era stato più divertente. Forse perché Mikasa e Jean avevano appena iniziato a frequentarsi e non lo approvavo completamente. Luke era diverso solo perché non era Jean.

“Sì.”

Jean annuisce e si siede a terra.

“Aveva un fratello della tua stessa età. Quel ragazzino era una peste.”

“Davvero?” Chiedo, cercando di sembrare disinteressato. Non lo sono, però. Voglio solo vedere dove vuole andare a parare.

“Oh sì,” dice Jean, scuotendo la testa. “Luke aveva sempre delle storie da raccontare su di lui. Giù alla stazione, non vedevamo l’ora che arrivasse il lunedì perché sapevamo che Luke sarebbe arrivato con una storia divertente che ci avrebbe rallegrato la settimana.”

“E allora? Ha cominciato a fare uso di droghe? Ha iniziato ad andare a letto con chiunque?”

“No,” dice Jean, facendo una pausa. “È stato ucciso.”

“Cosa?” Sento la gola stretta. “Cos’è successo?”

“È entrato nella compagnia sbagliata,” dice Jean. “So che probabilmente sei stufo delle persone che ti raccomandano di prestare attenzione a chi sono i tuoi amici, ma è vero. Stavano scherzando con una pistola che aveva un suo amico. Uno dei ragazzi non pensava fosse carica e la puntò al fratello di Luke. Gli sparò in testa. Morì all’istante.”

Jean mi guarda di nuovo e questa volta non distolgo lo sguardo.

“Sai perché era amico di quei ragazzi? Perché voleva apparire figo. Pensava che sarebbe stato figo se avesse fumato erba e scopato alcune ragazze. Ma ascoltami bene, Eren. Quello schifo non vale niente. Non importa niente di quella merda. Non vale la pena ucciderti solo perché...”

“Non sto cercando di sembrare figo,” dico, interrompendolo.

“Perché sgattaioli fuori e vai a feste, allora? Cosa stai cercando di fare?”

“Per passare il tempo,” rispondo prima di pensarci. Probabilmente non ero così onesto con Jean da un bel po’ di tempo, ma la verità è che mi sto stancando di sentirmi sempre come se la vita non fosse altro che tristezza e sventura. “Sto solo cercando di stare bene con me stesso.”

“Stare bene,” risponde Jean. Stringe gli occhi e sospira. “Santo cielo, Eren.”

“Cosa?”

“Sei troppo giovane,” dice. “Sei troppo giovane per essere così ferito.”

Alzo le spalle. “La vita fa schifo.”

“Solo perché glielo permetti.”

Stringo gli occhi.

“In che senso?”

“L’unica cosa che si frappone tra te e la felicità sei tu, Eren,” dice Jean. Le parole mi fanno sussultare, ma non ne capisco appieno il motivo. Forse dovrei davvero ascoltarlo, non solo perché me lo sta dicendo lui. “Perché ti tieni tutto dentro?”

Abbasso lo sguardo e fisso il terreno. Non so come rispondergli. Non so cosa dovrei dire, cosa vuole che dica o cosa voglio dire. Vorrei che questa conversazione finisse, ma Jean sembra terribilmente a suo agio a stare qui finché non realizzo i miei errori.

“Non lo faccio.”

“Mentire a te stesso non cambierà nulla,” continua. La sua voce sta diventando più soda, più forte, più intensa e mi chiedo da dove diavolo provenga questa determinazione. “Puoi vivere nella negazione se vuoi, ma resta il fatto che la vita ti fa schifo perché credi che faccia schifo.”

“Bene,” dico, incrociando le braccia sul petto. Ormai mi sono messo sulla difensiva, ma non me ne frega nulla se Jean lo ha capito. “Quindi sono il mio peggior nemico. Come pensi possa rendermi felice?”

Jean esita per un momento prima di sospirare.

“Cresci.”

“Cresci?”

“Sì, cresci,” la voce di Jean diventa tesa e io digrigno i denti abbastanza forte da farmi male alla mascella. “Cresci, Eren!”

Sussulto, non mi aspettavo avrebbe alzato la voce. All’improvviso ricordo di quando mi aveva riportato a casa la sera in cui mi ero imbattuto in Levi. In quel momento, avrei voluto mi urlasse contro. Avrei voluto mi dicesse che ero infantile. Volevo mi dicesse di smetterla di essere sempre triste e fare qualcosa. Volevo mi dicesse che dovevo cambiare, altrimenti a nessuno sarebbe più importato di me.

Volevo mi dicesse ciò che non volevo sentire. Volevo mi dicesse cose che già sapevo, ma mi rifiutavo di comprendere a pieno. E forse lo aveva fatto, in un certo senso, ma avrei voluto insistesse. Volevo insistesse fino a quando non mi sarei deciso a cambiare. Volevo mi facesse così tanto incazzare che avrei fatto qualunque cosa per toglierlo di mezzo.

Volevo mi facesse cambiare. Ma non ci era riuscito. Nulla fu sufficiente per farmi cambiare. Poteva sedersi lì e maledirmi in ogni modo, ma lo avrei guardato negli occhi e riso. Avrebbe potuto strapparsi i capelli e non me ne sarebbe importato. E, a dire il vero, l’ha fatto. È più sotto stress rispetto ai miei genitori per quanto riguarda me. I miei genitori si sono arresi, ma lui non l’ha fatto.

E lo odio. Voglio che torni alla sua stessa vita. Voglio che smetta di preoccuparsi per me perché sto bene, mia sorella è morta ma sto bene, e tutto è fottutamente meraviglioso. Ma non lo è, e non sono abbastanza stupido da pensare che lo sia. E se c’è qualcosa di vero in ciò che Armin mi aveva detto quando sono andato a casa sua, è che Jean non ha intenzione di andare da nessuna parte.

Una parte di me vuole che si arrenda. Vuole che getti la spugna. I miei genitori l’hanno fatto. Historia l’ha fatto. E loro erano le persone di cui più mi fidavo. I miei genitori erano, beh, i miei genitori. E Historia? Era praticamente mia sorella. Mikasa e io avevamo un bel rapporto, ma la differenza d’età è sempre stata una specie di barriera tra noi. Tredici anni sono tanti. Non importava in quale ambito, sarebbe sempre stata dieci passi avanti a me. Non potevo rivolgermi a lei e lei non poteva rivolgersi a me. Ma Historia?

Cavolo, eravamo in sincronia.

Ma il mio egoismo l’ha mandata via. E mentre Armin può dire quante volte vuole che il dolore sia egoista, in realtà io sto solo facendo lo stronzo con tutti. So che è solo una questione di tempo prima che Jean lo realizzi… prima che Levi lo realizzi, e sono pronto ad affrontare la cosa. Sono pronto ad affrontare il giorno in cui tutti si arrenderanno.

Questa è la ragione per cui probabilmente evito anche il professor Smith. Non riesco a sopportare l’idea che qualcuno mi voglia aiutare con tutto il proprio cuore. Sono così concentrato a trovare la parte negativa della vita che non potrebbe fregarmene di meno della parte positiva. Ma non so come fermarmi. Non so come andare avanti, come crescere, come essere felice.

E mi sta uccidendo.

“Eren?” La voce di Jean è soffusa ora, come se stesse cercando di capire cosa mi sta passando per la testa, ma non voglio che lo faccia. Voglio tenermi questa strana sensazione che mi stringe il petto. Voglio continuare a sentirmi come se stessi per affogare in un oceano infinito. Voglio continuare a credere di potermene andare in un posto dove nessuno può trovarmi.

Perché, a essere onesto, il dolore è la sola cosa che mi fa andare avanti. Il dolore mi ricorda di essere vivo, anche quando mia sorella non lo è. Il dolore mi ricorda di sentirmi una merda quando mando via chiunque cerca di aiutarmi. Il dolore mi ricorda di essere umano.

“Non posso,” sussurro.

Mi alzo con gambe tremanti e raggiungo la porta. Jean mi segue.

“Eren!” Dice afferrandomi il braccio. “Non andare, okay? Non scappare di nuovo. Parliamone, va bene? Possiamo parlare per una volta?”

Mi libero della sua presa e corro fuori casa. Non mi preoccupo nemmeno di mettere le scarpe. Il vento colpisce ogni parte di pelle esposta, ma non mi fermo. Non mi importa nemmeno di essere in pantaloni della tuta e maglietta mentre continuo a correre e correre e correre.

Non sento nulla, se non il tonfo dei piedi contro l’asfalto e il fischio del vento nelle mie orecchie. Non sento altro che dolore e percepisco il mio corpo urlare in protesta, ma non mi fermo.

Perché in questo momento, sento qualcosa.
 
 
***

Non è qualcosa di cui mi interesso abitualmente. Quando sono steso nel letto guardo le stelle tutto il tempo, ma non perché mi importi. Solo perché fissare quattro mura di cemento mi fanno sentire come se mi stessero soffocando. Non c’è nulla di soffocante nel cielo, però. Probabilmente è per questo che le persone ne parlano. Che il cielo è infinito e cavolate varie. Nessuno sa dove comincia e dove finisce e immagino che alle persone piaccia. Come le frasi motivazionali sulle possibilità illimitate, o qualcosa del genere.

Mi distendo sul pavimento del treno e appoggio le mani sullo stomaco. Non riesco nemmeno a sentire il freddo, ormai. Il mio corpo è diventato insensibile e probabilmente mi prenderò un raffreddore. Non mi interessa, però. Non mi importa di nulla ormai.

Non penso a Jean perché altrimenti mi sentirei in colpa. Preferisco stare qui e fare finta di non aver fatto nulla di male. Lo faccio sempre. Mentire a me stesso, intendo. Tutto lo sanno. Diavolo, non avevo detto una cosa simile a Jean prima?

Il mio corpo si irrigidisce quando sento la ghiaia scricchiolare. Il suono si intensifica, ma lo ignoro in favore di continuare a guardare il cielo. Sento un rumore metallico e poi un corpo caldo accanto al mio.

“Ti ha chiamato Jean, vero?”

“È una persona dalle mille risorse.”

Sbuffo. “È un poliziotto.”

“Ah, giusto.”

Giro la testa verso di lui. Levi mi guarda con espressione illeggibile.

“Sei un idiota.”

Ruoto gli occhi. “Ne sono consapevole, grazie.”

Sospira e alza anche lui il viso verso il cielo. Faccio lo stesso e ignoro come si tolga la giacca per mettermela sulle spalle. La indosso senza dire una parola e mi distendo.

“Sono le due del mattino.”

“Così tardi, eh?” Mormoro a me stesso. “Scusa. Jean ti ha probabilmente svegliato.”

“Ha detto che te n’eri andato.”

“E ti ha chiesto di venirmi a cercare?”

“No, mi sono offerto volontario.”

Lo guardo velocemente.

“Perché?”

“Ero preoccupato,” risponde Levi. Deglutisco.

“Non esserlo. Non è nulla di nuovo. È una strategia di difesa. Scappare, intendo.”

“Jean non la pensa allo stesso modo.”

“Già, beh, Jean pensa…” mi interrompo, non riuscendo a continuare.

“È spaventato a morte. Non l’hai sentito quando mi ha chiamato, Eren. Aveva davvero paura che avresti finito per farti del male.”

“Non mi sono mai fatto male prima.”

“Non è vero,” dice dolcemente Levi e capisco immediatamente stia parlando di Nick. Ovviamente non sa che è stato Nick a causarmi quei lividi, ma non gli serve saperlo. Li ha visti e sa che ho lasciato che qualcuno me li facesse.

“Te l’ho già spiegato,” dico stancamente, mettendo le mani dietro la testa. “Quello lo controllo io. Non è che un ragazzo ha voglia di fare il duro e io subisco come una puttana.”

Fa una smorfia alla mia scelta di parole, ma non potrebbe importarmene di meno.

“Questo lo so, cavolo,” risponde Levi, sembrando frustrato, e mi mordo l’interno della guancia.

“Come sapevi che ero qui?”

“Non lo sapevo. Ero nei paraggi quando Jean mi ha chiamato. Sono venuto qua d’istinto.”

“Hai chiamato Jean?”

“L’ho informato di averti trovato.”

“Sta per arrivare?”

“Gli ho detto di non farlo.”

“Perché no?”

“Perché sapevo che non avresti voluto vederlo,” dice Levi, fermandosi per guardarmi. “Sapevo avresti avuto bisogno di spazio.”

“Quanto tempo fa?”

“Non lo so. Ti ho ammirato per un po’ prima di raggiungerti.”

Fischio. “Cavolo, inquietante.”

Scrolla le spalle e si gira di lato.

“Cos’è successo?”

Mi irrigidisco e mi rifiuto di incontrare i suoi occhi.

“Non devi dirmelo. Non voglio obbligarti.”

“Lo so,” dico, strofinandomi le mani per generare calore. “Ma ti devo una spiegazione, immagino. Per averti svegliato così presto. O tardi. Dipende dai punti di vista.”

“Non mi devi nulla, Eren.”

Lo ignoro e mi giro anche io su un fianco per guardarlo in viso. I nostri occhi si incrociano e nessuno dei due dice nulla per un po’.

“Sono scappato. Il giorno che abbiamo marinato, intendo.”

“Perché?”

“Pensavo Jean avesse un appuntamento,” rispondo, e solo quando le parole escono dalla mia bocca capisco quanto infantile io sia stato. Levi non commenta, però, e gliene sono grato. “Quindi me ne sono semplicemente andato.”

“Per via di tua sorella, vero?” Chiede in tono tranquillo. Annuisco, non fidandomi di poter dire ‘sì’.

“I miei genitori si sono sbarazzati di tutto ciò che possedeva,” mormoro. “È stata molto dura per loro, ma mi ha sempre infastidito; come se volessero cancellare ogni traccia della sua esistenza.”

“E hai pensato che Jean stesse facendo lo stesso.”

“Sembra stupido adesso, ma sì,” rispondo, leccandomi le labbra secche. “Io, uh, sono andato a casa di un amico. Beh, non un amico. Lui e mia sorella erano amici.”

“Cos’è successo lì?”

“Mi ha detto che Jean stava solo cercando di proteggermi,” lo informo, giocherellando con una stringa della giacca di Levi. “Che Jean la vedeva come una sua responsabilità, dato che i miei genitori ci avevano rinunciato. Ha sempre provato ad aiutarmi ad andare avanti, ma…”

“Non vuoi andare avanti?” Indovina Levi. Annuisco di nuovo.

“Qualcosa del genere. Mi sento in colpa da allora. Ma Jean oggi voleva che ne parlassimo. Ho detto un sacco di cazzate e lui mi ha detto fosse ora io crescessi.”

Levi non dice nulla e continuo a parlare.

“Ha detto che io permetto alla mia vita di fare schifo e che sto ostacolando la mia stessa felicità.”

“Pensi abbia ragione?”

“Certo che ha ragione,” sbotto. “Ma non voglio ammetterlo.”

Mi metto seduto e mi passo le dita tra i capelli. Porto le ginocchia al petto e ci appoggio una guancia.

“Mi piace il dolore. Mi dà qualcosa a cui aggrapparmi. Senza dolore, mi sento un fottuto zombie. Ma a volte diventa troppo ed è allora che scappo, bevo e scopo.”

“Ricordi quello che ti ho detto? Riguardo il dipinto perfetto della nostra vita e del perché è una menzogna?”

“Certo,” rispondo. “Come potrei dimenticare? È stato uno dei tuoi momenti più filosofici.”

Levi sbuffa e si mette seduto accanto a me, le gambe dondolano dal bordo del treno.

“Jean ha fatto proprio questo. Ti ha mostrato che il dipinto non era perfetto.”

“Già,” sussurro. “L’ha fatto, e fa schifo.”

“Quindi cosa vuoi fare?”

“Non lo so,” mormoro. “Cosa dovrei fare?”

Levi resta in silenzio per un po’. Fissa il pavimento, agitando le gambe, e non mi guarda. Poi, quando penso che ormai non mi risponderà, parla.

“Renditi felice.”

“Io sono felice.”

“No, sei solo un bravo bugiardo.”

“Beh, e tu?” 

“Non stiamo parlando di me,” risponde Levi, socchiudendo gli occhi. “Stiamo parlando di te. Smettila di riflettere la situazione.”

“Non sto riflettendo la situazione. Non capisco perché mi stai facendo la paternale quando nemmeno tu sei felice.”

Levi brontola e si passa la mano tra i capelli. Tira indietro la testa e io osservo il suo profilo, cercando di capire cosa sta per dire.

“Non è così facile,” mormora.

“Lo so,” dico. “So che non è facile. Ma io… non lo so, va bene? Non so perché non voglio provare. Forse perché ho paura.”

“Tua sorella vorrebbe tu fossi felice,” continua, corrugando la fronte. “So che è un cliché, ma è probabilmente quello che vorrebbe per te. Tutti quelli che ti conoscono vorrebbero che tu avessi la miglior vita possibile.”

“Lo pensi davvero?”

Levi solleva le spalle. “Certo. Non è quello che Jean sta facendo per te?”

“E tu, invece?” Chiedo. “Chi vuole che tu sia felice?”

Levi non dice nulla e capisco sia questa la sua risposta. Gli afferro la mano e intreccio le nostre dita insieme.

“Ci proverò,” dico, il petto fa male mentre lo dico, e Levi mi stringe ancora la mano. “A essere felice, intendo. Ci voglio davvero provare.”

“Sono contento.”

“Ma dovrai farlo anche tu.”

“Eren…”

“Voglio che tu sia felice,” sussurro. “Pensi che nessuno vorrebbe vederti felice, giusto? Beh, ti sbagli. Io sì.”

Corruga ancora le sopracciglia e poi sospira lentamente.

“Cavolo,” mormora. Gli sorrido e lui mi attira a sé.

“Vivi impavido,” gli ricordo. Lui sbuffa sonoramente.

“Solo se farai lo stesso,” replica.

Annuisco.

“Certo.”

“Prometti?”

Appoggio la fronte contro la sua e ignoro come lui stringa le dita al mio corpo da sotto la giacca.

“Promesso.”
 
 
***

09:29, quella fottuta casa.

Esito davanti alla porta e sto recitando nella mia mente quello che potrei dire. Tutto suona insulso, ma prima che io possa avere un’idea chiara, la porta si apre e mi ritrovo faccia a faccia con Mina.

Mi sorride e una parte di me si chiede come ne sia capace. Mi sono sempre comportato da stronzo con lei. Se fossi stata lei, avrei sbattuto la porta. Ma immagino sia la differenza tra Mina e me. È una brava persona e io davvero non lo sono.

“Buongiorno, Eren,” dice. “Che tempo pazzo stiamo avendo, eh?”

Alzo lo sguardo sui fiocchi di neve che cadono. Si appoggiano ai capelli, al giubbotto e al portico di Mina.

“Penso che dobbiamo parlare,” dico in risposta.

Mina non sembra sorpresa. Mi lascia entrare e mi toglie il cappotto per poterlo appendere nell’attaccapanni. Indugio goffamente sulla soglia prima che Mina mi faccia segno di entrare in soggiorno.

“Posso portarti qualcosa da bere? Caffè? Thè?”

“No, grazie,” dico.

Mina annuisce e appoggia la sua tazza di caffè sul tavolo. Mi siedo rigidamente sul divano e guardo a terra, mordicchiandomi il labbro. Mina si siede di fronte a me e mi guarda.

“Cosa ti porta qui oggi, Eren?”

“Volevo scusarmi,” dico, sollevando gli occhi per incontrare i suoi. “Sono stato uno stronzo con te dalla prima volta che ci siamo incontrati. E non ti ho mai nemmeno ringraziato per aver parlato con Bertholdt.”

Mina agita la mano in modo sprezzante.

“Non ti preoccupare. So che Jean ti ha preso in contropiede quel giorno. Semmai, sono io a dovermi scusare per essere stata così invadente. Non era mia intenzione metterti a disagio. Ed è un piacere per me aiutare Bertholdt. Sei davvero un buon amico, Eren.”

“Grazie. In realtà,” comincio, grattandomi la nuca. “Questa non è l’unica ragione per cui sono qui.”

Mina mi guarda. “Bene, allora perché?”

“Jean ha detto che volevi ancora aiutarmi,” dico. “E mi chiedevo se quell’offerta è ancora valida.”

“Certo che sì, Eren,” risponde Mina, la sua espressione si addolcisce. “Ma, se posso chiedere, cosa è cambiato?”

Mi agito sul sedile, a disagio, e gli occhi di Mina si spalancano leggermente.

“Oh, mi dispiace!” Dice in fretta. “Non intendevo in senso negativo! Io-”

“Sono stufo,” sussurro. “Sono stufo di scappare. Sono stufo di mentire. Sono stufo di essere spaventato.”

Mina prende la sua tazza.

“Perché non andiamo di sopra?” 

Annuisco e la seguo nel suo ufficio. Non è molto diverso dalla configurazione del suo salotto, tranne per il fatto che c’è una scrivania con un computer. Mi ricorda la prima volta che ho visitato il dottor Trook. Ero riluttante ad andare, ma volevo le cose cambiassero. Certo, era prima che le cose andassero ancora peggio, ma avevo provato a fare quel passo avanti. Avevo il desiderio di migliorare, di smettere di aggrapparmi a cose che non potevo controllare, impedendomi di essere felice.

Mina si siede sulla sedia di fronte alla mia e incrocia le gambe. Non ci sono quaderni, penne e scarabocchi rapidi. Alzo un sopracciglio.

“Non prendi appunti?”

“Non ti sto analizzando, Eren,” spiega. “Immagina che siamo due amici che conversano.”

Premo la schiena contro il divano.

“Jean non sa che sono qui.”

“Non ha bisogno di saperlo.”

Mi acciglio. “Non ho portato soldi. Non posso pagarti.”

Mina scuote la testa.

“Non ti sto aiutando perché è il mio lavoro. Ti sto aiutando perché tengo a te.”

“Non mi conosci nemmeno.”

“Hai ragione,” conferma Mina. “Non ti conosco. Ma Jean è un mio caro amico. Lo è sempre stato. E mi importa di chiunque si preoccupi lui. Se vuole aiutarti, allora voglio aiutarti anche io.”

Deglutisco.

“Sai come ho incontrato Jean?” Chiede Mina. Scuoto la testa.

“No. Non me l’ha mai detto.”

Mina annuisce.

“Immaginavo non l’avrebbe fatto,” ammette, bevendo un sorso lento del suo caffè. “Eravamo in terapia di gruppo insieme. Tutti nel gruppo avevano perso il coniuge.”

Il mio stomaco si stringe e all’improvviso mi sento di merda.

“Non lo sapevo,” dico rapidamente. “Merda, non ne avevo idea.”

“Tranquillo,” dice Mina, sorridendo, ma è più tesa di prima. “Non è qualcosa che si sbandiera ai quattro venti. Sapevo cosa stava passando. Ho amato mio marito proprio come Jean ha amato tua sorella. Ci siamo uniti a causa dell’amore che provavamo per i nostri sposi, proprio come hanno fatto tutti gli altri membri del gruppo. Nessuno nella mia famiglia ha capito. I miei fratelli non erano sposati e i miei genitori non hanno mai parlato dopo il divorzio. Ma Jean sapeva esattamente cosa intendevo quando ho detto che era il tipo di perdita che qualcuno non avrebbe mai potuto superare.”

“Mi dispiace,” dico all’istante. Mina agita di nuovo una mano sprezzante.

“In realtà sono una consulente matrimoniale,” dice Mina. “Ma quando eravamo in terapia, Jean ti ha menzionato. Ha detto che eri quello che se la stava passando peggio. Ha detto che eri in terapia, ma che i tuoi genitori stavano pensando di non mandartici più. Ha detto che tra poco non ti sarebbe più importato di nulla. Gli ho detto di chiamarmi se mai avessi avuto bisogno di qualcuno con cui parlare. Ho aspettato due anni per quella chiamata.”

Annuisco lentamente. “Mio padre pensava che stesse sprecando soldi, quindi ha smesso di pagare. Tanto avevo già cominciato a saltare gli incontri.”

Mina sorride dolcemente.

“So che è difficile,” dice. “Mio marito è morto cinque anni fa. Mi ci sono voluti tre anni per rendermi conto che avevo bisogno di aiuto. Ecco perché non volevo insistere. Sapevo che nessuno poteva costringerti a chiedere aiuto. Dovevi volerlo.”

Deglutisco.

“Sapevo di averne bisogno,” dico. “Ma ero così abituato a farmi del male che pensavo non sarei più stato lo stesso se non avessi sofferto.”
 
Mina scuote la testa tristemente.
 
“Non è un modo salutare di vivere, Eren,” dice. “Il dolore è una parte naturale della vita, sì, ma non dovrebbe controllarla.”
 
“Non volevo essere così incasinato,” dico. “Ma improvvisamente tutto ciò che contava per me era la birra e il sesso. Mi offrono una distrazione.”
 
“È comprensibile,” dice Mina. “Non sto dicendo che sono sani, ma sono strategie di difesa.”
 
“Strategie di difesa...” ripeto con uno sbuffo. “La uso come scusa, sai. La difesa, intendo. Faccio tutte queste cose solo per fingere di essere vivo.”
 
“Questo non ti rende una brutta persona,” dice. “Ti rende solo una persona. Sei qualcuno che sta soffrendo e stai facendo tutto ciò che sai fare. Nessuno può biasimarti per questo.”
 
Strattono una delle corde della mia felpa.
 
“Avevo un’amica,” mormoro. “Historia. Eravamo molto uniti. Lei... uhm, non le piaceva come andavano le cose. Ho iniziato a bere e fare sesso prima che mia sorella morisse. All’inizio non era una strategia di difesa. Stavo solo cercando di adattarmi e sentirmi parte di qualcosa. Ero al primo anno di superiori. Stavo ancora cercando di capire chi volessi essere al liceo. Lei non era esattamente d’accordo con le mie scelte.”
 
“Cos’è successo?” Chiede Mina e io respiro lentamente. Non l’ho mai detto a nessuno. Non nel dettaglio, almeno.
 
“È stato davvero brutto,” dico, tirando più forte la corda della mia felpa. “Un ragazzo della nostra scuola ci ha invitato a questa festa. Tutti erano ubriachi, compreso me, ma Historia non aveva bevuto. Diceva di avere una brutta sensazione. Continuavo a dirle di alleggerirsi, ma lei non ne voleva sapere. Mi ha dato dell’idiota.”
 
Mi fermo, facendo un respiro traballante, ma Mina non dice nulla. Rido amaramente e scuoto la testa.
 
“Ha detto di smettere di comportarmi come un cazzone perché volevo sembrare figo. Continuava a parlare di quanto fosse patetico il fatto che stavo cercando di essere qualcosa che non ero. Lei... è sempre stata in case affidatarie che cambiava troppo spesso. Alla fine, venne adottata dalla sua attuale famiglia. E ho usato questa parte della sua vita contro di lei. Le ho detto che non me ne fregava niente di lei. I suoi genitori biologici cambiarono il suo nome prima di essere messa nel sistema, ma una volta adottata riprese il suo nome di nascita. Le ho detto che tornare a chiamarsi Historia non avrebbe cancellato Krista, che nessuno la voleva e che è stata solo fortunata. Mi sono sentito una merda subito dopo, ma a quel punto non aveva importanza. Il danno era già stato fatto. Lei non ha detto una parola. Se n’è andata senza nemmeno guardarmi.”
 
“E come hai reagito?”
 
“Volevo andarmene anche io,” sussurro. “Ho chiamato mia sorella per venire a prendermi. Quella... quella era la notte in cui Mikasa...”
 
“Oh, Eren,” dice Mina dolcemente. Mi sfrego le mani.
 
“Mi dispiace. Possiamo fermarci?” Sussurro. Il mio petto si sente stretto, ma è il tipo insopportabile di tensione che mi fa sentire come se fossi a pochi secondi dallo svenimento. Mina annuisce rapidamente.
 
“Sei stato davvero bravo,” dice Mina onestamente. “Non sforzarti.”
 
“Okay,” rispondo, la mia voce suona ruvida e ci vogliono alcuni secondi per rendermi conto che i miei occhi sono lucidi di lacrime. Alcune mi rigavano già le guance. “Merda, scusa…”
 
“Non scusarti,” dice Mina. “Non scusarti mai per essere stato ferito.”
 
Deglutisco amaramente.
 
“Grazie,” dico, e Mina sorride dolcemente.
 
“No, Eren,” sussurra. “Grazie a te.”
   
 
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