All’inizio pensavo di arrivare
alla fine della storia con 27 capitoli, esattamente come nei libri della zia
Collins.
Mentre scrivo questa nota, il mio
foglio Word mi fa notare che sono a pagina 353 e al capitolo 34. E non so
ancora quanti capitoli manchino alla fine.
Direi che il tutto si commenta da
solo ^^’
Adesso però smetto di ammorbarvi
e vi lascio leggere in santa pace :D
In the still of the night
34.
Sono
al Distretto 2 già da una settimana e non è ancora accaduto nulla di eclatante.
Da come ne parlavano Plutarch e la Coin, sembrava che fossero ormai giunti a un
buon punto e che, nel giro di pochi giorni, si sarebbe arrivati finalmente alla
svolta della situazione… ed invece, non è affatto così. L’Osso è ancora integro
e solido, proprio come la roccia di cui è composto. La montagna sovrasta
l’intero Distretto e sembra farsi beffe dei Ribelli e di chiunque altro provi a
minacciarla. Sembra farsi beffe anche di me, mentre la fisso da lontano.
Il
team di esperti incaricato di far cedere l’Osso continua a ragionare sulle
infinite ipotesi da attuare, e da una settimana ad essi si sono uniti i nuovi
membri venuti dal Distretto 13. I “cervelloni”, come li ha chiamati Plutarch,
hanno viaggiato insieme a me e tra loro c’è anche Beetee, ovviamente. Per
realizzare piani geniali si ha bisogno di menti geniali.
Si
riuniscono ogni giorno per ore ed ore, dalla mattina alla sera, senza soste.
Diversamente da ciò che accade al 13, dove il comando operativo evita di far
partecipare alle riunioni chi non è di competenza, qui al 2 chiunque può
prendere parte alle discussioni. Tutti noi, cervelloni o meno, possiamo dare
una mano e fornire il proprio contributo. Ogni idea, anche la più sciocca ed
insignificante, potrebbe essere di aiuto per strappare finalmente la vittoria
tanto desiderata.
Stare
al Distretto 2 non è male, tutto sommato: non ci sono programmi tatuati sulle
braccia, non ci sono doveri obbligatori a cui sottostare e, cosa forse più
importante di tutte, si ha la possibilità di uscire e stare all’aria aperta per
la maggior parte della giornata. Non mi sono mai sentita così bisognosa di
libertà come adesso; forse anche quando mi trovavo al 13 provavo lo stesso desiderio,
ma doveva essere stato soffocato da tutto il resto perché non l’ho mai sentito
così forte e vivo. Per salvaguardare la mia incolumità mi fanno spostare di
continuo, cercano di non farmi restare sempre in uno stesso punto per più di un
giorno, ma è un genere di spostamento piacevole, per nulla pesante, e non
forzato. Ho persino la possibilità di andare a caccia, a patto che le mie prede
vengano portate alla cucina del campo per rifornire di cibo le truppe. Lo
faccio, ovviamente, anche perché non riuscirei mai a pensare di sprecare della buona
carne. Come mi disse una volta Beetee, io non sono quel tipo di persona che
caccia soltanto per sport.
Spesso
mi isolo, quando non ho Pass-Pro da registrare o visite ai feriti da compiere,
ed in questo scopro di non essere cambiata molto; mi piace stare da sola, mi
piace il silenzio. La maggior parte dei combattimenti è cessata, qui, ed è
tutto abbastanza tranquillo. Non corro il rischio di incappare in qualche
attacco, ma c’è sempre qualcuno insieme a me pronto a difendermi, in caso di
bisogno. Persino quando mi siedo su un tronco caduto ad osservare il tramonto
sono circondata da una squadra silenziosa incaricata di sorvegliarmi.
I
tramonti autunnali sono meravigliosi. Quando giunge l’avvicinarsi della sera
rimango a contemplare il cielo che si tinge di un forte rosso aranciato, e
penso che sarebbe il tipo di tramonto che a Peeta piacerebbe vedere. I giorni
in cui ce ne stavamo insieme, spensierati, a guardare l’alba o i tramonti
sembrano finiti: l’ultimo, appena due giorni prima di tornare nell’arena.
Invidio quei ragazzi che, nonostante l’orrore incipiente, erano riusciti a
ritagliarsi uno spiraglio di serenità tutto per loro. Mi mancano quei ragazzi.
Mi
manca Peeta.
E
chiamiamolo pure sentimentalismo.
Non
sono preoccupata per lui; ho persino smentito me stessa ed il mio stato d’animo
al momento di partire. Ho smentito la me stessa che lo salutava. So che sta
bene, al Distretto 13, sorvegliato da Haymitch – che mi aggiorna ogni volta che
ne ha l’occasione – e dalla mia famiglia. Grazie a loro, so che le sue
dimissioni dall’ospedale sono imminenti.
-
Non ha più bisogno di cure intensive – mi ha detto proprio ieri pomeriggio. –
Gli assegneranno un’unità abitativa accanto alla tua. Doppia. Forse sanno anche
loro che tenervi lontani non serve a niente.
Solitamente
le battutine a doppio senso di Haymitch mi danno sui nervi, ma questa, ho
notato con estrema sorpresa, mi ha fatta sorridere. Il pensiero è andato subito
a quelle notti sul treno, durante il Tour della Vittoria; i ricordi di quelle
notti dolci, trascorse nello stesso letto, abbracciati, addormentati... e poi,
in un lampo, il ricordo della mattina in cui Haymitch ci ha scoperti in
atteggiamenti intimi, e forse troppo spinti.
Dovremo
ricordarci di chiudere le porte a chiave anche al Distretto 13,
penso.
La
prospettiva di riacquistare una parte del nostro passato, dei nostri momenti
privati, dovrebbe rendermi una persona sollevata, una ragazza felice, per
quanto possibile… ma c’è qualcosa che stona. Come l’anno scorso, quando cercavo
di riacquistare una parvenza di vita normale dopo aver affrontato ventidue
ragazzi che volevano uccidermi, e dentro di me sapevo che una vita normale dopo
gli Hunger Games non poteva proprio avere luogo. Dentro di me, proprio come
allora, so che la mia vita insieme a Peeta non sarà mai più quella di prima.
Gale
viene a cercarmi mentre sono impegnata nella contemplazione dell’ennesimo
tramonto; ai miei piedi c’è una montagna di piume. Le proprietarie delle piume
giacciono, morte, accanto a me, sul masso su cui ho preso posto. Uno stormo di
anatre è passato di qui, qualche ora fa, e prima che potessero disperdersi del
tutto sono riuscita ad abbatterne una mezza dozzina. L’ora è tarda, ormai,
affinché siano pronte per la cena di stasera, ma la loro carne domani sarà
ancora buona. Non andrà sprecata.
-
Non è poi così difficile trovarti – esclama Gale appena mi è vicino, ghignando.
È rivolto, ovviamente, all’inconfondibile squadrone di sorveglianti che mi
trascino dietro.
-
Potrà tornare utile per chi mi vuole morta – ammetto. – Sarà più facile per
loro individuarmi.
-
Sempre ottimista, eh?
Lo
guardo, scettica, ma mi rilasso quando noto che non è arrabbiato, o irritato
per ciò che ho detto. È divertito, allegro, e di ottimo umore. Gale fa parte
della squadra dei “cervelloni” sin da quando è arrivato qui, la settimana prima
della sottoscritta, e non poteva essere altrimenti dato che anche nel 13 aveva
preso spesso parte alle discussioni al Comando. Ha trascorso, poi, ore intere a
discutere con Beetee: di trappole, di armi… di qualsiasi cosa. Immagino che il
suo buonumore sia dovuto a qualcosa del genere. Forse…
-
Avete un piano – dico. La mia è un’affermazione più che un’ipotesi.
-
Domani si procede – mi informa. – C’è un incontro per discuterne anche con la
Coin in mattinata, dopodiché… - batte le mani, come per mimare uno scoppio o
qualcosa di simile. – Ma non pensiamoci adesso. Sono venuto ad avvertirti che è
quasi ora di andare a cena.
Il
mio campo base, provvisorio, è un villaggio semi abbandonato, posizionato a
nord dell’Osso; non è molto lontano dal centro dell’azione e dal Palazzo di
Giustizia, semidistrutto, dove si tengono le riunioni strategiche. Al momento
il villaggio è popolato dagli abitanti del Distretto 2 che si sono ribellati a
Capitol City e che costituiscono la parte attiva della rivolta; chi resiste,
invece, si è da tempo spostato nei cunicoli dell’Osso. Gale mi aiuta a
trasportare e a consegnare nelle cucine il bottino della mia caccia prima di
andare a mangiare la nostra razione di zuppa serale.
Siamo
nel bel mezzo del mese di settembre e la stagione autunnale avanza, senza
contare il clima della regione montuosa in cui è situato il Distretto 2: fa
molto più freddo, qui, rispetto a come siamo sempre stati abituati a casa, ma
durante la sera si sta ancora bene, abbastanza da consentirci di cenare fuori,
riuniti attorno a dei fuochi strategici. Le conversazioni non si fanno mai
troppo interessanti, ma dopotutto le persone che sono qui hanno tutt’altro a
cui pensare che alla conversazione. Alcuni di loro si dividono i turni di
guardia, altri invece sono coloro che mi sorvegliano; tra un paio d’ore al
massimo mi ritirerò per la notte, e allora potranno allontanarsi e fare ciò che
vogliono. Per qualche ora non dovranno avermi tra i piedi. Devo sembrare una
palla enorme ai loro occhi.
Gale,
che mi è seduto accanto, all’improvviso scatta in avanti e rischia di
rovesciare a terra la sua ciotola di zuppa. Mi volto insieme a lui per cercare
di capire cosa sia successo, e scopriamo subito la fonte del problema: ad
urtarlo è stata una figurina minuscola, avvolta in un cappottino scuro. È
troppo buio per capire bene di che colore sia, ma la luce del fuoco lo fa
sembrare blu.
-
Papà! – urla la figurina allargando le braccia, ma le abbassa subito e
l’enorme sorriso che le era comparso sul visino scompare, non appena capisce di
essersi sbagliata.
-
Ehi, piccolina – dice Gale. Mi passa la ciotola e si gira completamente verso
la nuova arrivata, che lo osserva spaesata. – Da dove sbuchi fuori?
-
Marianne! – il nome della bambina viene urlato dalla voce di una donna,
quasi come se stesse rispondendo alla domanda del mio amico. La donna ci si
avvicina in fretta e la riconosco subito, perché è la stessa donna a cui io e
Gale abbiamo consegnato le anatre prima di cena. Si posa una mano sul petto e
si inginocchia per mettersi alla stessa altezza della piccina. – Quante volte
te l’ho detto? Non devi scappare via dalla nonna all’improvviso! – esclama,
riprendendo fiato. – Scusatemi se vi ha disturbato… è una bambina vivace.
-
Nessun disturbo – Gale sorride. – Credo che mi abbia scambiato per il suo papà
– muove le dita rapidamente e le avvicina al corpo di Marianne, che inizia a
ridere sguaiatamente.
-
Il tuo papà arriverà più tardi, tesoro. Questo ragazzo è troppo giovane per
essere il tuo papà! – la riprende bonariamente la donna.
Sono
catturata dalle espressioni che attraversano velocemente il viso paffuto di
questa bambina, che non deve avere più di tre anni. Ha lo sguardo attento e
curioso, ride degli scherzi e delle smorfie che gli regala Gale, e nel mentre i
codini scuri in cui le hanno raccolto i capelli sobbalzano, incontrollabili. È
davvero adorabile. Mi scappa un sorriso nel vedere come sia tutta presa dalle
moine che il mio amico le rivolge. A Gale piacciono da morire i bambini… e poi,
con tre fratelli più piccoli, ha un sacco di esperienza sulle spalle. Marianne
sembra essere appena più piccola di Posy, la sua sorellina, e deve
ricordargliela un sacco. Hanno gli stessi capelli scuri, e gli stessi occhi
grigi… no, Posy ha gli occhi grigi. Marianne li ha più scuri.
Marianne
ha gli occhi azzurri.
Sono
già lontana dal fuoco prima di rendermi conto di averlo fatto. Ho sicuramente
posato le ciotole da qualche parte, perché non le ho più tra le mani. Le mie
mani, adesso, si trovano all’altezza del ventre, e le dita stringono
forsennatamente il tessuto della giaccia. Sento un peso sullo stomaco, come se
stessi per vomitare, ma non ho conati o altro. Non sto male in questo senso. È
una sensazione completamente diversa.
Sono
stati gli occhi di quella bambina. Quegli occhi… avrebbero potuto essere i suoi
occhi. Gli occhi della mia bambina. Occhi che si sono spenti prima
ancora che potesse aprirli alla vita. Occhi di cui non conoscerò mai il colore.
I suoi occhi…
Mi
perseguiteranno per il resto della vita.
Sobbalzo
quando sento delle mani contro le spalle, e scatto via, lontana. Ma è solo
Gale. Mi guarda, incerto e preoccupato, e solleva le mani in segno di
rassicurazione. Va tutto bene, mi stanno dicendo le sue mani.
-
Va tutto bene, Catnip – mi dice la sua voce in una carezza.
Ma
io so che dentro di me non va tutto bene.
È
questo che intendevo poco fa, riguardo la mia vita insieme a Peeta: non sarà
mai più la stessa. Non lo sarà più, perché abbiamo subito delle perdite troppo
grandi da affrontare tutte insieme. Lui sta ancora piangendo la sua famiglia,
spazzata via in un lampo dalle bombe incendiarie, ed insieme stiamo piangendo
la scomparsa di nostra figlia. Stiamo piangendo la perdita più grande, il lutto
più grave che un genitore si ritrova ad affrontare nel corso della sua vita.
Ed
è inutile ciò che dicono sull’aborto, sulle perdite premature dei bambini mai
nati. È inutile tutto ciò che dicono per aiutarti ad affrontare il dolore e lo
shock del momento. Non serve a nulla sentirsi dire che non hai nessuna colpa se
è accaduto il peggio, se la vita di tua figlia ti è scivolata tra le mani senza
poter fare nulla per trattenerla, per salvarla dal buio della morte. Non serve
a nulla il modo incoraggiante in cui alcuni ti dicono che “la prossima volta
andrà meglio”.
Come
potrebbe andare meglio?
Io
non voglio che vada meglio, o peggio. Io non voglio che accada più. Io non
voglio riprovarci mai più. Se è questo ciò che mi attende… allora, non
voglio provarlo più. Non voglio più sentire un corpicino muoversi, e crescere
dentro di me, solo per sentirlo morire di nuovo.
L’unica
cosa che voglio davvero è lei, ma non posso averla. Non potrò averla mai
più.
Il
mattino dopo, di buon’ora, si svolge la riunione strategica di cui mi aveva
accennato Gale ieri sera. Si tiene all’interno del Palazzo di Giustizia,
stravolto totalmente rispetto a mesi fa, quando ci entrai con Peeta durante il
Tour. Non ci sono più gli arredamenti lussuosi ed è stato trasformato in una
sorta di spazio unico, con un solo tavolo al centro. Un tavolo enorme, molto
simile a quello del Comando, e ingombro di carte e modellini.
La
comandante del Distretto 2, Lyme, è un donnone alto e robusto, dai corti capelli
biondi e dallo sguardo serio, quasi arcigno; è il tipo di persona che non vorresti
mai contraddire, neanche per sbaglio. In qualche modo mi ricorda Cato… forse è
stata la sua mentore. Dopotutto, la comandante Lyme è una vincitrice degli
Hunger Games. Sono passati moltissimi anni dalla sua vittoria. Ed è una dei
pochi vincitori che sono ancora vivi per poterli raccontare…
Alla
riunione partecipano, oltre alla Coin e agli alti gradi del 13 via
collegamento, anche molti gruppi che non sono ancora stati informati sul piano,
come me; la Lyme inizia quindi col fare un rapido aggiornamento sull’Osso,
sulle forze che lo difendono, e sui precedenti tentativi di conquistarlo, tutti
andati falliti. Ci mostra un ologramma della montagna completo di sezioni e
cunicoli, indicando i punti di accesso, i vari ingressi e la ferrovia che,
attraverso un tunnel, conduce i convogli dalla montagna dritti alla piazza. E
sono tutti punti presidiati dalla resistenza di Capitol City: fino ad ora è
stato impossibile procedere, figurarsi conquistarli.
-
Abbiamo perso molti uomini nel cercare di assaltare i punti di accesso e tante
varianti del piano sono già state messe in atto – dice la comandante, spegnendo
l’ologramma. – Non possiamo continuare ad agire in questa prospettiva. Stavolta
agiremo non per stanare il nemico, ma per sfinirlo.
Inarco
le sopracciglia: cosa intende con “sfinirlo”?
Cede
la parola a Beetee e a Gale, coloro che, a quanto pare, hanno capito qual è la
mossa giusta da giocare contro la montagna. Stando al loro piano, l’unico modo
possibile per far cedere le forze nemiche all’interno dell’Osso non è prendendo
di mira gli accessi, od intrufolarsi attraverso di essi… ma bloccandoli. E per
farlo useranno proprio la montagna. La pietra viva.
-
Su tutto il versante della montagna ci sono segni evidenti di frane e valanghe
– dice Beetee. – Tutti noi sappiamo benissimo che è pressoché impossibile
fermare una valanga in movimento, a meno che non sia essa stessa a fermare la
sua corsa. Bombardando strategicamente i punti più alti dell’Osso, genereremo
una serie di valanghe che andranno ad ostruire tutti i punti di accesso. In
questo modo sarà comunque impossibile per noi entrarci, e per il nemico sarà
impossibile uscirne. È ciò a cui puntiamo.
-
Saranno tagliati fuori – aggiunge Gale. – Lo scopo è questo: intrappolare il
nemico all’interno e isolarlo dai rifornimenti. Metterlo nell’impossibilità di
far uscire gli hovercraft.
Gale
si astiene dal dire quali sono le altre, ed inevitabili, conseguenze di un
piano di tale portata: la mancanza di aria, i cunicoli che si riempiranno di
terra e pietre, le persone che rimarranno intrappolate in quei cunicoli. Quei
cunicoli potrebbero essere l’ultima cosa che vedranno prima di morire. Per
molti, parecchi di loro, potrebbero diventare la loro ultima dimora. La loro
tomba.
Non
è poi così diverso dalla morte in miniera ed immagino che sia quello che Gale ha
focalizzato nella mente quando ha messo sotto ipotesi questa trappola… perché è
una trappola, effettivamente, solo pensata in grande. Una trappola costruita
per seppellire, e per uccidere, migliaia di persone. Costruita proprio per
questo scopo, non per altro. Le esplosioni che accadono nelle profondità delle
miniere sono, nella stragrande maggioranza dei casi, dovute a fughe di gas;
sono accidentali, non volute, e causano decine di morti e feriti ogni volta. Le
esplosioni che vogliono scatenare stavolta sono volute, ma mireranno ad
ottenere lo stesso, identico risultato.
Non
dovrei sentirmi così scossa, eppure non posso evitare di andare col pensiero a
ciò che attende i residenti dell’Osso; all’asfissia che potrebbe ucciderli, se
non lo faranno le esplosioni o i detriti della montagna. Restare sepolti vivi,
senza avere scampo… è un modo orrendo di andarsene all’altro mondo. Sei
consapevole di ciò che accade intorno a te, ed allo stesso tempo sei impotente,
incapace di fuggire per raggiungere la salvezza.
Penso
che sia stato questo ciò che ha vissuto mio padre, quel lontano giorno di sei
anni fa in cui perse la vita. Di lui non è rimasto nulla da seppellire, ma se
non fosse stato così vicino alla fonte dell’esplosione non avrebbe comunque
avuto scampo. Forse sarebbe morto nell’attesa dei soccorsi, nell’attesa della
liberazione… nell’attesa, sepolto vivo.
Il
padre di Gale è rimasto ucciso nello stesso incidente che si è portato via il
mio. È ironico, quasi, pensare che un piano del genere sia uscito fuori proprio
dalla mente del figlio di un minatore. No, non dal figlio di un minatore… ma da
un minatore. Anche Gale lo è, e lo stavo quasi dimenticando. Sa cosa significa
sprofondare nel sottosuolo, sa cosa si prova a restare per ore lì sotto a
lavorare su un filone di carbone, eppure… eppure, è pronto a far subire ad
altri la stessa sorte.
Ho
perso gli interventi degli altri, ma il consenso della Coin di procedere lo
sento forte e chiaro. Suona come una sentenza di esecuzione alle mie orecchie.
-
Come puoi condannare a morte tutte quelle persone? – chiedo a Gale,
sconcertata, non appena ho l’opportunità di rivolgergli la parola. – Tutte
quelle persone, Gale… non sappiamo nemmeno se sono tutte lì per loro volontà, o
se sono state costrette. Devono esserci anche le nostre spie, nell’Osso!
-
Se io fossi una di quelle spie, non esiterei un istante a chiedere di mandare
giù le valanghe – dice, accorato.
-
Quindi è questo che fai quando parli con Beetee? Prepari trappole mortali per
le persone? – lo attacco. So che non porterà a niente, ma non posso farne a
meno. Le esplosioni sono previste per stasera e non saranno i miei litigi con
Gale a cambiare le cose. O ad interromperle. – Decidi qual è il modo più
orribile per ucciderle?
-
Si può sapere cosa vuoi, Katniss? – urla, afferrandomi per le spalle. – Si
meritano di morire! Non sono così diversi da quelli che hanno bombardato il 12!
Né da chi ti ha spedito per due volte in un’arena! – smette di scuotermi, e mi
fissa dritto negli occhi. - Si può sapere da che parte stai?
Da
quale parte sto?
Di
sicuro non per quella dei nemici; non sono così sciocca. Ma non sto nemmeno
totalmente dalla parte dei Ribelli. I miei stessi pensieri sono in disaccordo
tra di loro, e vado contro tutto ciò che ho fatto fino ad ora… ma è così. Alla
fine dei conti, è così. Parecchie cose non mi sono andate a genio fino a questo
punto, ma ho stretto i denti, ho sopportato, ho fatto ciò che mi è stato detto.
Non l’ho fatto perché volevo, ma perché dovevo. Dovevo farlo per
Peeta, prigioniero a Capitol City; dovevo farlo per la mia famiglia, perché
volevo che fosse protetta ed al sicuro. Essere la Ghiandaia Imitatrice mi ha
permesso di proteggere la mamma e Prim, ed ha permesso alle squadre del 13 di
salvare Peeta non appena se n’è presentata l’occasione. Ma non ho mai voluto
essere davvero la Ghiandaia Imitatrice. Il volto simbolo della ribellione…
non ho mai voluto nulla di tutto questo. Non ho desiderato la morte di migliaia
di persone, i bombardamenti, le sofferenze che ho visto negli ospedali… e tutte
quelle che seguiranno. Non voglio neanche la morte dei residenti dell’Osso, che
accadrà a breve.
Gale
ha ragione: da che parte sto?
Non
lo so.
Se
esistesse una parte neutrale, quella sarebbe la mia scelta a scatola chiusa: un
punto dove fermarmi, riprendere fiato, ed osservare le due parti rivali che si
fronteggiano e si scannano standomene in disparte. Non dovrei prendere le parti
di nessuna delle due, non dovrei intervenire. Osserverei e basta.
Ma
non esiste. Non esiste…
Seduta
sui gradini del Palazzo di Giustizia, ascolto ciò che accade piuttosto che
vedere, o prendere parte attiva.
L’Osso
è caduto. È stato bombardato, le valanghe si sono scatenate e hanno sbarrato
tutti gli accessi alla montagna. Migliaia di persone potrebbero essere già
morte. Boggs mi ha rassicurata, però, accennando alla ferrovia: quella non è
stata toccata in nessun modo. L’hanno lasciata intatta.
-
Se ci sono dei sopravvissuti, potranno usare i treni per scappare e raggiungere
la piazza.
-
Ma sulla piazza ci siamo noi – ho detto, rimarcando l’ovvio. – Gli sparerete
contro non appena scenderanno?
-
Solo se necessario. Se si arrendono li lasceremo in vita. Prigionieri, ma vivi.
Prigionieri,
ma vivi: un compromesso. Mi aggrappo con tutta me stessa a
questo compromesso, così come mi aggrappo ai bordi della coperta che Boggs mi
ha poggiato sulle spalle quando ha visto che avevo freddo. Ma più passa il
tempo, e più questa prospettiva sparisce. Scivola via. Scivola via come le migliaia
di vite rimaste intrappolate all’interno della montagna.
Sono
passate ore dalle esplosioni e nessun treno è ancora arrivato sulla piazza.
Nessun sopravvissuto è ancora uscito dalla montagna. L’attesa è orribile,
perché più diventa lunga e più diventi consapevole delle speranze che si
affievoliscono, delle probabilità che si fanno più remote. È proprio come la
notte che trascorsi, insieme alla mamma e a Prim, davanti all’entrata delle
miniere. Una lunga ed incessante attesa, trascorsa nella morsa del freddo,
aspettando il ritorno di papà. Aspettando il momento in cui sarebbe risalito in
superficie vivo; anche ferito ed ammaccato mi sarebbe andato bene, purché fosse
stato vivo. Vivo, non morto. Ed invece non è stato così.
Ho
scoperto che non succede mai ciò che desidero.
Sulla
piazza ci siamo solo noi, i Ribelli. L’esercito, diviso in squadre, presiede la
stazione nell’attesa dei treni, se mai giungeranno, e respinge l’attacco dei
Pacificatori che cercano, invano, di raggiungere i loro compagni nel tentativo
di salvarli. Non c’è nient’altro, a parte questo, e forse per stanotte non ci
sarà nient’altro.
Cercano
comunque di smuovere le acque: la mia troupe è qui nel 2 insieme a me e mi
raggiunge su ordine della Coin per preparare me stessa, e loro stessi, per riprendermi
davanti al Palazzo di Giustizia. Ho un discorso già pronto da recitare, ma non
saranno Cressida o gli altri a fornirmelo; l’unica cosa che fa Cressida, prima
di allontanarsi rapidamente con Messalla, è consegnarmi un auricolare nero. Lo
infilo, e dall’altra parte trovo la voce di Haymitch.
-
Ti guiderò io – mi dice. – Tu devi solo ripetere le mie parole e
sembrare convincente.
Storco
la bocca. Quando mai sono sembrata convincente con un copione già pronto? Mai,
per l’appunto. Forse non ci crede più nemmeno Haymitch.
-
Peeta è qui con me – aggiunge. – Ti osserverà per tutto il tempo.
-
Potete vedermi?
-
Sarai in diretta audio e video per chiunque in tutta Panem, dolcezza.
Ecco,
questo forse non doveva dirmelo.
Ho
già addosso la mia uniforme da Ghiandaia Imitatrice ed ho con me le mie armi,
quindi Cressida e gli altri non devono attendere che mi cambi per le
telecamere: sono più che pronta per procedere. È stranissimo parlare ad una
folla invisibile, più strano di quella volta in cui tentarono di registrare un
Pass-Pro di me sul campo di battaglia, ma senza il campo di battaglia.
Deglutisco, cerco di concentrarmi, e spero che finisca presto. Il pensiero di
Peeta che mi osserva da lontano, in qualche modo, mi aiuta a schiarirmi le
idee. Osservo Castor e Pollux, bardati nelle loro attrezzature simili ad
insetti. Osservo Messalla, col suo solito taccuino tra le mani; osservo Gale e
Boggs, che imbracciano i fucili e si guardano attorno, e osservo Cressida che
mima con le dita i secondi che mancano alla diretta. Tre dita. Due dita. Un
dito… e sono in onda.
-
Popolo del Distretto 2, sono Katniss Everdeen e vi parlo dai gradini del
vostro Palazzo di Giustizia, dove…
Haymitch
mi ha appena suggerito le battute iniziali quando i primi due treni arrivano,
sferragliando, sulla piazza. Mi blocco, osservando la scena, e subito le luci
che mi illuminavano si spengono. Un ordine dall’alto, sicuramente: devo essere
protetta, sempre e comunque. Il buio della notte, sceso improvvisamente ad
avvolgermi, li aiuta in questo.
Le
porte dei treni si spalancano e una moltitudine di persone, sporche e ferite,
si riversa all’interno della stazione. Alcune si gettano a terra, spaventate,
altre imbracciano i fucili e tentano di resistere, nonostante tutto. Cercando
di farsi largo finché possono, finché non sono ostacolati dall’esercito dei
Ribelli. Ci sono scontri, ci sono colpi di arma da fuoco che vengono sparati.
Ci sono altre vittime.
-
Fermatevi! – urlo, uscendo dal mio nascondiglio buio e scendendo i gradini
del Palazzo di Giustizia. – Fermatevi! – ripeto, mentre cerco di raggiungere correndo
i feriti che barcollano e cadono a causa delle ustioni riportate, o dai colpi
di fucile. Ignoro le urla di Haymitch che provengono dall’auricolare. –
Fermatevi! – dico ancora, ignorando anche le urla di chi mi segue – Boggs?
Gale? – e cerco di raggiungere un uomo che si preme sulla faccia uno straccio
sporco ed insanguinato.
Mi
fermo prima che possa farlo veramente, però.
Perché
l’uomo verso cui sto correndo mi spara.
So
di non essere morta. Lo so per certo, perché stavolta non c’è l’inferno ad
attendermi. Non vengo catapultata in quella sorta di universo buio ed
immateriale che mi aveva davvero fatto credere di averci lasciato le penne,
frutto sicuramente dei medicinali con cui mi avevano imbottita.
Stavolta,
so di essere viva e vegeta perché percepisco i rumori che mi circondano, i “bip”
dei macchinari a cui sono senza dubbio collegata, e percepisco qualcosa di
morbido e caldo su cui sono distesa. Un materasso, un letto. Sotto le dita,
percepisco la ruvidezza di una coperta.
E
le dita, calde, di qualcuno che mi tiene la mano.
Non
bisogna essere dei geni per intuire di chi si tratti.
Resto
con gli occhi chiusi, cercando di non far capire a Peeta che mi sono svegliata.
Fingo di dormire e provo a rimandare il momento in cui sarò costretta ad aprire
le palpebre, e ad affrontare il suo sguardo severo. So che sarà così. So che ha
già una ramanzina pronta per me. Come potrebbe essere altrimenti?
Mi
sono esposta al fuoco nemico, sono praticamente corsa incontro ai feriti armati
appena arrivati dall’Osso ed ho ignorato chi ha tentato di fermarmi, chi ha
tentato di salvaguardare la mia persona. Ho agito d’impulso, spronata solo da
ciò che mi ordinava la mia testa, e cosa ho ottenuto in cambio? Una pallottola
in pieno petto. Forse di più… non lo so. Devo aver perso subito conoscenza,
perché non ricordo nient’altro dopo il primo sparo.
Mi
stavano riprendendo? Non so nemmeno questo… ma le urla di Haymitch
nell’auricolare le ricordo benissimo, prima di crollare a terra, quindi presumo
che mi stesse osservando da uno schermo.
Me
lo immagino, Haymitch, mentre inveisce contro di me e non può sfogare la sua
rabbia con una bottiglia di vino.
-
So che sei sveglia – la voce di Peeta mi distoglie dall’immagine del mio
mentore incazzato nero.
Apro
l’occhio sinistro di malavoglia, arrendendomi. Peeta è seduto sul materasso e
mi osserva, con un sopracciglio inarcato. Sono sconcertata dal modo in cui il
suo aspetto sia cambiato così tanto in poco più di una settimana: non ha più i
punti sul viso ed ora la sua cicatrice non sembra più così brutta, sebbene sia
ancora rossa e gonfia. Non ci sono più i lividi, gli zigomi sembrano meno
marcati. E non ha più la barba.
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Perché hai tagliato la barba? – gli chiedo. La mia voce assomiglia a quella di
una fumatrice accanita.
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Per quale motivo hai voluto quasi ammazzarti? – mi chiede lui.
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Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda – ribatto, punta sul vivo.
Cerco di sollevarmi, ma non ci riesco. Una fitta lancinante mi attraversa le
costole e ricado sui cuscini con una smorfia ed un gemito di dolore.
-
Non sforzarti. Vuoi un po' d’acqua?
Scuoto
la testa, chiudendo gli occhi. No, non ho sete. – Hai visto tutto?
-
Tutti hanno visto tutto, Katniss. Credevo di averti persa –
ammette, carezzando col pollice il dorso della mia mano. – Ma avevo
sottovalutato le abilità di Cinna. Non è solo un bel costume, il tuo.
-
Lo so – mormoro, pensando alla corazza antiproiettile di cui è fornita la mia
uniforme. Cinna aveva pensato proprio a tutto… aveva. Fa male parlare di
lui al passato. È un'altra persona cara a cui ho dovuto dire addio troppo
presto. Cerco di non pensarci. – Cosa mi sono fatta?
-
Trauma toracico – mi informa Peeta. – Eri così invidiosa delle mie costole
distrutte da volerle anche tu?
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Sta zitto.
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Sei una copiona.
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Smettila! – esclamo. Alzare la voce mi provoca una nuova fitta al petto.
Ci poso una mano sopra, sentendo lo spesso strato di bende che mi fascia il
costato da sotto il leggero tessuto della vestaglia da ospedale. Butto via
l’aria dai polmoni con un grugnito.
Peeta
biascica qualcosa sul dorso della mia mano, qualcosa di molto simile a “stronza
incosciente”, prima di poggiarci le labbra sopra. - Ti riprenderai presto,
tesoro. Giusto in tempo per il matrimonio.
-
Che matrimonio?
-
Annie e Finnick – il suo viso si apre in un largo sorriso. – Mi hanno chiesto
di preparare la loro torta di nozze.
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Che capitolo movimentato!
Mi sono divertita un sacco a
scriverlo, lo ammetto.
La storyline che si va dipanando
adesso è interessante: abbiamo Peeta vivo e quasi totalmente guarito, Katniss
che invece cerca di fare del bene ma risolve facendosi quasi ammazzare – il solito,
insomma… e l’elefante nella stanza.
Ci avete fatto caso che dal loro
ricongiungimento Katniss e Peeta non hanno più toccato l’argomento bimba? È
stata una cosa voluta. C’è una sorta di ostacolo fatto di dolore e sensi di
colpa che è stata Katniss stessa a creare e che si tiene dentro, invece di
parlare come fanno le persone normali… ma sappiamo che Katniss non è una
persona normale.
È una cogliona tardona.
Spero di essere riuscita a
trasmettere questa sorta di suo blocco nella scrittura. Non è facile trattare
questo argomento, ma nel mio piccolo cerco di fare del mio meglio :) e
ovviamente non è finita qui! Ci torneremo.
Ci leggiamo alla prossima! E
grazie ancora per essere qui insieme a me, dopo ben 353 pagine di sproloqui –
anzi, 366.
Andiamo sempre peggio ^^’
D.