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Autore: Always_Potter    26/03/2021    3 recensioni
Quando Ryuk lascia cadere il suo quaderno sulla Terra, l’unica speranza dell'umanità è il primo detective al mondo... e una squadra non troppo scelta di Auror.
°*°*°*°
«No, aspetta, fammi capire. Tu hai passato gli ultimi vent’anni a fingere di non esistere, c’è gente seriamente convinta che tu sia un vampiro, e ho visto Robards sull'orlo delle lacrime perché ti sei rifiutato di apparire davanti al Wizengamot per quattordici volte. Ora lanci minacce in diretta televisiva, prendi il tè delle cinque con sei Auror e vuoi presentarti al primo sospettato? Il prossimo passo qual è? Invitare Kira a prendere parte alle indagini e diventare amici del cuore?!»
«Beh, all’incirca… sì, quello sarebbe il piano a lungo termine. Acuta come sempre».
La strega, allibita, accarezzò l’idea di piantare qualcosa di molto acuto nel cranio del detective. Tipo un coltello da cucina.
O una katana.
Avrebbe fatto un sacco di scena.
°*°*°*°
Un detective dal genio imbattuto.
Una Auror dalle abilità eccezionali.
Una quantità sterminata di bugie.
Il Mondo Magico ha di nuovo bisogno di essere salvato.
Genere: Fantasy, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: L, Nuovo personaggio
Note: AU, Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Descrizione più o meno grafica di violenza(?) Dunno, nel caso balzate la parte in corsivo, non è strettamente necessaria per la trama <3

Capitolo 8

Abbandonati

Sophie avrebbe fatto tardi, lo sapeva.

Poco importava se i suoi genitori non sarebbero dovuti essere a casa, poco importava che non la aspettassero, e che sarebbe dovuta essere alla Tana coi Weasley.

In quella momentanea e ovattata irrazionalità, corse lungo i viali innevati del suo quartiere, superando rapidamente le case che una volta conosceva a memoria.

Le sembrò di scivolare, non in modo maldestro e violento, ma dolcemente, finché non ebbe imboccato il vialetto, salito le scale del portico, valicato la porta di casa.

… La porta di casa era aperta, no, spalancata, appesa precariamente a uno solo dei cardini, semidistrutta dall’interno. Il legno era sporco di sangue. Non uno schizzo, no, piuttosto di macchie minuscole, che sembravano aprirsi in ampi ventagli sotto i suoi occhi.

Con il cuore che le martellava in petto, Sophie entrò nella casa dov’era cresciuta, una fioca luce che la seguiva malgrado non le servisse. Sapeva cosa avrebbe trovato, sapeva cosa la aspettava, di quella consapevolezza distorta dei sogni che non riconosceva ma che le faceva tremare le gambe mentre superava l’arcata del salotto.

«Finalmente sei tornata!» il saluto di sua madre echeggiò come se arrivasse da lontano, prendendola quasi in contropiede: i lunghi capelli biondo scuro, il volto bellissimo, dagli zigomi pronunciati e gli eterei occhi grigi, tutto come ricordava. L’espressione di rimprovero, quegli occhi assottigliati sotto le sopracciglia inarcate, era mitigata da un sorrisetto nascente sulle labbra gentili.

Sophie si fece avanti timidamente, di nuovo bambina nel suo corpo di donna, incassando la testa fra le spalle e guardandola con un sorriso colpevole. «Ho fatto tardi?»

«Non dico che hai fatto tardi, girino, ma ancora un po’ e finivo il nuovo libro» ridacchiò suo padre, comparendole alle spalle e scompigliandole i capelli, rossi e indisciplinati quanto i suoi.

«Papà!» Scacciò la mano del padre e lui le fece l’occhiolino da dietro gli spessi occhiali squadrati, mentre si avvicinava alla poltrona in cui era seduta la moglie. Poltrona che, notò ora Sophie, era macchiata e squarciata, così come il resto della mobilia: tutto era posizionato esattamente dove avrebbe dovuto ma… ogni superficie o imbottitura era semidistrutta e macchiata da una sostanza ormai secca, marrone scuro.

«Dai, Sophie, è ora» la richiamò Anne, improvvisamente seria.

«Di cosa, mamma?» le chiese la figlia, confusa.

Guardò la madre esitare, aggrottare le sopracciglia sottili. Qualcosa si spense, nel suo sguardo. «Ma certo, mi sono sbagliata» ammise, il sorriso piegato da un fremito.

«Cosa… mamma, non capisco…» mormorò Sophie, guardando suo padre.

Philip posò un bacio sul capo della moglie, cercando di confortarla. Poi si voltò. «Vedi, la mamma si è confusa, Sophie… tu non c’eri» spiegò con semplicità, ma il suo sorriso si era fatto gelido e distante.

Il cuore di Sophie pareva battere due volte più veloce del normale.

«Non… che cosa-» il fiato le si mozzò in gola, mentre macchie di sangue iniziavano a fiorire sui vestiti dei due, impregnandoli fino a scorrere sul pavimento di legno, macchiando le loro pelli assieme a lividi e lacerazioni, sporcando le loro cornee.

Suo padre allungò un braccio per accarezzarle il volto, ma l’arto era scomposto in un angolo disumano e lei si fece indietro, sprofondando nel panico nel rendersi conto che c’era qualcuno dietro di lei. Braccia ammantate di nero la bloccavano.

«No, è tutto sbagliato» farneticò Sophie, divincolandosi, incapace di urlare mentre una mano guantata le copriva la bocca, mentre chi la teneva iniziava a trascinarla via da quella stanza, via da loro, dai suoi genitori trasfigurati da una violenza impietosa.

«Certo che è sbagliato, tesoro» disse dolcemente Anne, sempre più lontana, sempre più sfigurata. «Tu non c’eri… CI HAI ABBANDONATI»

 

2 gennaio 2004

Sophie si tirò a sedere di scatto, annaspando in cerca d’aria.

Si mosse verso il comodino, buttando a terra tutto ciò che vi era appoggiato alla ricerca della lampada. Appena riuscì ad accendere la luce rimase immobile, abbagliata, ma non chiuse gli occhi.

Rimase lì, a stringere il comodino fra le dita, il respiro affannato e il cuore che le batteva violentemente in petto. Quando sentì un rumore alle sue spalle si voltò di scatto, terrorizzata, ma trovò solo Siler.

Con dita tremanti, la strega si passò una mano fra i capelli umidi di sudore, prima di carezzare il muso dell’animale. Continuò per qualche minuto mentre si calmava, riadattandosi alla realtà, e ogni respiro completo rendeva il suo sguardo più vacuo, i suoi movimenti più meccanici.

Un plic attutito le fece abbassare lo sguardo sul copriletto, dove un cerchietto scuro si era appena disegnato. E poi un altro, e poi un altro. Sophie registrò lentamente le lacrime che scorrevano silenziosamente sul suo volto, fino a cadere dalla mascella tremante.

Apatica, si pulì il volto e cercò con lo sguardo il calendario dell’albergo, posizionato sul comodino opposto al suo. Sorrise appena, un sorrisetto quasi folle nella sua amara sconsolatezza: come ogni anno, gli incubi erano stati puntuali.

 

***

5 gennaio 2004

Ginny Weasley era certamente l’amicizia più radicata e profonda di Sophie Winchester.

Draco Malfoy era sicuramente l’amicizia più salda e incontrovertibile di Sophie Winchester.

Ginny Weasley e Draco Malfoy non erano grandi amici. Checché Sophie continuasse a blaterare riguardo le loro “palesi somiglianze”.

Ginny squadrò il biondo con aria critica. Tzé, palesi. Il giorno in cui avesse mostrato palesi somiglianze con quello snob platinato, avrebbe trovato il modo di portarlo nella tomba con lei, perché sicuramente sarebbe stato coinvolto nella trama malefica.

«Weasley.»

Certo, con gli anni aveva imparato ad avere a che fare con l’ex-Serpeverde, e a rivalutare tutti i pregiudizi e le stigma che vecchie ferite avevano lasciato. A ventidue anni compiuti, era consapevole che Draco non fosse suo padre, che non lo potesse incolpare per l’Horcrux che Lucius Malfoy le aveva rifilato quando aveva undici anni, e che gli errori fatti in gioventù erano stati in parte forzati, e interamente pagati a caro prezzo.

«… Weasley?»

Doveva anche ammettere che per arrivare a quel punto ci erano voluti innanzitutto anni, perché guerra o non guerra l’adolescenza era un pessimo momento per perdonare ex-bulli, ex-puristi ed ex-Mangiamorte che ti avevano tormentato l’infanzia. In secondo piano, Ginny era stata alquanto motivata dal fatto che Draco fosse diventato, nell’ordine, amico di una delle sue migliori amiche, fidanzato dell’altra, e collega del suo fidanzato e di suo fratello.

Sulle ultime, anzi, si era persino trovata partecipe degli eventi.

«Weasley!»

Ciononostante, tenendo pur conto di tutto quanto fosse successo, mutato, perdonato e superato, certe cose non potevano cambiare.

La boria, ad esempio, con cui Draco era capace di portare avanti anche il più piccolo, insignificante dei gesti, era ancora lì, in bella vista. Così com’era ancora lì il repertorio di insulti e nomignoli offensivi, scremato solo della componente più razzista. La totale, assoluta incapacità di tenere per sé i suoi problemi e di non farne una scena madre ogni volta, poi, era forse solo cresciuta negli anni.

«WEASLEY!»

La rossa inarcò un sopracciglio. «Cosa, Malfoy?»

«Mi fissi da mezz’ora come se fossi cosparso di pus di Bubotubero! Se proprio non sai scendere a patti col fatto di non avere buon gusto, apriti una qualsiasi idiota rivista per streghe e fissa PotterSfiga, sarà stampato da qualche parte!»

Ginny si dondolò sulla sedia. «Quindi ti brucia ancora che nell’inserto del Settimanale delle Streghe non abbiano messo anche le tue foto?»

«Non ha alcun senso! Di meno fotogenico del tuo stupido fidanzato c’è solo Kreacher[1]

«Eppure anche lui stava benissimo in quel piccolo pezzo del Cavillo».

Draco lanciò le mani in aria con fare esasperato e fece per uscire dal suo stesso cubicolo che, per decisioni totalmente indipendenti da lui, fronteggiava quello di Harry. Ergo, se Ginny doveva aspettare il fidanzato per pranzare assieme, la colluttazione verbale con il biondo era inevitabile: Ginny stava collezionando tempi sempre migliori sul farlo uscire dai gangheri.

«Aspetta!» sbottò però quel giorno, in barba al suo nuovo record.

Draco la squadrò con sospetto, ancora a un passo dall’uscire dal cubicolo. Lei sospirò.

«Stavo pensando a Sophie»

«… Ed è un mio problema perché

«Perché Hermione mi ha detto che sei “insofferente come un Ippogrifo” e Harry che continua a trovarti a fissare la scrivania di Sophie».

Se dal volto dell’Auror scemò ogni traccia di diffidenza, con altrettanta rapidità un colorito roseo gli salì agli zigomi affilati, e il suo sguardo si fece omicida. «Weasley, giuro su Salazar che-»

«Sono preoccupata anche io» lo interruppe noncurante la strega, passandosi assente una mano sullo stomaco. «So che in questo periodo… beh, non deve essere facile essere là da sola».

Draco non rispose ma riprese posto alla sua scrivania, ignorandola per qualche minuto. Alla fine, si strinse nelle spalle. «No che non sarà facile. Ma quella cocciuta…»

La ragazza guardò il giovane Malfoy fissare il muro di cartongesso come se volesse perforarlo con lo sguardo, ma sapeva che stava solo fissando la fotografia del suo primo giorno nella squadra: Sophie con un braccio stretto in una morsa letale attorno al collo del biondo, il volto sorridente mente lui, rigido e a braccia conserte, alzava gli occhi al cielo.

Ginny conosceva benissimo quella foto, perché era la stessa che Sophie teneva nel suo piccolo e straripante album fotografico: sempre gli stessi volti, negli anni, da Hogwarts all’ultimo compleanno festeggiato assieme.

Ginny, Draco, Harry, Ron, Hermione. Pochi i nomi di coloro che davvero avevano la fiducia di Sophie. Pochi i nomi di coloro che ne conoscevano ogni sfaccettatura, ogni segreto accuratamente custodito, ogni sfumatura che si nascondeva dietro al volto perennemente sorridente della ragazza.

Pochi, pochissimi, coloro che ricordavano ogni anno di abbracciarla una volta in più, perdonarle una svista in più, lasciarle del tempo in più per fissare il vuoto, persa nei suoi pensieri. Ogni anno, quel giorno, da quando i genitori di Sophie le erano stati strappati via.

Ogni anno.

… Non quell’anno.

«A Sophie non sono mai piaciute le cose facili» sancì infine Draco, interrompendo i cupi pensieri della strega. «L’ha deciso lei di essere lì, e non ho la minima intenzione di compatirla…»

«Che vuol dire?! Ha fatto una scelta coraggiosa e assolutamente grandiosa per il suo futuro, non si merita-»

«Non ho detto questo» il biondo interruppe a denti stretti la feroce difesa di Ginny. mormorando poi qualcosa di simile a “Stramaledetti Weasley”. «Quello che intendo, è che sta facendo qualcosa che la rende orgogliosa di sé stessa, qualcosa che ha scelto consapevolmente… non è una totale sconsiderata, sa affrontare un po’ di difficoltà… non le sono mai piaciute le cose facili» ripeté infine, con aria decisa.

La rossa, ora più calma, fissava l’Auror con un accenno di stupore in volto: per quanto fosse protettiva nei confronti della sua amica, e per quanto i motivi per cui essere preoccupata non facessero che moltiplicarsi, non poteva che avere fiducia in lei. Draco aveva ragione, insomma… ma il suo ego non aveva assolutamente bisogno di sentirselo dire. 

«La piantate di fissarmi tu e il tuo fidanzato?!» sbottò di colpo il biondo, ormai al limite della sopportazione.

«È che a volte fatico a credere a quanta lacca tu possa mettere sui capelli, Malfuretto- ciao amore» si annunciò Harry, arrivando con il cappotto cosparso di neve piegato su un braccio.

Si chinò a posare un bacio sulle ridenti labbra della fidanzata.

«Spine nel fianco» sibilò Draco, appoggiandosi alla scrivania coi gomiti e prendendo a massaggiarsi le tempie.

Harry e Ginny si scambiarono dei sorrisi complici, mentre si avviavano verso la mensa. Un attimo prima di andarsene, la rossa si riservò il diritto di dare dei colpetti di incoraggiamento a una spalla del biondo.

Lui guardò i due di traverso, ma li salutò con un cenno del capo.

 

Quando le loro voci si persero definitivamente nel rumore di sottofondo del Dipartimento, Draco tornò a guardare la foto in cui Sophie lo aveva costretto, tutti quegli anni prima.

E ripensò alla conversazione che aveva origlia-casualmente udito una decina di giorni prima.

 

27 dicembre 2003

A sua difesa, Draco si stava solo annoiando, mentre attendeva che le analisi sulla bacchetta di un sospettato arrivassero. Si stava stiracchiando le gambe, passeggiava avanti e indietro, riattivava la circolazione: non era certo colpa sua se la pidocchiosa scrivania che gli avevano assegnato anni prima – e che lui aveva poi sostituito con un pregiato pezzo di antiquariato - dava praticamente le spalle all’ufficio di Robards.

Quindi sì, forse aveva superato la linea che separava l’innocente e casuale prossimità dal sospettoso appostarsi, ma gli era parso di sentire un rumore di sottofondo provenire da quell’ufficio. Ufficio la cui porta, di norma, era perennemente Imperturbabile: nessun rumore in entrata, nessun rumore in uscita.

Così, il biondo aveva inarcato un sopracciglio e, badando che non vi fosse nessuno in vista, si era avvicinato al vecchio uscio di legno.

Nessun altro suono, però, stava giungendo al suo orecchio: né un respiro, né il tramestio di un cassetto smosso, né un qualsiasi altro tipico movimento da ufficio.

Draco stava quindi per riprendere la sua noiosa attesa per i corridoi del Quartier Generale, una smorfia di disappunto già pronta sulle labbra, quando udì un crepitare improvviso, e il rumore di una punta metallica su una superficie di pietra.

Il biondo corrugò la fronte.

… Il camino?

«Inizio a detestare queste nostre conversazioni, Watari».

Le sopracciglia del biondo scattarono verso l’alto, gli occhi grigi frugarono un’ulteriore volta il corridoio. Dall’altra parte della porta, un silenzio prolungato venne spezzato dal sospirare di Robards. «Che cosa vuole L, ora?»

«… Posso ricordarle che è lei ad averci contattati? Ad aver dato inizio a questa faccenda? Non starebbe parlando con me, altrimenti». La replica venne da una voce distorta, quasi incomprensibile nel crepitare delle fiamme di, , un camino acceso: Metropolvere, senza ombra di dubbio.

«Ironico, dato il perché vi ho contattati» replicò seccamente la voce del Capo.

Draco era pressocché schiacciato sullo stipite della porta, appena scostato perché la sua sagoma non fosse visibile tramite lo spesso vetro giallastro della finestrella, e i suoi pensieri correvano rapidamente: la versione ufficiale, era che Watari stesso avesse preso i contatti con il Wizengamot, e tramite di esso col Ministero britannico e americano.

Quindi, come poteva averlo contattato per primo Robards? Si riferivano forse a qualcos’altro? A qualcosa che non c’entrava con la richiesta di rinforzi di L?

Per altro, quello stesso giorno avevano ricevuto notizia della morte degli Auror americani che erano arrivati in Giappone: Robards li aveva convocati in ufficio non più di una manciata di ore prima, sforzandosi di rassicurarli sull’incolumità di Sophie e finendo per cacciarli a “fare il loro lavoro finché ne avevano uno!”. Quindi ora cosa ci faceva a parlare di nuovo con Watari? Era ancora inerente a quel disastro sfiorato?

«Che cosa succede?» chiese Robards, prendendo nuovamente parola per primo. E di nuovo, Draco riconobbe una nota di resa che raramente aveva sentito nella voce di quell’orgogliosissimo Auror.

Prima che potesse udire la risposta, Proudfoot e McLuhan si affacciarono alla fine del piccolo corridoio che separava l’ufficio dal resto dei cubicoli, cianciando ad alta voce dell’ultima partita del Puddlemore United.

Draco, stringendo i denti, si appoggiò con indolenza al muro, ritraendosi dalla porta quel tanto che bastava a non rendere sospetta la sua posizione.

«Oh, Malfoy! Hai mica visto Weasley? Mi deve dieci falci!» sbottò allegramente Proudfoot, prendendo atto della sua presenza con un’entusiasta alzata delle bianche sopracciglia.

Sempre entusiasta, questo stramaledetto pezzo da museo.

«No» rispose il biondo tra i denti.

«Oh, non lavora oggi?»

«Non lo so»

«Ma è nella tua squadra, non sai se-»

«Ho forse una stupida cicatrice in fronte e degli stupidi capelli spettinati? No, perché non sono Potter, chiedete a lui» lo interruppe Draco con un’occhiataccia, trattenendosi dall’alzare la voce perché non filtrasse dalla porta del Capo. Porta che, più che chiaramente, quel giorno non era Imperturbabile.

«D’accordo, d’accordo, scusa… che permaloso» borbottò mogiamente l’altro Auror, superando Draco.

«Oh, lo sai com’è fatto… e poi è fuori dall’ufficio di Robards, sarà in qualche guaio e starà aspettando una strigliata» commentò McLuhan, sparendo col collega dentro al labirinto di cubicoli.

«Fottuto mangiacarta» sibilò Draco, controllando i dintorni prima di avvicinare nuovamente l’orecchio alla porta.

«… e va bene, va bene! Fate come diavolo ritenete opportuno!» stava abbaiando Robards.

«Perfetto. Ci tengo a ricordarle che L desidera sapere di ogni ulteriore sviluppo, e che Sophie non deve-»

«Avere nessun sospetto-non sono stupido, Watari.»

Dopo qualche secondo, in cui la tensione ebbe tutto il tempo di filtrare attraverso la porta e irrigidire la schiena di Draco, Watari concluse: «Ci faremo risentire presto.»

Il rumore di fiamme si smorzò di colpo.

«… Fortunato me» brontolò cupamente Robards, prima che un acuto scricchiolare annunciasse che avesse preso posto alla sua scrivania.

«Malfoy! Ho i risultati!»

Draco si voltò lentamente verso Ron e la pergamena che stringeva in mano, il volto indecifrabile e la testa completamente altrove. Per quel che rimaneva del turno, non prestò al collega la benché minima attenzione.

 

Tornando al 5 gennaio 2004

«Qualcosa che non va, Malfoy?»

Draco alzò lentamente gli occhi su Robards, senza dargli nemmeno per sbaglio la soddisfazione di vederlo sobbalzare. «No, Capo» replicò atono, le sopracciglia bionde inarcate e il volto teso nella migliore delle sue espressioni da Aristocratico decaduto, come le definiva Hermione. Quando Hermione era gentile.

“Stramaledetto pezzo di snob” era la versione più irritata.

Sophie e Weasley piccola concordavano entrambe su un più colorito “Firebolt su per il c-”

«Allora lavora, il Ministero non ti paga per fissare il vuoto» lo rimbottò Robards, prima di proseguire verso il suo ufficio in un basso borbottio ininterrotto.

Quando la vecchia porta scricchiolante si fu richiusa alle sue spalle, il biondo smise di nascondere la smorfia di disprezzo che gli premeva sulle labbra sottili.

Non gli era sfuggita la nota di sospetto negli occhi di Robards, né il modo in cui si era accigliato. Quasi con preoccupazione.

Cosa sta combinando?

D’altronde, la più brava a leggere il volubile umore del Capo era sempre stata Sophie, l’unica idiota che potesse seriamente prendere quell’insopportabile criticone scorbutico di Robards come modello di riferimento.

La cosa più ridicola, però, non era nemmeno che Robards avesse effettivamente preso sotto la sua ala quello sgorbio di diciassettenne che aveva deciso di diventare Auror dopo il diploma.

No, l’ironia era che, da come stavano convergendo i fatti, sembrasse essere proprio Robards quello che tramava alle loro spalle, alle spalle di Sophie.

Draco schioccò la lingua e ruotò sulla sedia, tornando a fronteggiare la parete di cartongesso che chiudeva la sua scrivania. Davanti a lui, la solita foto.

Sospirò.

«Dannato sgorbio».

 

***

 

«Hai visto anche tu? Il plico…»

L stava per aprire bocca, quando Sophie glielo chiese.

La guardò con la coda dell’occhio, vagamente stranito che la ragazza avesse pressoché sussurrato, invece di lanciarsi in esclamazioni rumorose. L’ennesimo comportamento bizzarro della strega che, in quei giorni, era stata più silenziosa, discreta e cauta di quanto lo fosse stata da quando l’aveva conosciuta.

Accantonò quel pensiero momentaneamente, prima di scuotere il capo.

«Quale plico?»

«Quello che aveva prima di salire»

«Che cosa c’è?» chiese Matsuda, spostando lo sguardo dal detective al televisore: nelle immagini in bianco e nero di una videocamera di sicurezza, Raye Penber giaceva privo di vita sulla banchina di un treno.

L rimase in silenzio un attimo più del consueto, aspettandosi istintivamente che fosse Sophie a rispondere al suo posto. Dopo averla vista abbassare lo sguardo, persa in un tè che stava sorseggiando con scarso entusiasmo, capì però che sarebbe rimasta in silenzio. Anche stavolta.

Non che fosse rilevante, non in quel momento: la squadra si era procurata tutti i filmati di sicurezza che avessero immortalato la morte degli Auror e, malgrado fossero relativi a sole tre vittime, ora avevano decine di nastri da visionare. L era certo che, tra quelle dodici morti, una lo avrebbe condotto da Kira, una sola.

E infatti.

Dopo aver gettato un’occhiata di sbieco alla rossa, L chiese di riavvolgere la registrazione, spiegando quanto avesse catturato la sua attenzione: Raye Penber era entrato nella stazione di Shinjuko Ovest alle 15:11, alle 15:13 era salito sulla linea Yamanote, e alle 15:21 aveva ricevuto il file contenente le schede degli Auror presenti in Giappone. Solo un’ora e mezza più tardi era sceso sulla banchina su cui, pochi attimi dopo, sarebbe morto.

Giunti alla fine delle riprese, L capì cosa intendesse Sophie. «Sia nell’immagine dei cancelli, che in quella in cui sale a bordo, aveva con sé una specie di busta».

«Tra gli oggetti che aveva con sé non è stato registrato niente che possa somigliare a una busta… c’era solo un pc babbano, col file del MACUSA» confermò il Sovrintendente, dando  una rapida occhiata al rapporto della morte di Penber.

«Significa che l’ha lasciata sul treno» commentò L.

«Significa che la busta serviva a Kira» aggiunse Sophie, ancora una volta sottovoce.

Il detective incrociò il suo sguardo, ragionando: il file richiesto da Penber e gli altri, era stato spedito via gufo a solo quattro degli agenti, che lo avevano poi passato tramite il bizzarro mezzo elettronico. L’utilizzo di un file digitale, babbano, il fatto che lo stesso Penber e altri Auror si trovassero nel pieno di zone babbane, non faceva che rendere difficoltosa quell’indagine. Normalmente, un mago avrebbe utilizzato un gufo e avrebbe viaggiato smaterializzandosi, o via Metropolvere.

Chiaramente, Kira si era garantito che le sue vittime fossero ritrovate, e doveva aver manipolato anche il modo in cui si erano svolte le comunicazioni: non solo gli Auror erano morti in tempi diversi, ma l’ordine con cui il file aveva raggiunto gli agenti non combaciava con l’ordine delle morti.

Ma è qui l’errore.

A Kira servivano nomi e volti per uccidere, perciò doveva aver per forza avvicinato un unico agente, per poi confondere le acque manipolandone le azioni e, per esteso, quelle dei suoi colleghi. Perciò, quell’agente doveva essere tra i primi ad aver ricevuto il file, e Raye Penber era il secondo della lista.

Ciò significava che Penber doveva aver incontrato Kira prima di entrare nella stazione… e, forse, anche dopo.

L riportò gli occhi sulle immagini, studiando come il corpo di Raye fosse collassato verso l’entrata del treno: l’uomo era uscito, poi si era voltato nell’attimo in cui era crollato a terra, avvolto da un lampo di luce verde. Si era accorto di aver scordato la busta?

Il detective aggrottò lievemente le sopracciglia.

No, era molto più probabile che… Kira lo avesse chiamato.

… Infantile.

«Passatemi al setaccio tutti i video di ogni stazione della linea Yamanote relativi al 27».

Dubitava che Kira si fosse fatto cogliere in fallo dalle videocamere, era abbastanza intelligente da saperne sfruttare gli angoli ciechi alla perfezione, ma se aveva commesso un passo falso… avrebbero trovato il loro sospettato principale.

Poi, dieci minuti più tardi, arrivò la lettera.

 



[1] Per chi non lo conosca, cercate su google perché un’immagine vale più di mille parole ;)

  
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