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Autore: Lodd Fantasy Factory    18/04/2021    1 recensioni
Non ho tempo per le introduzioni. Devo raccontare questa storia, e voglio farlo il prima possibile. Prima che qualcosa mi possa fermare... prima che loro... sono dietro ogni angolo. Sono nella mia casa... cancelleranno tutto. Persino me...
Genere: Dark, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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18 Aprile 2021,

 

 

Mi risvegliai sotto un giovane salice. Avendo quasi un infarto!

Avorio, dall’alto di uno dei rami, mi lanciò uno dei suoi miagolii coraggiosi, come una specie di ruggito, dandomi così il buongiorno. Lo era, in effetti. Il sole tiepido di aprile era mitigato dalla folta chioma del salice. Mi concesse un attimo per stropicciarmi gli occhi, prima di balzarmi addosso, atterrando sulle spalle, strofinando poi il musetto contro il mio orecchio ed emettendo quel mezzo miagolio affamato.

“Non potevi cacciare?” chiesi, ridendo.

Un miagolio contrariato.

“Sei furbo, eh?” mormorai, aprendogli una scatoletta all’aragosta e gamberetti; il solo odore mi diede la nausea.

Avorio, però, continuò a miagolare.

Sollevai così lo sguardo verso una vecchia signora che era rimasta per tutto il tempo lì a fissarmi, e a dipingere. Aveva capelli corti e blu, come li porterebbe un ragazzino, con un ciuffo lunghissimo. Indossava un vestito rosso e verde, di quelli anni cinquanta, che ben si abbinava ai suoi occhi verdi. Il volto non era stato sciupato dalle molte rughe, facendomi comprendere che in passato doveva essere stata una bella donna, e lo era ancora. Nessun orecchino o gioiello, solo un mezzo sorriso spezzato da un pennello incastrato tra i denti. Era un chiaro segno che avesse abbandonato il vizio del fumo. Come posso dirlo? Una sensazione.

“Buongiorno…” dissi con un po’ di vergogna e, come penso avrebbe fatto chiunque, le mie mani sono corse subito alla borsa, per cercare il Diario. Era ancora al suo posto.

“Ti ho derubato, ma solo dell’immagine. Anche se il tuo amico peloso non ha voluto farmi da modello. Avresti dovuto vederlo quanto era infastidito!”, disse con una serenità che ritenni dapprima fittizia.

“I ritratti e le foto rubano le vite”, dissi senza spiegarmi un perché della mia stessa affermazione. Il mio pensiero era andato al sogno di Philipp Lloyd, a Zhùt. “Gli indiani credevano così, perlomeno per quanto riguarda le foto.”

Lei rise.

“Questo piccolino è indiano?” mi canzonò sempre con la stessa calma.

“No, non so perché l’ho detto.”

Avorio miagolò contrariato.

Ridemmo entrambi.

“Ti andrebbe di posare ancora per qualche minuto? È quasi ora di pranzo: vi invito entrambi a casa mia, così siamo pari.”

Il mio sguardo e quello di Avorio s’incontrarono, e risi al pensiero che avesse compreso quella domanda. Così, nel frattempo che io posavo per lei, fingendomi ancora addormentato, il gatto ebbe il tempo di sfamarsi.

Che incontro singolare” è quel che ho pensato non appena mi diede il permesso di alzarmi. Immaginavo di dover puzzare parecchio, considerata la lunga camminata della notte e il fatto di essere in viaggio da parecchi giorni.

 

Non volle mostrarmi in quadro.

Dopo averlo inserito all’interno di un’apposita cartelletta, chiuse il treppiede e ci fece strada sino a casa sua. Era abbastanza vicina, e dava sul fiume. Se avesse avuto il mulino, avrei potuto definirla proprio la casa della Mulino Bianco. Si trattava di un edificio su due piani, mura sul giallo con tetto rosso, un bel giardino con ingresso sterrato fiancheggiato da pioppi e mimose; il cancello verde pisello teneva dentro la proprietà un vecchio carlino e un cucciolo di bulldog. Un cartello insolito, con un grosso cuore, recitava: prendetevi cura dei cani.

Avorio, che per tutto il tempo aveva passeggiato al nostro fianco, fermandosi ad annusare di quando in quando l’erba, parve incuriosito dalle nuove bestiole. Rimasi a guardarlo avvicinarsi con quel suo fare elegante, miagolando quasi fosse un generale che tenta di mettere sull’attenti il suo reggimento. I cani ci aprirono la strada sino alla casa scodinzolando giocosi.

“Se vuoi farti una doccia fresca, laggiù ho quella riservata alla piscina” mi indicò il posto, considerato il caldo. Avrei potuto prendere quella sua affermazione come il tentativo di tenermi fuori da casa sua, ma si affrettò subito ad aggiungere: “Se vuoi, posso lavarti i vestiti. Dovrei avere ancora degli abiti di mio figlio: potrebbero essere un po’ impolverati, ma niente che non si possa risolvere.”

L’occhio mi era caduto sulla sua mano sinistra, e non avevo notato l’anello nuziale, dunque mi risparmiai di chiederle a riguardo del marito. Accettai ben volentieri il suo invito: sentii di aver proprio bisogno di una pausa.

La piscina, qualcosa di molto semplice ma gradevole, era diventata una specie di palude. Sentii le rane gracidare al mio arrivo; a quel suono, un brivido mi corse lungo la schiena, sufficiente a riportarmi agli atroci versi dell’oscurità. Mi tolsi i vestiti e, sotto il sole cocente di aprile, mi lasciai inondare dal getto gelido dello spruzzino; a dire la verità, anche l’acqua era calda, almeno per i primi secondi. Rimasi sotto il getto per un bel po’, strofinandomi il corpo quasi cercassi di liberarmi della mia pelle. Lo sciampo al cocco mi alleviò i pensieri, e il bagnoschiuma ai profumi esotici mi portò per qualche minuto lontano dalle mie sciagure, tanto che la donna poté prendere senza problemi i miei indumenti sporchi.

 

Quando ebbi finito di lavarmi, e notai che le macchie di sangue erano svanite dalle mie mani, Anna mi porse un lungo asciugamano, rivelandomi il suo nome. Non pareva minimamente imbarazzata dalla mia nudità, ed io mi accorsi di non esserlo nel mostrarmi. C’era qualcosa di nuovo in me, una specie di sfrontatezza, o sicurezza, che non avevo mai avuto.

“Tutti mi chiamano Philipp, ultimamente” risposi dopo un attimo d’incertezza, accettando ben volentieri anche gli indumenti. “Proprio un bel posto… anche se un po’ isolato.”

Nessuna macchina nel giardino.

La città più vicina distava diversi chilometri.

“Tutti i bei posti sono isolati” fu la sua risposta. Si lasciò scappare una risata contenuta. “C’è caldo, ma faresti bene a rivestirti. Sta per sollevarsi un po’ di vento, e prendersi un malanno è una cosa facile di questi tempi, e a dir poco sospetta.”

Corsi con la mano alla bocca, accorgendomi solo ora che per tutto quel tempo avessi scordato la mascherina, forse condizionato anche dal fatto che neanche lei la portasse.

“Scusami… Mi scusi” mi corressi subito. “Mi è come passato di mente.”

“Dammi del tu, senza farti problemi. Mi fa sentire giovane e bella.”

“Lo è” mi affrettai a rispondere, e di certo arrossii. “Lo sei...”

Lei rise di nuovo.

I vestiti del figlio mi andavano alla perfezione.

“Chi di voi ha fame?” chiese, quasi si stesse rivolgendo ad un gran numero di ospiti.

Mi guardai attorno, spaesato, ma notai che c’eravamo solo noi e gli animali. Avorio aveva conquistato sia il carlino che il bulldog: entrambi se ne stavano con la pancia all’insù ad osservarlo. Un gatto ammaestratore di cani!

Ma quando la donna disse pappa!, i cani balzarono in piedi, correndo alle ciotole. Ne era stata aggiunta una anche per Avorio. Altri due gatti arrivano dalla campagna, e attesero che si nutrisse Avorio prima di avvicinarsi.

“Noi pranzeremo dentro, se ti va.”

Nell’accettare l’offerta di quella donna, mi accorsi di aver dato via la borsa con il Diario. Mi sentii raggelare, e subito avvampò dentro di me il fuoco della diffidenza. Era stata così brava nel condurmi sino a casa sua, nel farmi sentire protetto, giusto per sottrarmi quell’oggetto. Io ci ero cascato con entrambe le scarpe!

“La mia borsa…” mugolai.

“Ho fatto attenzione a non danneggiare il portatile, tranquillo. Immaginando che fosse a corto di batteria, mi sono permessa di collegarlo alla rete elettrica” confessò. “Ho messo a lavare anche la borsa. Finché terrai quel libro puzzolente, anche i tuoi vestiti puzzeranno.”

Entrai in casa con cautela. Era bellissima, e molto moderna: quadri di ogni sorta erano appesi in ogni dove, rendendo quel posto un luogo brulicante di arte; vi erano anche sculture appartenenti a diverse culture, compresa quella degli Indiani d’America. I miei effetti erano tutti su un mobiletto in mogano. So di esser sembrato paranoico, ma li controllai scrupolosamente: era tutto in ordine.

“Li hai fatti tutti tu?” chiesi, soffermandomi sulla rappresentazione di un mare in tempesta, con uomo immortalato in perenne attesa di fronteggiare un’onda anomala su una semplice zattera.

“Gli artisti sono egocentrici, ma sino ad un certo punto. Per quanto possano apprezzare la propria arte, è difficile che si mettano sotto gli occhi qualcosa di loro, per quanto ne siano orgogliosi, proprio perché finirebbero per trovarci sempre qualche errore. Buona parte sono di mio figlio.”

“Ha una mano pazzesca… dico sul serio. Sembra reale!” risposi, senza riuscire a staccare gli occhi dal quadro.

“Gli riporterò i tuoi complimenti, la prossima volta.”

Mi fece strada sino alla cucina, alla quale si poteva accedere per mezzo di una porta a scorrimento che si affrettò a chiudere. A differenza delle altre stanze, era più semplice, senza quadri, ma con molte foto. Mi riuscì di comprendere che per un artista la cura delle opere d’arte viene prima di tutto: i fumi della cucina e gli sbalzi di temperatura avrebbero di certo finito per alternarne la qualità.

Dedussi che Anna aveva avuto anche una figlia, ma non dallo stesso uomo. Nessuno dei due aveva però ereditato la sua bellezza. Tirò fuori della pasta al forno, degli involtini di verdure e un pasticcio di carne. Tutto buonissimo, da leccarsi i baffi. A giudicare dalle porzioni, aveva preparato il pranzo e la cena per lei, che ora si premurava di condividere con me.

Stappò una bottiglia di vino e, cercando di mostrarmi gentile, mi proposi di versarlo.

“Tutto bene?” mi chiese d’un tratto, durante il pasto.

Mi venne da tirare su col naso e, mentre assaggiavo il pasticcio, non mi ero reso conto che dai miei occhi avessero cominciato sgorgare le lacrime. Ogni boccone aveva avuto il potere di riportarmi indietro, a mia madre, alla sua cucina, alla sua gentilezza. Anche lei era rimasta sola, proprio come Anna. Avevo finito con il riflettere sul fatto che quella donna mi avesse accolto in casa sua, senza fare domande, senza avere timore di me, inconsapevole di aver offerto ospitalità ad un assassino. Mi aveva guardato, e aveva visto in me un figlio.

“Era da tanto che non mangiavo qualcosa di così buono. Adoravo la cucina di mia madre…” e mi asciugai le lacrime con un fazzoletto.

Lei mi colmò il bicchiere.

“Piangere fa bene. Aiuta a sfogare l’anima. Siamo costretti ad affrontare troppi problemi, in vita, per concederci il lusso di non piangere. Commettiamo degli errori, subiamo delle gravi perdite, ma tutto avviene al fine di condurci su esperienze di vita che l’anima avverte di aver il bisogno di esperire. Beninteso, non è facile accettare il fatto che la perdita di qualcuno debba avvenire per innescare la crescita dell’anima, Philipp. Siamo tutti parte di un unico essere, di un flusso vitale che ci lega; alcuni sono più forti, altri meno. Io credo che continuiamo a tornare in eterno, flusso dopo flusso, sinché quest’anima non sarà soddisfatta di aver vissuto ogni esperienza possibile.”

“E poi?” mi ritrovai a chiedere. “Che succede dopo?”

“Solo l’ultima anima potrà dirlo. Forse finirà tutto, o sarà un nuovo inizio. Perlomeno, e quello che credo io.”

“E se ci fossero anime speciali, nel mondo?” chiesi, aprendo un discorso più con me stesso che con lei. “Mi pare di capire che tu non creda ad un Dio in particolare… ma poniamo che esistesse qualcuno che si nutre proprio di anime… cosa accadrebbe in questo caso? Il flusso si interromperebbe?”

“Di solito i miei discorsi innescano polemiche. È la prima volta che qualcuno mi fa una domanda simile!” e parve sinceramente sorpresa. Vuotò il suo bicchiere e, dopo aver spostato le stoviglie nel lavandino, disse: “Concedimi il tempo di pensarci su, vuoi?”

“Non sei costretta… sono solo stupidaggini, le mie.”

In quel momento Avorio balzò sul davanzale della finestra, facendomi prendere un colpo.

“Il tuo discorso mi ha fatto pensare a molte cose. Ci sono culture che credono esistano entità capaci di tali atrocità. Nella stessa religione Cristiana, Lucifero, colleziona anime per un motivo specifico” sottolineò. Malsumis aveva ben altro aspetto, perlomeno dai racconti che si facevano di Satana. “Facciamo così: ci vorrà del tempo affinché asciughino i tuoi indumenti. Rimani qui, questa notte: potrai dormire nella stanza di mio figlio. Se hai bisogno della connessione, non c’è bisogno di password. Riprenderemo più tardi il discorso.”

“Sarebbe approfittarmi della tua ospitalità, Anna. Non sai neanche chi sono…”

Lei mi riempì il bicchiere di vino. Poi, mi chiamò per nome.

“Non sei l’uomo che dicono nei telegiornali locali.”

 

 

Credo possa bastare,

 

Non so perché ho scritto tutto con questo stile… mi andava di farlo, come se tutto ciò potesse allontanarmi dalla mia percezione degli eventi. È servito.

 

Aggiornerò,

 

 

Philipp Lloyd.

   
 
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