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Autore: Bibliotecaria    12/05/2021    0 recensioni
In un mondo circondato da gas velenosi che impediscono la vita, c’è una landa risparmiata, in cui vivono diciassette razze sovrannaturali. Ma non vi è armonia, né una reale giustizia. È un mondo profondamente ingiusto e malgrado gli innumerevoli tentativi per migliorarlo a troppe persone tale situazione fa comodo perché qualcosa muti effettivamente.
Il 22 novembre 2022 della terza Era sarebbe stato un giorno privo di ogni rilevanza se non fosse stato il primo piccolo passo verso gli eventi storici più sconvolgenti del secolo e alla nascita di una delle figure chiavi per questo. Tuttavia nessuno si attenderebbe che una ragazzina irriverente, in cui l’amore e l’odio convivono, incapace di controllare la prorpia rabbia possa essere mai importante.
Tuttavia, prima di diventare quel che oggi è, ci sono degli errori fondamentali da compire, dei nuovi compagni di viaggio da conoscere, molte realtà da svelare, eventi Storici a cui assistere e conoscere il vero gusto del dolore e del odio. Poiché questa è la storia della vita di Diana Ribelle Dalla Fonte, se eroe nazionale o pericolosa ed instabile criminale sta’ a voi scegliere.
Genere: Angst, Azione, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Note dell'autrice: scusate per il ritardo ma questo capitolo è stato un parto, e il prossimo sarà anche peggio T_T
Quindi, per la mia sanità mentale, d'ora in avanti pubblicherò almeno il mese prossimo.
Il prossimo aggiornamento sarà probabilmente dopo il 15 giugno


19. Risveglio
 
 
Al mio risveglio ero in un letto che non era il mio. Cercai di mettere a fuoco dov’ero sbattendo più volte le palpebre fino a quando non compresi che davanti a me c’era mia madre e mi stava fissando serissima negli occhi mentre le sue mani stringevano con forza la sua camicia minacciando uno strappo. “Che cosa…?” Domandai confusa: la testa mi stava facendo un male tremendo, l’orecchio destro aveva ripreso a fischiare e avevo le mani doloranti. Tentai di mettere a fuoco i ricordi della sera prima ma erano confusi.
“Hai quasi mandato tuo padre in ospedale.” Le prime parole della giornata e già sentii il mondo crollarmi addosso. Per un lungo istante mi bloccai incredula di quello che avevo fatto. Tentai di mettermi seduta ma vidi tutto bianco e fui obbligata a sdraiarmi nuovamente, se non lo avessi fatto sarei svenuta. Quando riacquisii un minimo la coscienza mi tastai il collo per verificare se quel ultimo confuso ricordo fosse vero. Riconobbi subito i due piccoli buchi nella zona destra: il morso di un vampiro.
“Gli hai spezzato un dente e pestato un occhio, ha una costola incrinata, ci sono volute tre persone per bloccarti.” Mi comunicò mia madre con fare glaciale mentre iniziavo a respirare affannosamente incredula a quello che sentivo.
 
“Mi spieghi perché Diana?” La voce di mia madre si incrinò a quella domanda, quella maledettissima domanda che mi perseguitava da quando ero una bambina: io non pensavo, agivo e basta, ero sempre stata impulsiva e avevo sempre avuto qualche problema a gestire la rabbia ma non ero mai arrivata a questo livello prima di ieri sera.
“Io… non… non…” Sentivo le parole morirmi in gola mentre entravo in iperventilazione, un oceano di emozioni e domande mi investì mentre cercavo di recuperare i ricordi della notte precedente ma non c’erano, non importava quanto cercassi, non riuscivo a trovarli. Come se non bastasse, più cercavo meno lucidità acquisivo.
Compresi di essere sull’orlo del baratro così strinsi i denti e cercai di trattenere il respiro: un secondo, due secondi, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci e avanti così fino a quando non sentii che non riuscivo più a trattenere il respiro. Espirai lentamente, imponendomi di far uscire il fiato a piccolissime dosi. Solo quando non mi sentii più aria nei polmoni inspirai facendo entrare una piccolissima dose di aria. Ripetei l’operazione diverse volte sotto lo sguardo giudicante di mia madre ma non aprii bocca, semplicemente attese che riacquisissi lucidità.
 
“Vi ho detto mille volte che non sopporto quando dite che chiunque non sia umano non ci può capire e viceversa, vi ho spiegato più volte che per me Giulio è la persona con cui vorrei condividere la mia vita, ero appena uscita dal suo funerale, ero stanca, a pezzi, emotivamente instabile e voi sapete più di tutti che ho difficoltà a gestire le emozioni forti.” Scostai appena lo sguardo verso di lei, non mi ero neanche accorta di aver parlato al presente. “Credi veramente che io sarei stata buona buona a quel commento?” Domandai serissima fissando mia madre negli occhi. Ero stranamente calma adesso, la mia mente si era svuotata di tutto ed era rimasto l’essenziale. Fu in quei momenti che per una frazione di secondo la vidi: paura, semplice e puro terrore negli occhi di mai madre.
Esso però venne velocemente sostituito da un’amara consapevolezza. “No.” Sussurrò abbassando lo sguardo per poi riprendersi e tornare a guardarmi severa. “Ma hai…” La bloccai alzando la mano. “So perfettamente che ho sbagliato, non mi serve la predica. Ma non osare dirmi che non abbia avuto le mie ragioni per arrabbiarmi.” Risposi placida guardandola negli occhi e vidi i suoi occhi scuri tremare di incertezza.
 
Saremmo potute rimanere in quella situazione di stallo per delle ore ma, come la porta si spalancò ed entrò mio padre, la calma venne spezzata. “Diana esigo spiegazioni! Che cazzo ti è passato per la testa? Mi volevi ammazzare? Cosa devo fare con te? Eh!?! Avrei dovuto prenderti a cinghiate da piccola! Almeno adesso sapresti qual è il tuo posto!” Stava per aggiungere altro ma mi alzai con calma e lo fissai dritto negli occhi. “Se vuoi fare scenate vedi di farle una volta tornati a casa. La famiglia Longo è stata fin troppo gentile ad ospitarci malgrado tu li abbia insultati.” Risposi con una calma glaciale che spaventò anche me, eppure ero eccitata: non mi ero mai sentita così potente prima di allora, mi sentivo invincibile malgrado fossi chiaramente a pezzi.
“Tu… brutta piccola…” Mio padre fece un profondo respiro e si impose di calmarsi. “Che ti passa per la testa? Sei impazzita al improvviso?” Mi domandò mio padre contenendo il tono malgrado fosse ancora furibondo. “No. Non sono impazzita, adesso sono molto lucida.” Sussurrai guardandolo dritto negli occhi, improvvisamente non lo percepivo più come mio padre ma come un bambino capriccioso. “Allora vieni a casa, lì ne parleremo e a lungo anche.” Decretò stanco di questa situazione. “Molto bene.” Commentai per poi cambiarmi nel giro di pochi minuti.
 
Però prima che potessimo uscire, Roberto, il padre di Giulio, mi bloccò e mi prese da parte.
“Signor Longo, senta… mi dispiace infinitamente per ieri sera. Non volevo causarvi questi problemi.” Ammisi in un sussurro prima che potesse dirmi qualsiasi altra cosa: sapevo di non avere scusanti e provavo una profonda vergogna per l’accaduto. “Non te ne fare una colpa così grossa, tuo padre non ha fatto che insultare il mio clan dopo che gli hai detto di rimangiarsi il fatto che noi non condividessimo lo stesso dolore.” Mi informò e a quel punto sgranai gli occhi. Roberto mi fissò per qualche istante e comprese la mia confusione.
“Non te lo ricordi?” Mi domandò sorpreso. “No.” Ammisi con vergogna.
 
“È stata Anna a dirvelo?” Domandai incuriosita: dovevo andare affondo della faccenda. “Sì, ha detto che quando ti seri rifiutata di tornare a casa, tuo padre ha cercato di obbligarti ad entrare, a quel punto tu ti sei rifiutata e avete iniziato a discutere. Vi ho anche visti: eravate entrambi nervosi ma non stavate urlando. Anna aveva anche tentato di intervenire, ma tuo padre… l’ha insultata.” Compresi dal tono in cui lo disse che probabilmente era lui quello più ferito per l’accaduto che Anna stessa. “A quel punto ti sei messa in mezzo, lui ti ha colpita e ha cercato di trascinarti in auto è allora che avete iniziato a picchiarvi.” Mi spiegò, si concesse un profondo respiro e riprese a parlare.
“Comunque, non è per questo che ti ho chiamata.” Disse consegnandomi la foto di me e Giulio, non credevo che la tenesse ancora. “Era nel suo comodino, credo che sia giusto che l’abbia tu.” Mi disse pacato ma comunque provato, non osai pensare quanto gli costasse separarsi da una delle foto più recenti di suo figlio e sicuramente la più bella. “Grazie.” Sussurrai imbarazzata non sapendo in quale altro modo esprimere la mia immensa gratitudine. Poi presi coraggio e parlai. “Se mai vi servisse qualcosa, qualsiasi cosa, chiedete pure. Sarò sempre disponibile per voi.” Sussurrai vergognandomi profondamente: non avevo idea di come avrei mai potuto aiutare quella famiglia ma qualcosa me lo sarei inventata.
Ci salutammo cordialmente e a quel punto nascosi la foto nel reggiseno, dato che non avevo nient’altro in cui nasconderla: non volevo che i miei genitori la vedessero.
 
 
Il viaggio in auto fu tombale, non uscì un singolo fiato, mia madre era chiaramente nervosa e preoccupata, mio padre aveva i nervi a fior di pelle, invece io, per qualche strana ragione, non provavo nulla: stavo solo pensando alle informazioni fornitemi gentilmente dal signor Longo che davano una chiave di lettura diversa alla serata.
 
Arrivati a casa, nello stesso istante in cui la porta venne chiusa, si scatenò la tempesta. “Diana, cos’hai da dire a tua discolpa?” Mi chiese mio padre come se fossi uno dei suoi criminali appena ammanettati.
Lo guardai un secondo ed iniziai a parlare. “Che avete distorto la realtà: ho alzato le mani solo dopo che hai insultato Anna e tu mi hai colpita, o sbaglio, papà?” Domandai pacata, non sentivo neppure il bisogno di urlare. “Questo cosa cambia?” Mi chiese mio padre scocciato dalla situazione.
“Cos’hai detto a Anna?” Procedetti glaciale fissando mio padre negli occhi. “Chi?” Domandò lui confuso. “La ragazzina che era accanto a me.” Specificai con la stessa cadenza fredda e distaccata. “Come se le parole fossero importanti!” Esclamò mio padre seccato.
“Le parole sono importanti. È sulle parole che fondiamo le nostre azioni, ed è sulle parole che le storie assumono pieghe ed interpretazioni diverse. Quindi, cos’hai detto a Anna?” Domandai serissima mentre sentivo l’ira avvolgermi, era come se tutte le emozioni provate in quei pochi minuti di vuoto stessero ricomparendo in quel istante, ma non concessi loro alcun potere su di me: ero io che decidevo come usarle.
“Solo di non immischiare il naso negli affari che un Altro non può comprendere.” Si limitò a dire mio padre e lo fissai dritto negli occhi. “È la verità?” Domandai, mi pareva un po’ pochino considerando che, quando il sangue giungeva alla testa, la sua lingua diventava particolarmente velenosa.
“Il succo era quello.” Commentò e non so cosa vide nei miei occhi in quel momento ma distolse lo sguardo e procedette. “E l’ho spintonata via.” Borbottò con vergogna.
 
“Oh? Quindi il grande e potente Claus Dalla Fonte non solo non riesce a gestire la rabbia e la figlia adolescente, ma sfoga la sua frustrazione su una ragazzina di tredici anni?” Domandai seriamente mentre sentivo le mie unghie affondare nella carne dalla tensione che stavo accumulando ma dovevo restare lucida, dovevo lasciare che la mia rabbia fluisse solo dove volevo.
 
“Diana sciacquati quella bocca! Si può sapere chi ti ha insegnato a parlare così?”
“Tu.” Mi limitai a rispondere pacifica. “E così tu mi hai insegnato che se qualcuno va’ contro di te bisogna rispondere e difendersi con le unghie e con i denti. E sempre tu mi hai insegnato che esistono persone più forti di altre perché così queste possano difendere le più deboli e che in cambio queste fanno quei lavori che lui non può svolgere, ti ricordi vero papà? Quel bel discorsetto che ti piaceva tirare fuori ogni volta che vedevi delle ingiustizie? Se ci fossi stato io avrei fatto così, non me ne sarei stato con le mani in mano. Però, secondo quello che mi stai dicendo, io non posso agire come tu mi hai insegnato.” Esposi i fatti placidamente mentre mio padre diventava sempre più scuro in viso e mia madre sempre più pallida. “Diana so cosa stai cercando di fare ma tu sei solo una ragazzina e…”
“Solo una ragazzina? Bene, è vero, sono solo una ragazzina, allora perché te la prendi tanto?” Domandai mentre sentivo le mie unghie affondare ulteriormente ma se mi arrabbiavo, se perdevo il controllo di nuovo, avrei perso. “Perché hai superato il limite! Diana tu non hai il senso del limite! È sempre stato così! Credi che rischiare di mandarmi al ospedale fosse stata una reazione pensata? Misurata? Matura?” Domandò mio padre infuriato. “No, ma non lo è neanche stato prendersela con Anna.” Risposi placida. “Non cambiare argomento, quella lì non centra con noi.” Disse mio padre al limite di una crisi di nervi.
“Con te e la mamma, forse, ma Anna centra con me.” E lo sottolineai indicandomi il petto. “E poi qual era il problema se volevo spendere la notte a casa Longo?” Domandai mentre dentro di me stavo gioendo. “Saresti stata un fastidio.”
“Questo non lo puoi dire, tu non conosci i Longo, non li hai mai voluti conoscere.” Dissi rendendomi conto che papà sarebbe stato messo al angolo se continuavo così. “Diana te lo dico chiaro e tondo un’ultima volta: in questa storia tu sei nel torto.”
“No. Non sono nel torto quanto tu non sei nel giusto.” Risposi, non mi importava di quali sarebbero state le conseguenze, stavo vincendo e nessuna minaccia di punizione mi avrebbe fermata.
 
Vidi che mio padre stava per dire qualcosa ma intervenne mia madre. “Claus non serve a niente.” Come afferrò il braccio di mio padre, questi si voltò per guardarla. “Luisa lo sai che dobbiamo inculcarle un po’ di disciplina in quella testa bacata.” Rispose mio padre. “Lo so, ma ora non ne posso più. Diana ha scelto la sua strada.” Si limitò a dire mia madre rassegnata. “E non cambierà idea perché tu l’attacchi o perché io le faccio una lavata di capo.” Rispose mia madre sconfitta: era stanca di dover combattere per cercare di cambiarmi. “Se la metti così, cosa dovrei fare? Scacciarla di casa?” Domandò mio padre, l’idea era allettante ma me ne rimasi zitta. “Con un diploma potrà trovarsi un lavoro facilmente, conclusa la scuola potremmo chiudere i rubinetti per lei.” Disse mia madre. Probabilmente stava bleffando per spaventarmi ma, contrariamente a quel che credevano, la trovai una prospettiva interessante sul momento: un lavoro lo trovavo, dovevo solo prima chiudere i ponti con quel che restava dei Rivoluzionari.
 
Nel istante in cui lo pensai, la consapevolezza di come mi ero comportata mi investì come una doccia fredda. Mi resi conto di aver abbandonato i ragazzi come un’irresponsabile la scorsa sera: cosa ne avevano fatto del ragazzo morto, il cecchino era in ospedale o lo avevano portato alla base, avevano dovuto chiudere Orion e gli altri due ragazzi da qualche parte?
Tutto questo non lo sapevo perché non ero rimasta con loro come avrei dovuto: ero scappata come una bambina dalla realtà dei fatti. Appena finivo qui sapevo di dover raggiungere i ragazzi e aggiornarmi. Soprattutto dovevo capire dove si fosse rifugiata Felicitis: lei viveva dai Rivoluzionari, l’idea iniziale era quella che per una notte dormisse in un parco o roba simile, ma coi disordini che c’erano stati ieri di certo non poteva aver dormito sotto un ponte.
 
“Molto bene, Diana, questo è il nostro ultimatum.” Le parole di mio padre mi riportarono al presente. Mi riscossi dal torpore: prima sistemavo questa faccenda prima potevo cercare i ragazzi. “Bene.” Iniziai riprendendo coscienza di me e pensando alla cosa migliore da fare. “Allora finita la scuola non vi dovrete mai più preoccupare di me.” Decretai dirigendomi in camera mia e aprii la porta. “Le cose che sono qui dentro ve le rendo o ne posso fare ciò che voglio?” Domandai con calma: infondo erano tutte cose che loro avevano pagato coi loro soldi.
Mio padre e mia madre si fissarono confusi, fu mio padre a parlarne. “Non dirai sul serio?”
 
“Sono molto seria: visto che la convivenza in questa casa è diventata insostenibile mi sembra la soluzione migliore. Il mio piano era quello di trovare un lavoro dopo il diploma e mettere da parte i soldi fino a quando non sarei riuscita ad affittare una casa, ma a quanto pare è più ragionevole che me ne vada appena conclusa la scuola.” Dissi conscia che questo era il definitivo punto di non ritorno. Ma era meglio così: da questo momento in poi più sarebbero stari lontani dalla mia vita, maggiori sarebbero state le loro probabilità di una vita tranquilla.
 
“Bene! Allora fa quel che ti pare con quella robaccia, tanto vale una miseria!” Esclamò mio padre per poi andarsene al piano di sopra furibondo, ma capii con un solo sguardo che in realtà era disperato, stava solo facendo il duro per tentare di farmi cambiare idea.
Mia madre fece per dire qualcosa ma se ne andò anche lei quando mi spogliai del tubino nero e glielo lasciai sulla ringhiera. So che le costò molto vedermi così: noi due non avevamo quasi nulla in comune e quando ero nuda la cosa diventava il triplo più evidente, gli unici tratti che avevo identici ai sui erano quelle mani lunghe e sottili e la forma degli occhi. Però in quel momento vide solo un estraneo: non c’era più nulla della sua bambina.
 
Entrata in camera iniziai a fare l’inventario di ciò che avevo: i libri scolastici più vecchi li potevo già rivendere, così come i dischi, gli abiti da festa che non avrei mai indossato, qualche romanzo e il giradischi.
Sarebbe stato relativamente facile liberarmi di quella roba, sia in termini di tempo che in termini emotivi, era come se quegli oggetti avessero perso il valore che gli attribuivo. Ma delle pulizie primaverili me ne sarei occupata a partire dalla settimana successiva.
 
 
Quel pomeriggio non pranzai neanche e uscii di casa, mio padre provò ad opporsi ma lo ignorai, non avevo tempo per queste quisquilie: avevo ben altro a cui pensare.
Pensai saggiamente di andare da Galahad per prima cosa, era probabilmente quello che più di tutti sarebbe riuscito ad aggiornarmi sulla situazione. Presi il primo autobus che trovai e lascia passare quelle dieci fermate che mi dividevano dalla casa di Galahad, salii i sei piani del condominio, incrociando diverse famiglie di elfi che discutevano tra loro e molte mi lanciarono un’occhiata di disgusto ma li ignorai, avevo cose ben più importanti a cui pensare.
 
Raggiunto il sesto piano suonai al campanello e venne ad aprirmi una bambina di forse nove anni con gli stessi capelli castano-ramati di Galahad raccolti in due treccine ma dagli occhi di un marrone quasi nero. “Sì?” Domandò la piccola guardandomi da dietro la porta con sospetto. “Sto cercando Galahad, puoi digli che qui c’è Diana e che gli dovrei parlare?” Domandai cercando di tenere un tono dolce.
La bambina continuò a guardarmi malissimo per qualche istante, poi una giovane dai capelli neri da cui spuntavano le sue orecchie particolarmente lunghe, anche per un elfo, dato che superavano di qualche centimetro la parte superiore del cranio. La scrutai per qualche secondo e compresi che non doveva avere più di sedici anni.
 
“Che vuoi?” Domandò la ragazzina lanciandomi delle saette dai suoi occhi scuri. “Sto cercando Galahad, sono una sua amica, potresti chiamarmelo, per favore?” Domandai cercando di essere gentile con quella che probabilmente era la cugina del mio amico. “Galahad non è in casa. Aveva altro da fare.” Disse la ragazzina fin troppo nervosa: stava mentendo.
Mi passai una mano sugli occhi esausta: non avevo tempo per queste cose.
“Ragazzina io e Galahad siamo nella stessa barca in questo momento, non so quanto ti abbia detto tuo cugino ma in questo preciso istante, se non parlo con lui, saremo doppiamente in difficoltà.” Gli spiegai, non volevo perdere tempo ma se mi arrabbiavo avrei peggiorato la situazione e convinto la ragazzina a non farmi entrare. “Non mi chiamo ragazzina, mi chiamo Isotta. E Galahad non è in casa.” Insistette la ragazzina con maggiore fermezza.
 
“D’accordo.” Dissi alzando gli occhi al cielo: avrei giocato secondo le sue regole. “Allora quando torna digli che gli devo parlare su quello che è successo l’altra sera e se sa chi ospita Felicitis. Riferiscigli anche che mi dispiace per l’altra sera: non ero in me e ho agito d’istinto, sarei dovuta restare fino a lavoro terminato, non mi giustifica quel che è successo.” Spiegai cercando di restare calma: probabilmente se avevo un po’ di pazienza Galahad sarebbe uscito appena Isotta non avesse spiegato la situazione a suo cugino. “Gli riferirò. Il tuo nome?”
“Diana Dalla Fonte.” Risposi guardando meglio quella ragazzina: aveva un fascino non indifferente malgrado fosse così giovane e una compostezza che avevo sempre e solo visto in certe famiglie di elfi e vampiri, probabilmente dovuto al fatto che crescono i loro figli con un’educazione rigida e che porta ad un’estrema autoconsapevolezza.
 
Fu in quel momento che la porta si aprì un po’ di più e Galahad fece la sua apparizione. “Non ti devi scusare Diana: chiunque avrebbe reagito in quel modo. Ma accetto le tue scuse.” Sussurrò facendomi cenno di entrare. Le sue cugine lo fissarono confuse ma lui gli fece cenno di non preoccuparsi e si chiuse la porta dietro dopo aver controllato fuori e mi fece cenno di seguirlo. Entrammo in camera sua dove trovai Felicitis che, come mi vide, mi saltò addosso. “Diana! Come stai? Ieri sera eri…” “Sto bene, tranquilla. Solo qualche botta, nulla di grave.” Sussurrai abbracciandola a mia volta. Felicitis mi guardò come se volesse aggiungere del altro ma rimase zitta, mi fece cenno di accomodarsi accanto a lei ed eseguii, poi però rivolsi la mia attenzione a Galahad.
 
“I Rivoluzionari hanno scoperto qualcosa?” Domandai ma Galahad accennò negativamente. “Orion ci ha coperti e abbiamo nascosto i nostri due testimoni indesiderati sono nel seminterrato della famiglia di Vanilla, per un paio di giorni non dovrebbero porsi domande ma se non ci sbrighiamo lo scopriranno. Ho anche pensato a consegnare sai… l’altro ragazzo alla sua famiglia, ho detto che è stato vittima dei disordini, credo che loro sapessero qualcosa in più ma non hanno fatto domande. Il nostro cecchino invece è nelle mani di mio zio: non sarà un medico, ma qualcosa di medicina la sa. Attualmente se ne sta prendendo cura nella nostra soffitta e nessun’altro la usa quindi non sarà un problema.” Guardai Galahad per qualche istante e questi sospirò. “Ho dovuto spiegare tutto ai miei zii e alle mie cugine, non l’hanno presa molto bene ma mi stanno aiutando.” Continuò sedendosi sulla sua sedia e parve perdersi nei suoi pensieri per qualche minuto.
 
“Tu come stai?” Mi domandò in fine guardandomi con fare interrogativo. “Lucida.” Mi limitai a dire. “Diana se non te la senti…” Iniziò Felicitis dolcemente ma la interruppi. “No. Ho bisogno di restare con la mente occupata, se resto sola coi miei pensieri faccio peggio.” Galahad si accovacciò sulla sedia come se fosse la più comoda delle poltrone. “Sì, anche io mi sento così.” Rispose guardando fuori.
Rimasi in silenzio per qualche istante poi Galahad riprese a parlare. “Garred e Vanilla arriveranno tra poco. Nohat invece… non è lucido, preferisce stare da solo per un po’, e non lo posso biasimare. Quando ho sentito suo zio mi ha detto che è riuscito ad addormentarsi dopo una notte in bianco, gli ho detto di non preoccuparsi.” Spiegò Galahad, un dubbio mi sorse.
 
“Perché non mi avete chiamata?” Domandai guardando il mio compagno che dopo qualche istante di esitazione rispose. “Perché credevo che saresti stata addirittura peggio di Nohat.” Sospirai, non aveva tutti i torti e un po’ mi aspettavo questa risposta.
“Il peggio è passato.” Era una grossa bugia ma in quel momento ero relativamente calma quindi forse riuscii a convincere il mio amico ma Felicitis mi diede un’occhiata che mi fece capire che lei non ci cascava in questa storia. Le sorrisi forzatamente per cercare di farle capire di non preoccuparsi per me ma era chiaro che avrebbe fatto come lei voleva.
 
Mezz’ora dopo arrivarono Vanilla e Garred. La prima era parecchio provata, non si era nemmeno truccata, cosa a dir poco impensabile per lei, mentre l’altro aveva gli occhi rossi e come mi vide abbassò lo sguardo e si accoccolò a me dandomi un abbraccio. “Diana… senti… io… non so come dirlo ma…” Strinsi gli occhi: sapevo che quello che voleva fare Garred era un gesto dolce ma in quel momento non dovevo pensare a queste cose. Così lo allontanai dolcemente e gli diedi un buffetto. “Tranquillo. Lo so. Stiamo tutti male.” Nell’ultima parte della frase la mia gola si incrinò, trassi un profondo respiro e mi imposi di calmarmi. “Ma adesso dobbiamo pensare a risolvere questo macello.” Decretai con una certa autorità.
Garred accennò di aver capito, scosse un po’ la testa come per scacciare i pensieri negativi e mi fece un sorriso d’incoraggiamento, uno vero e sincero, non c’era amarezza nei suoi occhi. Era davvero una potenza già all’epoca e non se ne rendeva conto.
 
“Allora.” Iniziai. “Felicitis, le prove?” Domandai tornando seria e professionale. L’interpellata tirò fuori una borsa e me le mostrò. “Le lasciavo sempre da Galahad e così faceva Garred dato che è l’unico tra noi ad avere una cassaforte.” Lo guardai sorpreso. “Ci tengo alcuni documenti per la banca, il passaggio di proprietà e… dei documenti....” Tossì un paio di volte nel tentativo di dissimilare qualcosa.
Guardai i ragazzi confusa, anche a loro non fu chiaro cosa stesse nascondendo.
 
“Fa nulla. Allora, come volete usarli?” Domandò Galahad tornando autorevole.
Mi soffermai a rifletterci un secondo. “Orion è al cento per cento dalla nostra?” Domandai guardando Galahad con fare interrogativo, questi fece una smorfia. “Sotto un certo punto di vista: è sicuramente stanco di questa situazione, ma, a quanto pare, finora non ha mai trovato una scusa per andarsene, forse se ci parliamo riusciamo a portarlo dalla nostra. Per di più il suo figlio più grande ha quasi tredici anni, credo che se facciamo pressione sul futuro dei suoi ragazzi lo convinciamo.”
Mi passai una mano trai capelli per cercare di chiarirmi le idee. “Uhm… sì, la trovo una buona idea ma non credo che dovremmo andare tutti quanti assieme, ritengo che la cosa più saggia sia che ci vadano solo un paio di persone per cercare di convincerlo. Io personalmente non credo di essere indicata: sono un’umana e sono stata io ad uccidere Malandrino, non mi ascolterebbe.” Constatai non riuscendo a trattenere un sorriso amaro.
 
“Sì, ehm… a tal proposito Diana…” Scostai lo sguardo verso Garred. “So che eri sconvolta eccetera, ma non pensi di aver… esagerato?” Mi domandò imbarazzato. Lo linciai con lo sguardo ma mantenni un tono di voce pacato. “No, non mi pento di ciò che ho fatto, anzi, avrei dovuto impiantargli una pallottola in testa appena ne avrei avuto l’occasione.” Dissi acidamente stringendo i pugni mentre sentivo quell’ira cieca tornare dentro di me. Garred come se ne accorse si scostò un poco, spaventato, mentre Felicitis mi strinse la spalla, le lanciai un’occhiataccia ma questa non si scompose di un centimetro.
“Purtroppo ciò che dice Garred è vero: se avessimo restituito il corpo avremmo avuto più probabilità di poterne uscire diplomaticamente.” Commentò Galahad e a quel punto lo guardai. “Non ascolteranno un approccio diplomatico.” Iniziai interrompendo il discorso del mio amico.
 
“Non sentiranno ragioni quando capiranno cos’è effettivamente successo: l’unica nostra opzione con queste persone è fargli più paura di quanto possano desiderare vendetta.” Spiegai afferrando la borsa e tirando fuori le foto, di cui una in particolare mostrava Idroel che entrava nel suo condominio e poi una con la sua famiglia.
“Se minacciamo loro, mettiamo a rischio le loro famiglie, li avremmo in pugno.” Notai la paura negli occhi dei miei amici ma proseguii. “Sapete meglio di me che i giudici e la S.C.A. agiscono sempre con il presupposto che la famiglia del imputato sia coinvolta in qualche modo, e, anche se non lo è, l’incidenza di ripercussione sulle famiglie è elevata.”
Mentre dicevo queste cose Galahad divenne pallido ma lo ignorai. “Quindi, se minacciamo loro solo come organizzazione otterremo qualcosa nel breve termine, ma se ricordiamo loro che ci sono anche le loro famiglie in ballo, i loro cari, i loro amici, i loro figli, ci lasceranno in pace. Serve un contratto in cui noi non disturbiamo loro e loro non disturbano noi, almeno per un po’ di tempo, perché, seriamente, se vogliamo sopravvivere non se ne parla di restare in questa città.” Spiegai con estrema calma: ero conscia che quello che stavo facendo era sbagliato ma, per grande sventura di questo mondo, ogni tanto il male è necessario.
 
“Ha senso.” Iniziò Vanilla che fino ad ora era rimasta silenziosa in un angolo. “Ma come facciamo con le nostre famiglie? E con la famiglia Longo? Che cosa possiamo fare?” Domandò Vanilla malgrado le costasse molto dire quel cognome e a me costò molto sentirlo.
Trassi un profondo respiro. “La mia starà meglio senza di me e sono agenti S.C.A., sanno badare a loro stessi.” Iniziai pacata mentre sentivo degli sguardi strani addosso ma non posero domande. “Quella di Galahad mi sembra di capire che abbiano reagito decentemente, o mi sbaglio?” Domandai rivolgendomi a lui, Galahad rimase in silenzio per qualche istante poi iniziò a parlare. “Sì, i miei zii hanno iniziato a pensare ad un possibile trasferimento nel istante di cui ne ho parlato. Pensano di tornare a Juil, dove vivono il resto dei miei zii ma… i miei genitori….”
Lo guardai confusa: non aveva mai nominato i sui suoi genitori, non una parola su chi fossero o cosa gli fosse successo, neanche il resto dei ragazzi sapevano nulla a riguardo, tutti noi credevamo che fossero morti. Galahad non sembrò farci caso e sospirò. “Fa niente, finché sono in prigione sono ironicamente nel posto più sicuro. Tanto non potranno uscire se non nel giro di… una decina d’anni. Per allora non sarà un problema.” Tutti noi lo fissammo increduli.
 
Un profondo silenzio pervase la stanza per qualche istante di troppo. “Non mi guardate così….” Iniziò Galahad che a quel punto si rese conto che ci doveva qualche spiegazione. “Sentite: hanno solo dato rifugio a un non-registrato, un presunto Antico, senza saperlo. Venti anni di prigione. Ma non hanno fatto nulla di male.” Sgranai gli occhi: troppe informazioni in una sola volta.
 
Non avevo mai sentito parlare più di tanto dei non-registrati prima d’ora. Sapevo che c’era questo problema di mancanza di censimento o di inaffidabilità di quest’ultimo in alcune regioni disperse del deserto, della savana, montane e in alcune isole al estremo nord, ma nulla di assurdo, non lo avevo mai considerato un problema.
Guardai Vanilla confusa e mi fece spallucce, anche lei non sapeva cosa fossero questi non-registrati. Lanciai uno sguardo a Garred ma era palesemente confuso. Mentre lo sguardo di Felicitis era diventato improvvisamente serio.
“Galahad… mi dispiace, ma… cos’è un non-registrato?” Domandò Garred confuso e imbarazzato, perfettamente conscio che rischiava di essere indelicato. “Non mi sembra che non essere registrati all’anagrafe sia un crimine così grave.” Continuò questi in imbarazzo.
 
Galahad sospirò come se fosse una situazione in cui si fosse ritrovato fin troppe volte. “Infatti non lo sarebbe se i documenti di identità non fossero così importanti per accedere a qualsiasi servizio.” Spiegò Galahad seccato.
“Pensateci: cos’è quella cosa che portate sempre con voi indipendentemente da quel che fate? In cosa Malandrino spendeva una grossa fetta della nostra refurtiva?” Domandò Galahad.
 
“Documenti falsi.” Realizzai sul momento. “Appunto, senza documenti non hai accesso a nulla, sei un fantasma. Spesso questi non-registrati sono soltanto figli di puttane o barboni, nulla di rilevante, ma alcuni di questi sono persone pericolose: figli di criminali, presunti Antichi e così via.” Capii da come nominò quell’associazione che per lui era poco più di una favoletta. “Ospitarne uno è un crimine al pari di dare rifugio ad un nemico dello stato. E tutto perché la S.C.A. e il governo hanno paura di un branco di favolette come gli Antichi, la magia e cose del genere!” Esclamò Galahad infuriato, una parte di me voleva dirgli che gli Antichi sono un problema reale per la S.C.A. e che la magia, a quanto pareva, era tutto fuorché morta ma me ne rimasi zitta, non era il momento di instaurare discussioni.
 
“Scusami Galahad, non volevo turbarti.” Sussurrò Garred in imbarazzo, Galahad fece un cenno di indifferenza. “Tranquillo, presto o tardi lo avreste scoperto. Non mi piace parlarne, tutto qua.” Si limitò a dire. E a quel punto sbatté le mani e se le strofinò. “Va’ bene, basta parlare di me. Abbiamo ancora tanti punti da dover chiarire e tra qualche ora la S.C.A. e la polizia inizieranno a fare ronde per i quartieri per evitare altre manifestazioni. Sbrighiamoci.” Decretò e mi trovai d’accordo con lui.
 
 
Parlammo per le successive tre ore di tutte le questioni da affrontare senza concederci alcuna interruzioni, ad un certo punto si unirono a noi anche gli zii di Galahad, mentre le tre cugine di questo, Isotta, Morgana e Viviana, ci spiavano da dietro la porta, chiaramente confuse ed incuriosite.
Paradossalmente in quelle tre ore sfiancanti riuscii a stare relativamente bene e ad essere produttiva malgrado mi sentissi enormemente spossata, era come se stare in mezzo a tutta questa gente, parlare, pianificare e ragionare mi stesse prosciugando le energie.
Verso le cinque ero chiaramente a pezzi, non riuscivo a parlare decentemente e ci mancò poco che iniziassi a vedere doppio. La zia di Galahad, la signora Ginevra, fu abbastanza gentile da prepararmi un bibitone energetico che mi tirò un po’ su prima di prendere l’autobus per tornare a casa, ma servì a poco: camminavo inciampando sui miei stessi passi, avevo un mal di testa tremendo e l’orecchio aveva iniziato a fischiare nuovamente.
 
Mentre parlavamo, e sotto insistenza di Felicitis, lo zio di Galahad, Tristano, aveva dato un’occhiata al mio orecchio ma dato che rispondevo agli stimoli uditivi si era limitato a consigliarmi di evitare rumori forti nei prossimi giorni e di andare dal medico se persisteva.
 
Raggiunta la vettura mi afflosciai sul sedile e non pensai più a niente per diversi minuti ma sentivo che quel nulla, quel vuoto stava tornando. Tentai di mantenere la mente occupata guardando fuori dal finestrino ma ciò che vidi non fu un bello spettacolo. Alcuni negozi erano chiusi ma la maggior parte erano aperti mettendo in bella mostra i segni della notte precedente: vetrine spaccate, segni d’effrazione e, nei casi più estremi, c’erano segni d’un incendio, probabilmente causato da una molotov. Per i marciapiedi e per le strade c’era del sangue e addirittura blocchi della polizia. Mi bastò quel occhiata per distogliere lo sguardo e mi domandai come avevo fatto a non accorgermene prima: ce l’avevo sempre avuto davanti al naso. Mi bastò riflettere un po’ per capire che semplicemente avevo deciso di non guardare. Era molto più semplice fingere che nulla fosse accaduto che soffermarmi sulla tragedia che mi circondava. Come me ne accorsi mi sentii miserevole, potevo percepire quanto i miei problemi fossero miserevoli rispetto a quelli di molte altre persone, eppure mi sentivo schiacciare da questi. In preda alla frustrazione strinsi il mio biglietto con maggiore forza di quello che avevo creduto poiché lo ridussi ad una piccola, minuscola ed insignificante pallina di carta nel tempo che impiegai a raggiungere casa mia.
 
Una volta scesa dalla fermata una parte di me voleva tornare a casa, buttarsi nel letto, non pensare a nulla e sfogare quella sensazione opprimenti che mi stava attanagliando il petto. L’altra voleva rendersi utile, fare qualcosa: ma ero troppo stanca per fare qualsiasi cosa, figurarsi aiutare nel volontariato. Pensai che un’alternativa fosse fare qualcosa di rilassante, che mi distraesse, e magari tornare più tardi, ma scartai l’idea. Se fossi andata al parco avrei pensato a Giulio, non avevo alcun tipo di appetito, anzi, avevo una certa nausea, il cinema era chiuso e non ero neanche del umore adatto per un film, e bastò una breve occhiata al mio portafoglio per rendermi conto che d’ora in avanti avrei dovuto fare economia quindi non se ne parlava di spendere soldi inutilmente.
 
Mi trascinai verso casa ma mentre lo facevo pensieri oscuri mi annebbiarono la mente. Cercai di scacciarli ma essi si infiltravano inesorabili.
Il ricordo della mattina precedente, la pistola, la pallottola, il mio desiderio di morte, il dolore per la morte di Giulio, il senso di vuoto che mi aveva lasciato, il suo corpo insanguinato che avevo dovuto spostare da una parte all’altra, le sue ultime parole, il nostro freddo e ferroso ultimo bacio, poi il desiderio distruttivo, l’omicidio di Malandrino, la cieca di vendetta, la rabbia cocente che mi aveva investita, una rabbia così simile a quella che avevo provato verso i miei genitori, il desiderio di primeggiare su di loro, l’odio che sentivo nelle mie vene così lontano dall’amore che la famiglia Longo mi aveva donato, proprio io che ero la causa delle loro sofferenze, l’orrore nel rendermi conto delle condizioni di Meddelhok. E mille altri pensieri annebbiarono la mia mente come un uragano.
Senza rendermene conto mi accasciai a terra e iniziai a perdere lucidità. Mi mancava il respiro, non sentivo più nulla a parte il fischio che mi riempiva le orecchie e la nausea che era divenuta più prepotente: dovevo vomitare.
Non ressi un minuto, vomitai e piansi per lo sforzo mentre cercavo di respirare. Mi appoggiai al asfalto per cercare di non cadere a terra, sentivo già il secondo colato che fuoriusciva. Respirai affondo per un paio di volte e cercai di recuperare la lucidità ma non servì a nulla, vomitai di nuovo ma questa volta non uscì quasi nulla.
 
Ricordo una grossa mano gentile iniziò ad accarezzarmi la schiena, chiedeva se stessi bene, se mi servisse qualcosa, ma non la sentivo veramente, e poi altre voci altre parole, altra gente. In preda alla confusione mi alzai, qualcuno cercò di bloccarmi ma lo ignorai, mi strattonai via e scappai verso casa, corsi lungo le rampe di scale malgrado non riuscii più bene a capire dove fossi.
 
Raggiunsi casa sbattendo contro la porta e cercai di recuperare le chiavi ma non ci riuscivo, le mie mani tremavano così tanto da non permettermi di afferrare le chiavi, la mia vista era appannata dalle lacrime e il mio respiro si faceva sempre più accelerato malgrado stessi tentando di controllarlo.
Dovevo calmarmi, dovevo placare il mio respiro, dovevo trovare la lucidità. Disperata cercai dentro di me: un ricordo bello, qualcosa di felice, qualcosa che mi permettesse di andare avanti, una qualche speranza per questo schifoso mondo di merda.
 
Fu lì, nel apice della disperazione, che mi ricordai qualcosa di stupido a cui non pensavo da tanto tempo. Ripensai a mia nonna e al modo in cui lei mi accarezzava, alle merende che mi preparava quando tornavo da scuola, ai pomeriggi passati con lei fuori città, nei campi aperti assieme ai miei compagni, alle ore che dedicava a raccontarmi storie quando i miei genitori stavano via, alle innumerevoli volte che mi aveva curato per via della febbre o qualche altra malattia, all’ultima cena che avevo avuto con lei, al suo ultimo bacio, al suo ultimo abbraccio, così caldo, così avvolgente, così bello, così simile a quello di….
“Giulio…” Realizzai in un sussurro con un sorriso amaro. Fu allora, dopo qualche lungo momento in cui ripresi un respiro regolare, che riuscii a vedere quel che mi circondava, contemporaneamente le mie mani smisero di tremare quel tanto che bastava affinché potessi inserire le chiavi nella serratura.
 
Una volta entrata mi obbligai a prendermi cura di me stessa: dovevo lavarmi, dovevo cambiarmi, dovevo mangiare. Perché solo se mi prendevo cura di me stessa domani sarei riuscita a fare quel che dovevo. Quando conclusi tutti i rituali che mi ero imposta crollai a letto addormentata malgrado fossero solo le sette.
 
   
 
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