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Autore: Deruchette    25/05/2021    4 recensioni
[La storia segue lo svolgersi degli eventi dall'epilogo di "Hunger Games" all'epilogo di "Mockingjay"]
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Katniss e Peeta, gli Innamorati Sventurati del Distretto 12, i vincitori della 74esima edizione degli Hunger Games.
La loro storia è sotto gli occhi di tutti ma solo in pochi sanno che, in realtà, si tratta solo di finzione. La mossa strategica che li ha portati via dall'arena è costretta a continuare anche adesso che il sipario inizia a calare sull'ultima edizione dei giochi.
E se ad un certo punto la finzione si trasformasse in realtà?
Cosa succederebbe se gli Innamorati Sventurati fossero realmente innamorati?
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Dal capitolo 6:
"È evidente, chiaro come il sole, che è tutto cambiato. Che il ragazzo che all’inizio di quest'avventura consideravo un semplice amico, un alleato, adesso è diventato qualcos’altro. Per settimane mi sono chiesta se non fosse sbagliato nei suoi confronti recitare la parte della brava fidanzatina conoscendo la reale portata dei suoi sentimenti, sapendo che io non provavo la stessa cosa. Non sarebbe tutto più semplice se ti amassi?, la domanda che ronzava costantemente nella mia testa.
Ora lo so. Non solo è più semplice, più normale. È diventato anche necessario. Necessario come l’aria che respiro."
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In The Still Of The Night - 36


So di aver accumulato un ritardo mostruoso, infatti stavolta non cercherò nemmeno di giustificarmi ^^’ vi chiedo solamente perdono.
Ci leggiamo nelle note di fine capitolo :)

 

 

In the still of the night

 

 

36.

 

Nell’ultimo mese, da quando i medici mi hanno dato il via libera, ho preso finalmente parte a quell’addestramento che ho ignorato così tante volte. Ogni giorno, tutti i giorni, mi sono costretta ad alzarmi dal letto all’alba e ho trascinato con me anche Johanna. L’ho costretta anche dopo che le crisi per l’assenza della morfamina nel suo organismo sono diventate più forti. Hanno smesso di dargliela così come hanno smesso di darla a me: al 13 non possono permettersi di avere dei soldati drogati. Ma Johanna è riuscita a sopportare i tremori alle mani e a riversare l’enorme strato di rabbia che ha in corpo nella corsa, negli esercizi per aumentare la resistenza fisica e nei tiri al poligono. Dopo due settimane, la morfamina cominciava ad essere un lontano ricordo, per lei.
Le mie costole fanno ancora male, ma è un male sopportabile anche senza gli antidolorifici. Lo sforzo fisico si fa sentire ed in questo purtroppo non posso farci molto, devo solo venirne a patti. Miglioro di gran lunga se l’addestramento si sposta sul versante riservato alle armi. Ci insegnano ad assemblare i fucili d’assalto nel minor tempo possibile e ad usarli, a mirare ad un bersaglio mobile e lontano centinaia di metri. Non è come tirare con l’arco, dato che il fucile in dotazione è venti volte più pesante, ma ho solo bisogno di pratica. La pratica è ciò che mi serve, ed i risultati si vedono in poco tempo. Avrò ancora problemi con le costole, col respiro e col sollevamento pesi, ma al poligono non mi batte nessuno: la mia è una mira perfetta, e totalizzo il punteggio migliore del mio corso.
Ci alleniamo tutti, persino Peeta, ma lo facciamo seguendo corsi ed esercitazioni diverse; durante il giorno, in pratica, non siamo mai insieme, e riusciamo a vederci e a parlare solo durante i pasti. La situazione cambia quando arriva la sera, quando arriva il momento di ritirarci nelle nostre unità abitative per la doccia di rito e per il coprifuoco. L’unità abitativa di Peeta è proprio di fronte a quella che divido con la mia famiglia… che dividevo, mi correggo.
Haymitch ci aveva visto giusto, con quella battutina. Non appena mi hanno dimessa del tutto dall’ospedale, ho fatto i bagagli e mi sono trasferita da Peeta. La mamma ha storto il naso ma ha lasciato correre, così come aveva lasciato correre un mucchio delle cose che facevo quando vivevamo ancora al Distretto 12. Quando avevano annunciato l’Edizione della Memoria, e sapeva che avrebbe dovuto lasciarmi andare per sempre. Allora, le conseguenze delle nostre azioni avevano portato ad una gravidanza imprevista. Stavolta, anche se ci tiene d’occhio, non accadrà nulla del genere. Non ho nessuna intenzione di rimanere di nuovo incinta.
Il pensiero dei bambini non sembra essere presente nemmeno nella mente di Peeta. Siamo entrambi talmente stanchi dall’addestramento quando ci sdraiamo insieme sotto le coperte che riusciamo a dire giusto poche parole prima di crollare come sassi. La mamma può solo che essere fiera di noi: sembriamo aver messo giudizio. O forse no. Chi lo sa.
L’unica cosa che so è che le nostre notti non sono cambiate solo perché evitiamo di tornare sull’argomento che tanto ci ha fatto e ci fa ancora soffrire, o perché evitiamo di cercare un contatto più intimo tra i nostri corpi. Non sono cambiate perché scegliamo di recuperare le energie smaltite con l’addestramento dormendo. In realtà, non sono cambiate per niente.
Gli incubi ci svegliano ogni notte. Siamo ancora i ragazzini spaventati di un tempo, e forse lo saremo per tutto il resto della nostra vita. La mia mente urla di terrore ogni notte, ma dalla mia gola non esce nessun suono. Mi agito nel sonno, mi sveglio di soprassalto, ma non urlo più. È Peeta quello che ha cominciato ad urlare, e piange di disperazione ogni singola volta che si risveglia. Ogni volta che un incubo finisce, ogni volta che capisce di non essere in reale pericolo, ed ogni volta che si rende conto di non essere da solo, nel letto in cui riposa. Ogni volta che mi abbraccia, ogni volta che mi bacia. Piange, e singhiozza.
Le ferite del corpo sono quasi guarite, ma quelle della mente… quelle non lo sono affatto. Quelle persistono, e non sbiadiscono. Non penso che lo lasceranno andare mai del tutto.
L’angoscia con cui Peeta si risveglia ogni notte contagia anche me. A volte sono già sveglia e pronta a prendermi cura di lui quando succede, altre volte invece mi desta all’improvviso, e devo cercare di capire cos’è che sta accadendo prima di ricordare e di muovermi verso di lui. Stringerlo a me, parlargli, fargli capire che non potrà mai, mai più accadergli nulla che possa fargli del male non serve a niente, quando l’incubo che lo ha risvegliato è più brutto dei precedenti. Io stessa scopro di essere impotente, di non essere in grado di fare nulla per placare la sua disperazione. Posso solo abbracciarlo, stringerlo forte contro il mio petto, e sperare che tutto passi. Che passi il prima possibile.
Quando riesce di nuovo ad addormentarsi, non lo lascio andare. Lo lascio dormire contro di me, con la testa poggiata contro il mio sterno. Il suo peso mi schiaccia e dà fastidio alle mie costole in via di guarigione, ma non ne me importa niente. Respiro contro la sua fronte e mi beo del calore del suo corpo, dell’odore dei suoi capelli. Ed è questo, di solito, il momento in cui comincio a piangere io. È questo il momento in cui capisco che mi è rimasta solo una cosa da fare, per poter mettere fine a tutto questo. Per scrivere davvero la parola “fine” alla sofferenza che hanno causato a me, alla mia famiglia, a tutti coloro a cui voglio bene. A mio marito.
È questo il momento in cui acquisto sempre più consapevolezza delle mie intenzioni, intenzioni che cercherò di attuare il prima possibile. Le mie intenzioni mi spronano a dare sempre di più durante l’addestramento, perché è tramite esso che posso acquisire il punteggio e la garanzia che i miei piani possano giungere alla loro realizzazione. I buoni risultati che riuscirò ad avere nell’addestramento mi porteranno dritta a Capitol City: mi porteranno, finalmente, sul vero campo di battaglia.

 

A Peeta non l’ho detto, naturalmente. Non può mettere bocca su ciò che non conosce. Non protesta sulla questione addestramento perché è obbligatorio per entrambi, in un certo senso: siamo entrambi soldati, abbiamo la stessa età e gli stessi diritti di essere nominati tali, secondo le normative che circolano nel Distretto 13. Spero solo di tenerlo nascosto ancora per un po'… fino a che non sarà arrivato il momento di partire.
Allora potrà protestare quanto vorrà, ma non potrà impedirmi di andare ad uccidere colui che è la causa di tutto questo. Non potrà impedirmi di andare a Capitol City per uccidere il presidente Snow. Per vendicarmi.
Gli altri lo sanno. Oh, è ovvio che lo sanno! Lo sa Finnick, lo sa Gale… lo sa Johanna, che sta lavorando sodo insieme a me per raggiungere il mio stesso, identico obiettivo. Anche lei vuole tornare a Capitol City per avere la sua parte di vendetta. Siamo entrambe determinate e risolute, e desiderose di avere il nulla osta per partire. Capiamo di essere sulla buona strada quando veniamo entrambe aggiunte ad un corso aggiuntivo, un corso di simulazione.
Qui, lo chiamano semplicemente l’Isolato.
È una fedele riproduzione delle strade di Capitol City in cui qualunque cosa può andare storta: puoi ritrovarti con la tua squadra nel bel mezzo di un’imboscata, puoi far innescare accidentalmente una mina antiuomo, puoi essere colpito a morte da dei cecchini appostati strategicamente sui tetti. E allora, se ti colpiscono, devi ricominciare tutto daccapo. Affinché vada tutto liscio, bisogna assicurarsi un lavoro ottimale da parte del soldato che affronta l’Isolato: obbedienza, gioco di squadra, riflessione. In poche parole, l’esatto contrario di come sono fatta io. Sono il ritratto esatto della disubbidienza, dell’impulsività, e non sono per niente brava nel lavorare con una squadra. Affrontare l’Isolato sarà una causa persa. Sarà a causa dell’Isolato se non mi spediranno a Capitol City.
Sto soppesando le varie opzioni che potrebbero fare al caso mio se fallisco, mentre attorno a me, in tutto il Distretto, le prime squadre di soldati ricevono l’ordine di raggiungere la capitale. Ed ecco che uomini e donne si trasformano sotto i miei occhi, dopo essere stati sottoposti all’obbligatorio taglio militare. Se anch’io riceverò l’ordine, dovrò tagliare completamente i miei capelli. Ci penso su, facendo scorrere le mani lungo la treccia che è diventata il mio marchio riconoscitivo, un po' come la spilla della Ghiandaia Imitatrice. Scopro, però, che sono solo capelli. Ricresceranno. Non mi interessa diventare calva.
Io e Johanna siamo al poligono quando l’addestratrice della nostra squadra, il soldato York, ci informa che ci ha raccomandate per la prova finale e che siamo state convocate subito. Non abbiamo, letteralmente, il tempo per prepararci che ci ritroviamo alle prese con una serie di test scritti. Li passiamo entrambe, e poi possiamo accedere alla prova finale, quella pratica. È l’Isolato, come volevasi dimostrare. Lo affronteremo singolarmente e verremo messe alla prova per capire se siamo in grado di affrontare i nostri punti deboli. Non conosco il punto debole di Johanna, ma lei viene convocata tre persone prima di me e non posso tentare di chiederglielo, come se lei fosse il tipo di persona che ti confida i suoi segreti o i suoi fatti più personali. Io non so quale dovrò affrontare, perché ho scoperto di averne troppi.
Lo capisco in tempo, per fortuna, quando sono già nel bel mezzo del mio turno. Sono dentro l’Isolato, avanzo nei vicoli e mi sbarazzo dei Pacificatori che intralciano il mio cammino, ma dopo nemmeno un minuto un’altra carica di Pacificatori svolta l’angolo e si fa strada nella mia direzione. Mi colpiranno, se non lo faccio prima io, ma sono troppi da affrontare ed io sono da sola. C’è un bidone di benzina abbandonato esattamente a metà strada e capisco che quella è l’unica possibilità che ho per liberarmi delle truppe in avvicinamento. Cerco di avvicinarmi per poter mirare meglio al mio bersaglio, ed in quel momento il mio comandante mi ordina, attraverso l’auricolare, di gettarmi a terra. Lo sto per ignorare e sto già prendendo la mira quando capisco che non è far esplodere il bidone la mia missione, ma ubbidire al mio comandante. Lo è, perché io non ubbidisco mai agli ordini e se voglio essere spedita a Capitol City dovrò farlo senza alcuna remora. Non potrò più agire secondo la mia testa.
Ubbidisco. Mi getto a terra, il bidone viene fatto esplodere da qualcun altro, ed i Pacificatori vengono uccisi.
Ed io passo la prova.
Mi stampano un grande 451 sulla mano e mi dicono di raggiungere in fretta il Comando per unirmi alla mia squadra. Lo faccio, ancora incredula per ciò che sono riuscita a fare. Non è tanto l’aver raggiunto il mio obiettivo, quanto il modo in cui l’ho fatto: ubbidendo. Non lamentandomi, non facendo di testa mia, non disubbidendo e non intestardendomi. È una vittoria, scopro mentre raggiungo il Comando. E chissà per quanto durerà, questa vittoria.
Al Comando vengo accolta da Boggs, che si sorprende e sorride nel vedermi arrivare; nota il numero che mi hanno stampato sulla mano e mi informa che sarò una sua sottoposta, e che posso già unirmi per conoscere la mia squadra. Ci sono cinque persone che non conosco, ma le altre due sì, e noto che sono già state sottoposte al taglio di capelli militare: Finnick e Gale. Non è solamente una vittoria, questa: è una conquista. Ho passato la prova, faccio parte di una squadra che avrà l’ordine di raggiungere Capitol City tra pochi giorni, avrò Boggs che mi darà ordini e sarò in compagnia dei miei amici. Mi è andata di lusso, in un certo senso. Manca solo Johanna all’appello, e allora saremo al completo.
La porta del Comando si apre ed io mi volto, sicura di vederla varcare la soglia con la sua solita aria strafottente ed anche lei col numero 451 stampato sulla mano.
Il numero è quello giusto, scopro, ma non è giusta la mano, non è giusta la persona che entra nella sala del Comando. È un uomo, non una donna, con gli occhi azzurri ed i capelli biondi già tagliati. Pronto a partire.
Peeta.

 

Tradita.
Ecco come mi sento quando Boggs mi comunica che Peeta farà parte della mia stessa squadra diretta a Capitol City.
- Vuole tornare laggiù? Dopo tutto quello che avete fatto per portarlo via? – urlo.
- È un suo diritto, soldato Everdeen – mi risponde lui. – Non farmi pentire di averti nella mia squadra.
Apro la bocca per dire altro ma l’occhiata che mi rivolge mi mette a tacere subito. Sono sotto i suoi ordini, ricordo; sono una sua sottoposta. Ed i suoi sottoposti devono ubbidire ai suoi ordini. Non posso tirarmi indietro adesso che sono così vicina alla mia meta: devo fare ciò che mi consiglia Boggs, ciò che ho dimostrato di saper fare all’interno dell’Isolato. Perciò non replico, non me ne vado, non inveisco contro Peeta. Prendo posto tra Gale e Finnick e resto ad ascoltare le direttive per l’invasione. Ascolto in silenzio, ed ogni tanto getto un’occhiata nella direzione di Peeta. Un paio di volte, i nostri sguardi si incontrano.
Il suo addestramento deve essere andato bene almeno quanto il mio, se è riuscito ad essere convocato qui. E deve aver superato l’esame. Mi sento una stupida, perché non ho mai pensato a questo scenario: non ho mai pensato all’eventualità che Peeta prendesse parte all’addestramento non perché in obbligo, ma perché gli sarebbe servito per essere spedito in guerra. Proprio come la sottoscritta. Non riesco a capacitarmene. Perché? Stava filando tutto liscio come l’olio! Non doveva andare così. In qualche modo, Peeta deve sempre mettersi in mezzo per rovinare i miei piani: si offre volontario per sostituire Haymitch alla mietitura, si fa quasi ammazzare a Capitol City… non che questo facesse parte di un mio piano. E adesso questo.
Di nuovo: perché?
Voglio urlarglielo in faccia per avere una risposta decente da parte sua, ma mi costringo a stare zitta fino a che dura la spiegazione, che non ascolto molto. Potrei star perdendo delle nozioni importantissime e fondamentali su come sopravvivere una volta giunti in città, ma chi se ne frega. L’unica cosa che afferro è che sono dispensata dal taglio di capelli: la Ghiandaia Imitatrice deve essere ben riconoscibile tra le truppe dei Ribelli. Sarà comodo, per gli altri, individuarmi e farmi fuori in questo modo. Non ho voglia di indagare su questa scelta. E quando ci congedano, scopro che non ho nemmeno più voglia di urlare. Non ho più voglia di conoscere i motivi che hanno spinto Peeta a volersi unire ad una squadra di assalto per prendere Capitol City. Non ho neanche più voglia di guardarlo in faccia. Sfreccio via dal Comando, senza salutare nessuno e senza guardarmi indietro. Senza provare ad attendere per sentire se Peeta mi sta seguendo, perché non voglio che mi segua.
Nel corridoio, poco prima degli ascensori, mi imbatto in Haymitch. Mi sembra di accorgermene solo ora che non era presente alla riunione, e che dalla faccia che ha assunto deve essere accaduto qualcosa di imprevisto. – Johanna è in ospedale – dice non appena sono a tiro d’orecchio.
- Perché? Cosa le è accaduto? – chiedo, preoccupata.
Mi domando se non abbia avuto una sorta di incidente durante il suo esame, se si sia fatta male cadendo o qualcosa di simile. Forse è questo il motivo per cui non era alla riunione, se non aveva potuto unirsi alla sua squadra. Ma in fin dei conti, non so nemmeno se la squadra alla quale è stata assegnata sia la stessa in cui ci sono io. Non so praticamente nulla.
- Hanno inondato la strada, nell’Isolato, per scovare i suoi punti deboli. È il modo in cui agivano su di lei a Capitol City: acqua ed elettroshock – mi spiega Haymitch. – Ha avuto dei flashback ed è andata nel panico…
Chiudo gli occhi, demoralizzata. Incrocio le braccia al petto e chino lo sguardo mentre, alle mie spalle, sopraggiungono i passi rumorosi di Peeta. Non lo guardo, mentre prende posto accanto a me e posa una mano sulla mia spalla. Vorrei scostarla via, ma rimango immobile, ed ascolto Haymitch che ripete per lui ciò che è accaduto a Johanna. Se non è facile per me, sentirlo, per lui deve essere mille volte peggio, se è vero ciò che mi aveva detto Johanna, sulle loro urla. Sul fatto che sapessero quando uno di loro veniva torturato o meno.
- Voi due dovreste andare da lei. Siete la cosa più vicina a degli amici, per lei – ci consiglia di fare Haymitch. Ci lascia nel corridoio per andare da Plutarch a comunicargli la brutta notizia, e sono certa che cercherà anche Finnick per informarlo. Conoscendolo, Finnick andrà da lei non appena saprà: lui è davvero suo amico, non io. E anche Peeta è tenuto con più considerazione da Johanna, rispetto a me. Non so se Johanna mi considera davvero sua amica.
- Scendiamo in ospedale – mi dice Peeta.
- Devo prima fare una cosa – ribatto freddamente, piantandolo in asso davanti agli ascensori. So che non è giusto nei suoi confronti, ma voglio che sappia che sono arrabbiata con lui.
Chiedo ed ottengo da Boggs il permesso di fare una scappata nei boschi, oltre la recinzione, per raccogliere un po' di aghi di pino da chiudere in un fagotto di garza per Johanna. Mi scappa un verso di disappunto quando il permesso viene esteso anche a Peeta, che mi ha seguita come un’ombra, ma potrebbe essere la scelta più giusta, da un lato. Nei boschi potrò urlare quanto mi pare e piace. Potrò dire tutto ciò che voglio, tutto ciò che mi passa per la testa. Tutto ciò che potrà essermi utile per sfogare la mia ira contro Peeta.
Ma non dico niente, all’inizio. Concentro la mia attenzione sulle mie mani, sugli aghi di pino che raccolgo dal terreno e che avvolgo con cura all’interno di una garza bianca. Non è granché come regalo, ma è il meglio che riesco a fare. È tutto ciò che posso fare per portare un po' del Distretto 7 a Johanna. Il profumo inebriante del pino mi aveva riempito i polmoni, ricordo, quando arrivammo lì per il Tour della Vittoria. Era un profumo magnifico. È il tipo di profumo che potrebbe farle compagnia. È il profumo di casa che può aiutarla ad affrontare le ore buie, le ore di dolore.
Peeta è alle mie spalle e sento i suoi occhi fissi sulla mia schiena mentre preparo il fagottino.
- So che sei arrabbiata – dice.
Stizzita, stringo con troppa forza ed il rampicante che sto usando come laccio si spezza tra le mie dita. Ne devo cercare un altro. – Bella scoperta.
- Non so cos’è che ti aspettassi da me, Katniss – aggiunge.
Poso per terra la garza e mi volto, lentamente, fino ad incontrare i suoi occhi. Peeta è nervoso ed aspetta, a braccia incrociate, la mia reazione. Aspetta che mi sfoghi.
- Non mi aspetto nulla, da te – dico, cercando di mostrarmi calma. – Nulla, niente. Perché non dovevi fare niente. Dovevi restare in disparte. E invece sei andato a chiedere di mandarti di nuovo a Capitol City! E questo non è niente!
Alla fine mi sono messa ad urlare. Non era quello che volevo sin dall’inizio?
- Come sei egoista, Katniss – mi sbeffeggia. – Secondo i tuoi ragionamenti, io dovrei fare il bravo e lasciarti partire senza lamentarmi, ma se anche io faccio richiesta per seguirti in guerra mi becco una scenata. – mi si avvicina. – Lo vedi, come sei egoista? Come sei stronza? Non pensi mai agli altri: pensi solo a te stessa!
- Sei tu l’egoista qui, non io! Io cerco in ogni modo di tenerti al sicuro e tu mi metti i bastoni tra le ruote! Mi rendi tutto-
- Com’è che vorresti tenermi al sicuro? – chiede, sarcastico. – No, sono curioso. Dai, dimmelo. Vuoi rinchiudermi in una stanza e portarti dietro la chiave finché la guerra non sarà finita? Vuoi legarmi al letto?
Non è un’idea malvagia.
- Che scelta ho? Non posso scendere in guerra col pensiero fisso di doverti proteggere, Peeta! Non posso… - dico. Dimezzo la distanza che ci separa e gli do uno spintone, così, senza un motivo preciso, ma lui non perde nemmeno l’equilibrio. E questo mi fa incazzare più di prima. – Sarà come nell’arena, laggiù. E mi sono stancata di tenere la guardia sollevata per-
- Per me? So badare a me stesso. – sì, come no. E guarda come sono andate le cose. – Non sono un cucciolo da difendere, o qualsiasi altra cosa tu pensi che io sia.
Il problema in realtà sta proprio qui: è esattamente ciò che penso. Penso che Peeta sia quello da proteggere, ed io quella da sacrificare. Non mi importa se sarò io a sfidare la sorte, ad essere ferita o addirittura colei che perderà la vita una volta arrivata in città. L’importante, per me, è che Peeta rimanga al sicuro, qui, vivo e vegeto. Ed il problema si complica perché lui sembra avere la mia stessa opinione, ma al contrario.
Siamo ancora in una situazione di stallo, temo. Quella situazione in cui non riusciremo a concludere un bel niente, se non farci del male a vicenda. Agire nel tentativo di salvaguardare e proteggere chi amiamo, solamente per vedere le nostre azioni ritorcercisi contro.
- Perché tra noi deve essere sempre così? – domando. Mi sento improvvisamente sconfitta. Sconfitta, e prosciugata.
- Perché è questo che facciamo, noi due. Non ne possiamo fare a meno – mi risponde. Ha un sorriso amaro impresso sul volto mentre si china per raccogliere il fagottino di garza e pino che ho abbandonato in mezzo all’erba.

 

Johanna è di nuovo sotto sedativi. È di nuovo immersa nella nebbia. Stesa nel suo letto d’ospedale, con le palpebre spalancate e le pupille che vagano veloci dal mio viso a quello di Peeta, sembra una bambina spaventata. Solo questo. Non c’è più traccia della donna dura e spavalda che ho conosciuto una volta. Quella donna se la sono presa con la forza, l’hanno presa e spazzata via. Trema appena quando le passo una mano sui corti capelli ancora umidi, e gliene scosto qualche ciocca dalla fronte.
Johanna.
- Katniss ti ha fatto questo – le bisbiglia Peeta. Le mette in mano il fagotto profumato e, gentilmente, glielo avvicina al naso.
I suoi occhi si chiudono per un momento quando inspira, e li riapre carichi di lacrime. Un debole accenno di sorriso fa capolino sulla sua bocca. – Sa di casa – mormora.
- Così puoi avere casa sempre con te – le dico.
- Non ce l’ho più una casa – si lamenta improvvisamente, e si raggomitola su sé stessa. Nello stato obnubilante in cui i farmaci l’hanno fatta sprofondare, non può fare altro che questo… ma Johanna sembra avere ancora abbastanza forza da aggrapparsi al braccio di Peeta, da stringerlo come se fosse la sua ancora di salvezza. – Devi ucciderlo – fiata, piantando gli occhi nei suoi. - Promettimi che lo ucciderai.
- Lo farò – dice prontamente Peeta. Le sue mani stringono e avvolgono quella di Johanna. – Lo faremo entrambi.
Guardo Peeta, guardo il modo in cui concentra la sua attenzione sulla ragazza distrutta stesa sul letto, e capisco perché ha deciso di partire. Capisco perché non riuscirò mai a farlo desistere dalle sue scelte. Lo capisco, perché le sue ragioni sono identiche alle mie. Vuole vendicarsi anche lui di Snow. Lo vuole uccidere. Vuole farlo per Johanna, per la sua famiglia, per me e per sé stesso. Per la nostra bambina…
Forse sono davvero stronza ed egoista. Forse lo sono davvero. Lo sono e lo sarò per sempre. Perché penso solo a me stessa, perché non penso mai a lui.
Perché non cerco mai di comprenderlo veramente.

 

Salutare la mia famiglia è difficile, stavolta. È ancora più difficile di quando partii per gli Hunger Games, anche se le esperienze possono essere messe in parallelo senza grossi problemi. In entrambi gli scenari, gli Hunger Games e la guerra, c’è la possibilità che chi vi partecipa non possa farvi ritorno. Sono riuscita a scampare per un pelo alla morte, nell’ultima spedizione all’arena. Sono riuscita a vivere contro ogni probabilità. Non so se stavolta sarà possibile.
È difficile stringere Prim tra le mie braccia e dirle che andrà tutto bene quando nemmeno io ne sono convinta al cento per cento. È difficile abbracciare la mamma, ed asciugarle quelle lacrime che non ha versato nemmeno quando è stata costretta a spedirmi per due volte in un’arena. È difficile, ma non impossibile. Mi impongo di mostrarmi serena e positiva mentre la mia mente vaga in una miriade di scenari disturbanti e negativi. Me lo impongo e riesco a superare questa prova, anche perché so che le sto lasciando in buone mani. Le lascio al Distretto 13, dove staranno al sicuro e non ci sarà nulla che potrà far loro del male. Snow non può arrivare qui. Non le può toccare. È la sola cosa che mi rende sicura della mia scelta di andare in guerra.
A questo punto ci sarebbe solo una persona che vorrei salutare prima di partire, ma quella persona verrà con me. Vorrei che non fosse così, ma è l’amara realtà e sono costretta ad accettarla. All’Hangar, quando mi ci reco dopo aver lasciato le mie donne al loro lavoro in ospedale, ci trovo già il resto della squadra, compreso Peeta. Ci sono anche Cressida ed il suo team di riprese, perché la nostra non sarà una vera e propria squadra d’attacco. Staremo per la maggior parte del tempo nelle retrovie e percorreremo, venendo ripresi, le strade che altri soldati hanno percorso prima di noi. La nostra squadra sarà incaricata, per la maggior parte del tempo, di mostrare l’invasione che avviene all’interno di Capitol City. Plutarch ci ha soprannominati la “Squadra di Stelle”.
Non è la guerra che immaginavo: significa che non possiamo correre a rotta di collo in mezzo alle battaglie per andare ad uccidere Snow, ma allo stesso tempo vuol dire che non saremo troppo esposti. Sarà pericoloso lo stesso, ma in misura minore. Ed una volta giunto il momento opportuno, potremo giungere alla parte del piano che più preferisco. Devo solo sopportare i Pass-Pro, fino ad allora. Ed anche se non affronteremo la vera guerra, veniamo comunque dotati di piccole pillole viola, piccole come la perla che ho al collo. Le chiamano “Morsi della Notte” in onore delle bacche che ho usato nella prima arena.
- In caso ci catturino – dice Boggs. – Non sarà una morte dolorosa – aggiunge, come se volesse confortare qualcuno con le sue parole.

Una morte veloce e non dolorosa, penso. Nascondo la mia nella piccola tasca, posta sulla spalla sinistra, che Cinna ha creato nella mia uniforme da Ghiandaia Imitatrice. Da questa posizione potrei prenderla usando solamente i denti. Potrebbe tornare utile, in effetti.
Saliamo tutti sull’hovercraft ed attendiamo il momento di partire. Mi metto in disparte, seduta sul freddo pavimento di metallo con la schiena premuta contro un’altra fredda parete di metallo, ma vengo quasi subito raggiunta da Peeta. Resta in silenzio mentre mi si siede accanto e mi guarda. Ricambio il suo sguardo, senza aggiungere alcunché.
Il nostro rapporto si è fatto più teso a mano a mano che si avvicinava il giorno della partenza. Ed è teso anche adesso che stiamo per partire. Nessuno di noi due può più tirarsi indietro, ora, ma se non lo abbiamo fatto prima di oggi, vuol dire che non ne avevamo proprio l’intenzione. Eravamo, e siamo, entrambi risoluti. Siamo decisi. Dobbiamo solo accettarlo. Dobbiamo solo venire a patti con noi stessi. E per venire a patti con noi stessi, dobbiamo mettere da parte le nostre divergenze. Perché l’ultima cosa di cui avremo bisogno, una volta laggiù, sarà litigare per ogni più piccola cosa. Non possiamo permetterci di rivangare le nostre decisioni, giuste o sbagliate che siano. Non possiamo cullare e nutrire il livore che teniamo racchiuso prima di farlo esplodere come una bomba. Ce ne sono già troppe di bombe pronte ad esplodere. Lo dobbiamo smorzare, farlo tacere finché non giungerà il momento opportuno per affrontarlo. E allora, solo allora, potremo gettarci addosso tutto il fango che vogliamo.
Ma fino ad allora, dovremo svolgere il nostro ruolo. Soldati, compagni di squadra, alleati. Di nuovo, alleati. Non possiamo permetterci nient’altro.
Gli prendo la mano e gliela stringo, nell’esatto istante in cui il motore dell’hovercraft si accende con un rombo.

 

 

 

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Eccoci di nuovo :)
Nuovo capitolo di passaggio, stavolta: è un capitolo che va a gettare le basi per la fase finale. Capitol City si avvicina sempre di più, ormai, così come si avvicina la fine della storia. Non so quanti capitoli mancano ancora… ma non ci voglio pensare adesso ^^’
Oggi è il 25 maggio! Esattamente un anno fa pubblicavo il primo capitolo… è stranissimo, sapete? Ho sempre pensato che nel giro di un anno avrei terminato di scrivere e pubblicare tutti i capitoli, e invece… eh.
Mi dovete sopportare ancora XD

D.

   
 
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