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Autore: WillofD_04    18/06/2021    1 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sbuffai, senza preoccuparmi di apparire infastidita. Lo ero, e anche visibilmente.
«Kenji, nutro una cieca fiducia nei tuoi confronti, ma sono dieci giorni che mi fai stringere una pallina con la mano. Non credo che questo mi sia molto d’aiuto,» protestai, picchiettando un piede sul pavimento. «E poi, io non ho un problema al polso.»
Il rosso mi fissò con sguardo eloquente, sollevando le sopracciglia. Roteai gli occhi e sbuffai di nuovo.
«Ok, ce l’ho, ma non è un problema di natura fisica.» Gli lanciai la pallina con una certa violenza e lui la prese al volo. Non ne potevo più, a furia di stringere quell’affare mi erano venuti i crampi alle dita.
Dieci giorni prima avevo iniziato a fare la fisioterapia – se così si poteva chiamare – con Kenji, nel tentativo di riacquistare la piena funzionalità del polso. Quando eravamo tornati sul Polar Tang, Law si era affrettato a comunicare gli ordini al ragazzo, che si era detto ben felice di iniziare questo percorso con me, soprattutto dopo che il chirurgo lo aveva indottrinato ben bene su quello che era il quadro generale della situazione. Io non ero entusiasta quanto lui, ma cercavo lo stesso di pensare positivo. Solo che erano dieci giorni che mi faceva strizzare una dannata pallina rossa, simile alle palline antistress, tra le dita, per due ore al giorno, e non vedevo uno straccio di miglioramento. Anzi, non vedevo proprio come quello potesse aiutarmi: non c’era nulla che non andasse nella mia mano, il problema era nella mia testa, era lei a scatenare il tremore.
«Lo so. Ho visto le radiografie. L’osso si è risanato alla perfezione. Dal punto di vista medico sei guarita. Devi solo convincertene,» affermò, addolcendo la sua espressione.
Abbassai lo sguardo, per non farmi vedere da lui. Le sue parole mi fecero bruciare gli occhi per un attimo. Aveva ragione, ma aveva anche torto. Ero guarita, fisicamente, dovevo “solo” convincermene. Il problema era che non potevo farlo, perché psicologicamente non ero guarita. Per tutto il tempo in cui ero rimasta dai Rivoluzionari avevo evitato di affrontare il problema. Avevo usato Sabo come diversivo, mi aveva fatto da cerotto. Adesso però il cerotto non c’era più, e non c’era più nulla a coprire la ferita, ancora visibilmente aperta, che mi portavo dietro da mesi. Come facevo a farla richiudere?
«È questo il punto. Non so se riesco a convincere me stessa di essere guarita,» replicai, lo sguardo sempre basso. Non era facile per me aprirmi con Kenji. Dopo due anni eravamo diventati amici e gli volevo un gran bene, come lo volevo a tutti gli altri, ma c’era qualcosa che mi impediva di confidarmi con lui. Forse era perché i suoi occhi erano colmi di innocenza, proprio come quelli di un bambino, e non volevo essere io a rovinare l’espressione dolce che aveva.
Si chinò e mi poggiò delicatamente una mano sul ginocchio. Poi alzò la visiera del suo cappello, in modo che le sue iridi verdi si incastonassero alle mie ambrate. Non ci avevo mai fatto caso, perché erano sempre stati nascosti da quella specie di basco che portava, ma aveva dei begli occhi, di un verde acqua purissimo.
«Sono qui per questo. Ti aiuterò io.» Le sue dita strinsero appena il mio ginocchio. Ci fissammo per qualche attimo, senza dire una parola. Non smise nemmeno per un secondo di avere un’espressione speranzosa.
Piegai un angolo della bocca all’insù e feci un mezzo sorriso.
«Se ci riesci, ti faccio una statua,» scherzai, facendolo ridere.
«Vedrai, ci riuscirò,» dichiarò convinto. Poi mi porse di nuovo la pallina e io la presi con riluttanza. «Stringi la pallina.»
Obbedii. Durante quelle due ore in cui stavamo chiusi in infermeria a fare riabilitazione il capo era lui e dovevo fare come mi diceva, volente o nolente. Se poi era convinto di essere in grado di farmi passare quel disabilitante tremore al polso, non avevo altra scelta.
 
***
 
Vidi Kenji appoggiare i fianchi alla scrivania e incrociare le braccia con aria spavalda.
«Credo che tu sia pronta,» affermò soddisfatto.
«Per cosa?» gli chiesi, perplessa. Forse, dopo dodici giorni di pallina, si era deciso a farmi cambiare esercizio.
Mi stavo già preparando a sbarazzarmi di quella maledetta pallina, quando lui parlò di nuovo, e ciò che disse mi lasciò di sasso.
«Raccontami quello che è successo il giorno in cui tu e il Capitano vi siete scontrati con Doflamingo.»
Spalancai gli occhi. Non me lo aspettavo. Non me lo aspettavo minimamente. Non da lui, almeno.
Ancora con la palla di gommapiuma in mano, mi alzai e mi diressi verso l’uscita della stanza. «Preferirei non parlarne.»
Per quanto mi riguardava, quella “seduta” poteva pure concludersi lì. Il rosso, però, non era della stessa opinione, infatti si frappose tra me e la porta, impedendomi di andarmene.
«Rimettiti seduta, per favore. E continua a strizzare la palla,» mi impose, serio ma non grave. Quando cercava di impartire degli ordini appariva sempre più dolce di quanto non fosse una qualunque altra persona.
Sospirai sconsolata e mi rimisi seduta sulla piccola sedia scricchiolante. Supponevo che avrei dovuto parlargliene. Dopotutto era lui il medico. E poi me lo aveva chiesto con un garbo che nessun altro aveva mai avuto. Solo per questo dovevo almeno starlo a sentire.
Presi un respiro profondo e lasciai che la mente venisse invasa dai ricordi di quel giorno buio, aprendo e chiudendo le dita attorno alla palla. Mi ricordai del momento esatto in cui il Demone Celeste mi aveva spezzato il polso. Ripensai al rumore sordo che aveva fatto l’osso e al dolore lancinante che lo aveva seguito, che mi aveva tormentato per tutto il tempo ed era esploso nel momento in cui Doflamingo lo aveva calpestato senza pietà. E poi rivissi la paura che avevo provato al pensiero di non poter più essere un chirurgo, le speranze che mi avevano abbandonato nel momento in cui avevo abbassato lo sguardo e avevo visto che era diventato violaceo. Era così tumefatto che il sangue non circolava più.
Ritornai alla realtà spalancando gli occhi, terrorizzata. Lo sentii arrivare. Il tremore. La mano iniziò a formicolare e prima che potessi accorgermene la pallina cadde in terra.
«Dannazione!» sibilai a denti stretti, sbattendo il pugno della mano destra sulla scrivania. Tutti gli oggetti che vi si trovavano sopra oscillarono pericolosamente. Kenji si affrettò a raccoglierla e me la porse.
«Va bene, va bene,» fece, annuendo. Nei suoi occhi c’era un luccichio, come se secondo lui stessi facendo progressi. «Se non me ne vuoi parlare non importa. Continua a ricordare e stringi la pallina.» Mi appoggiò una mano sulla spalla. Me la scrollai di dosso, non avevo bisogno della sua pietà.
Tornai a concentrarmi sulla battaglia e tentai di rievocarla quanto più vividamente potevo. Avevo capito la strategia di Kenji: voleva farmi rivivere il trauma mentre il mio polso veniva attivamente stimolato, cosicché potessi superarlo e liberarmi dal tremore – che non era altro che una manifestazione psicosomatica dello shock a cui ero stata sottoposta – una volta per tutte. Era faticoso e doloroso, ma dovevo farlo, o perlomeno tentare.
La mano iniziò anche a farmi male, ma non demorsi e strinsi la pallina con tutta la forza che riuscii a trovare. Chiusi gli occhi, immergendomi appieno in quegli istanti infelici. Ripensai alla paura che mi aveva paralizzato. A tutta la forza e tutto il coraggio che mi ci erano voluti per intervenire. A quanto mi ero sentita impotente nel vedere il Capitano immobile ed esanime, nell’osservarlo esalare l’ultimo respiro senza che potessi fare nulla. A quanto mi ero sentita piccola, debole e fragile di fronte alla potenza del fenicottero. All’umiliazione che avevamo subito su quel viale alberato. A quanto dolore avevo sopportato, per il bene di Law. Agli anni di vita che avevo perso per cercare di guarire. Era stato tutto inutile, per entrambi. Perché nessuno dei due si era ripreso. L’impatto di quello scontro era stato devastante, troppo violento per noi, troppo grande perché potessimo reggere un tale colpo. Io ero stata colta impreparata, e adesso mi ritrovavo a fare i conti con la mia avventatezza, mentre il chirurgo si era dovuto scontrare con i suoi demoni ancora una volta, e alla fine aveva ceduto all’oscurità.
Un velo di lacrime si formò attorno alle mie iridi. Lasciai andare la pallina, che rotolò di nuovo per terra. Era così ingiusto. E la cosa assurda era che mi dispiaceva più per lui che per me stessa, perché io stavo ancora cercando di combattere, dentro di me c’era ancora una piccola scintilla, la scintilla che rappresentava il desiderio di rivalsa; mentre Law, la sua, l’aveva persa. Non c’era più una briciola di speranza in lui. Non lo dava a vedere, ovviamente, ma sia io che lui lo sapevamo bene. Lo avevo visto. Avevo visto la fede abbandonare il suo corpo per lasciare spazio alla resa, alla rassegnazione, alla sfiducia che ormai nutriva nei confronti del mondo e della vita. E mi sentivo di nuovo impotente, perché non sapevo come aiutarlo.
All’improvviso, Kenji si chinò verso di me e mi abbracciò. Rimasi interdetta da quel suo gesto, che per uno come lui mi sembrava fin troppo audace.
«Mi dispiace così tanto...» sussurrò, forse più a se stesso che a me. Poi appoggiò il suo mento sulla mia spalla e mi posò una mano sulla nuca, accarezzandomi i capelli. Fu in quel momento che capii perché Law avesse assegnato quell’incarico proprio a lui: Kenji era l’unico che tenesse tanto a me da avere la determinazione che ci voleva per portare a termine quel compito infausto, e allo stesso tempo era anche l’unico ad avere la sensibilità necessaria per capire quando era meglio fermarsi. Sapeva essere fermo e irremovibile, ma non era mai severo, né mi forzava a fare cose che non ero pronta a fare. Era la persona più adatta per aiutarmi e farmi guarire.
Mi tenne stretta a sé per diversi minuti, senza allentare mai la presa. Il suo corpo sovrastava il mio, ma il suo abbraccio era delicato e confortevole. Mi aveva accolta tra le sua braccia e io glielo avevo lasciato fare. In quel momento, con quell’abbraccio, percepii qualcosa. Percepii che non avrebbe mai permesso che soffrissi di nuovo come avevo sofferto quel giorno. Non voleva che mi accadesse nulla di male, e mi avrebbe protetta a costo della vita, se necessario. Era un abbraccio pieno di rimpianto, per non essere stato con me nel giorno in cui Doflamingo ci aveva attaccato, un abbraccio che suggeriva che non sarebbe mai più accaduto. Mi chiesi se questo fosse l’effetto dell’amore sulle persone, o se invece fosse pura e semplice solidarietà tra compagni. Supponevo che non avesse poi molta importanza, perché quello era il mio dolore e non era giusto che se ne facesse carico lui, né era giusto che si sentisse in colpa per non essere stato presente. Era andata come era andata, e nessuno era da incolpare per quanto successo.
Gli diedi una leggera pacca sulla schiena, per comunicargli implicitamente che l’abbraccio stava durando un po’ troppo e che era arrivato il momento di staccarci.
Mi alzai dalla sedia, sorridendo.
«Che ne dici se ci prendiamo una pausa?» gli proposi. Lui, visto il suo evidente imbarazzo – aveva la faccia rossa come un pomodoro ed evitava il mio sguardo – accettò di buon grado.
 
Aprii il frigo, consapevole che lì dentro si celava la mia unica fonte di sostentamento, l’unica cosa che mi permettesse di sopportare la fisioterapia e gli orribili ricordi che mi scatenava. Dei passi risuonarono dietro di me e mi voltai appena per capire chi fosse entrato in cucina.
«Capitano,» lo salutai, tornando a concentrarmi sul frigorifero.
«Sottoposta,» replicò atono. «Come sta andando la riabilitazione?» chiese poi, recuperando una tazza e versandosi del caffè. Quando erano gli altri a volerlo, stranamente la brocca era sempre piena. Se invece lo volevo io, non c’era mai. Un po’ come il vino, che non riuscivo a trovare da nessuna parte.
«Bene,» mi limitai a dire, intenta a cercare ancora una volta la bottiglia tra i ripiani del frigo.
«Stai facendo progressi?» chiese ancora. L’odore di caffè aveva invaso la stanza. Sentii una delle sedie strisciare appena sul pavimento: si era messo seduto.
«Più o meno.»
Ero troppo impegnata per mettermi a chiacchierare, ma soprattutto non volevo affrontare quella conversazione. Non ci tenevo affatto che Law venisse a sapere tutti i retroscena di ciò che succedeva nell’infermeria. Apprezzavo che si interessasse a me, solo che avrei voluto parlare di altro, magari di argomenti più leggeri, adatti ad una pausa caffè. O vino, nel mio caso, se solo lo avessi trovato.
«Cerchi qualcosa?» Percepii una punta di divertimento nella voce del Capitano, che non mi faceva pensare a nulla di buono.
«Sì. La bottiglia di vi...» Mi interruppi nell’esatto istante in cui realizzai. Assottigliai gli occhi e mi girai verso di lui. «Dov’è?»
In risposta, ghignò.
«Non è divertente,» lo rimproverai, cercando di contenere la mia furia. Il vino era tutto ciò che rimaneva di positivo nella mia vita. Ne avevo bisogno. Se venivo privata anche di quello, potevo pure andare a gettarmi direttamente in mare.
«No, infatti.» Bevve un altro sorso di caffè.
«Che ne hai fatto?» Iniziavo a sentire la rabbia dilagarsi nel mio corpo.
«L’ho affidata al tuo medico curante,» rispose, in tutta tranquillità. Spalancai gli occhi, più indignata che sorpresa.
«A Kenji!? E perché!?» Mi avvicinai pericolosamente a lui.
«Ti ho fatto un favore.» Continuò a bere il suo caffè come se nulla fosse.
«Un favore!? Molto probabilmente Kenji ha buttato tutto il vino in mare! Tu mi hai privato dell’unica cosa in grado di...»
«Calmati,» mi interruppe, categorico. Poi sogghignò. «Prendilo come un incentivo.»
Presi un respiro profondo, cercando di non cedere alla furia omicida di cui ero preda.
«Un incentivo per cosa, esattamente?» Mi portai le mani ai fianchi. Non ne capivo il senso.
«Vuoi ritornare ad essere un chirurgo?» Incastonò i suoi occhi glaciali ai miei. Era tornato serio.
Capii subito dove voleva andare a parare. Maledetto Law. Maledettissimo Law. Feci una smorfia indefinita, l’unica che in quel momento di fastidio riuscii a fare.
«Tu mi vuoi dire che hai deciso di proibirmi di bere vino fino a che il mio polso non avrà smesso di tremare?» indagai, con un filo di voce. Non avevo paura di venire a conoscenza della risposta, perché sapevo bene qual era. Avevo paura di non riuscire a contenere l’ira che stava prendendo possesso di me.
«Prendilo come un incentivo,» ripeté, stringendosi appena nelle spalle.
Dopo un primo momento di sbigottimento, mi misi a ridere. Risi per esasperazione. Un incentivo. Lui riteneva che negarmi il vino fosse un incentivo. Ma cos’era, un complotto contro di me!? Prima avevo dovuto rinunciare al sesso con Sabo, al meraviglioso e rigenerante sesso con Sabo; e ora anche questo!? Dove diavolo ero capitata!? Ad Impel Down!? Nemmeno con i prigionieri della prigione subacquea più famosa al mondo erano tanto crudeli! Law aveva adottato lo stesso metodo per cui aveva optato Mihawk per addestrare Zoro. Io però non ero mica lo spadaccino, accidenti a lui! Oltre al danno, la beffa. Non potevo farcela senza vino.
Il Capitano si alzò e posò la sua tazza vuota nel lavello. Poi si diresse verso l’uscita della cucina senza darmi il tempo di ribattere.
«Io ti odio!» gli gridai. «Ti odio! Ti odio, ti odio, ti odio!»
Ovviamente, non si voltò. Continuò a camminare imperterrito.
«Smettila di comportarti da bambina e torna al lavoro.»
Scoppiai di nuovo a ridere, non sapendo che altro fare.
Alla fine mi ritrovai da sola in quella che, ora che non potevo più usufruire del vino, era appena diventata la mia personale camera degli orrori.
«Mi vendicherò...» sibilai velenosa, fissando la porta con sdegno. «Eccome, se lo farò. Dovesse essere l’ultima cosa che faccio.»
Mi guardai intorno, leggermente spaesata. Senza la preziosa sostanza inebriante di Bacco a mia disposizione, non sapevo che cosa ci facessi in quella dannata cucina. Optai per il caffè, non mi restava che quello.
Recuperai la mia tazza arancione dal mobile e poi presi la caraffa per versarci dentro un po’ del liquido scuro. Sbuffai una risata. C’era da aspettarselo. Vuota. La caraffa era vuota. Abbandonai tutto sul ripiano più vicino, poi allargai le braccia e le feci ricadere flaccidamente lungo i fianchi. Perché mi ostinavo a sperare che il caffè non fosse finito, quando arrivava il mio turno di berlo?
 
Soffiai sul liquido scuro contenuto nella mia tazza. Dopo che avevo dovuto rifarlo, ci mancava solo che mi ustionassi la lingua per berlo. Le mie dita tamburellavano nervosamente sul tavolo. L’idea che non avrei potuto sorseggiare il mio amatissimo vino fino a che non fossi guarita proprio non mi andava giù. In tutti i sensi. Almeno, però, mi rimaneva il pane. Una magra consolazione, ma pur sempre una consolazione. Non lo avrei più condiviso – o meglio, barattato in cambio di favori – con nessuno. Mi sarei tenuta per me ciò che restava del mio piccolo bottino di guerra, volevo avere almeno quella soddisfazione. Tanto non c’era pericolo che me lo rubassero, nessuno sapeva dove avessi nascosto le casse, e di certo non sarebbero venute a cercarle, perché avrei massacrato chiunque avessi sorpreso a farlo, oppure chiunque avessi ritenuto responsabile del furto.
«Niente vino, eh?» Una voce – troppo allegra per i miei gusti – mi distrasse dalle mie riflessioni.
«Se questa è stata una tua idea, sappi che te la farò pagare. E anche molto cara,» risposi, minacciosa ma calma. Non avevo bisogno di guardarlo in faccia per sapere che il mio interlocutore era Kenji.
«È una fortuna che non sia stata una mia idea, allora.» Si mise a sedere accanto a me. Le sue parole non erano una sorpresa. Per quanto il rosso ripudiasse il vino, non era abbastanza perfido per prendere un’iniziativa del genere. Era Law quello a cui si doveva addossare tutta la colpa.
«Come mai tu non bevi?» gli chiesi all’improvviso. «Voglio dire, ci conosciamo da quasi tre anni e in tutto questo tempo ti ho visto sì e no un paio di volte sorseggiare una sostanza alcolica.»
Finalmente lo guardai e lui abbassò lo sguardo, come se si vergognasse.
«Bere alcolici fa male alla salute. E poi, non mi piace,» disse semplicemente. I suoi occhi, però, mi suggerivano che c’era dell’altro. Piegai la testa da un lato per sollecitarlo a parlare, ma lui rimase in silenzio.
Allungai una mano sul tavolo e la posai sulla sua. A quel punto mi guardò con un po’ di sorpresa.
«Kenji...» iniziai, dapprima un po’ titubante. «Non devi parlarmene per forza, non ti obbligherei mai a farlo, ma voglio che tu sappia che io ci sono per te, proprio come tu ci sei per me, e che di me ti puoi fidare.»
Gli sorrisi e strinsi appena le dita attorno alla sua mano. Sorrise anche lui e poggiò la sua mano libera sopra la mia. Mi accarezzò le nocche con il pollice.
«Certo che lo so, e ti ringrazio. È solo che non mi piace parlarne.» Distolse lo sguardo ancora una volta. «Ma... se questo ti aiuterà a fidarti di me, a guarire, allora lo farò.»
«Non devi farlo solo perché ti senti costretto. E di certo non sarà questo a determinare la mia guarigione,» mi affrettai a rassicurarlo. Cominciavo a pensare che il motivo per cui non beveva alcol fosse più grave di quanto immaginassi.
«Hai il diritto di sapere qualcosa di più sul tuo medico curante,» affermò, ritornando a guardarmi e sorridendo. Aveva riacquistato sicurezza.
Feci per ribadirgli che non doveva sentirsi obbligato, poi però mi fermai e trattenni una risata. Sembravamo due ragazzini imbarazzati al primo appuntamento. Fu con quel pensiero che notai che le nostre mani erano ancora una sopra l’altra, e mi affrettai a districarmi da quell’intreccio.
«Lo sanno soltanto il capitano e Omen, ma meriti di saperlo anche tu. Dopotutto, sei una delle persone che sento più vicine a me.» Si strinse nelle spalle e mi guardò con tenerezza e quella che avrebbe potuto essere presa per gratitudine.
Sorridemmo entrambi. Ero contenta che l’avesse detto. La sua dichiarazione mi aveva fatto sentire ancora di più parte di quel qualcosa che stavo cercando da tanto tempo e mi aveva fatto capire che lui credeva in me.
E così me lo raccontò. Mi raccontò la sua storia. Mi raccontò che era nato in un’isola del North Blue, un’isola chiamata Rue, e che suo padre, Alistair, era un pescatore, mentre sua madre, Vera, era una sarta. Mi strappò un sorriso quando mi disse che era stato un bambino felice e che aveva vissuto un’infanzia tranquilla ed era cresciuto circondato dall’amore dei suoi genitori. Poi, però, dopo il suo undicesimo compleanno qualcosa era cambiato. Suo padre aveva iniziato a tornare sempre più tardi la sera. Quando rincasava era violento e talvolta alzava le mani su sua madre, e se Kenji provava a fermarlo veniva picchiato anche lui. Né lui né Vera riuscivano a spiegarsi perché avesse assunto tale comportamento. Mi aveva confessato – con gli occhi lucidi e la voce tremante – che certe volte sentiva sua madre piangere mentre cuciva; ma i suoi non erano singhiozzi di tristezza, né di rabbia: piangeva perché si sentiva in colpa, credeva di essere lei il problema, credeva di aver fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa che avesse suscitato l’ira del marito, anche se non capiva cosa. Avevo riflettuto che nessuno avrebbe mai dovuto sentirsi così, che era orribile ed ingiusto che qualcuno si sentisse in colpa per le atrocità che commetteva un’altra persona, per di più nei propri confronti. Solo mesi dopo avevano scoperto che il motivo del comportamento di suo padre era l’abuso di alcol. Tutte le sere, dopo che aveva finito di lavorare, andava a sbronzarsi in un bar e ci rimaneva per ore e ore. Se non aveva soldi per pagare il barista – e accadeva spesso – barattava i pesci che aveva pescato durante il giorno, lasciando Kenji e Vera senza cena. Per anni lui e sua madre avevano vissuto un incubo, avevano vissuto nel terrore, con la paura di quello stesso uomo che prima di diventare un alcolista era stato un padre attento e un marito premuroso. Per anni avevano sopportato quel peso in silenzio e avevano abbassato la testa quando camminavano per le vie del loro villaggio, accompagnati dal perfido vociferare della gente. E per anni avevano cercato di comprendere il perché Alistair avesse intrapreso quella strada buia e fosse diventato l’ombra di se stesso. Forse era perché era infelice, o forse semplicemente gli piaceva tracannare interi barili di rum. “A volte,” mi aveva detto il rosso, “non c’è una ragione. Le cose accadono e basta”. E io non potevo che essere d’accordo, anche se non immaginavo che avesse sofferto così tanto.
Poi, però, le cose erano di nuovo cambiate. Un giorno, durante una tempesta, suo padre era uscito con la sua barchetta in mare e non aveva più fatto ritorno. Era annegato. Kenji mi aveva rivelato che non gli era dispiaciuto più di tanto per la sua morte, anzi, ne era stato quasi sollevato, perché riteneva che se lo meritasse. Era uscito durante una bufera, ubriaco marcio, e molto probabilmente non era nemmeno in sé quando era stato sbalzato via dalla sua barca. Nessuno aveva pianto la sua morte, nemmeno Vera, che una volta lo aveva tanto amato. Il mio amico mi aveva raccontato che una volta era stato sulla sua tomba e che accanto ad essa aveva lasciato una bottiglia vuota di rum, che rappresentava l’unica cosa che avesse contato davvero per suo padre in quegli anni. Quell’immagine mi aveva intristito molto, perché mi aveva fatto realizzare che ad Alistair, alla fine, non era rimasto più nessuno: l’alcol gli aveva portato via tutto.
Ero rimasta per un’ora ad ascoltarlo in silenzio, facendo solo qualche cenno con il capo o qualche espressione afflitta di tanto in tanto, senza sapere bene che dire. Supponevo di non poter fare molto, a quel punto. E poi, non mi aveva dato la parvenza di una persona che aveva bisogno di conforto, sembrava aver superato tutto. Era più forte di quanto pensassi. Forse mi ero sbagliata sul suo conto.
«Quando è morto, io e mia madre siamo diventati liberi. Liberi da lui, dal suo controllo soffocante e dalla sua presenza tossica nelle nostre vite.» Non lo avevo mai visto con uno sguardo così fermo ed impassibile. «L’alcol distrugge le persone. Sia quelle che lo ingeriscono che quelle che stanno loro attorno.»
Abbassai lo sguardo e appoggiai la tazza di caffè – ormai vuota – sul tavolo. Non mi ero resa conto di quanto fosse serio quel problema. Nel mio piccolo avevo sempre pensato che l’alcol le riparasse, le persone, almeno per quelle poche ore di ebbrezza che donava. Invece quel giorno avevo imparato che era capace di distruggere intere famiglie. Quasi mi sentivo in colpa a sventolare davanti a Kenji ogni sera il mio bicchiere di vino come se fosse un trofeo, quando per lui l’alcol aveva significato solo dolore e amarezza. Non potevo sapere che cosa avesse dovuto affrontare. Adesso che lo sapevo, tuttavia, mi ripromisi che le cose sarebbero state diverse. Non avrei smesso di bere, ma lo avrei fatto con molta più discrezione, e non mi sarei arrabbiata con lui se avesse tentato di frenarmi.
«Io l’ho visto, ho visto cosa fa l’alcol, e non voglio diventare come quell’essere spregevole,» sibilò con rabbia. Strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche.
Mi sporsi verso di lui e gli appoggiai una mano sulla spalla.
«Kenji, tu non potresti mai diventare come lui!» esclamai con decisione. Non mi sembrava vero. Non poteva credere sul serio che sarebbe diventato come suo padre. Non lui, che era così buono e sensibile.
Si divincolò dalla mia presa e per un po’ non disse niente, né mi guardò. Poi riprese a raccontare. Mi disse che qualche tempo dopo, purtroppo, anche sua madre venne a mancare, a causa di una malattia. Non aveva avuto tempo di lasciarsi andare al dolore, però, perché a soli sedici anni aveva dovuto rimboccarsi le maniche e aveva iniziato a lavorare nell’ospedale dell’isola come infermiere. Era così che aveva imparato ciò che sapeva sulla medicina; almeno, le cose basilari. Perché poi qualche mese dopo sull’isola Rue era arrivato Law, un Law ancora giovane e scapestrato, un Law che non aveva nulla da perdere, con al seguito appena una decina di uomini, che come un terremoto aveva sconvolto la sua vita per sempre e lo aveva salvato da un’esistenza monotona e solitaria, accogliendolo nella sua ciurma e facendo di lui il medico che era ora. Come me, il rosso era partito dall’idea che sarebbe diventato infermiere, poi le cose si erano inspiegabilmente evolute ed era diventato un medico.
Quando aveva affermato che il Capitano lo aveva salvato da se stesso ero rimasta molto sorpresa. Ma non avrei dovuto, perché in fondo aveva fatto la stessa cosa con me e con tutti gli altri Pirati Heart. Ci aveva presi con sé e ci aveva salvati. E noi gli eravamo estremamente grati per questo, al punto che avremmo dato la vita per lui.
Che storia incredibile. Mai avrei pensato che Kenji potesse avere un vissuto così movimentato. Eppure, la sua storia, per qualche ragione a me sconosciuta, mi dava speranza. Forse perché quando guardavo il rosso non vedevo un uomo consumato dall’odio o dalla rabbia, ma un ragazzo pieno di bontà, sempre sorridente e pronto ad aiutare chiunque ne avesse bisogno. Un ragazzo che aveva saputo lasciarsi alle spalle le difficoltà e riprendere in mano la sua vita. Lo ammiravo molto per questo, il mondo aveva bisogno di più persone come lui.
«E tu, invece? Qual è la tua storia?» mi chiese dopo qualche minuto di silenzio, riportandomi alla realtà .«Non ce l’hai mai raccontata, non per intero, almeno.»
Boccheggiai. Mi aveva colto impreparata. Non sapevo cosa dire, né avevo molta voglia di espormi. Lui si era aperto con me e io lo apprezzavo molto, ma non potevo fare lo stesso con lui. Perché la mia storia non era una storia “normale”, e per quanto mi fidassi non mi sembrava il caso di caricarlo di un tale peso. Però la mia coscienza mi diceva che non potevo lasciarlo a bocca asciutta.
«La mia storia è che...» cominciai titubante, per poi riprendermi una volta che ebbi capito come raccontargli parte della mia vita senza rivelargli dettagli scomodi. «Una volta avevo tutto. Poi l’ho perso. Ma mi è stata data una seconda occasione, per puro caso, e ora eccomi qui, a tentare di recuperare ciò che ho perduto.»
Era vero, una volta avevo tutto ciò che si potesse desiderare: una famiglia amorevole, degli amici con cui passare il mio tempo in leggerezza, buoni voti a scuola e un bravo ragazzo come fidanzato. Poi, però, quel tutto si era sgretolato e il mio mondo, da colorato e variopinto, era diventato grigio e spento in un battito di ciglia. E io non avevo saputo come farlo ritornare come era prima, né come avesse fatto a cambiare così tanto in poco tempo, o perché. Da protagonista del film, ero diventata una mera spettatrice, che se ne stava immobile, seduta su una poltrona della sala di proiezione, e si limitava a veder passare la propria vita su uno schermo gigante.
La Stella, però, mi aveva dato una seconda occasione. Un’occasione per riscattarmi, per liberarmi dal torpore che mi avvolgeva e vivere la vita che avrei dovuto vivere.
«E che cos’è questo tutto che hai perso?» volle sapere, fissandomi con curiosità.
Mi strinsi nelle spalle e sollevai un angolo della bocca per fare un mezzo sorriso amaro.
«La felicità, suppongo.»
Era la prima persona con cui ne facevo parola. Avevo sempre saputo di potermi fidare di lui. Era una di quelle persone che entravano nella vita degli altri in punta di piedi e in silenzio, senza avere pretese di alcun tipo, e che pian piano si facevano strada verso il loro cuore, dove rimanevano scolpiti per sempre. Ero felice di aver avuto l’opportunità di conoscere Kenji per quello che era davvero.
«Finché sarò in questo mondo, farò di tutto perché tu recuperi la tua felicità perduta,» mi assicurò con un largo sorriso sincero, appoggiando di nuovo la sua mano sopra la mia. I suoi occhi verdi e limpidi erano increspati agli angoli e luccicavano. Aveva la stessa espressione di chi avrebbe mantenuto quella promessa ad ogni costo.
«Ehi, voi,» la voce baritonale di Ryu interruppe quel momento “catartico”. «Via dalla mia cucina.»
Mi schiarii la gola, leggermente a disagio.
«Devo preparare la cena,» ci informò poi, perentorio, sciogliendoci dall’imbarazzo.
«Sì... Allora io vado a farmi una doccia,» annunciai, alzandomi dalla sedia ed andando a riporre la tazza arancione nel lavello. Inutile dire che il cuoco mi guardò male.
«Kenji,» lo richiamai quando fummo sull’uscio della porta. «Un giorno ti racconterò i dettagli della mia storia. Promesso.»
Sembrò felicissimo delle mie parole. Fino a quel momento non aveva indagato oltre perché era una persona discreta ed educata, però sapevamo entrambi che glielo dovevo.
Mentre uscii dalla cucina sorrisi un’ultima volta al rosso, consapevole che durante quella pausa caffè era cambiato qualcosa.
 
***
 
«È inutile. Continuerà a tremare, non importa cosa faccia o quanto ci provi!» esclamai cercando di controllare il tono della mia voce, che stava diventando un po’ troppo alto. La pallina, intanto, era rotolata a qualche metro da me.
«Ti sbagli,» mi riprese il rosso, scuotendo lentamente la testa. Ancora nutriva delle speranze sulla mia guarigione.
«No, non mi sbaglio affatto! Lo hai visto anche tu, no? Sono due settimane che ci proviamo, ed è tutto vano.» Sbuffai frustrata. «Arrenditi, Kenji. È una causa persa.»
Appoggiai la schiena allo schienale della sedia e abbassai gli occhi. Tutti i giorni, da due settimane e per due ore al giorno, si ripeteva lo stesso scenario: Kenji mi diceva di pensare a Doflamingo, io obbedivo, il polso iniziava a tremare e la pallina mi sfuggiva di mano. Era una situazione senza via d’uscita.
«Non lo farò, Camilla,» dichiarò, grave. Rialzai lo sguardo. Quella forse era la prima volta che lo sentivo chiamarmi con il mio nome completo. Dovevo averlo esasperato oltre l’inverosimile. «E non permetterò neanche che ti arrenda tu.»
Mi passai le mani su tutta la faccia e scossi la testa. Apprezzavo i suoi sforzi e la sua determinazione, ma – per quanto fosse brutto da pensare – con quelli non saremmo andati da nessuna parte. Fissai la pallina, ormai abbandonata sul tavolo. Avevo sprecato due settimane a stringerla tra le dita, senza ottenere risultati di alcun tipo. Non ci facevo niente con una dannata palla in gommapiuma. A me serviva un metodo che funzionasse. Kenji non aveva colpe, forse il problema ero solo io. Dopotutto, lui era stato impeccabile in quelle due settimane in cui avevamo fatto fisioterapia insieme. Mi aveva sempre spronato a fare del mio meglio, senza mai forzarmi. Sì, il problema ero decisamente io. Era come se la mia mente fosse una pistola. Doflamingo era il proiettile, la chirurgia il grilletto e il mio polso il bersaglio. E tutte le volte che partiva, quel dannatissimo colpo andava a segno. Le tre parti sembravano essere in perfetta sintonia, come se si fossero messe d’accordo in precedenza. Il problema era che nella mia testa al momento funzionava bene solo ciò che non avrebbe dovuto funzionare bene. Anzi, ciò che non avrebbe dovuto funzionare affatto.
Il braccio del mio compagno, con l’immancabile pallina rossa che pendeva dalla mano, sventolò a qualche centimetro di distanza dal mio viso. Feci roteare gli occhi e sbuffai rumorosamente prima di strappargliela dalle dita. Nonostante non avessi la minima voglia di rimettermi a strizzare la palla, sospettavo di non avere comunque altra scelta. Kenji lo aveva messo in chiaro: non si sarebbe arreso, né avrebbe permesso che lo facessi io.
«Perché lo fai?» gli domandai, ricominciando a stringere la pallina con movimenti ritmici.
«Perché voglio il tuo bene,» mi rispose, con un ampio sorriso. «E perché non si può disubbidire ad un ordine del Capitano,» aggiunse poi, rabbrividendo leggermente al pensiero di ciò che Law avrebbe potuto fargli. Non aveva tutti i torti. Ridemmo insieme. Quella specie di battuta – che tanto battuta non era – mi aiutò a sciogliere un po’ di tensione.
«Adesso, per favore, torna a pensare a Doflamingo.» Ritornò serio. Feci una smorfia che tradiva un certo fastidio, ma gli obbedii.
Nel momento in cui davanti ai miei occhi comparve il Demone Celeste, in tutta la sua imponenza, lo sentii arrivare. Percepii l’osso del polso scaldarsi e scricchiolare. Poi sentii la mano iniziare a formicolare. Chiusi le dita per non far scappare la palla. Il braccio tremava pericolosamente. Tremolava meno rispetto ai giorni precedenti, ma il tremore c’era ed era evidente. Avrei voluto pensare che ero più forte dell’ex Re di Dressrosa, che lui non nutriva alcun controllo su di me e che, a furia di immaginarmelo, prima o poi avrei vinto la mia battaglia interiore, ma non era così. E sospettavo che sia Kenji che il Capitano lo sapessero. Forse non volevano arrendersi all’evidenza.
Vidi il rosso osservare con meticolosa attenzione il mio polso, come se ne stesse studiando i movimenti ed i contorni per decidere quale fosse l’approccio migliore. Tenni la mano chiusa, cercando di non far sfuggire la pallina e aspettando pazientemente il suo responso. Ci rifletté per qualche secondo, poi sembrò giungere ad una conclusione, perché il suo volto si illuminò.
«Chiudi gli occhi,» mi ordinò, con un entusiasmo che mi infastidì un po’. «E pensa ad un posto.»
«Un posto?» chiesi perplessa, alzando un sopracciglio.
«Sì, il tuo posto speciale, un posto in cui ci sei solo tu. Un posto dove ti senti bene, dove niente può scalfirti,» specificò, convinto della soluzione che aveva trovato. «Sai, lo faccio anche io. Quando mi sento perso o giù di morale, chiudo gli occhi e immagino di trovarmi in un posto meraviglioso, che mi fa sentire invincibile.»
Sospirai e chiusi gli occhi. Era l’unica opzione che avevo, del resto. Anche con le palpebre abbassate riuscivo a percepire che stava sorridendo. Almeno uno di noi era contento.
«Non devi esserci stata per forza, l’importante è che per te sia un luogo famigliare,» mi spiegò dopo qualche secondo. Evidentemente aveva captato il mio scetticismo.
Avrei voluto dirgli – sarcasticamente – che stavo pensando ad un posto in cui fiumi e laghi erano fatti di vino, e nessuno mi impediva di berne litri e litri, ma dopo quanto mi aveva raccontato avrei fatto meglio a tenere la bocca chiusa. Invece, imposi a me stessa di prendere quella cosa sul serio. Poteva essere la mia unica occasione per sbarazzarmi del problema.
Raschiai i ricordi nella mia testa alla ricerca di un luogo che potesse andare bene per l’“esperimento” del rosso. Non mi venne in mente altro che il Polar Tang. Da più di due anni era diventato la mia casa, e lì vivevo con le persone che avevano finito per diventare la mia nuova famiglia. Supponevo che fosse quello il mio “posto sicuro”, il posto in cui avevo scelto di rimanere per ben due volte. Eppure il polso continuava a tremare, e io cominciavo davvero a perdere tutte le speranze. Non sapevo a quale altro luogo pensare. Dopotutto, la Stella era lì che mi aveva mandato, pensando che potessi essere felice. Aveva avuto ragione? Solo il tempo avrebbe potuto dircelo. Presi un respiro profondo. Probabilmente avevo solo bisogno di pensarci più intensamente. Un momento. Ma certo, la Stella. Ancora una volta, era lei la chiave di tutto. Dietro di lei si celava un luogo che entrambe conoscevamo alla perfezione. Un luogo che desideravo visitare da sempre. Un luogo che, nonostante per molti fosse solo frutto della fantasia di uno scrittore, per me rappresentava la felicità, e la libertà, e la pace interiore. Per anni aveva spruzzato un po’ di colore nella mia vita grigia e mi aveva fatto sognare. Forse era quella la soluzione: l’Isolachenoncè.
Mi immaginai di essere lì. Non c’era più Doflamingo. Non c’era la paura, la disperazione, il tormento, il dolore. Non c’era niente. C’ero solo io, che volavo leggera sopra l’isola, libera da ogni preoccupazione. Sopra di me c’era una distesa di soffici nuvole color pesca. Forse erano fatte di zucchero filato, perché c’era profumo di dolci. Non era il solito odore stucchevole; solleticava appena le mie narici, come se fosse un lontano ricordo. Sotto di me, invece, regnava incontrastata la natura. Gli alberi e le montagne si estendevano per chilometri e chilometri, creando un verde manto che rivestiva l’intera isola. Solo lungo le coste quel verde speranza lasciava posto al bianco candore della sabbia, che si mescolava con il blu cobalto dell’oceano, fiero e scintillante.
Riuscivo a vedere tutto, da lì. Era un panorama meraviglioso. Un quadro perfetto, impreziosito da alcuni arcobaleni che avvolgevano l’isola e le facevano da cornice. Tutto era esattamente dove doveva essere, e perfino la mia anima frammentata sembrava essersi risanata.
Il vento mi scompigliava i capelli e si insinuava fin dentro le mie ossa, che vibravano. No, non vibravano come vibrava il mio polso, non vibravano di paura. Vibravano di vita.
Gli unici suoni che si potevano udire erano le mie risate cristalline. Mi sentivo viva, proprio come mi ero sentita le notti in cui avevo volato sulla schiena di Marco. Ed ero libera, ero libera da tutto. Dai vincoli, dai timori, dalle incertezze. Da tutto. Niente poteva scalfirmi. Ero... invincibile.
Riaprii gli occhi. Kenji aveva l’aria un po’ sorpresa, ma sorrideva soddisfatto. Guardai in basso e trattenni il fiato. La pallina era ancora tra le mie dita, che erano immobili. Il polso aveva smesso di tremare.




Angolo autrice
Salve! Come state? Sono un po' in ritardo, ma eccomi tornata con il quarto capitolo di questa storia, capitolo in cui viene approfondito il personaggio di Kenji e il rapporto che quest'ultimo ha con Cami. Mi è sembrato giusto dargli una "voce" e raccontare la sua storia, dopotutto è lui che deve occuparsi di aiutare Camilla a stare meglio. E poi era da tanto che volevo che avesse un po' più di spazio.😁
In ogni caso, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che la fanfiction vi sia appassionando almeno un po'. Se ne avete voglia, lasciatemi una recensione e fatemi sapere che ne pensate!😊
Grazie e a presto!❤
   
 
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