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Autore: moira78    28/09/2021    4 recensioni
Missing Moments: il ritorno di Albert dall'Africa in tre parti. Tra i vari episodi che non ci sono mai stati raccontati in maniera approfondita dall'autrice c'è il tribolato viaggio di rientro che Albert affronta prima di giungere a Chicago senza memoria. Ho immaginato i vari scenari, basandomi su manga, romanzo e anime e ho provato a descrivere la mia visione della sua storia.
Genere: Avventura, Azione, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: William Albert Andrew
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing Moments'
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Dopo tanto tempo in Africa, dove l'acqua scarseggiava, trovarmi in mezzo al mare è quasi surreale. Devo dire, però, che nonostante la stagione autunnale e le piogge occasionali, il tempo è stato piuttosto clemente e la traversata quasi gradevole: ci sono stati momenti in cui me la sono goduta al pari di una crociera.

Oggi, finalmente, abbiamo avvistato le coste della Sicilia e i problemi legati al mio ritorno, che avevo cercato di accantonare, tornano a invadere i miei pensieri. Sulla nave ho sentito vociferare di presunte tensioni tra l'Austria-Ungheria e l'Italia che, pur non essendo entrata in guerra contro la Serbia, sta valutando di farlo in cambio di territori.

In italiano ho colto anche qualche parola riguardo navi provenienti proprio dalla Serbia, dove disperati di ogni età cercano di fuggire dagli attacchi e sperano di trovare asilo in un Paese neutrale: si tratta di una mossa molto pericolosa, perché l'Italia è comunque legata in qualche modo al Regno austro-ungarico dalla Triplice Alleanza.

Perso nei miei ragionamenti, mi accorgo a malapena che stiamo toccando terra e siamo pronti a sbarcare: il mio mondo ondeggia ancora quando scendo dalla scaletta e mi chiedo di nuovo perché i popoli debbano combattere fra loro. La guerra non porta altro che morte, distruzione e carestie.

Il villaggio adiacente al porto è molto piccolo e per un istante mi sembra quasi di essere di nuovo ad Alessandria. Qui i caseggiati sono bassi e bianchi e per strada vedo solo qualche rara carrozza: chissà se sarò abbastanza fortunato da trovare una vettura qui, a Siracusa.

Mi siedo su una panca di pietra, con il rumore delle onde del mare alle spalle e apro ancora una volta la mia cartina: ho un altro breve tratto di mare da fare prima di arrivare nella penisola vera e propria e ciò significa raggiungere Messina.

Sto cercando di ripercorrere a ritroso il viaggio di andata per avere gli stessi punti di riferimento e spero di essere fortunato. Intanto devo trovare una carrozza o un passaggio per ricominciare a muovermi: è pomeriggio ma preferisco fare un po' di strada prima di fermarmi per la notte.

Inizio a camminare e scorgo un uomo rubicondo e tarchiato che trasporta della frutta su un carro. Gli chiedo di fermarsi e gli spiego in italiano che ho bisogno di raggiungere Messina.

"Io arrivo solo fino ad Augusta", mi risponde in quel dialetto che è quasi complicato come quelli africani. Per fortuna mastico l'italiano meglio della lingua masai, così riesco a chiedergli un passaggio fin dove vorrà.

Al tramonto si ferma in una locanda sulla strada e chiediamo due stanze e un riparo per il carro e i cavalli. Dalla finestra della camera piccola ed essenziale posso vedere il cielo stellato, che è incredibilmente simile a quello africano. Nonostante la fretta di tornare a casa e le vicissitudini negative, il mal d'Africa ha colto anche me.

Qui, in questa piccola cittadina di un'isola italiana, mi trovo a sperare di potervi tornare, un giorno. Magari al fianco di qualcuno con cui condividere la mia stessa passione. I volti di Annabelle e Candy si sovrappongono di nuovo sull'ultimo quarto di luna che occhieggia tra le stelle: la prima, una compagna allegra e preparata con la quale ho condiviso pochi mesi della mia vita; la seconda, una ragazzina che ha sempre inseguito i suoi sogni anche se le avversità hanno cercato di piegarla.

Proprio come me.

"Peccato non avere avuto più tempo per conoscerci. Saremmo potuti diventare una bella coppia. Siamo molto simili".     

Sì, Annabelle, siamo molto simili. Ma forse io e Candy lo siamo ancora di più, anche se ci dividono più anni di età. Anche se lei è innamorata di un altro uomo.

Le labbra s'incurvano in un sorriso amaro: alla fine, se i miei sospetti sui sentimenti di Annabelle fossero reali, potrei quasi dire di trovarmi nel bel mezzo di un triangolo amoroso. Il sorriso si spegne in un lampo, non appena formulo questo concetto.

Dio mi aiuti, ormai non riesco più a pensare a Candy se non in questi termini. Non è più un sospetto o un sentimento in evoluzione.
Adesso, questo amore è chiaro e luminoso come lo spicchio di luna che splende nel cielo novembrino.
 
- §-
 
Il panico e il caos si respirano ormai ovunque: non si parla che della guerra, qui. Gruppi di uomini e donne che gesticolano animatamente e si portano le mani al viso, bambini tenuti in braccio o per mano come se lo spettro delle battaglie potesse strapparli via. Gente che discute all'entrata delle botteghe o bisbiglia con gli occhi sgranati ai banconi dei mercati rionali come quello che ho visitato mezz'ora fa.

Appena sceso dal treno che mi ha portato a Napoli ho anche comprato dei giornali per avere un quadro più chiaro: e per fortuna che i miei istitutori di un tempo hanno insistito tanto a farmi studiare le regole più difficili di questo idioma così simile allo spagnolo! Ora, almeno, posso leggere senza troppi problemi i loro quotidiani, oltre ad ascoltare i discorsi spesso colmi di leciti timori e supposizioni degli italiani che incontro.

La verità è che hanno ragione a essere spaventati.

La guerra si sta man mano allargando anche a oriente, persino il Giappone si è mosso contro la Germania e qui, in pratica, siamo fra due fuochi.

Mentre entro in città, camminando con la sacca su una spalla e i giornali tra le mani, mi scontro con qualcuno che mi cade quasi tra le braccia.

"Mi perdoni, ero distratto!", mi scuso aiutando il malcapitato a raddrizzarsi.

"Certo, se invece di guardare il marciapiedi leggi il giornale!". Il malcapitato è una ragazza mora che mi guarda con cipiglio severo. I capelli sono tenuti indietro da un nastro, rosso acceso come l'abito modesto che indossa. È davvero molto bella ma, soprattutto, molto arrabbiata.

"Ha ragione, è vero. Spero non si sia fatta male", ribatto mentre lei si spolvera le maniche della giacca logora che sembra grigia ma che forse, una volta, è stata marrone.

Mi liquida con un gesto stizzito e dice delle parole in dialetto stretto che non comprendo, ma non mi sembrano affatto gentili. Alla fine, capisco il motivo di tanta furia: a terra giace un incarto da cui fuoriesce un liquido che, a prima vista, sembra quello di uova rotte.

"Ti ripagherò", dico subito. Per fortuna, ho in tasca ancora qualche soldo dell'ultimo lavoro svolto in Sicilia grazie al quale ho potuto acquistare anche il biglietto del treno e un po' di frutta fresca.

Alle mie parole, lei finalmente sembra calmarsi e mi rendo conto che comincia a squadrarmi con attenzione. Forse sta valutando quanto può chiedermi in cambio di quelle uova.

"Non sei di qui", dice come fosse un'ovvietà.

Scuoto il capo: "No, sono americano e sto tentando di tornare a casa".

Lei rovescia la testa indietro e scoppia a ridere come se le avessi detto la battuta più divertente del mondo: "Amico, hai scelto un pessimo momento per tornartene a casa, anche se dalle tue parti è di certo più tranquillo. Comunque il tuo accento non è male, c'ero quasi cascata".

Comincio a essere impaziente. Non voglio perdere più tempo di quanto già non ne abbia perso e ne perderò, visto che devo lavorare di nuovo per continuare il viaggio.

"Allora, quanto vuoi per le uova?", chiedo in tono pratico, tirando fuori il portafogli da una tasca interna della giacca.

"Per cinquanta lire ti concedo tutta la notte con me". Resto gelato, con la mano bloccata nel portafogli e la mascella contratta.

"Non mi interessa, voglio solo ripagarti e riprendere il viaggio", dico seccato, omettendo che con me ho solo pochi dollari e non lire, perché li ho cambiati prima di ripartire. Provo pena per questa ragazza costretta a vendere il suo corpo per non so quali motivi, ma non posso davvero fare altro che cercare di risolvere la questione prima possibile.

Per tutta risposta, lei riprende a guardarmi dall'alto in basso e inizio a innervosirmi: "Oh, no, non me lo dire! *Nu' uaglione bellu comm' o sole comm te...".

Socchiudo gli occhi a mezz'asta: di tutto quello che ha detto carpisco solo la parola 'sole'. La ragazza pare capire che non arrivo così lontano con il mio italiano e ripete la frase senza usare il suo dialetto.

Io bello come il sole? Beh, questo sì che è un complimento...

"Senti, dico davvero. Ho solo qualche dollaro e devo cercare un lavoro. Non ho tempo da perdere", insisto con palese impazienza.
Lei sbuffa e mi dice che ha speso due lire. Stavolta sono io quello perplesso, perché ho avuto modo di acquistarne anche io durante il viaggio di andata e costavano di meno. Decido di non discutere, tiro fuori un dollaro e glielo porgo.

"E con questo che dovrei farci?", mi domanda come se le avessi dato un sasso.

"È l'equivalente di... uhm... più del doppio di ciò che hai speso per le uova, se non vado errato. Non ho altro, mi dispiace, vicino al porto puoi trovare qualcuno che te lo cambi". Faccio per andarmene via ma lei mi richiama indietro, facendomi voltare.

"Ehi, toglimi una curiosità", dice. "Ti piacciono gli uomini o sei innamorato di una donna?".

Spalanco gli occhi, certo di aver capito male: "Come, scusa?".

Lei allarga le braccia in un gesto d'impotenza: "Per rifiutare una proposta del genere avendo persino dei dollari a disposizione o hai altri gusti o sei tanto cotto che non hai occhi per nessun'altra".

Scuoto la testa, ridacchiando divertito. Decisamente non mi era mai capitata una donna così spigliata e capisco anche che nel suo ambiente deve essere normale. Mi dispiace per lei, con questo piglio deciso potrebbe avere successo in mille altri modi nella vita.
"La seconda che hai detto, bella ragazza". Le faccio l'occhiolino e lei si porta le mani al petto in un gesto plateale e appassionato, colpita forse dal complimento, mentre mi allontano di qualche altro passo.

"Peccato!", esclama con tono tragico. "Una volta che il mio lavoro poteva essere interessante!". Adesso ride anche lei.

"Puoi fare molte altre cose se solo lo desideri", aggiungo a mo' di saluto alzando la mano e dandole le spalle.

Non mi volto più e non so che espressione abbia o cosa pensi della mia osservazione. C'è un mondo di storie intorno a me, ma al momento io devo pensare alla mia. E la mia è negli Stati Uniti, a Chicago.
 
- §-
 
Sento il ferro freddo nel palmo della mano mentre salgo sulla scaletta della carrozza che mi hanno riservato in terza classe: se volevo partire oggi non c'era di meglio e la cruda verità è che volevo sbrigarmi ma non sono riuscito a lavorare tanto quanto avrei voluto.

Ho curato dei cavalli e una stalla per una settimana e la maggior parte del guadagno ho dovuto investirlo in abiti più consoni alla stagione: non sono più in Africa e, man mano che mi sposto verso nord, le temperature si faranno più rigide con l'inverno imminente.

Così mi sono accontentato di questo treno malconcio e vagamente spettrale dove, una volta entrato, mi accorgo che arrivano degli spifferi che di certo non saranno salutari. A ogni passo, il pavimento cigola e sembrano cigolare persino le pareti e i sedili quando ci muoviamo. L'odore di chiuso e sudore degli altri passeggeri mi penetrano nelle narici.

Pazienza, sono abituato a ben altro: l'importante è che io mi muova subito da Roma e giunga perlomeno fino a Bologna. Da lì spero di trovare un altro treno che mi porti fino al confine con la Francia e poi... poi sarò nelle mani di Dio, perché lì si sta combattendo.
Mi siedo su una panca dura e scomoda; accanto e di fronte a me si posizionano due uomini e una donna, altri occupano i sedili dello scompartimento finché non è pieno. Pensavo che ci sarebbe stata altra gente costretta a rimanere in piedi, ma per il momento sono occupati solo i posti a sedere. Immagino che ciò sia dovuto al fatto che ci troviamo in mezzo alla settimana e che eventuali pendolari si spostino solo di venerdì o sabato.

Guardo fuori dal finestrino, pensando che sarebbe bello tornare in questa città per visitarla meglio: anche se amo la natura in ogni sua forma, non posso rimanere indifferente alle bellezze millenarie che sono racchiuse nella capitale d'Italia. Nei miei sogni più arditi, vorrei immergermi in questa culla di storia e arte insieme a lei... e poi spostarmi in altre città meravigliose come Firenze, che ho avuto modo di vedere durante il viaggio di andata, o i villaggi di pescatori così caratteristici della Sicilia...

Chiudo gli occhi, mentre il paesaggio sfugge sempre più veloce alla mia vista, proprio come questi sogni così eterei che svaniscono in un battito di ciglia. Sto letteralmente fuggendo dalla guerra per rivedere Candy anche se so che non mi guarderà certo con occhi diversi e, se arriverò a casa sano e salvo, dovrò prendere presto il mio posto al patriarcato degli Ardlay.

Sospiro forte, sistemando la mia sacca in mezzo alle ginocchia in modo che non dia fastidio agli altri: qui è davvero molto stretto e i volti sofferenti di alcuni uomini e di un paio di donne mi raccontano storie tragiche che non mi sono state raccontate, ma che comprendo dal suono della lingua che parlano.
Quelli accanto a me hanno pronunciato solo brevi frasi, però è chiaro che provengono proprio da quell'est da cui ha avuto origine tutto.

Il rumore costante e il dondolio del vagone mi gettano in uno stato di torpore e sento la testa pesante. Il sedile di legno è scomodo e l'uomo che mi siede vicino non fa che gesticolare verso quello di fronte, mentre alla nostra sinistra un altro gruppo di quattro persone sta frugando rumorosamente nel bagaglio parlando in italiano.

Appoggio il capo sul finestrino e, prima di rendermene conto, scivolo in un sonno inquieto e poco profondo.
 
- §-
 
Il rumore forte di una porta scorrevole che si apre e poi si richiude mi fa sussultare in modo così violento che per poco non cado a terra. Il cuore accelera nel petto e mi rimbomba nelle orecchie, mentre mi guardo attorno cercando di capire dove mi trovo.

Finalmente ricordo che sono sul treno che da Roma mi sta portando verso Bologna ma qualcosa non va: nello scompartimento è appena entrato un uomo che in apparenza sembra spaventato a morte. Con la mente ancora annebbiata dal sonno, lo osservo mentre volge gli occhi sgranati prima nella direzione dei nostri quattro sedili e poi nell'altra, dove si rivolge al gruppo che poco fa cercava qualcosa nelle valigie.

Lo sguardo che ho visto quando ci ha fissati mi ha gelato, era come se si sentisse in trappola e si aspettasse da me o da questa povera gente qualcosa di terribile.

Si china accosciandosi il più vicino possibile agli altri passeggeri e comincia a bisbigliare. Parla in italiano e capisco che è convinto che nessuno di noi quattro possa comprenderlo, anche se cerca di non farsi sentire.

Fingo noncuranza ma vedo che i miei vicini, invece, lo guardano con aria interrogativa, scambiandosi qualche parola. Cerco di cogliere il senso del suo discorso e odo in maniera netta le parole "Serbia" e "spia". Subito dopo, cala un silenzio surreale e mi trovo a trattenere il respiro.

Quest'uomo è convinto che ci sia una spia serba su questo treno? Oppure glielo hanno riferito con certezza? E quale dovrebbe essere il fine di questa spia? Comincio a immaginare vari scenari, in questa assurdità che è la guerra: possibile che qualcuno voglia penetrare fin nei territori austriaci per studiare le mosse dell'esercito o addirittura organizzare un attentato? Oppure suppone che questo Paese, ancora neutrale, possa essere un pericolo? Se non sbaglio nel nord Europa hanno proprio attaccato un Paese neutrale, ma non ricordo se fosse il Belgio o l'Olanda...

La verità è che le notizie che ho letto non sono sempre aggiornate e io mi sono informato in maniera frammentaria concentrandomi perlopiù sul mio viaggio, quindi ogni mia congettura può essere parimenti giusta o errata.

Qualunque cosa stia accadendo, la tensione si taglia con un coltello e il treno mi sembra all'improvviso lentissimo mentre, con gesti altrettanto lenti, l'uomo che ha fatto irruzione qui si raddrizza dandoci le spalle.

"Non possiamo sapere chi sia, ma tenete gli occhi aperti". Di nuovo, parla in un sussurro e non si preoccupa che uno di noi possa capirlo. Credo supponga solo dai nostri lineamenti e dal colore chiaro dei capelli che proveniamo tutti dallo stesso luogo.
E che chiunque di noi possa potenzialmente essere questa fantomatica spia.

Sono tentato di fare una domanda e apro persino la bocca prendendo fiato. Ma all'ultimo istante decido di tacere. Non so perché, però ho la sensazione che parlare possa essere anche peggio: potrebbe insospettirsi se uno straniero che parla la sua lingua chiede informazioni e rischierei di mettere nei guai sia me stesso che queste persone, forse le crede legate a me in qualche modo. Inoltre, preferisco che pensi ancora che io non lo capisca, così posso ascoltare indisturbato sia lui che gli altri.

L'uomo esce dallo scompartimento senza più guardare verso di noi e i miei vicini iniziano a parlottare nel loro peculiare idioma che riconosco appartenere all'est dell'Europa ma che non conosco, a differenza dell'italiano.

Vorrei sgranchirmi le gambe ma non voglio disturbare nessuno, così per ora resto seduto cercando di allungarle solo un po' di più, fissando le campagne che corrono veloci ma non tanto quanto vorrei. Continuo ad avvertire questa sensazione sgradevole alla bocca dello stomaco che mi impedisce di sentire persino i morsi della fame, nonostante l'ora di pranzo sia ormai passata.
Una sorta di presagio pesante, che cerco di razionalizzare con la palese situazione di allarme che stiamo vivendo e con l'aggiunta, davvero inquietante, della presunta spia che viaggia su questo treno.

La mia indole pragmatica mi tiene a galla, ma faccio sempre più fatica a rimanere tranquillo e ottimista. I miei pensieri oscillano di continuo tra il pericolo reale e qualcosa di inafferrabile cui non so dare un nome.

Magari si tratta di una condizione normale che sto esacerbando a causa degli eventi e della mia costante preoccupazione di dover attraversare delle zone di guerra.

Sì, è così. Dev'essere certamente così.
 
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Il boato è come l'ansito pesante e rovente di un felino feroce che si avvicina a me alla velocità della luce: sento la pelle d'oca e ogni pelo del mio corpo rizzarsi. Il calore mi solletica il collo per un breve istante.

Non ho neanche il tempo di voltarmi.

Mentre sto per farlo e alzarmi in piedi, i muscoli già tesi e l'adrenalina che scorre a fiotti prima ancora che il pericolo si palesi, una mano gigante mi spinge con una forza sovrumana.

Persino i rumori, che sono infernali quasi quanto quello dell'esplosione, nella mia testa sembrano azzerati. Eppure sento distintamente il legno che si spezza. Eppure mi feriscono le orecchie le urla di terrore e di dolore. Eppure è immenso il ruggito ardente del fuoco che soffia il suo alito mortale contro di noi come fosse un drago assassino.

Il tutto in un battito di ciglia.

Ora so cosa si prova a volare. Il mio corpo viene scagliato attraverso lo squarcio della parete e riesco persino e pensare che, perlomeno, non impatterò contro la struttura dello scompartimento.

Una seconda esplosione prolunga il mio volo e, misericordiosa o impietosa, oscura di colpo tutti i miei sensi in una tenebra di dolore.
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Respirare. Voglio solo respirare. Non so altro.

Ma qualcosa mi entra in gola e nelle narici

...terra?

provocandomi degli accessi di tosse non appena ci provo e il petto non si solleva come dovrebbe, forse perché ho la netta sensazione di essere prono. Emetto un gemito frustrato e cerco di muovere la testa ma il dolore è accecante e, nonostante sia tutto buio perché non riesco ad aprire gli occhi, lampi di luce intensa si accendono come micce dietro le palpebre.

Fa male. Tutto fa male, sono immerso in una specie di tenebra dove ogni singolo osso e muscolo del corpo sembra essere stato abilmente pestato da un oggetto contundente.

La coscienza sta svanendo di nuovo mentre perdo la lotta con l'ossigeno che non vuole saperne di arrivare ai miei polmoni. Non c'è aria. Non c'è sollievo.

Luce.

Forte, intensa, mi ferisce gli occhi.

"Bisogna reidratarlo, veloci con quella flebo!". La voce è quella baritonale di un uomo, ma la sento come ovattata, lontana. Mi rendo conto che mi fischiano le orecchie e che ogni suono intorno a me sembra attutito.

Rumori metallici, voci, passi. Qualcuno che grida. Qualcun altro che tossisce.

"Ehi, mi senti? Puoi sentire la mia voce?", alza il tono e io annuisco di riflesso facendo sì che il dolore ottenebri i miei sensi ancora e ancora. "Bene, questo è già qualcosa, significa che con l'esplosione non hai riportato gravi danni all'udito".

Esplosione? Quale esplosione?

Riapro gli occhi con lentezza, socchiudendoli per abituarmi man mano alla luce che non è poi così forte. Mentre cerco di capire dove sono, l'uomo, che scopro avere un camice da medico sporco e uno stetoscopio agganciato storto intorno al collo, mi chiede quante dita vedo, alzando il pollice, l'indice e il medio della mano sinistra.

Cerco di schiarirmi la gola che sento arida e secca e rispondo con voce gracchiante: "Tre. I suoni... sono offuscati".

Lui aggrotta le sopracciglia, perplesso. Probabilmente pensa che io abbia appena confuso il senso della vista con quello dell'udito. La realtà è che sono in grado di esprimere solo concetti semplici, perché riesco a malapena a parlare e la testa è l'unica cosa che mi sembra in procinto di esplodere.

Come diavolo ci sono finito qui?

"Come ti chiami?", mi domanda e succede una cosa strana. Nonostante sia la stessa persona di meno di un minuto fa, il tono della sua voce mi sembra diverso. No, non ha a che fare con la voce, sono piuttosto le sue parole ad avere qualcosa di... sbagliato. Eppure sono giuste. "Sei italiano o inglese?".

Il mio cervello, di certo danneggiato, coglie solo ora il senso della prima domanda. Subito dopo, anche quello della seconda.

E il panico s'impossessa di me.

Comincio ad ansimare, come se fossi a corto d'aria. Il dolore alla testa diventa intollerabile e lo stomaco si ribella con furia. Sento il corpo incendiarsi e sussultare, scosso da conati o da convulsioni, non lo capisco.

Mi sembra di impazzire.

Mi sembra di morire.

E la morte, mentre i miei sensi vengono di nuovo meno, mi pare quasi una liberazione.

Sono sott'acqua, non c'è aria respirabile. Qualcosa mi ferisce la gola e va giù, soffocandomi. L'istinto di sopravvivenza mi farebbe contorcere per lottare ma sono come una statua di cera. Non un arto risponde ai miei comandi ed è come se galleggiassi fuori dal mio stesso corpo, ammesso che ne abbia ancora uno.

D'improvviso, avverto la sensazione netta di cadere e ho un brivido. La sensazione svanisce quasi subito e adesso sto correndo a una velocità pazzesca dentro a una fitta nebbia: intorno a me non c'è paesaggio e voglio solo arrivare alla fine di questa specie di tunnel per rivedere la luce.

Qualcosa di simile a un raggio di sole squarcia per un breve istante lo spazio alla mia destra e riconosco una fila di alberi. Cerco di spostarmi in quella direzione ma il mio corpo non risponde e continua questa folle corsa verso il nulla.

Sento delle voci ma non ne riconosco nessuna. Quella di un uomo, ferma ma affettuosa. Quella di una donna, altera e stizzita. E quella di una ragazza, che ha un suono così melodioso che mi commuove. Cerco di fermarmi su quella voce, di sentirne di nuovo il suono, di ordinare alla nebbia di svanire per capire a chi appartenga e soprattutto cosa stia dicendo, ma nessuno dei miei sforzi va a buon fine.

Parole pronunciate di fretta, con ansia. Mormorate con somma tristezza. Gridate con rabbia. Tutto si mescola in una cacofonia che mi fa sentire a disagio.

Finalmente mi sembra di rallentare e il mondo lattiginoso intorno a me diventa un'oscurità sconcertante che mi inquieta ancora di più. Vorrei gridare, vorrei sapere se c'è qualcuno ma non vedo le mie mani, né i miei piedi sul terreno: a dirla tutta, non lo sento neanche il terreno, è come se stessi ancora galleggiando nel nulla siderale. Senza neanche una stella a illuminare la via.
Devo muovermi di nuovo, devo andare via di qui. Devo raggiungere... cosa? Chi? Quali luoghi?

Se avessi degli occhi si sarebbero appena spalancati perché un lampo luminoso attraversa la mia testa come una meteora. So dove voglio andare! Voglio dirlo a qualcuno, prima di dimenticarmelo, ma devo aprire bocca e non so come fare.

Comando alla mia mente di muovere le labbra ma rimango muto. Ho bisogno di dire quel nome, però non trovo la via per emettere suoni. Mi viene da piangere, mi sento vulnerabile e privo di forze.

In un ultimo, spasmodico sussulto odo alfine un suono, anche se non posso dire di averlo fatto io: "Chicago... America... Chi..ca... go".

E il buio mi inghiotte di nuovo.
 
- §-
 
"Il medico che l'ha visitato, quando ha ripreso conoscenza la prima volta, ha detto che comprendeva l'italiano, ma quando ha parlato lo ha fatto in inglese. La vista era intatta, però lamentava problemi di udito". La voce è quella di una donna, adesso.

"Non mi sorprende, vista l'entità dell'esplosione che l'ha colpito. Con tutta probabilità era abbastanza distante dallo scompartimento dove c'era la bomba da non ricevere danni permanenti, ma piuttosto vicino da riportare le ferite che ha per via dello spostamento d'aria". Questo è un uomo, invece. Un altro medico?

Un'esplosione in uno scompartimento? Ero su un treno? C'era... una bomba?

Le palpebre sono pesanti e oscillo tra l'incoscienza e il dolore. Mi rendo conto che qualcosa mi stringe intorno alle tempie, forse mi hanno avvolto delle bende. Provo ad aprire gli occhi ma è molto difficile. Appena ci riesco, mi accorgo che ci sento meglio, odo di nuovo voci basse e serie, e lamenti provenienti da altre persone.

Giro lo sguardo, tentando di muovere il capo il meno possibile e vedo tanti letti in fila, immersi in una luce giallastra. No, non è la luce a essere di quel colore, ma le pareti che riflettono l'illuminazione. In realtà ho la netta sensazione che siamo in una tenda e non in un ospedale.

Un dottore in camice bianco deve vedermi sveglio e si avvicina a grandi passi. Senza esitazioni, usa due dita per sollevarmi le palpebre e ci punta dentro una luce che mi fa venire voglia di strizzarli immediatamente. Mi lamento per il fastidio e lui dice: "Il riflesso pupillare è nella norma. Infermiera, mi porti il martelletto, per favore".

Ricordo le parole che ho udito prima di aprire gli occhi e comprendo all'improvviso che quest'uomo sta parlando in italiano. E io lo capisco. Cerco di deglutire, tentando di focalizzare la mente per afferrare ricordi e sensazioni ma sento qualcosa di freddo colpirmi il ginocchio dopo che qualcuno ha scostato le coperte.

"Anche i riflessi muscolari sono buoni", commenta di nuovo la voce femminile. L'infermiera è piccolina e ha i capelli scuri, la cuffietta è sporca di quello che sembra sangue e anche il camice non è in condizioni migliori.

"Ragazzo, sai dirmi come ti chiami e da dove vieni?". Il viso rugoso e accigliato del medico è d'improvviso davanti al mio e mi scruta con attenzione. I capelli grigi sono tagliati corti ma i baffi poco curati: sembra sfinito.

Mi ostino a concentrarmi su particolari senza rilevanza come se servisse a non rispondere alla sua domanda. Come se non pensarci allontanasse la nebbia che mi affligge ogni volta che la mia coscienza torna. Come se, così facendo, potessi evitare di affrontare questa realtà che somiglia più a un incubo.

Ma capisco che non posso continuare così, soprattutto se voglio che qualcuno mi aiuti. Quindi, cercando di schiarirmi la gola che mi sembra sempre arida, prendo un respiro tremante e mi accingo a rispondere mentre sento gli occhi bruciarmi di lacrime improvvise: "Io... io non lo so... non mi ricordo niente... niente!". La voce, a me sconosciuta, si spezza e le sento uscire, quelle lacrime. Bollenti, impietose, mi solcano le guance e cadono lungo il viso che non ho idea di che aspetto abbia.

Piango, prendendo lunghi respiri nel tentativo di calmarmi e fallendo miseramente. Ora che ho portato a livello cosciente questo semplice concetto mi sembra definitivo: non è come l'udito, che si è attenuato e poi tornato.

La mia memoria è del tutto cancellata, spazzata via, esplosa come quel treno di cui hanno parlato.

"Si calmi, ora. Preferisce che le parli in inglese?", mi domanda l'uomo. Non so neanche in che lingua gli ho risposto.

"Non lo so, non so che lingua parlo di solito... però la capisco in ogni caso", ribatto ritrovando un minimo di controllo.

Le sue mani vanno ai lati della mia testa, toccandola con gentilezza come se cercassero delle ferite: "Posso dirle che a parer mio il suo accento è più inglese o americano che italiano. Potrebbe essere anglosassone...".

Inglese? Sono inglese? E quanti anni ho? Chi diavolo sono?!

"Mi perdoni, dottore". L'infermiera lo interrompe e si allontana da me. Vuole forse dirgli qualcosa in privato o ci sono altri malati da seguire? Non lo so.

So solo che la mia coscienza torna pian piano a svanire. Ho sonno, tanto sonno. È come se nella mia vita, qualunque essa fosse, non avessi mai dormito.

Forse, dopotutto, è davvero il preludio alla morte.
 
- §-
 
Quando riapro gli occhi, l'oscurità è appena illuminata da una flebile luce a olio, appoggiata alla mia sinistra. Sono supino, come la prima volta in cui mi sono risvegliato e una coperta pesante mi arriva fino al mento. Non so neanche se ho ancora un corpo funzionante, intorpidito com'è, ma ricordo vagamente un medico che mi aveva controllato i riflessi... quando? Un'ora fa? Una settimana? Un anno?

Non ne ho idea. Il tempo è diventato tanto relativo che mi sembra di dormire da sempre e non riesco neanche a immaginarmi in piedi o in grado di camminare.

Sento un fruscio, come se qualcuno fosse appena entrato e si muovesse piano per non svegliarmi, però non ho voglia di muovermi: la testa mi duole ancora. E tanto.

E nulla del mio passato si riaffaccia alla mente.

Le uniche cose che rimembro sono conversazioni brevi e confuse con medici e infermieri, le uniche che mi abbiano dato dei punti fermi: sono stato vittima di un'esplosione su un treno e posso comprendere almeno due lingue, anche se secondo l'ultimo medico che mi ha visto il mio accento è inglese.

Dovrei fare delle prove, per capire come mi trovo meglio a esprimermi e magari questo mi aiuterebbe a ricordare. Ma sono così stanco che a malapena riesco a pensare e disperarmi per la mia amnesia.

"Come ti senti?". La figura esce dall'ombra ed entra nel mio campo visivo, dove l'illuminazione mi consente di vederla: ha una divisa da infermiera e delle ciocche bionde le sfuggono dalla cuffia, ma almeno non ci sono tracce di sangue.

"Ho... sete", riesco ad articolare a fatica. Mi sembra di aver usato tutto l'ossigeno e le forze di cui dispongo solo per aver detto questa frase.

"È normale che tu senta l'arsura, **c'est vraiment normal, tu es nourri et hydraté uniquemente avec des perfusions", mormora mentre prende una brocca piena d'acqua e riempie un bicchiere sullo stesso comodino dove c'è la lampada.

D'istinto, mi lecco le labbra e tento di mettermi seduto ma continuo ad avere una specie di macigno dal collo in giù, anche se non sono paralizzato. Lei capisce la mia difficoltà e, con una forza che non le avrei mai attribuito, mi solleva passandomi un braccio dietro le spalle e appoggiandomi quasi di peso sulla spalliera del letto. Mi aiuta a bere dal bicchiere perché mi tremano le mani, ma si raccomanda di sorbirne solo un po' alla volta.

Eseguo con lentezza, avvertendo finalmente la secchezza della bocca e della gola svanire come d'incanto. Mi lascio ricadere, col suo aiuto, sdraiato sul letto ed emetto un sospiro stanco: vorrei chiederle dove sono e quando recupererò la memoria, ma le tenebre stanno per risucchiarmi.

"Capisci anche il francese, ***n'est-ce pas?", domanda d'improvviso riportandomi alla realtà.

Riapro gli occhi che già si stavano richiudendo: "Eh?", domando stralunato.

"****Je te parle en français pour la troisième fois ma tu mi comprendi, vero?".

Annuisco piano e il mal di testa torna più feroce di prima: "Cosa dovrebbe significare questo?", chiedo senza preoccuparmi troppo del tono che uso. Voglio solo dormire di nuovo.

"Beh, che conosci almeno tre lingue. So che hai perso la memoria ma che l'inglese è la tua lingua madre, mi è stato riferito dai colleghi". Si muove per prendere una sedia e si accomoda vicino a me, di fianco al mio letto.

"Dove mi trovo? Cosa... come...". Non riesco a parlare molto, la stanchezza invade ogni fibra del mio essere ma ho bisogno di sapere qualcosa in più, ho bisogno di ritrovare me stesso oppure voglio solo che l'oblio mi inghiotta finché non sarà tutto più chiaro.

"Ti hanno soccorso a seguito dell'esplosione di un treno che viaggiava verso Bologna, all'altezza di Firenze più o meno. Adesso ti trovi a Genova", comincia a raccontare. Avevo immaginato di trovarmi in Italia, visto che tutti mi parlano in questa lingua, ma almeno ora so di preciso dove. "Hai spesso ripetuto la parola 'Chicago', durante il tuo delirio, così ti hanno portato sin qui per consentirti di varcare il confine qualora tu desiderassi viaggiare fino in America".

Si interrompe per un istante, come a darmi il tempo di assorbire tutte quelle informazioni. Sto lottando per rimanere sveglio: avrei tante domande da fare! Forse devo anche chiederle meglio quali siano le mie condizioni, però, con mia stessa sorpresa, questo al momento è l'ultimo dei miei problemi.

"Hai riportato molte ferite, specie alla testa, e forse ti si è incrinata anche qualche costola, tanto che per una settimana sei stato attaccato a un respiratore: è un vero miracolo che nel campo profughi dove sei stato portato ne avessero uno", continua come se mi avesse letto nel pensiero.

Quelle parole però mi fanno spalancare gli occhi come tapparelle: campo profughi?

"Perché non mi hanno portato in un ospedale?", chiedo senza capire.

L'infermiera abbassa lo sguardo, sembra a disagio e io sto facendo del mio meglio per mantenermi lucido. Quando ormai mi sono quasi arreso al sonno pesante che mi reclama, lei parla: "Perché sul treno in cui viaggiavi c'era una spia serba, o almeno così ci hanno riferito. E accanto a te c'erano altri feriti che provenivano da quel Paese".

Il respiro diventa affannoso e comincio ad annaspare pesantemente. Una spia? Sospettano che io sia una spia? Per questo non mi hanno curato in un vero ospedale?

"Calmati ora, non agitarti, sei ancora molto debole e hai bisogno di cure". Cerca di rimboccarmi la coperta che è caduta un po' di lato ma io faccio un gesto con una mano come ad allontanarla. Non voglio la sua pietà, ho bisogno di sapere, non di essere accudito.

"Documenti... non avevo dei documenti? E il mio accento inglese... perché pensano che io venga dalla Serbia? Ero privo di conoscenza, ma... e come mai una spia dovrebbe... dovrebbe...". Un accesso di tosse mi impedisce di continuare e mi offusca la vista. Tutto diventa nero.

Di nuovo.

Quando rialzo le palpebre lei è ancora lì, ma non c'è più la lampada ed è giorno: la testa è di nuovo una massa pulsante di dolore.
"Oh, bentornato fra noi!", esordisce strizzando una pezzuola in una bacinella e ponendomela sulla fronte. La sensazione di fresco mi da un minimo di sollievo. "Hai la febbre alta, non cercare di sforzarti a parlare. So cosa vuoi sapere, mi ricordo le tue domande, anche se sono passati tre giorni".

Tre giorni? Ho dormito per altri tre giorni? Quante settimane di vita sto perdendo? Ma poi, la vita di chi?

Fa un sospiro profondo e giunge le mani al petto, come preparandosi a un discorso importante: alla luce naturale, mi accorgo che è piuttosto pallida e alcune efelidi le punteggiano le gote. Sembra davvero molto giovane. "La prima cosa che devi sapere è che l'Europa è in guerra e che molti altri Stati esteri cominciano a essere coinvolti".

Il brivido che mi scuote non ha niente a che fare con la febbre. Mi sento gelato e in fiamme allo stesso tempo.

In guerra, Dio onnipotente, in guerra!

"Qui al momento siamo ancora neutrali, ma ti avviso che dovrai passare per la Francia che invece è impegnata nel conflitto, se vuoi imbarcarti per l'America. Non sarà affatto facile. In Italia stanno arrivando profughi da ogni dove, soprattutto dai paesi serbi perché la guerra è scoppiata proprio lì. Per questo abbiamo attrezzato alcuni campi, ma non tutti vedono questa cosa di buon occhio: l'Austria ha attaccato la Serbia ed è legata all'Italia da un'alleanza, quindi chiunque provenga da lì, anche se parla in modo fluente l'inglese o l'americano, è sospetto. Sul tuo treno viaggiava una spia, forse diretta proprio in Austria, per cui tutti lo erano".

Fa una pausa e io comincio a tremare. L'infermiera se ne accorge e prende un'altra coperta da un armadio di fronte a noi: è logora e non sento la differenza quando me la stende sull'altra.

"Purtroppo non avevi documenti o bagaglio con te, o almeno non te ne hanno trovato accanto. O l'esplosione lo ha distrutto o... beh, te lo hanno rubato".

Cerco di inghiottire qualcosa di pesante e di parlare: "Quanto...?". La voce mi esce soffocata, strozzata.

"È successo circa tre settimane fa", risponde prendendomi il polso come per controllare i battiti del mio cuore impazzito.

Non voglio cedere, non posso perdere i sensi di nuovo, non prima di aver fatto una cosa: "Uno specchio", gracchio con urgenza, "voglio vedermi allo specchio!".

Voglio vedere il mio viso, capire di che colore ho gli occhi e i capelli, anche se ho scorto delle ciocche bionde abbastanza lunghe sul cuscino. Lei annuisce e apre un cassetto. Forse capendo che non riuscirei ad afferrarlo, me lo mette davanti al viso e io trattengo il respiro.

Sono effettivamente biondo, con delle bende che mi avvolgono strette il capo. Lo specchio mi restituisce un volto scavato e due occhi cerchiati del colore dell'acqua di ruscello. Naso dritto, mascella decisa ma non troppo squadrata. Un viso anonimo, almeno per me. Un viso stanco. Una fronte su cui una ruga profonda si comincia ad approfondire, mentre le iridi diventano lucide.

Chiudo gli occhi, nel tentativo di contenere le lacrime.

Vedere il mio volto non è servito a nulla. Non riconosco quell'uomo di età indefinita che mi guarda da quello specchio, colgo solo la sofferenza di qualcuno che è lontano da casa e magari vive tanto distante da non potervi tornare. Perché c'è persino una guerra in corso.

Giro la testa da un lato e la pezzuola cade.
Di nuovo, penso che se dovessi morire ora sarebbe una vera liberazione.
 
- §-
 
"Dobbiamo farlo arrivare a Le Havre! Da lì parte una nave per New York".

"È rischioso, e lo sa!".

"È molto più rischioso farlo arrivare fino in Inghilterra, il suo viaggio durerebbe solo più a lungo e quest'uomo ha bisogno di cure. In America possono certo fare di più, visto che è casa sua e non c'è la guerra".

"Non ancora...".

America, Chicago... queste parole vorticano nella mia testa e non so se le sto pronunciando di nuovo o se è solo una mia sensazione. Di certo, le voci sono diverse da quelle che ho udito in altre occasioni. Mi stanno trasportando da un luogo all'altro come se fossi una specie di pacco postale e io me ne accorgo a malapena: mi sento grato e frustrato al contempo, perché se potessi stare in piedi e muovermi liberamente sarei molto più veloce e non causerei tanti problemi.

"Me ne occuperò io". Quest'uomo sembra anziano e socchiudo gli occhi per vederlo. Ha i capelli bianchi, la barba che sembra incolta da giorni e sta discutendo con altre due persone, forse quelle che parlavano di portarmi al porto di Le Havre poco fa. Un'infermiera e un medico, due costanti da quando mi sono risvegliato senza identità.

E non ho mai ringraziato nessuno di loro per prendersi cura di me.

Nonostante il desiderio di morire e abbandonare questo corpo pesante e questa mente difettosa siano ancora presenti, comincio a pensare che devo ringraziare Dio per avermi fatto incontrare solo persone gentili.

Chissà se mi trovo nell'ennesimo campo profughi, trattato come una spia o come un delinquente. E chissà che io non lo sia davvero, e il fatto di aver perso la memoria diventi una benedizione.

"Ehi, è sveglio! Come ti senti, giovanotto?". L'uomo, vestito come un soldato, mi si avvicina e dai gradi che ha sulla divisa sembra essere un ufficiale o un colonnello. E non è anziano come credevo.

Maledico per l'ennesima volta la mia incapacità di parlare come vorrei, complici il martellamento continuo al capo e la debolezza infinita. L'ultima infermiera mi ha detto che sono in questo stato da tre settimane: quante ne sono passate ora? Da quanto tempo non faccio un pasto e sono attaccato a una flebo?

"Voglio... tornare a casa", biascico rendendomi conto di quanto la mia voce si sia affievolita in modo drammatico. Non sono neanche certo che quella che nomino così spesso sia davvero casa mia, oltretutto. "Per favore".  Quella preghiera suona quasi come una supplica e mi strappa via l'ultimo brandello di dignità cui ero rimasto aggrappato. Sto supplicando un soldato di riportarmi in America in piena guerra.

D'altronde a che mi serve la dignità, quando non ho la più pallida idea di chi io sia in realtà?

"Non preoccuparti, figliolo, cercheremo di farti arrivare al porto con un treno che parte domani mattina". La parola 'treno' mi riempie di orrore e lui deve leggere qualcosa nei miei occhi, perché posa una mano confortante sul mio braccio. "Stai tranquillo, è riservato solo agli alleati e io garantirò per te".

La sua veemenza mi commuove nel profondo e posso solo chiedere, mormorando così piano che non so se mi oda: "Perché?".

Le sue labbra tremano impercettibilmente e sento che la barella viene adagiata su un letto. So che ora dovranno spostarmi afferrandomi per le gambe e sotto le ascelle, come un bambino troppo cresciuto: è qualcosa che inizio a odiare. Ma intanto mi concentro sull'uomo gentile che ho davanti, lasciando che i sanitari facciano quello che è necessario.

"Perché sono certo che tu non provenga dall'est e che sia davvero americano. E perché mi ricordi mio figlio, che aveva solo vent'anni ed è morto nella battaglia della Marna pochi mesi fa". I suoi occhi diventano lucidi ma mantiene una compostezza e dignità che mi danno forza. Ha visto l'Inferno e ha perso un figlio e ora sta aiutando me: Dio sta davvero operando tramite lui, adesso.

"Grazie", bisbiglio con voce rotta per lo sfinimento, per il dolore, per il pianto.

Stavolta, chiudo gli occhi su una nuova speranza.

Chicago... America...
 
- §-
 
Nel mio incubo c'è del fuoco.

Non più la nebbia o l'oscurità, né voci sconosciute che tento di identificare. Solo una sensazione di calore bruciante che mi fa scottare la pelle come se fosse stata strofinata con una sostanza urticante.

Ma la cosa peggiore è il dolore al capo: ricordo vagamente che mi hanno parlato di ferite, persino di trauma cranico che mi ha causato la perdita di memoria. In realtà è come se la mia testa fosse una ferita unica che pulsa al ritmo impazzito del mio cuore.
Vedo le fiamme e non capisco se sia un sogno lucido o se mi trovo ancora nel sito dell'esplosione e tutto quello che ho vissuto fino ad ora non è mai stato reale. Ho perso il contatto con il mondo esterno, mi sento appeso in un limbo nel quale la sofferenza fisica prevale su quella mentale.

Ancora una volta perdo il senso del tempo e dello spazio finché non avviene qualcosa di misericordioso. Forse è perché, senza quasi accorgermene, ho cominciato a pregare: il fuoco si allontana, anche se lo vedo scintillare ancora.

Una meravigliosa sensazione di freschezza si posa sulla mia fronte e, non so se nel sogno o nella realtà, vedo che si tratta di una mano. Una mano gentile, femminile, carezzevole.

"Andrà tutto bene...". La sua voce sembra venire da lontano ed essere pervasa da un'eco così forte che l'unica cosa che vorrei udire, ovvero il nome che pronuncia subito dopo, non è che un suono indistinto.

Il mio nome.

Cerco di aprire gli occhi per vederla ma il suo volto è opaco: la pelle sembra chiara e gli occhi del colore del mare. Però pare che si trovi dietro un vetro appannato, anche se la freschezza della sua mano è deliziosa. Si tratta dell'unica cosa tangibile che sento.

Frustrato, cerco di chiamarla, ma quando ci provo sono sempre le stesse parole che escono dalle mie labbra: "Chicago... America... Chicago...".
 
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* "Un ragazzo bello come il sole come te!". Chiedo perdono agli amici napoletani, se ho scritto corbellerie fatemelo sapere!
** "è veramente normale. Sei nutrito e idratato solo da flebo".
*** "non è così?".
**** "Ti sto parlando in francese per la terza volta". Anche qui, perdonate il francese un po' arrugginito dagli anni.
   
 
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