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Autore: ValePeach_    24/10/2021    1 recensioni
Inghilterra, 1826
Quando la sorella maggiore ed il marito decidono di partire per una stravagante quanto inaspettata luna di miele in Italia e di mandare la giovane Camille al nord per tenere compagnia ad un suocero che odia qualsiasi tipo di contatto con la società ed una zia bisbetica molto più affezionata ai suoi amati gatti che alle persone, con grande sconforto inizierà a pensare che la sua vita sia finita.
Stare lontana da Londra e dal ton è quanto di peggio le potesse capitare e tutto ciò che spera è di tornare presto alla normalità. Ancora non sa, però, che anche la tranquilla e monotona vita di campagna può riservare svolte inaspettate… e fra l’arrivo dell’insopportabile quanto affascinante John Mortain e l’accadimento di un omicidio che la vedrà inaspettatamente coinvolta, inizierà a pensare che, forse, una vita anonima non era poi tanto male.
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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CAPITOLO 1



 
 
Inghilterra, Cumbria – Un anno dopo


 
 
«Oh, ma quale luce irrompe da quella finestra lassù? Essa è l’oriente, e Giulietta il sole. Sorgi, bel sole, e uccidi l’invidiosa luna già malata e livida di rabbia, perché tu, sua ancella…»
«Cielo, quante stupidaggini» intervenne zia Shaw, interrompendo per l’ennesima volta la lettura. L’orologio a pendolo del salotto aveva appena suonato le tre del pomeriggio, il che voleva dire che aveva ancora un’ora prima di poter rientrare a Lodgewood. Di quel passo, avrebbe gettato il libro nel caminetto.
«Si tratta di una dichiarazione d’amore zia Shaw… deve essere romantico.»
«Romantico!» esclamò indignata. «È per queste diavolerie romantiche che la signorina Prescott è fuggita con quella canaglia di ufficiale. Questi libri dovrebbero essere banditi, altro che romantico! Mettono in testa a voi giovinette strane idee e vi portano a compiere azioni scellerate che mandano in disgrazia tutta la famiglia.»
Camille sospirò.
Immaginava che prima o dopo zia Shaw avrebbe tirato fuori quella storia… dopotutto la fuga della sedicenne Rachel Prescott era stata l’evento dell’autunno, l’argomento sul quale le signore avrebbero spettegolato fino all’estate ed oltre.
Ad essere sincera se fosse stata a Londra anche lei avrebbe fatto la sua parte di commenti, ma dopo l’anno tremendo che aveva vissuto, provava un senso di solidarietà e comprensione verso quella ragazza che l’avevano lasciata persino stupita. E poi, dopo aver saputo com’erano andate realmente le cose, sentiva di poterle dare tutto il suo sostegno.
Elisabeth Ridder infatti, che aveva una vicina parentela con la madre di Rachel, durante uno dei tè pomeridiani a casa di zia Shaw le aveva confidato che i due giovani erano sinceramente innamorati l’uno dell’altra, ma che siccome la famiglia Prescott pretendeva un matrimonio di convenienza avevano rifiutato la loro unione. La fuga era stata solo la conseguenza di qualcosa di ovvio. «Non è possibile tenere lontani due giovani che si amano» aveva detto Elisabeth. E poi i Prescott non avrebbero mai potuto pretendere un matrimonio vantaggioso vista la scarsissima dote di Rachel, per cui che male c’era nel darle la possibilità di sposare l’uomo che amava? Certo quello della giovane era stato un gesto folle, ma che racchiudeva in sé un enorme coraggio.
Almeno così la pensava Camille, che a ventun anni suonati anziché vivere un’appassionante storia d’amore come quella della signorina Prescott, era costretta a leggere libri ad un’anziana signora che preferiva la compagnia dei gatti a quella delle persone.
«Parola mia, se Gwyneth avesse compiuto un gesto simile non sarei più riuscita a mostrarmi in pubblico… che vergogna! Povera signora Prescott, come la compatisco.»
«Non pensate che la signorina Prescott abbia avuto abbastanza da questa storia, senza aggiungere le vostre cattiverie e quelle delle vostre amiche?» chiese nervosa. «Duecento sterline l’anno e il marito fuori dall’esercito… un prezzo un po’ alto per l’amore che li lega.»
«Ma quale amore! Se quella canaglia l’avesse amata sul serio, non l’avrebbe costretta alla fuga. E poi suo padre è stato fin troppo clemente a concedere loro quel pezzo di terra» disse zia Shaw, sempre più indignata. «Dovresti morderti la lingua prima di dire certe cose, soprattutto se in pubblico. Per fortuna qui ci sono solo io, quindi farò finta di non aver sentito… ed ora continua la lettura mia cara, ma mettici un po’ più d’animo. Se volevo sentire una predica sarei andata in chiesa.»
Camille si trattenne a stento dallo sbuffare, maledicendo per la milionesima volta il giorno in cui Heather aveva deciso di spedirla in quell’angolo di mondo che era Lodgewood. Perché se di fatto al suo arrivo ne era rimasta affascinata, dopo nemmeno un mese era già arrivata al limite della sopportazione. Ora di mesi ne erano passati dodici e riteneva un miracolo il non essere impazzita.
Quanto le mancava Londra. A quell’ora probabilmente sarebbe già stata sposata, invece la sua vita era diventata un susseguirsi di letture, chiacchiere noiose, balli mediocri e compagnie del tutto inadeguate.
La maggior parte dei gentiluomini presenti erano infatti troppo presi dalla vita di campagna per pensare seriamente agli eventi mondani, rozzi nobiluomini che riuscivano a sposarsi solamente grazie al titolo che possedevano e che mai avrebbero potuto suscitarle un qualche interesse, mentre gentildonne e figlie erano ovviamente assenti per la maggior parte dell’anno, come si conveniva e come era normale che fosse.
Era una disgrazia, oltre che una vera noia, ed anche i pomeriggi di svago con zia Shaw erano sempre meno sopportabili. All’inizio li vedeva come un modo per uscire e fare qualcosa di diverso dallo stare chiusa in quel castello freddo ed enorme, ma il carattere lamentoso ed egocentrico della zia le faceva saltare i nervi. Da un po’ era arrivata al punto di pregare che in ogni nuova lettera che arrivava ci fosse scritto che Heather la rivoleva con sé, ma a quanto pareva si era innamorata della città di Napoli e dopo aver acquistato una villa sul mare, i due sposini si erano accasati là in pianta stabile. Heather nel frattempo era rimasta incinta, quindi sicuramente non sarebbe tornata in Inghilterra fino alla nascita del bambino.
Ah giusto, c’era un’altra cosa: come predetto, la sua dieta ne aveva risentito moltissimo.
«Dunque ti sei incantata? Non sta bene per una signorina perdersi nei propri pensieri, qualcuno potrebbe pensare che sei sciocca.»
La giovane bevve un lungo sorso di tè cercando di calmarsi, dopodiché riprese la lettura come richiesto.
«Sorgi, bel sole, e uccidi l’invidiosa luna già malata e livida di rabbia, perché tu, sua ancella, sei tanto più luminosa di lei. Non servirla, se essa ti invidia; la sua veste virginale…»
«Lady Shaw! Mia signora!» urlò il maggiordomo, precipitandosi nel salotto ed interrompendola di nuovo. Al diavolo! Ma cosa avevano tutti quel giorno? Stavano riuscendo a farle odiare una delle sue tragedie preferite.
«Ridley, per l’amor del cielo. Cosa c’è da urlare tanto, mi pare oltremodo indecoroso!»
«Perdonate milady, ma c’è il signor King alla porta.»
«Il valletto di mio fratello è qui?» domandò zia Shaw preoccupata. In effetti anche Camille drizzò il capo, perché se Vincent si scomodava ad inviare il proprio valletto voleva dire che era successo qualcosa di grave.
«Esatto, proprio lui. È venuto fin qui chiedendo che la signorina Grey torni immediatamente a casa. A quanto pare è arrivato un biglietto che annuncia l’arrivo di lord Mortain per l’indomani mattina e il padrone è su tutte le furie, oltre che terribilmente agitato.»
«Jamie sta venendo qui?» chiese Camille. Nelle ultime lettere Heather non aveva fatto riferimento ad alcuna visita.
«No, non Jamie signorina… sua signoria, il futuro visconte di Lodgewood John Mortain!»
John Mortain…
«Benedetto cielo!» esclamò zia Shaw, scattando in piedi come una molla e spaventando il povero Wilson che tranquillo le sonnecchiava in grembo. «Mio nipote sta tornando! Sta tornando a casa! Dopo anni si è finalmente deciso a lasciare quell’orribile posto» urlò euforica, poi si voltò verso di lei. «Su, su tesoro non stare lì immobile come uno stoccafisso… hai sentito Ridley, no? Devi tornare subito a casa! Mio fratello vorrà che lo aiuti nel preparare il palazzo… mezza giornata è pochissimo e dev’essere tutto perfetto per il ritorno dell’erede dei Mortain!»
Detto quello, in un istante Camille si ritrovò in carrozza e sulla strada per Lodgewood Abbey.
Non aveva mai visto zia Shaw così su di giri, ma il suo entusiasmo non era nulla a confronto di quello che stava accadendo al castello. Le cameriere parevano impazzite, la signora Potter gridava impartendo ordini a destra e a manca, i tre levrieri del visconte abbaiavano e correvano da una parte all’altra delle stanze facendo un gran baccano e il padrone di casa era persino più irrequieto dei cani.
La giovane tuttavia non disse niente. Capiva bene la trepidazione di quel momento, dato che John mancava da casa da ben undici anni.
In quanto membro dell’esercito era andato in guerra contro Napoleone e dopo essere sopravvissuto alla sanguinosa battaglia di Waterloo, aveva deciso di abbandonare la carriera militare e partire per la Jamaica. I Mortain possedevano alcune piantagioni di zucchero e cacao e così John aveva preferito andare là piuttosto che tornare a casa. «A mio padre scrisse una misera lettera in cui diceva che sarebbe partito per curare i nostri affari, ma Dio solo sa cosa gli sia successo veramente» aveva detto Jamie l’unica volta in cui avevano affrontato l’argomento.
Secondo lui la scusa della Jamaica era stata solo un modo per dimenticare gli orrori della guerra e farsi una nuova vita e a Camille non era sfuggito il tono amaro con cui aveva parlato. Perché John lo aveva letteralmente abbandonato, lasciando su di lui tutte le incombenze e il compito di gestire una tenuta e un padre che non si dava pace per l’assenza del suo primogenito ed erede. E su quello aveva ragione: Vincent soffriva, anche se cercava di non darlo a vedere. Lei lo aveva capito perché ogni volta che passavano davanti al ritratto di John appeso nella biblioteca, l’anziano padrone si perdeva a raccontarle delle sue grandi doti di spadaccino, di come a sedici anni era diventato un soldato e di quando a venti era stato nominato cavaliere per le sue capacità dimostrate sul campo di battaglia.
Fu proprio davanti a quel ritratto che si fermò Camille, mentre intorno a lei succedeva il finimondo. Era stato fatto che John aveva diciannove anni, qualche mese prima la sua partenza per il fronte, per quello aveva quell’aria fiera mentre indossava l’uniforme.
Lo osservò a lungo, anche se ormai conosceva i lineamenti di quel giovane viso a memoria.
Al contrario di Jamie, che aveva preso tutto dai tratti raffinati della madre, quelli di John erano più squadrati, proprio come quelli del padre. I capelli erano scuri, quasi neri, gli occhi invece di un grigio intenso. Erano la prima cosa che l’aveva colpita del dipinto. Non le labbra sottili, la mascella marcata o la fronte coperta da alcune ciocche ribelli. No, gli occhi. Erano stupendi, così fieri, luminosi e profondi. Il pittore era riuscito a catturarne ogni sfumatura e da essi si potevano percepire tutte le grandi aspettative che un ragazzo di quell’età aveva dalla vita.
Inevitabilmente si chiese cosa di quel giovane fosse rimasto nell’uomo che era diventato. Sapeva che la guerra poteva cambiare l’animo di una persona in maniera irreversibile e se John era fuggito tanto lontano anziché tornare dai suoi cari, voleva dire che di orrori ne aveva visti troppi.
Però era contenta che avesse finalmente deciso di tornare. Vincent iniziava ad essere anziano e riavere il figlio accanto gli avrebbe ridato parecchie energie. Bastava vederlo ora, tutto preso ad impartire ordini affinché gli appartamenti di John fossero pronti e sistemati per il suo arrivo. E pensare che di solito se ne stava rintanato in biblioteca lamentandosi dell’umidità che gli faceva male alle ossa e a far passare lettere e libri contabili.
«Zio Vincent» lo chiamò.
«Camille, mia cara, finalmente sei arrivata… è un disastro, devi assolutamente andare a controllare che quelle cameriere sistemino la camera da letto con lenzuola di seta. Oh, e non scordarti le candele!»
«Dovete respirare zio, non vi fa bene agitarvi in questo modo.»
«Vallo a dire a mio figlio, che ha fatto il piacere di avvertirci solo il giorno prima! Anni e anni in quella terra selvaggia e si dimentica le buone maniere» borbottò, tornando ad urlare dietro al povero signor Montgomery dandogli istruzioni sulla cena che si sarebbe dovuta tenere l’indomani insieme a zia Shaw. A quanto pareva c’era anche un pranzo in ballo, con gli amici e conoscenti più cari. 
«Signorina Grey?»
«Sì, signora Potter?»
«Perdonate, ma sarebbe meglio se veniste in cucina per decidere i menù di domani e del pranzo di sabato. Sua Signoria è troppo agitato e sta ordinando tutto e niente» disse la governante a bassa voce. Se infatti Vincent avesse sentito quella frase, si sarebbe messo ad urlare ancora di più.
Fu così che, dopo essere andata a controllare che i preparativi delle stanze private procedessero al meglio, si trovò a discutere con la cuoca. Naturalmente dopo tutti quegli anni in cui aveva dovuto preparare soltanto il pranzo e la cena del visconte e da poco tempo per una giovane non troppo esigente, l’idea di dover pensare ad un pranzo e ad una cena con tanto di ospiti l’aveva messa nel caos. Continuava a ripetere che era impossibile pensare a piatti e portate con un solo giorno di anticipo, ma Camille le fece intendere che se non l’avesse fatto, tutti loro avrebbero dovuto fare i conti con un lord Mortain furibondo e quello bastò a convincere cuoca e rispettive aiutanti.
Venne poi il momento anche della loro di cena e Vincent non fece altro che parlare di John. Le raccontò per l’ennesima volta tutte le sue prodezze sul campo di battaglia, dei pochi eventi mondani a cui aveva partecipato a causa della guerra e di come gli aveva spezzato il cuore quando aveva deciso di andare via. Ora però stava tornando e questo per l’anziano signore voleva dire che aveva capito qual era il suo posto e che era pronto a prendere in mano le redini del viscontado.
Quando infine il giorno successivo Camille scese per la colazione, Vincent non stava più nella pelle. Si era messo il suo completo migliore, con tanto di panciotto in seta e orologio da taschino, e appena finito di mangiare, indossando cappotto, cilindro e prendendo il suo bastone, si appostò davanti all’entrata del castello pronto ad accogliere il figlio. Dietro di lui, naturalmente, c’era la servitù al completo.
Vedendo tutti tanto eleganti, Camille decise anche lei di andare a cambiarsi ed indossare uno dei nuovi abiti che qualche mese prima aveva acquistato insieme a Elisabeth. Dato non li aveva ancora indossati tutti, doveva sfruttare qualsiasi occasione le si presentasse… anche se non appena Jane la aiutò ad indossare quello azzurro pastello, con sgomento notò che in vita e sotto il seno le stava stretto.
«Oh no!» esclamò in preda al panico.
A quanto pareva era ingrassata… di nuovo.
Ora che i suoi abiti portati da Londra le andassero stretti già lo sapeva purtroppo, ma che anche quelli fatti confezionare solo a settembre non andassero più bene…
«Oddio» gemette spaventata, mettendosi le mani sul viso e guardandosi allo specchio. Non che si notassero chissà quali cambiamenti, ma lei li vedeva tutti.
Le guance erano molto più piene, troppo piene per gli standard di bellezza del ton. Anche la vita non era più piatta e snella, ma rotondetta e con le cosiddette maniglie dell’amore tanto temute dalle donne della società. Ed il seno, rimasto sempre piccolo, ora era più pieno e sodo. Osservandolo, Camille si domandò se l’abito non risultasse davvero troppo stretto.
Cosa avrebbero pensato di lei a Londra? Le sue amiche che sempre avevano espresso la loro invidia per il suo fisico perfetto.
«Qualcosa non va miss?» domandò Jane, non arrivando a capire nemmeno lontanamente i turbamenti del suo animo.
Lei aveva in mente una o due rispostacce pronte da dire, ma quello non era il momento di farsi prendere dal panico. Avrebbe avuto tempo per struggersi quella sera, quando sarebbe stata sola e avrebbe potuto dare sfogo a tutta la sua tristezza perché era ingrassata, perché non sopportava quel posto e perché sua sorella la odiava. Perché che la odiasse ormai non c’erano dubbi, altrimenti perché continuare a farle vivere quell’inferno?
L’unico conforto era che almeno i capelli erano rimasti quelli di sempre. Ricci, pieni, biondi e luminosi. Si intonavano benissimo all’azzurro del vestito e lasciò che Jane li raccogliesse in uno chignon delicato, dopodiché anche lei scese nel cortile fiancheggiando un sempre più impaziente Vincent.
Purtroppo, attesero tutta la mattina.
I minuti scorrevano lenti e a mano a mano che il tempo passava, la giovane perdeva sempre più speranze di vedere comparire la figura di John. Forse aveva avuto qualche contrattempo o forse, quel biglietto, era stato solo il frutto di un pessimo scherzo.
«Signorina Grey, cosa facciamo?» chiese il signor Montgomery in un bisbiglio. La giovane guardò prima il maggiordomo, poi la governante e gli altri servitori che continuavano a parlottare fra loro. Vincent invece nemmeno per un secondo aveva dato segni di stanchezza. Continuava a stare in perfetta posizione eretta, gli occhi fissi sulla strada.
Con rammarico decise di avvicinarsi.
«Zio?» lo chiamò, ma lui fece finta di niente. «Ormai è ora di pranzo, che ne dite se andiamo a mangiare qualcosa? Sarete stanco e sicuro questo vento non gioverà alla vostra salute.»
«Sto bene mia cara, sono stato in condizioni peggiori. E di certo non morirò se salterò il pranzo per un giorno.»
«No, certo… ma la servitù ha le sue faccende da fare e…»
«Bene» la interruppe lui. «Che se ne vadano pure! Se sono così poco rispettosi del loro visconte da non poter aspettare il ritorno del figlio, ebbene non meritano la mia benevolenza.»
Camille si voltò verso il signor Montgomery, che con un gesto della mano le disse di tentare ancora.
Fosse stato semplice. Quell’uomo aveva atteso il ritorno del figlio per undici anni, senza contare il periodo precedente in cui era stato in guerra, non si sarebbe arreso facilmente.
«Zio, vi prego, non vi fa bene stare qui fuori al freddo. Anche se c’è il sole l’aria è fresca e da qualche giorno avete il raffreddore, volete rischiare un’influenza? Staremo io e il signor Montgomery di guardia e non appena arriverà, vi verremo a chiamare.»
«Ma perché diamine è così in ritardo? Il biglietto diceva per questa mattina… e se gli fosse successo qualcosa?»
«Sono sicura che abbia semplicemente calcolato male i tempi. Si sarà fermato a pranzo in una locanda lungo il tragitto, sarà qui nel pomeriggio.»
«Allora lo aspetterò.»
«Come volete voi zio» disse Camille intenerita. Nonostante volesse letteralmente scappare e la maggior parte delle volte avrebbe voluto che Vincent fosse più malleabile nei confronti delle sue richieste e non un burbero e scontroso uomo del nord, si era affezionata a lui e gli dispiaceva vederlo affranto. Per quello si mise accanto a lui, facendo passare un braccio sotto al suo. «Lo aspetteremo insieme» concluse con un sorriso.
Così attesero in silenzio.
Vennero le due del pomeriggio, poi le tre e di John nessuna traccia.
Alla fine la servitù rientrò per occuparsi delle ordinarie faccende ed anche Vincent si arrese e si fece accompagnare in biblioteca dal signor King, lamentando un forte mal di schiena e mal di testa.
Rimase da sola, ma non le importò.
Avrebbe atteso John anche tutta la notte se fosse stato necessario.
   
 
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