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Autore: holls    28/10/2021    10 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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7. Fragili apparenze

 

Era giunto il momento di reclamare il mio premio di “Cazzaro dell’anno”, per aver combinato una marea di cazzate in tempo record.

Ultima, ma non meno importante, mi aveva visto protagonista di una scenata degna di un bambino dell’asilo, preso com’ero dall’eccitazione di questa festa e dalla mia anima, non del tutto sopita, di buon samaritano. Volevo fare del bene e avevo finito per calpestare completamente i sentimenti di Alan.

Sì, be’. Calpestare era un vero e proprio eufemismo.

C’ero ripassato più e più volte, fino a che, non contento, avevo strappato tutto ben benino, giusto per assicurarmi di aver fatto ogni cosa a dovere.

Alan era sparito oltre il corridoio, dove c’erano i metal detector, imboccando poi l’uscita, mentre Ash era ancora in piedi lì, davanti a me, col fiato più grosso di un velocista che ha appena terminato la gara.

«Basta, cambio ufficio.»

«Cosa?»

Era livido in volto e con due occhi truci scrutava l’angolo oltre il quale c’erano i sensori.

«Sono sei mesi che fa così, non lo sopporto più! È uno scassapalle del cavolo, sempre con quel muso, sempre acido!»

Era proprio partito per la tangente. Ormai sbottava senza neanche più guardarmi e sbraitava infamie a destra e a manca, senza nemmeno rivolgersi a qualcuno in particolare.

«A quello manca un uomo, te lo dico io. Che scopasse un po’ di più, cavolo! Spero arrivi presto qualcuno a tappargli la bocca, oh.»

Decisi di non indagare sul come questo qualcuno gli avrebbe tappato la bocca.

Ma che stavo dicendo?

Avevo combinato un guaio e avevo pure voglia di scherzare?

Ash sospirò, scuotendo la testa.

«Scusa. Ci sei rimasto, eh?»

In realtà ero sicuro che Ash avesse blaterato molte altre cose rispetto a quelle che il mio cervello aveva elaborato, ma i miei pensieri erano andati tutti ad Alan e a come potevo fare per evitare una figura così misera.

Non mi diede nemmeno il tempo di rispondere, che riattaccò subito.

«Però dai, se lo merita. Prova tu ad averlo come collega tutto il giorno, tutti i giorni! Alla fine quella pistola alla vita ti viene voglia di usarla, credimi!»

«Verso di lui o verso di te?»

Ash sbuffò.

«Meglio se non dico niente, potrebbero arrestarmi.»

Alzò rapidamente le sopracciglia e scrollò le spalle, sconsolato. Effettivamente poteva non avere tutti i torti. Non passò nemmeno un secondo che ricominciò a borbottare.

«Io ci ho provato in tutti i modi, sai? Ho provato a presentargli qualcuno, a proporre uscite, ma niente. Ormai ha deciso che vuole fare il single inacidito e a me tocca sopportarlo ogni santo giorno. Ma poi, avesse una ragione per essere così! Io glielo chiedo sempre: ‘Ma che ti ha fatto di male il mondo?’. Mi fa un’occhiataccia e va via. Non lo capisco.»

Lasciai che Ash si sfogasse, che mi raccontasse del perenne muso lungo di Alan, la sua attitudine a rompergli le scatole per ogni virgola fuori posto quando conducevano le indagini e molte altre storie che descrivevano un uomo solo e arrabbiato col mondo. Mentre ascoltavo Ash mi sentivo pure un po’ in colpa, perché io sapevo, almeno in parte, il motivo per cui Alan era così; ma non potevo certo spifferare i fatti suoi, perché supponevo che avesse avuto le sue ragioni se non aveva detto niente ad Ash.

Cosa avrei potuto fare?

Cercai di calmarlo, dicendogli che forse non era il caso di provocare Alan in quel modo ogni volta, con battute sul suo carattere e sul fatto che avesse bisogno di un uomo, ma l’effetto fu solo che Ash sbraitò ancora di più e a voce sempre più alta; mi chiesi se qualche collega non stesse sentendo tutto, col rischio che, il giorno dopo, riferisse ogni cosa al diretto interessato.

Purtroppo o per fortuna, un altro poliziotto lo chiamò per un favore, e così ci congedammo.

 

Quella situazione era strana.

Era questo ciò che pensavo, mentre aspiravo la terza sigaretta del giorno. Una leggera brezza mi liberò dall’oppressione di quel caldo estivo, che, sebbene non fosse soffocante, era sufficiente a farmi sudare. Avrei potuto incamminarmi verso casa, ma avevo preferito aspettare fuori dalla stazione di polizia, nel cortile interno, nel tentativo di riordinare le idee.

Sentivo di dovere delle scuse ad Alan, ma non sapevo da dove cominciare, né se mi avrebbe ascoltato. Paradossalmente, avrebbe potuto approfittarne per sbarazzarsi per sempre di me e lasciarmi così con quel peso sul cuore di cui volevo liberarmi al più presto.

Schiacciai la sigaretta nel posacenere - stavolta evitai di buttarla per terra - e decisi che era tempo di darsi una mossa. Attraversai nuovamente il cortile interno e varcai ancora la soglia della centrale; passai sotto ai metal detector e superai un gruppo di poliziotti intenti a ridere di gusto, forse per qualche barzelletta; probabilmente erano gli agenti del turno di sera, dato che erano già le sei.

Mi fermai un attimo cercando di fare mente locale sulla planimetria di quel posto, perché la porta davanti a me somigliava moltissimo a quella da cui ero appena rientrato o forse era quella che avevo varcato la prima volta?

Una bionda in mise elegante mi passò accanto, con tacchi talmente vertiginosi che mi chiesi come facesse anche solo a muoversi di un centimetro. Ma non solo si muoveva: faceva passi rapidi e piccoli, perché la gonna era troppo stretta per permetterle falcate più lunghe, e il suono dei suoi tacchi sul pavimento somigliava parecchio a un orologio impazzito.

Tic-toc-tic-toc.

In un moto di ammirazione, la osservai superarmi nel senso opposto e poi sparire chissà dove - ma ero abbastanza sicuro che non fosse la direzione giusta.

Mi lasciai guidare dal mio istinto e proseguii dritto, a passo sostenuto. Non volevo certo correre il rischio di essere scambiato per un criminale in fuga oltre al fatto che, a ogni passo, lo spigolo del quaderno ad anelli, custodito dentro la mia tracolla, mi pungolava il fianco destro ancora e ancora.

Superai gli ennesimi metal detector e mi ritrovai nel cuore della civiltà. Quella era senza dubbio l’uscita principale, ma, sulla destra, notai un vicolo che scoprii portare al parcheggio per dipendenti e utenti, almeno a giudicare dal numero di auto.

Macchine e macchine si estendevano per quasi un isolato, separate dal mondo esterno solo da un alto muro di cemento, che isolava il perimetro del parcheggio dal caos della città.

Gettai un’occhiata rapida a tutte le auto, mentre piano piano mi facevo largo tra i filari di macchine, ma di Alan nessuna traccia. Con ogni probabilità se n’era già andato, anzi: era sparito alla velocità della luce.

Osservai sconsolato quella coltre di asfalto senza un’anima in giro, lasciando che una leggera brezza mi rinfrescasse la schiena. Ripresi fiato, dopodiché aprii la tracolla e ci infilai la mano dentro. Tastai il quaderno con gli appunti di materie plastiche, finii di dare il colpo di grazia ad altri fogli appallottolati e tirai su un pacchetto di fazzoletti che mi era rimasto attaccato al pollice. Lo ributtai dentro e continuai a cercare, ma fui punto dall’estremità della chiave del portone di casa; razzolai fino al fondo della borsa e ne rastrellai pure gli angoli, dove scoprii patatine frantumate di cui ignoravo l’esistenza.

Dopo essermi convinto che quella borsa aveva necessità di essere lavata, mi accorsi che non c’era.

Uno sbuffo pronunciato mi fece voltare di scatto, tanto veloce che mi scricchiolò il collo.

«Cercavi questo?»

Lo sguardo di Alan si scontrò con il mio. La sua mano era protesa verso di me; sul palmo, teneva il mio cellulare. Tirai fuori la mano dalla tracolla e mi pulii sui pantaloni le briciole che si erano depositate sulla punta delle mie dita, poi allungai una mano verso la sua e mi ripresi il telefono, buttandolo nella borsa insieme al resto. Chissà se lo avrei mai più ritrovato.

«Grazie. Cominciavo a pensare che la mia tracolla se lo fosse mangiato.»

Lui non sorrise e spostò gli occhi altrove, perso in qualche pensiero di cui non era difficile immaginare il protagonista.

Scrollò le spalle e fece dietro-front per tornare, quasi sicuramente, alla macchina.

«Aspetta!»

Si fermò ed emise un sospiro scocciato, poi si voltò verso di me.

«Non è l’ora di tornare a casa? Che ci fai ancora qui?»

Cercai di smorzare la tensione.

«Sai com’è. Sensi di colpa.»

Sfoderò un’espressione soddisfatta.

«Detto da te è quasi incredibile. Però mi dispiace dirti che io sto andando a casa e sono di fretta, per cui…»

Prese a camminare rapido come la ‘signora tic-toc’ tranne per il fatto che lui non faceva ‘tic-toc’. Accelerò il passo all’improvviso, ma io riuscii a piazzarmi davanti a lui e a bloccargli la strada.

«Aspetta! Che ne dici di farci una passeggiata? Così parliamo un po’.»

Mi scostò educatamente con un braccio, ma non mi diedi per vinto.

«Nathan, ho da fare. Sei sollevato da tutti i tuoi sensi di colpa, va bene?»

Alzai gli occhi al cielo e gonfiai le guance. Era proprio irriducibile! Lo raggiunsi di nuovo, stavolta camminando al suo fianco, seguendo il suo ritmo.

«Sarà una cosa veloce, promesso.»

«Te lo ripeto: ho da fare.»

Sbuffai per l’ennesima volta.

«Ma cosa devi fare di tanto importante, si può sapere?»

Schioccò la lingua e si fermò. Una piccola vittoria per me, pensai. Si voltò verso di me e piantò i suoi occhi nei miei. Forse cercava di essere convincente.

«Devo lavorare, ok? Poi devo fare la spesa e preparare da mangiare. Il cibo non si cucina da solo, sai?»

Mi fece un sorrisetto vittorioso, ma non mi lasciai spaventare. Non avrei ceduto per niente al mondo.

«Puoi sempre ordinare una pizza a domicilio, sai?» gli feci eco, con quel tono saccente di chi ha sempre la verità in tasca. La mia era innegabile.

«Quel cibo spazzatura te lo mangerai tu. Alla prossima.»

Tirai fuori il portafogli dalla tasca dei pantaloni e mi misi a frugare. Come speravo, lui si fermò e si voltò per osservare i miei movimenti, senza dire niente. Io estrassi i miei miseri dieci dollari e glieli sventolai sotto il naso, a malincuore.

«Compro dieci minuti del tuo tempo.»

Fissò la banconota svolazzante, poi sospirò. Arricciò le labbra, fissandomi, le mani infilate in tasca.

«Va bene, se proprio insisti.»

Mi rigirai i dieci dollari tra le dita e li rimisi da dove li avevo presi, con l’intenzione di darglieli più tardi. Ero soddisfatto di me stesso, ero orgoglioso di essere riuscito a convincerlo. Decisamente una grande impresa.

«Devo passare dalla biblioteca dell’uni. Dai, non fare quella faccia, è qui vicino!»

Lui alzò le mani in segno di resa.

«Non ho detto niente. Andiamo.»

 

Il discorso da fare era semplice. Dovevo scusarmi per la mia insistenza e la mia insensibilità, per aver fatto a pezzi così i suoi sentimenti. Eppure in quel momento mi pareva così privo di preoccupazioni, che mi sembrava quasi un crimine tornare sull’argomento. Probabilmente cercava di non pensarci e ci stava riuscendo; come potevo distruggere quella sua tranquillità? Camminavo per le strade di New York con passo lento, nella speranza di farmi venire in mente un discorso sensato, ma l’atteggiamento di Alan mi lasciò così di stucco che ostacolò ogni mio tentativo: il suo sguardo non era perso nel vuoto come al solito, né rivolto ai suoi piedi, nel migliore dei casi; osservava le auto sfrecciare, seguiva la folla che attraversava ai semafori. Sembrava aver ristabilito un contatto col mondo.

Senza nemmeno rendermene conto, però, arrivammo alla biblioteca. Distava veramente pochi minuti e capii di aver perso un’occasione. Avevo avuto l’opportunità di non apparire frivolo e stupido come mio solito e invece avevo mandato tutto alle ortiche. Tipico. Per non parlare poi del fatto che avevo buttato dieci dollari.

Non appena ci fermammo alla biblioteca, lo vidi indietreggiare e tirare su il collo. Poi posò lo sguardo su di me.

«Architettura? Ma allora è vero

Mi sentii avvampare.

«Perché? C’è qualcosa di strano?»

«Non so, pensavo che in realtà studiassi "Scienze delle patatine fritte".»

Non ebbi il coraggio di alzare lo sguardo.

Mi aveva schiacciato.

Riuscii solo ad abbozzare un sorriso per non farlo sentire inopportuno, dopodiché afferrai la maniglia e spinsi la porta.

 

Avevo voglia di crollare, di lasciarmi schiacciare dal peso della vita, con la speranza, però, che qualcuno mi spingesse via prima che il macigno mi cadesse addosso. Sentivo gli occhi di Alan puntati su di me, mentre io continuavo a rifuggire il suo sguardo, a osservare gli altri ragazzi in coda, sperando che arrivasse presto il mio turno. Cercavo di nascondere la mia delusione, perché ancora una volta Alan aveva riassunto la mia vita con un’unica frase; ma per quanto cercassi di nasconderlo non potevo prendere in giro nessuno, specialmente lui, che forse sapeva meglio di me come mettere una pezza sui nervi scoperti.

Per tutto il tempo dell’attesa evitò qualunque domanda, lasciando che un silenzio complice si insinuasse tra di noi.

Scienze delle patatine fritte.

Forse era l’unica facoltà che mi meritavo davvero.

Mi tornò in mente mio padre: anche questa volta aveva vinto lui.

Chiesi alla segretaria il libro che avevo prenotato e solo in quel momento mi resi conto che anche Alan era entrato con me, nonostante il miliardo di cose da fare e il patto che avevamo stretto.

Mi voltai verso di lui e mi parve proprio un uomo raffinato, con quei modi rispettosi e quell’abbigliamento così serioso – certo, era per lavoro, ma i polsini chiusi erano un chiaro segno di civiltà. Mi sembrò proprio il tipico lord inglese, mentre io apparivo come il classico americano col trancio di pizza in mano, intento a guardare tv spazzatura spaparanzato su un divano da quattro soldi. Magari biascicando pure.

Quella differenza abissale mi divertì invece di farmi sprofondare nell’imbarazzo. Forse avrei dovuto prendere spunto da lui.

Ringraziai la signorina e ci avviammo entrambi fuori dall’edificio.

Mi ricordai in quel momento del motivo per cui l’avevo costretto a venire fino lì. Il sole aveva già cominciato la sua discesa dietro i grattacieli e mi ricordai ancora una volta di tutti gli impegni di Alan e del tempo che gli avevo sottratto.

«Quindi vuoi diventare un architetto?»

Me lo chiese con sincero interesse, senza malignità. Ma io che potevo rispondere? Che no, non volevo diventare un architetto? Che avevo scelto quegli studi e quella facoltà costosissima solo per non sentirmi un fallito? Che avrei solo deluso tutti, come da copione?

Nessuna di quelle domande uscì fuori dal mio guazzabuglio di pensieri e mi limitai a fare un’alzata di spalle.

«Ci provo.»

Affermazione non del tutto falsa, tanto per tenermi la coscienza a posto.

Lui l’aveva capito e tirai appena la bocca.

Mi rivolse un’occhiata complice, muta, quasi telepatica, mentre anche le sue labbra si piegarono in un sorriso appena abbozzato. Sembrò quasi che mi avesse spogliato di ogni segreto, che attraverso quegli occhi riuscisse a carpire ogni mio pensiero.

Abbassai lo sguardo e mi sentii piccolo piccolo, miserabile, quasi sbagliato. Avevo ventun anni e nemmeno sapevo cosa fare della mia vita. Presto sarebbe stato troppo tardi per decidere, ma sapevo che avrei continuato ad annaspare nel mare dell’indecisione per molto altro tempo ancora. Solo che alla fine sarei annegato. Forse mi sarei ritrovato a spacciare droga o peggio, incapace di dare una forma alla mia vita.

Piccolo piccolo. Miserabile. Sbagliato.

«Be’, immagino che ogni tanto possa capitare qualche materia più ostica. Succede a tutti, ma non per questo devi buttarti giù.»

Dovevo proprio fargli pena, se era arrivato a mettere da parte quanto era accaduto prima per tirarmi su il morale.

«Grazie.»

«Non hai qualche compagno di corso con cui studiare?»

Ripensai a qualche pomeriggio passato in compagnia di Ryan, quello che sarebbe diventato l’architetto perfetto, perché capiva tutto al volo e non aveva bisogno di farsi spiegare gli argomenti almeno due volte, né di usare patetici trucchi per memorizzare nomi astrusi. Pensai anche a Laura, che sicuramente avrebbe frainteso la mia richiesta di studiare insieme.

«No, anche perché mi distraggo troppo facilmente. Ci vorrebbe qualcuno di serio, pronto a rimproverarmi se comincio a raccontare qualche stronzata delle mie…»

Istintivamente alzai gli occhi verso Alan e fu come eseguire un test del DNA: combaciava perfettamente con la descrizione che avevo appena dato. Avevo di fronte a me la persona che cercavo, che già immaginavo a rimproverarmi con aria fredda e severa a ogni tentativo di distrazione.

«Non ci pensare nemmeno.»

… Peccato che la mia sola vista gli facesse venire l’orticaria.

Volevo ribattere in qualche modo, ma poi mi ricordai ancora una volta del perché ero lì e del favore che mi stava facendo a rimanere anche più dei dieci minuti previsti. Era così educato che non guardava nemmeno l’orologio – ma forse aveva dato una sbirciata a quello nella biblioteca. Capii che era giunto il momento di porgere quelle scuse che tanto avevo cercato di rimandare, un po’ per l’imbarazzo, un po’ perché non sapevo cosa dire.

Mi schiarii la voce.

«Senti…»

«Sì?»

Feci un bel respiro e mi buttai.

«Mi dispiace per prima, mi rendo conto di essere stato stupido. Non l’ho fatto con cattiveria, mi sembrava solo una buona idea quella di farti venire alla festa con me, ma forse in questo momento non è il caso, è vero. Scusa.»

Arrivai in fondo a quel discorso con una leggera apprensione addosso, soprattutto perché non riuscivo a leggere nessuna emozione nel suo sguardo criptico. Poi, all’improvviso, il suo volto si rasserenò.

«Hai ripreso fiato?»

«Sì.»

Tentavo in tutti i modi di tenere a bada quel sorriso che voleva spuntare da un momento all’altro, perché non potevo permettermi uno sguardo amichevole col rischio che mi mandasse a quel paese. Così lottai per ricacciare indietro quell’emozione di troppo, aspettando che Alan dicesse qualcosa.

«Ti sei preso questi venti minuti solo per scusarti?»

Ecco che ricacciare il sorriso non mi apparve poi così difficile. Non era semplice decifrare il tono con cui parlava, non riuscivo a capire se fosse ironico o serio. La sua espressione era esattamente a metà tra i due estremi e lui era maledettamente bravo a non pendere da nessuna delle due parti.

«Sì.»

Incrociò le braccia. Ancora nessun indizio.

«Apprezzo il gesto, sei perdonato. Da almeno dieci minuti, in realtà.»

Mi trattenni dal tirargli un calcio amichevole sugli stinchi: ero stato in pena tutto quel tempo!

Ero stato lì a far frullare le parole, a spremerle nel tentativo di trarne qualche buona frase e poi, puf, scopro che la faccenda gli era scivolata via da secoli.

«Grazie. Pensavo di aver combinato uno dei miei soliti casini.»

«Sì, infatti. Ma oggi mi sento particolarmente buono.»

Mi scappò una risatina. Non volevo sapere com’era quando si incazzava.

«Se comunque tu dovessi cambiare idea sulla festa, fammi un fischio. Tanto il numero ce l’hai.»

«Va bene. Pensi di chiedere a qualcun altro?»

Alzai le spalle.

«Non lo so. Potrei sentire Ash, che dici?»

Osservai il suo volto irrigidirsi. Pensai che fosse per via di Ash, ma fui smentito un secondo dopo: gli stava suonando il telefono.

«Scusa un attimo.»

Non appena rispose, la sua espressione divenne tesa. Poi si voltò a guardarmi.

«È qui davanti a me», gli sentii dire al suo interlocutore.

Emise qualche mugolio e diede segno di assenso, intervallati da alcuni ‘Va bene’, non troppo convinti. Quando riattaccò, sospirò profondamente, poi mi guardò con aria sconfitta.

«Vengo alla festa.»

Non potevo credere alle mie orecchie.

«Stai bene?»

Si infilò il cellulare in tasca e prese a camminare in direzione della centrale, a riprendere la macchina.

«Ciao, Nathan. A sabato.»

«Ma come ‘Ciao’? Aspetta!»

Ma ero talmente stordito che lui riuscì ad andarsene prima che potessi fermarlo.

Prima che potessi dargli i suoi dieci dollari.

 

Il sole dovette tramontare del tutto, prima che mi rendessi conto di quello che mi aveva detto Alan.

Prima di rincasare controllai, come al solito, la cassetta della posta. Alzai lo sportello e ci trovai dentro di tutto: una bolletta, pubblicità di un grande magazzino e pure richiesta di donazioni da parte di un'associazione umanitaria.

Afferrai tutta quella carta e chiusi la cassetta, ma qualcosa scivolò dal malloppo che avevo in mano. Era un piccolo bigliettino, che non riuscii ad afferrare prima che cadesse a terra. Lo raccolsi e rimasi sorpreso: era simile a uno che avevo già ricevuto pochi giorni prima, con una sfilza di parole senza senso, come “Soda” o “Cibo per cani”, con numeri, luoghi e uno scarabocchio nell’intestazione.

Notai solo in quel momento che il bigliettino era scritto a mano.

Strano modo di farsi pubblicità, pensai.

Cominciai a supporre che forse era qualcuno che aveva sbagliato indirizzo, per poi accorgermi un attimo dopo che l'indirizzo non c'era.

Era stato messo a mano da qualcuno, forse da uno di quei ragazzi che distribuiva volantini, anche se non ci somigliava per niente.

Entrai nel palazzo e suonai all'appartamento della famiglia di Carter e Cathy. Fu la loro madre ad aprirmi, insieme alle grida dei bambini che si stavano contendendo un coniglietto di peluche. Mi chiesi quanto ci avrebbe messo il povero orecchio a staccarsi dal resto.

La donna mi salutò, ma non prima di aver sgridato i bambini.

«Scusa, è un inferno. Hai bisogno di qualcosa?»

Le mostrai il bigliettino.

«È già la seconda volta che ricevo posta come questa. Ho pensato che fosse pubblicità, così volevo sapere se l'avevi ricevuto anche tu.»

Afferrò il bigliettino dalle mani e lo scrutò. Lo girò, poi tornò a guardare le parole e i numeri. Alla fine, scosse il capo e me lo rese.

«Non ho ricevuto niente del genere.»

«Ti ringrazio. Se dovessi arrivarti qualcosa di simile, potresti farmelo sapere?»

La donna sgridò ancora una volta i bambini. Il coniglietto lottava ancora per la sua integrità.

«Certo, nessun problema.»

Alla fine accadde.

Crac.

Il pianto di Cathy si levò per tutta la stanza, mentre Carter era già pronto a puntare il dito contro la sorella. Lessi il terrore negli occhi della loro madre, così mi affrettai a ringraziarla e salutare.

Definirlo l'inferno era decisamente un eufemismo.

 

Così, per il momento, ero l'unico ad aver ricevuto quei bigliettini scritti a mano. Pur riguardandolo, non riuscivo a trovarci alcun significato. Cominciai a pensare a uno scherzo stupido o a uno scambio di persona; poi mi tornarono in mente quegli occhi glaciali con cui mi ero scontrato e un brivido mi corse su tutta la schiena. E se fosse stato un messaggio in codice che annunciava vendetta da parte sua?

L’attimo successivo però mi ripresi: non ero in un film, quel tizio non aveva idea di chi fossi e probabilmente preoccuparmi non aveva alcun senso.

Così poggiai il bigliettino in casa e buttai quella faccenda nel dimenticatoio, prima di mettermi a studiare.

 

Con la testa china su quel maledetto libro di Architettura Moderna, ancora non mi capacitavo del fatto che mi sarei liberato di Steve per sempre, o almeno il tempo necessario a farmi finire gli studi.

Razzolai la mano nella ciotola di patatine che avevo accanto e afferrai una manciata di rimasugli che provai a spargere in bocca, ma che ovviamente rimasero tutti attaccati alle dita.

E mentre continuavo a rinvigorire la mia mente di carboidrati e a pulirmi le mani da quell’appiccicume, seminando l’ennesima chiazza d’unto sul libro, udii la suoneria di un messaggio.

Per un momento pensai che fosse di Alan, che mi annunciava che ciò che mi aveva detto quel pomeriggio era niente più che uno scherzo e che mi sarei arrangiato, con tanto di pernacchia annessa.

Aprii il messaggio con una strana fitta allo stomaco, come se stessi sostenendo un esame. Ma quando vidi che era un numero sconosciuto e lessi il contenuto, quella fitta divenne una morsa, il cuore prese a martellarmi all’impazzata e un sorriso incontenibile mi si aprì sul volto.

Il messaggio che tanto avevo aspettato, in cui ormai non speravo più, era finalmente arrivato.

 

Ciao Nate, finalmente trovo il tempo per scriverti.

Mi sei mancato, sai? Quando sei libero per vederci?

xxx Harvey

ps. Ho una sorpresa per te...

 

 

 

 

 

Angolino autrice

Salve a tutti! Eccoci qua col settimo capitolo, che forse potremmo definire un po’ “di passaggio”. Il suo pregio però è quello di gettare le basi per il prossimo, che penso di poter considerare senza dubbio come il mio preferito! E forse in qualche modo potrete anche immaginarvi il perché ^__^

Ringrazio nuovamente tutte le persone che hanno speso un po’ del loro tempo per leggere, e dono un pezzo di cuore anche a coloro che hanno voluto lasciare una recensione. Mi rendo conto che questa storia, data la sua natura fortemente introspettiva, possa non essere esattamente una lettura “per tutti”, ma vi prometto che in qualche modo le cose si faranno più movimentate. Nei limiti dell’introspettivo, ovviamente XD

 

A giovedì prossimo allora, sono davvero emozionata! E grazie ancora a tutti voi <3

holls

 

   
 
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