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Episodio 5
LA VIA
Parte III
“Quando scegli di camminare sulla Via di Mandalore,
sei al tempo stesso cacciatore e preda.”
— Bes, Armaiola della Tribù, ai suoi seguaci
[trigger warning: abuso e violenza accennati/non espliciti]
Trent’anni prima, Lothal,
Accampamento della Ronda della Morte
«Ge’tal.»
Din pronuncia quella parola spigolosa, pizzicando la manica della sua tunica rossa ormai un po’ sfilacciata. Ruu fa un cenno d’assenso col capo. Anche se non lo guarda direttamente, impegnata com’è a pulire la sua beskar’gam, sa che lo sta ascoltando.
«Vorpan» continua poi, toccando il muschio di un verde brillante che si arrampica sul masso contro cui poggia la schiena.
Un altro cenno d’assenso, seguito dal clic di un meccanismo del parabraccio rimesso al suo posto. Din arriccia lievemente il naso nel cogliere l’odore pungente dell’olio per beskar: un misto di erba bruciata, ruggine e carburante. Gli ricorda un po’ quello dei macchinari agricoli ad Aq Vetina, quando durante l’inverno aiutava suo padre a scrostare via la ruggine dal ferroplast e a mantenere oliate le giunture in vista della semina.
Sarebbe molto più semplice elencare tutti i colori, con davanti un campo di kisiwa a primavera: i prati attorno alla città si dipingevano di mille sfumature diverse, come se qualcuno si fosse divertito a rovesciare dei secchi di vernice sui pennacchi delle piante.
Si sente triste, a pensarci, ma nel risentire quell’odore è anche come se una mano conosciuta gli avesse appena fatto una carezza lì, a chissà quanti parsec di distanza da Concord Dawn.
Si accorge che adesso Ruu lo sta fissando e si affretta a continuare – gli ha già detto troppe volte di non distrarsi:
«Shi’yayc,» articola, lottando contro quella parola che gli appiccica la lingua al palato e indicando la tonda stella di un giallo sbiadito sopra di loro, «ne’tra,» continua svelto, tirando fuori una ciocca scura da sotto il cappuccio, «e, uh...»
Si blocca, guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa di blu, realizzando che il cielo su quel pianeta è di una sfumatura troppo verdastra per assomigliarci. Poi quasi si dà una mano sulla fronte e indica la stessa Ruu, sporgendosi verso di lei per poggiare un dito sulla sua corazza, all’altezza del cuore.
«Saviin» conclude, con un sorriso a labbra chiuse.
«Kebiin. Saviin è viola, non blu» lo corregge lei, senza asprezza.
Gli dà una piccola pacca sulla spalla, a segnalare che è stato comunque bravo a ricordarsi così tante parole, prima di tornare alla manutenzione dell’armatura. Din si accuccia sui talloni lì accanto, osservandola attentamente mentre riassembla il parabraccio un pezzo dopo l’altro.
Il resto della Ronda si aggira per l’accampamento, preparandosi a una nuova missione. Qualche guerriero è riunito in stretti capannelli e sorseggia tihaar, chi senza l’elmo, chi sollevandone solo la parte inferiore per portare la fiaschetta alla bocca.
Arriccia le labbra al ricordo del sapore acre del liquore. Ruu gliel’ha fatto assaggiare quasi per gioco, spiegandogli che ha un sapore diverso a seconda del luogo in cui ci si trova. Quello che ha provato lui è speciale, perché è fermentato da frutti che crescono solo su Mandalore: sa di casa per tutti loro.
A lui ha solo bruciato gola e stomaco, ma Ruu e gli altri guerrieri hanno riso dicendo che un giorno gli piacerà. Din spera che sia così, anche se non crede di poter davvero ritrovare casa sua in una fiaschetta d’alcool.
Osserva ancora per qualche secondo il via vai di Mandaloriani in blu, ma perde ben presto interesse: è ormai abituato al costante tintinnio metallico delle armature, così non si lascia distogliere.
Si getta solo un’occhiata fugace alle spalle quando coglie un sentore di carogna sul vento caldo, ma Kyr’ad è lontano, intento a curiosare attorno a delle formazioni rocciose ai margini della steppa. Di Azi non vede traccia, per fortuna.
Torna a puntare gli occhi sulla guerriera.
Quando l’ultima molla del congegno torna al suo posto e il rampino da polso è di nuovo funzionante, Ruu si limita a indicare quest’ultimo, per poi sfiorargli la fronte con l’indice e pronunciare una sola parola:
«Ke’partayli.»
“Ricorda”. Din annuisce: Ruu gli ha detto di imparare anche con gli occhi, così cerca di farlo il più possibile tutte le volte in cui lei rimane all’accampamento per più di un paio di giorni.
«E ricorda bene anche i colori» prosegue, distendendo le gambe sull’erba secca e arida che ricopre quel pianeta in praterie sconfinate. «Sono importanti, per noi. Ognuno ha un significato: dovrai pensarci bene, quando dipingerai la tua beskar’gam.»
Din annuisce di nuovo, fissandola serio oltre il visore, per poi gettare uno sguardo verso gli altri guerrieri indaffarati attorno a loro e storcere la bocca. Si inginocchia accanto a lei, osservando ancora un poco i loro compagni e le rispettive armature, prima di parlare di nuovo, sottovoce:
«Che vuol dire il blu?»
«Fiducia e affidabilità. Vuol dire che il popolo di Mandalore può contare sulla Ronda e sulla sua protezione.»
Din si morde il labbro, esitando a chiedere altro. La voce di Ruu si è fatta lontana. A volte succede e non capisce perché – se dipenda da lui o meno.
«Quindi anche la mia sarà blu. Non devo scegliere» afferma, con un piccolo moto di fierezza nel petto: avrà un’armatura come quella di Ruu.
La guerriera muove di scatto la testa verso di lui e Din sobbalza, stringendo le dita attorno al ciondolo del mitosauro in un riflesso istintivo. Gli sembra quasi di scorgere un rimprovero, in quel gesto improvviso.
«Cos’ho detto?» chiede, aggrottando le sopracciglia.
Ruu scuote la testa, tornando a puntare il visore verso l’orizzonte piatto e ondeggiante.
«Niente, ad’ika. Ma è un discorso complesso e dovrai aspettare per capirlo» aggiunge sbrigativa, allungando due dita per dargli un buffetto sotto al mento.
Din scrolla le spalle senza insistere: è abituato a sentirselo dire, che sia per bocca di Ruu, per quella dei suoi genitori o dell’adulto di turno. Se però prima avrebbe insistito, magari arrabbiandosi o mettendo il broncio, adesso tace. Non ha più nessuna fretta di sapere le cose prima del tempo. E poi, di Ruu si fida.
Ogni ombra di curiosità viene spazzata via quando, voltando appena il capo come seguendo un presentimento, si sente gelare dall’interno. Scatta in piedi prima di poterci pensare nel vedere la massiccia sagoma di Kyr’ad in avvicinamento.
La bestia a sei zampe caracolla verso di loro col muso allungato e bavoso puntato verso terra, facendo ondeggiare la massa ambrata di pelo e pelle flaccida che lo ricopre. Si arresta a pochi metri e alza di scatto la testa, piantando gli occhi piccoli e rossicci verso di loro, con la lunga coda che prende a frustare l’aria in modo nervoso.
Din trattiene l’impulso di indietreggiare alla vista dei canini aguzzi che fanno capolino dalle sue fauci, così come quello di tapparsi il naso. Respira piano con la bocca, cercando di attutire il tanfo. Lo strill alza una zampa, ad avanzare ancora, ma una voce arida lo ferma a mezz’aria:
«Gev.»
Solo allora Din mette a fuoco la figura allampanata di Azi Sten’ka che calpesta ad ampi passi l’erba scricchiolante. Sente Ruu che, dietro di lui, si rimette in piedi. Qualche guerriero della Ronda si sofferma a guardarli, per poi allontanarsi e creare una bolla vuota attorno a loro.
«Alor» esordisce Ruu a mo’ di saluto, d’un tratto rigida, come sempre quando Azi è nei paraggi.
Azi risponde in Mando’a, in modo troppo complesso e veloce per permettergli di capire. Si rilassa impercettibilmente, anche se ha ancora i palmi sudati. Saranno i soliti aggiornamenti sulle future missioni della Ronda – non che ne capirebbe molto se anche parlassero in Basico.
Din scosta gli occhi dal suo visore a T per non perdere di vista lo strill, ora accucciato ai piedi del suo padrone col muso sulle zampe e la coda che smuove pigra gli steli lì vicino. Non scolla gli occhi da lui e Din inizia a sentirsi una preda.
Ruu, invece, sembra d’un tratto agitata, come quella volta nelle foreste di Concord Dawn. Din deglutisce a fatica, percependo la sua improvvisa ansia dalle sue frasi più lunghe, più concitate. Forse, non si tratta della Ronda.
Ne ha la conferma quando, durante una breve pausa, Azi volta il capo verso di lui. Din distoglie lo sguardo per una frazione di secondo, per poi costringersi a sostenerlo, nonostante gli stia battendo il cuore sotto la lingua.
«Lascia decidere lui» dice poi, in Basico, e quelle parole gli colpiscono i timpani come aculei di ghiaccio. «Din Djarin, vuoi diventare un Mandaloriano?»
Il mondo attorno a lui sparisce. Din si sente come quel giorno di fronte al droide che stava per ucciderlo. Sotto tiro, impotente, con la sensazione di dover fare qualcosa, senza sapere cosa. In trappola.
Stavolta, però, agisce prima ancora che i pensieri possano rincorrere le azioni e frenarle:
«Sì» riesce a dire in un battito di ciglia, con la voce annodata.
Azi sembra quasi sorpreso dalla rapidità con cui ha risposto, e ruota appena l’elmo verso il basso come a studiarlo meglio. Uno scricchiolio accanto al suo orecchio gli dice che Ruu ha appena stretto i pugni – ma tace, immobile anche lei.
«Jate» replica infine Azi, e a Din sembra di percepire un sorriso in quella parola d’assenso, un sorriso sbagliato. «Seguimi.»
Richiama Kyr’ad con un fischio quasi inudibile e li supera entrambi, voltandosi appena verso Ruu nel farlo. La guerriera non muove un muscolo, come se qualcosa la inchiodasse a terra. Una parte di Din spera che si intrometta, che lo fermi, che si frapponga tra lui e Azi come nella foresta. Che, almeno, gli dica qualcosa prima che se ne vada.
Tutto ciò che sente è un respiro tremolante oltre lo strato di beskar – forse un "ke’taab" sussurrato, forse un refolo di lacrime. È solo allora, che Din avverte la paura farsi strada nel petto e iniziare a dimenare i suoi tentacoli, cercando di afferrargli le gambe per farlo tornare indietro. Li ignora, cercando di ignorare anche la nausea che gli monta nello stomaco e il vortice che gli sta girando in testa.
Azi lo guarda da sopra la spalla, senza rallentare, e gli lancia un ordine abbaiato:
«Tieni il passo, ad’ika, – quella parola suona velenosa, pronunciata da lui, – oggi diventerai un Mandaloriano.»
Le alte formazioni rocciose che li circondano divorano il cielo, lasciando solo una striscia seghettata che fa da tetto al canyon in cui stanno avanzando. Delle striature più scure e regolari segnano la sagoma tondeggiante delle immense pietre color sabbia, dando l’impressione che qualcuno abbia plasmato quegli strani coni su un tornio, come faceva lui da piccolo quando la vecchia vasaia di Aq Vetina gli permetteva di poggiare le mani sull’argilla in movimento.
Si aggrappa a quel ricordo già sbiadito mentre si sforza di non rimanere indietro rispetto alle falcate ampie di Azi. Kyr’ad trotterella poco più avanti, aprendo la strada col muso a terra e la coda ritta, annusando ogni sparuto ciuffo d’erba che gli capita a tiro.
L’alor non si è voltato una sola volta a controllare che lui lo stesse effettivamente seguendo. Forse lo dà per scontato o forse non gli importa che lui si perda nei meandri di quei crepacci o nell’infinita prateria che li circonda.
Din trattiene il fiatone e cerca di rimanere all’ombra dei costoni rocciosi, lontano dalla striscia di sole impietoso al centro del canyon: fa molto più caldo su quel pianeta, rispetto al clima arido ma freddo a cui è abituato. La tunica rossa che su Concord Dawn lo proteggeva dal vento pungente è diventata adesso una cappa soffocante incollata alla schiena.
Accelera il passo quando vede Azi fermarsi. Sono giunti in una sorta di conca scavata tra le due pareti del crepaccio. Dei coni rocciosi in miniatura spuntano dal terreno, offrendo un po’ d’ombra, e il letto asciutto di un torrente spacca la terra in mille crepe irregolari.
Din si ferma cautamente a qualche passo da Azi, preferendo rimanere a distanza sia da lui che da Kyr’ad. Lo strill sembra su di giri per quella che lui vede solo come una passeggiata fuori programma. Non può fare a meno di tenerlo d’occhio mentre scorrazza qua e là a caccia di lothrat. Nel cayon echeggiano gli squittii terrorizzati dei roditori che si rintanano nei loro cunicoli sotterranei, lontano dalle fauci dello strill. Din è contento che la creatura sia troppo distratta per badare a lui.
«Ti fa paura?» chiede a sorpresa Azi, che sembra torreggiare su di lui nonostante non sia poi molto più alto di Ruu.
Din alza lo sguardo, strizzando gli occhi per il sole che fa capolino oltre il suo elmo blu. È la seconda volta che l’alor gli rivolge direttamente la parola da quando Ruu l’ha salvato: di solito non parla con lui, ma di lui, come se non fosse nemmeno presente. Non sa cosa sia cambiato, ma non gli piace – e quelle domande che gli fa gli piacciono ancora meno. Non sa nemmeno se ci sia una risposta giusta.
Scocca un’occhiata allo strill, che adesso ha voltato la testa verso di loro come se avesse intuito che stanno parlando di lui. Visto da lontano, con il perenne olezzo che emana attenuato dal vento e gli occhi incuriositi puntati in modo adorante sul suo padrone, Din può quasi fingere che sia innocuo. Come Tobo, che era pericoloso come ogni massiff da guardia, se preso per il verso sbagliato, ma che a lui non aveva mai torto un capello, neanche quando si arrampicava per gioco sulla sua schiena irta di aculei.
Din torna a guardare Azi: è lui a fargli davvero paura, non il suo strill.
«No» risponde allora, scrollando appena il capo.
Azi sembra tossire, dietro l’elmo. Solo dopo un istante Din capisce che era il principio di una risata aspra, più simile a un latrato.
«Male» dice, prendendo a cercare qualcosa appeso alla cintura. «Dovresti averne.»
Azi estrae una vibrolama dal fodero e Din si irrigidisce, contraendo i muscoli, ma il Mandaloriano si limita a porgergli il manico a un palmo dal naso. Din esita, trattenendo l’impulso irrazionale di afferrarlo.
«Ti servirà» gli intima Azi con voce raschiante d’impazienza, gelandogli la schiena di sudore freddo.
Din stringe le dita attorno al durasteel, stando attento a non sfiorare il pulsante d’accensione. Ruu gli ha mostrato come funziona una vibrolama, anche se non gli ha ancora permesso di maneggiarne una. Cerca di posizionare le dita sull’impugnatura come ha visto fare a lei. Il metallo pesa nella sua mano e lo sente scivoloso sotto i palmi madidi.
È così, che si diventa Mandaloriani?
Si sente come se avesse la febbre, con le palpitazioni che sembrano uscirgli dal petto facendo sobbalzare il ciondolo in beskar sotto alla tunica. Non ha mai usato un’arma in vita sua, non ha mai combattuto. Ruu gli ha spiegato che anche quello fa parte della Via, ma ha sempre pensato che sarebbe stata lei a guidarlo. Come ha pensato, nemmeno un mese prima, che sarebbero stati i suoi genitori a guidarlo – ma erano arrivate le bombe e i droidi.
Gli pulsa improvvisamente lo stomaco, con la febbre che aumenta. È paura, la riconosce nelle gambe che sembrano fatte di bacta molliccio, ma quella che gli infiamma la testa è rabbia, perché a guidarlo c’è solo Azi. E lui è come i droidi; è ancora più facile crederlo se pensa che sotto a quell’elmo e all’armatura non ci siano carne e ossa, ma circuiti e meccanismi.
Attiva la vibrolama col pollice e la punta sfrigolante di energia scaturisce dal manico, facendogli tremare le ossa fino al gomito. Un istinto improvviso e sbagliato sembra afferrargli la mano: è abbastanza vicino ad Azi da poterlo attaccare, se lo volesse – il fianco dell’armatura non è di beskar, l’ha visto anche prima quando Ruu la puliva.
Sovrappone la mano libera a quella sul manico per fermarsi.
«Kandosii» commenta Azi, in quello che sembra gelido apprezzamento. «L’avevo detto, alla tua cabur, che con te ci serviva solo un po’ di polso.»
Poi lancia un fischio più simile a un sibilo. Un verso gutturale rimbalza nel canyon, seguito dallo scalpiccio dello strill che insegue qualcosa alle sue spalle. Uno squittio acuto penetra l’aria, seguito da rumori umidi di qualcosa che si spezza e viene lacerato.
«Iviin, Kyr’ad!» lo sprona Azi, battendo un palmo sulla coscia.
La bestia obbedisce e si ferma al suo fianco, leccandosi le labbra cadenti con la lingua violacea. Ci sono tracce di rosso attorno alla bocca e Din stringe la vibrolama fino a imprimersi il manico nel palmo.
Azi estende appena una mano, parlando poi con voce piatta:
«Ke’jurkad.»
Din non fa nemmeno in tempo a capire cosa voglia dire quel comando spigoloso, che sente l’aria strizzargli le costole e poi schizzargli via dai polmoni quando impatta con la schiena sul suolo duro, nel letto asciutto del torrente.
Kyr’ad è balzato in avanti, scaraventandolo a terra con un colpo delle zampe anteriori. Avanza ringhiante verso di lui, con gli occhi giallastri ridotti a fessure e gli artigli che raspano il terreno arido segnandovi nuove crepe.
Din ingolla un respiro che non supera la bocca e fissa la creatura davanti a lui con occhi così sgranati da farsi male alle orbite. Sembra ancora più grande, ora che lui è a terra, indifeso. Non riesce a pensare. Stringe il pugno e trova aria: la vibrolama è atterrata a un paio di metri da lui, sbalzata dall’urto.
Kyr’ad balza di nuovo e a Din sembra di vederlo al rallentatore – come quando il droide ha alzato il braccio per sparargli. Stavolta non c’è Ruu a salvarlo.
Sente una morsa afferrargli il corpo per farlo muovere, anche se non gliel’ha mai ordinato.
Rotola di lato e le fauci schioccano dove prima c’era la sua mano. Fa leva sulle ginocchia per scappare, ma l’istante dopo Kyr’ad lo inchioda di nuovo a terra premendogli le zampe sulla schiena. Gli artigli lo graffiano in mezzo alle scapole, affilati, e sente il sapore della polvere in bocca quando lo strill scatta per addentargli la nuca. Trova solo la stoffa del cappuccio e la tira verso di sé, mozzandogli il fiato in un verso strozzato quando la tunica gli affonda nel collo.
Gli si oscura la vista, a corto d’aria, ma continua a divincolarsi, sentendo una ventata di fiato fetido addosso e il concerto di ringhi e denti digrignati a un soffio dall’orecchio – agita a vuoto le mani, graffiando il terreno e sbucciandosi i gomiti, ma Kyr’ad non molla la preda: lo strattona di nuovo con violenza e il colletto ruvido gli scortica la pelle sotto al mento.
Sta per morire.
È un pensiero che gli fende la mente col rombo di un’astronave in decollo e lui reagisce con altrettanta rapidità: smette di scappare, chiude il pugno attorno a un sasso che trova a tentoni e colpisce, sferrando un colpo alla cieca dietro di sé – poi un altro, più forte.
Sente il naso umido di Kyr’ad impattare contro le nocche, poi il sasso che si abbatte sulla sua mascella . Un guaito gli perfora i timpani e la pressione su di lui si allenta per una frazione di secondo; Din si rigira sulla schiena e gli assesta un calcio sul petto con tutta la forza che ha.
Kyr’ad indietreggia di un passo, starnutendo e scrollando il capo in modo convulso, con un taglio superficiale sulla guancia cadente. Din si ritrae frenetico, col cuore che sembra battergli in tutto il corpo e il volto che pulsa e va a fuoco. Annaspa aria calda e tenta di rimettersi in piedi, con le vertigini che gli avvitano la testa, la mano stretta attorno al sasso come se fosse la sua stessa vita.
L’istinto è di fuggire, di lasciarsi alle spalle quella creatura orrenda che, adesso, lo sta già di nuovo puntando con occhi incattiviti dal dolore. Din ritrova la terra sotto ai piedi e fa per assecondarlo, con ogni fibra del suo corpo concentrata nelle gambe per correre – ma una mano pesante lo afferra per il cappuccio sbrindellato in modo non molto diverso da Kyr’ad, arrestando il suo scatto e facendogli sbattere la tempia contro il beskar dell’armatura.
«Volevi diventare un Mandaloriano? Allora combatti» gli sibila Azi nell’orecchio, torcendogli la tunica fino a farla diventare quasi un cappio attorno al collo, con l’altra mano tesa di fronte a sé a frenare lo strill. «Se non ti ammazza Kyr’ad lo faccio io. Non ho bisogno di un hut’uun nella Ronda.»
Din si divincola, con un picco d’ira che gli morde le viscere e il desiderio repentino di avere di nuovo la vibrolama in mano, invece di un semplice sasso. Fa solo in tempo a torcere il collo per fissare il visore buio di Azi con gli occhi offuscati di rabbia e lacrime, prima di venire scagliato di nuovo verso Kyr’ad.
Incespica e cade carponi, con le ginocchia che cedono come se qualcuno gliele avesse colpite da dietro con un bastone. Le sue mani impattano per terra, con sassolini e spine che perforano la pelle – e il manico della vibrolama ancora attivata, lì a terra, che gli sfiora il braccio, ustionandolo.
Grida, ma lancia il sasso contro Kyr’ad e afferra l’arma senza neanche sapere cosa sta facendo. Din sa di avere ginocchia e gomiti che bruciano, la schiena che pulsa lungo i graffi dove la tunica si è appiccicata per il sangue e la testa che ondeggia – ma il suo corpo non sente nulla e si muove da solo. Stringe i denti e pianta i piedi a terra, con l’arma puntata dritta davanti a sé.
Lo strill è più guardingo, adesso. Gli gira attorno a distanza di sicurezza, con le sei zampe che poggiano silenziose tra ciuffi d’erba e terra riarsa in una cadenza ipnotica. Scocca occhiate confuse al suo padrone, come aspettando un suo ordine che non tarda ad arrivare, aspro:
«Ke’jurkad, di’kut!»
Kyr’ad scatta e Din stavolta è pronto, ma non abbastanza rapido: riesce a non farsi atterrare di nuovo, ma la zampata gli sfiora comunque il volto e la lunga coda gli sferza un fianco come una frusta.
Barcolla e gira su se stesso, con l’arma stretta tra le mani e puntata di fronte a sé. È una difesa inutile, perché Kyr’ad gli gira attorno tentando di prenderlo alle spalle, costringendolo a muoversi e indietreggiare. Din tira un paio di fendenti a caso, cercando di far indietreggiare l’animale, ma quello si limita a scartare a destra e a manca cercando un’apertura, con le fauci grondanti di bava che schioccano sempre più vicine alla sua carne.
Quando la vibrolama trancia di netto un paio di baffi di Kyr’ad, Din pensa per un istante di poter vincere, di poterlo almeno spaventare. Si rende conto troppo tardi di essere finito con le spalle contro la parete del canyon, in trappola.
Kyr’ad si acquatta, caricando il balzo, negli occhi la scintilla del cacciatore che ha finalmente braccato la preda.
Din sente qualcosa, dentro di lui, che scatta con la stessa violenza di una vibrolama appena attivata. Sa che non è lui a urlare e lanciarsi in una carica cieca addosso a Kyr’ad, cogliendolo di sorpresa, e sa che non è lui a gettarsi sul suo dorso e a stringergli convulsamente le braccia attorno al collo, cercando di strangolarlo e costringerlo a terra.
Kyr’ad si impenna, tentando di scrollarselo di dosso, ma Din non molla la presa – è come con Tobo, quando giocavano alla lotta e gli si metteva a cavalcioni sulla schiena. Solo che ora non si limita ad aggrapparsi e farsi sballottare qua e là ridendo, ma incrocia i polsi e serra i gomiti, sentendo il sangue dello strill che pompa sotto la sua stretta e gli artigli che arrancano a vuoto cercando di disarcionarlo, finché la vibrolama nell’altra mano non trova un’apertura e lacera pelle e pelo.
Lo strill ruggisce, si inarca sulle zampe anteriori e sgroppa, facendogli perdere la presa. Din rotola e si rialza subito, mosso da un istinto che gli impedisce di stare fermo, di rimanere a terra, di farsi sbranare come una preda, come il lothrat sventrato a pochi metri da lui, con le viscere riverse nella polvere e gli occhi bianchi.
Kyr’ad uggiola rannicchiato a terra, passandosi una zampa sull’orecchio mozzato. Din gli è di nuovo addosso, con la mano armata pronta a colpire – alla gola, sotto alla mandibola, come quando suo padre sgozzava un nerf: un taglio netto e sicuro per non fargli nemmeno capire cosa stava accadendo.
Il grido che lancia prima di colpire parte dal basso, dal pozzo nero che tenta di inghiottirlo da quando l’hanno chiuso in uno scantinato buio – vuole uscire, vuole scappare da là sotto.
«Gev!»
Una morsa gli stritola il polso, così forte che la vibrolama gli cade di mano. Si sente tirare verso l’alto e sollevare come se pesasse quanto un ramoscello di veshok, col braccio che si tende dolorosamente. Azi lo allontana di peso dallo strill ferito, rimettendolo bruscamente a terra qualche metro più in là, senza mollargli il polso.
Din sente il sangue bloccato sotto il suo guanto e la mano che perde sensibilità, pizzicandogli le dita. Ha un velo sfocato davanti agli occhi e non riesce a rendere nitida l’immagine troppo vicina del Mandaloriano. L’elmo blu occupa la sua intera visuale, divorando tutto il resto. Per un istante vuole credere che sia Ruu, anche se sa che non è così.
«Sei un guerriero» dichiara Azi, con la voce profonda che sembra strisciare nel sottosuolo di un luogo buio e umido, accompagnata da un fruscio metallico.
Din batte le palpebre, sentendole appiccicose. Passa la manica libera a pulirle e si rende conto solo ora che è sangue – non il suo, almeno non quello. L’ultima parte della frase dell’alor risuona in modo più cristallino.
Solo adesso, mettendo a fuoco ciò che vede a tempo coi battiti impazziti del suo cuore, si rende conto che Azi si è tolto l’elmo.
Il suo volto è schiacciato: la punta del lungo naso si discosta appena dalle labbra e gli zigomi sono appiattiti, come se si fossero deformati sotto la pressione costante dell’elmo. Una cicatrice purpurea gli attraversa in diagonale la bocca. È più vecchio di quanto credesse, coi capelli e la barba rada di un color catrame screziato di grigio e bianco. Ha gli occhi chiari simili a ghiaccio sporco, quello che ricopriva le pozzanghere per strada ad Aq Vetina dopo una nottata di gelo e che veniva calpestato dai passanti fino a diventare fanghiglia.
Forse ha l’età di suo padre, ma nemmeno un briciolo della severità gentile che animava i suoi occhi: in quelli di Azi scorge solo durezza e ferocia trattenuta solo in parte. Se prima ne aveva paura, adesso lo terrorizza. Vuole che si rimetta l’elmo, incastrato tra il suo braccio e l’armatura.
Il Mandaloriano non si abbassa su un ginocchio come fa Ruu: lo fissa dall’alto, sovrastandolo, a ricordargli che potrebbe spezzargli il polso con un semplice scatto della mano e ucciderlo con altrettanta facilità. Din sobbalza, quando allunga l’altra mano ad afferrargli rudemente la nuca, tirandogli i capelli, per poi chinarsi a schiacciare la fronte contro la sua e sibilare un’unica frase incomprensibile:
«Kyr’tsad kar’tayl gar sa’ad.»
Din inala una zaffata acre sul suo alito, di fumo e tihaar e sangue, vede le pagliuzze più scure nelle iridi di Azi e conta le rughe scavate attorno agli occhi – e l’attimo dopo è di nuovo libero di muoversi e respira aria tiepida, pulita.
«Sei un Mandaloriano, adesso.»
Azi si è già rimesso l’elmo e si sta allontanando, seguito da Kyr’ad. Lo strill si volta un paio di volte, come assicurandosi che lui tenga il passo. Din rimane fermo, col fiato corto che a malapena riesce a uscire dal naso prima di rientrarvi. Non si è mai sentito così vivo, ma una parte di lui pensa che forse è morto e la paura si gonfia e contorce come se avesse vita propria – come fosse lei a comandarlo.
Il silenzio del canyon gli pesa addosso, caldo e viscoso. Delle chiazze rossastre macchiano la terra. Poco distante, il cadavere semi divorato del lothrat tende le zampe rigide verso il cielo. Din trattiene un conato.
Ke’taab, adika.
Si aggrappa a quella voce e obbedisce, anche se Ruu non è lì – anche se dovrebbe esserci.
Riprende a marciare, con lividi e graffi che pulsano e una corda di rabbia che gli stritola il cuore.
Glossario:
alor: comandante, capo
cabur: guardiano o tutore
di’kut: idiota
gev: fermo, basta.
hut'uun: codardo; insulto molto pesante per un Mandaloriano.
iviin: veloce, sbrigati
jate: bene
kandosii: fantastico, ottimo (lett. "gloria").
K’/ke’: prefisso imperativo che si antepone ai verbi.
Ke’jurkad: attacca (jurkadir: attaccare).
Kyr’tsad kar’tayl gar sa’ad: lett. la Ronda della Morte ti riconosce come figlio. È una storpiatura di mia invenzione della formula d’adozione ufficiale "Ni kar’tayl gar sa’ad" = "Ti riconosco come figlio".
kisiwa: un cereale di mia invenzione, coltivato su Concord Dawn. Per descrivere i campi attorno ad Aq Vetina mi sono ispirata alla fioritura delle lenticchie di Castelluccio.
lothrat: topo/ratto di Loth. Ho preferito mantenere la grafia anglosassone.
nerf: animale domestico di aspetto bovino, allevato per la carne e la pelliccia.
strill: vd. glossario.
veshok: albero tipico di Mandalore e Concord Dawn
Riassunto dei colori citati: ge’tal, vorpan, shi’yayc, ne’tra, saviin, kebiin: rosso, verde, giallo, nero, viola, blu.
Note dell'Autrice:
Cari Lettori,
se siete arrivati fin qui, vi offro un premio per la resistenza :'D
Questo è stato un capitolo difficile da scrivere, ma necessario, perché nella mia testa raccorda mille cose diverse, sia per l'introspezione ed evoluzione di Din, sia per quella di Ruu, sia per lo sviluppo del loro rapporto che, come state vedendo da questi capitoli, non è affatto rose e fiori come poteva forse sembrare all'inizio – anche se ho sempre gettato indizi in merito.
Ho messo il trigger warning dopo averci riflettuto a lungo, ma ho ritenuto corretto avvertire il lettore, considerando cosa succede a Din che, qui, ha otto o nove anni. E considerando che per scrivere la scena del "battesimo forzato" non mi sono sentita affatto a mio agio, e spero che questa sensazione sia passata, perché l'intento era proprio quello.
Detto questo, la pianto di sproloquiare, vi ringrazio per aver letto fin qui e ringrazio tutti coloro che continuano a leggere e seguire la storia ♥
Un abbraccio di beskar,
-Light-
P.S. Fortunelli di EFP, voi vi beccate i capitoli nell'ordine e versione definitiva dopo che ho fatto pace col cervello: sappiate che l'ultima sezione è un inedito totale e su Wattpad dovranno aspettare un'altra settimana ;)