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Autore: robyzn7d    03/03/2022    5 recensioni
“Quante assurdità in questa storia.”
Nami, seduta sul letto, ancora quello dell’infermeria, aveva ascoltato tutto il racconto informativo di quella mattina narrato da Robin, sulle vicende bizzarre della misteriosa bambina apparsa per caso nelle loro vite.
“Come al solito a quel testone di Rufy non interessa indagare” strinse i pugni “io voglio sapere tutto, invece.”
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STORIA REVISIONATA
Datele una seconda possibilità, chissà che non ve ne pentirete!
Genere: Avventura, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mugiwara, Nami, Roronoa Zoro, Z | Coppie: Nami/Zoro
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo XXVIII
Il passato del futuro
 – parte seconda
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Vuoi fermarti?” 
 
Robin, completamente immersa nel racconto, sbalorditivamente descrittivo per essere narrato da una ragazzina che sicuramente aveva ereditato l’essere prolissa dalla madre, e di questo non poteva che esserne felice, iniziava a sentirsi pesante, come se fosse in attesa di qualcosa che non avrebbe dovuto sapere. Ciononostante, preferiva continuare. 
Il sentimento fu impossibile da trattenere a un certo punto. Con la mano a reggersi il petto, quasi a volerci lasciare un segno sopra con ferocia, Rin cedeva. Mano mano che i suoi ricordi di bambina prendevano forma ritornavano anche le sensazioni, le impressioni, gli sbagli. 
“Mi fa così male…” 
Scosse la testa decisa a non arrendersi. Doveva essere forte. Doveva affrontare i propri demoni. Doveva affrontare i suoi sensi di colpa. 
 
“Avete trovato Zoro?” 
Voleva sapere ogni cosa, voleva aiutarla in qualsiasi modo possibile. 
Ma la bambina scosse la testa in segno di dissenso, 
ancora una volta. 
 
 
 
 
 
“Hai visto quante luci laggiù al porto?” 
La piccola, mingherlina ma con le guance paffute, sorrideva e annuiva, felice
“E guarda che bello il mare illuminato, mamma.” 
Dello spadaccino non c’era traccia, né alla taverna né nei dintorni di essa. Nami non voleva deludere sua figlia, ma ormai era certa che da qualunque parte lui fosse andato, si era sicuramente perso. Doveva perciò trovare dei metodi per far passare il tempo distraendo Rin abbastanza per non farla spaventare: ne aveva già sentite troppe di cose spiacevoli in quella brutta giornata. 
“Ti piace tanto il mare?” 
“Si” 
“Sei contenta di vedere posti diversi o ti manca la vita che hai vissuto a Coco?” 
Il cuore della navigatrice mancò di un battito nell’attesa di quella risposta che avrebbe potuto cambiare per sempre tutta la sua vita. 
“Mmm” 
“Lo capisco, sai? Se non sai scegliere…”
“Non é questo…ma tu e papà dovreste spostarvi sempre, no? A Coco starei sola? E se poi Papà ci lascerebbe perché non é la sua casa?”
Nami rimase interdetta per un attimo, consapevole di saper rispondere a quelle domande, ma stranita per un quesito che non si era mai posta, o forse, era sempre é solo la rabbia del momento che le obnubilava la mente e la rendeva suscettibile alle insicurezze. Lei non aveva nessun dubbio su Zoro, sapeva che le avrebbe seguite senza obiettare, eppure, quella semplice domanda l’aveva riportata indietro a tanto tempo fa, quando un problema del genere avrebbe potuto farla dubitare del loro rapporto. 
“Allora, se ne andrebbe?”
All’arrivo all’entrata del porto principale, la rossa senior s’inchinò davanti alla bambina, arrivando così all’altezza della sua minuta statura, poggiando le mani all’estremità delle sue spalle, guardandola amorevolmente. Improvvisamente conscia che quella peste sapeva diventare seria e austera come lui!
“Non andrà mai via da te, mai.” 
La piccola scosse la testa imbarazzata e felice, nascondendo il viso dietro alle mani e guardando la mamma solo attraverso due dita leggermente distanziate. 
“E Coco è casa tua e sua quanto mia!”
“Allora va bene ovunque, se noi stiamo insieme.” 
Ma sapeva essere anche così amabile, come lei. 
Nami le regalò un bacio sulla tempia, scompigliandole però poi tutti i capelli e facendola adirare di proposito, prendendola in giro con quel suo fare provocatorio, “sei proprio la cocca di papà, eh?”
“Non é vero!!!”
“Ma sai almeno cosa vuol dire?”
Quella mise il broncio, incrociando le braccia al petto “no”
“Ma allora perché ti agiti tanto se non lo sai?” 
Indispettita, la bambina, continuava a girare gli occhi e rivolgerli altrove, offesa, ignorando la madre che ancora rideva da sola. “Uffa...”
“Lo dico sempre che deve viziarti di meno…” sillabò il genitore, sempre e solo per continuare a stuzzicarla. Ma, in quel momento, vide che gli occhi di Rin diventarono improvvisamente più grandi, come se dopo aver riflettuto, fosse arrivata ad una conclusione. 
“Vuol dire che mi difenderà sempre da tutti i mostri? Anche da quelli coi tentacoli?” 
“Forse si, forse vuol dire questo…” 
“Allora lo sono! Sono la cocca di papà!” 
La rossa dovette cadere a terra dalle risate che le aveva provocato, tanto da dover reggersi l’addome, dolente per lo sforzo.
“Dammi solo un attimo”, le diceva, mentre cercava di riprendere fiato.
La bambina, nuovamente scocciata per essere stata derisa, venne attirata da qualcosa che catturò la sua attenzione, dimenticandosi presto della presa in giro.
“Mamma?” 
S’inchinò allungando la mano sulla pancia di Nami. La rossa, allora, alzò la testa sorridente, guardando la bambina negli occhi, trasmettendole il luccichio dei suoi che brillavano. “Si?”
“Hai la pancia?”
“Tutti hanno la pancia, Rin” rise ancora divertita, senza distogliere gli occhi da quella curiosità.
“Ma…é diversa…sembra, sembra di più” 
Nami rise ancora, non poteva resistere a quelle parole e attenzioni così ingenue. 
Poggiò la mano su quella manina preziosa, stringendola. “Te ne sei accorta anche tu, eh?”
“Sei malata? O stai facendo come lo zio Rufy? Hai mangiato come lui?” 
E ancora giù a ridere come una scema. 
Avrebbe tanto voluto che anche Zoro si fosse goduto un momento come quello, ma allo stesso tempo era contenta che qualcosa di Rin fosse solo sua, dal momento che lui era quello che si prendeva più attenzioni, visto l’effetto che le spade avevano sulla figlia. 
“Uffa…che c’é da ridere?” 
Nami continuò a stringerle la mano, spostandola e avvicinandola al centro della sua pancia.
“Un po’ di pazienza. Lo scoprirai tra meno di sei mesi!” 
“Uffa non capisco…” batté i piedi. “Che vuol dire?” 
“Un bambino…c’è un bambino…”
La faccia stranita e confusa della piccola la fece ridere un’altra volta, era troppo buffa e impacciata per evitare di prenderla in giro. Continuava a guardarla con un punto di domanda sulla faccia ma allo stesso tempo le guance arrossate, il viso scorbutico e le labbra arricciate,  come se volesse chiedere di più ma senza sapere come fare e cosa dire. Nami lo sapeva eccome a chi assomigliava in quel momento sua figlia, vivendo una sensazione di déjà-vu.  
“Hai la stessa faccia di tuo padre quando gli ho detto di te. Certe cose non fanno proprio per voi.” 
Quella batté il piede sul terreno. “E lui lo sa che c’è un bambino lì?” 
“Secondo te perché é così eccessivamente premuroso…di solito non lo é mica!” Rivelò, lamentandosi, mentre si ripuliva con le mani il vestito dalla terra. “È per questo che è sempre così preoccupato, al limite dell’oppressione direi!”
“Solo per un nuovo bambino?” 
Nami rise di cuore.
“Dai torniamo alla taverna, vedrai che troverà un modo per tornare lì da solo.” 
Ma non appena le due si voltarono per andarsene dal porto, il silenzio inquietante tutt’attorno allarmò la rossa, che, improvvisamente, non si sentiva più tanto sicura. 
“Andiamo via…” pronunciò, tutto d’un tratto allarmata. 
Ma quando si voltò nuovamente verso il sentiero principale, una decina di canne di fucile spuntarono dal nulla, chiudendole la strada.
 
“La navigatrice di cappelli di paglia tutta sola. Non c’è tuo marito, stavolta?” 
 
In un solo attimo, quelle parole felici, quelle risate calorose, quel silenzio sereno, si trasformarono in inquietudine. 
 
“O direi ‘quasi sola’…”
Akainu osservò la bambina con un accenno di disgusto sulle labbra. La stessa che Nami cercava di nascondere tenendola appiccicata a lei. 
La navigatrice era ancora sconvolta, ma non solo di quell’apparizione, ma della sua frase. Perché stava chiedendo di Zoro? Voleva approfittare della sua assenza o gli dispiaceva che non fosse lì? Rimasta gelata, si guardava attorno per identificare una strada come via di fuga più veloce, ma nel mentre furono circondate da un intero squadrone di uomini. 
“Non pensavi che avremmo ricevuto delle segnalazioni?…un uccellino ha fatto la spia…non si trova certo da tutte le parti una rossa famosa come te…”
“Zoro ti farà fuori se tocchi sua figlia. Non ti conviene mettertelo contro.” 
“Ma lui non c’è, o mi sbaglio?” 
Nami fu costretta ad ingoiare un magone d’ansia e buttarlo giù per la gola. Il suo respiro era appena aumentato, il cuore aveva iniziato ad accelerare il suo battito.  
In un attimo, Rin, a sua volta spaventata, ma preoccupata per il genitore, cui aveva sentito chiaramente le mani tremare, era sfuggita alla sua presa, per cercare di capire cosa stesse succedendo. E, mentre la piccola guardava gli occhi di sua mamma sgretolarsi, senza capirne il motivo, qualcosa di metallico si avvicinò improvvisamente alla sua testa. 
Rimase immobile, continuando a guardare Nami, freddata, e quel terrore diventato subito nero dentro di lei. 
 
 
“All’epoca non mi accorsi di avere un fucile sulla testa, non seppi nemmeno perché non mi voltai. É stato solo un po’ di tempo dopo, che capii: la mamma mi aveva fissata con così tanta intensità per attirare la mia attenzione… tutto, pur che io non distogliessi lo sguardo da lei. 
“Va tutto bene
mi diceva.
“Guarda me. Guarda solo me.” 
Ma poi, quel Marine non era riuscito ad ubbidire ad un ordine tanto vigliacco, non aveva potuto premere il grilletto su un essere umano così piccolo, seppur pirata.” 
Rin inspirò a fondo prima di rilasciare l’aria dai polmoni. 
“Ci fu un momento in cui credetti di sentire dei denti tremare e poi un tonfo, qualcosa cadere a terra e la voce di quell’uomo, che tanto non mi piaceva subito a seguire: 
“La marina non se ne fa nulla di uno come te”. 
Solo dopo mi resi conto che Akainu lo aveva ucciso.” 
 
E, mentre la piccola faceva uscire dalla memoria i suoi peggiori tormenti, Robin rimaneva immobile ad ascoltare, tesa come una corda di violini, come se qualunque movimento inutile avrebbe potuto mettere fine a quel viaggio nei ricordi, che da nostalgico e pieno di amore prendeva improvvisamente una piega dalle tinte terribili. 
 
“Fu in quel momento però che tutti gli altri furono costretti a tenere i fucili ben puntati. E la mamma lo sapeva che avrebbero sparato per non venire uccisi a loro volta. 
Così, in quel frammento di tempo, montò il suo Clima-Tact, e in un paio di colpi, stese tutti quelli che in prima fila erano muniti di fucile, salvando loro e noi allo stesso tempo. 
Ma sai, qual é stata la cosa più strana? La mamma non ha urlato mai. Non ha detto una parola. Era fin troppo sconvolta per ragionare
…o forse sono io che ricordo solo il silenzio.” 
“Che é successo? Come avete vinto?”
Rin Tremò. 
“Vinto?”
 
 
 
 
 
“Devi stare qua, vicina a me.” 
 
Nami continuava ad attaccare i Marine circostanti con i suoi attacchi più aggressivi, e attaccava anche le file secondarie con quegli attacchi che poteva scagliare a distanza, e riusciva, in poco tempo, e con meno fatica del passato, ad annientare tutti i soldati semplici e anche quelli di più alto livello di forza, il tutto mentre con una mano teneva la bambina dietro le sue gambe. 
“Pensi davvero di salvare la tua mocciosetta?” 
La voce di quell’uomo, e per giunta con tono fintamente annoiato, continuava ad innervosirla parecchio. 
“Non ti avvicinerai a lei. Mi hai sentita?”
Gli rispose a tono, con tutto il fiato che aveva in corpo: non l’avrebbe mai permesso. Aveva una responsabilità verso la vita dentro di lei che ancora non aveva nemmeno potuto prendere forma, ma ancora di più l’aveva verso sua figlia, e per lei non si sarebbe piegata facilmente, avrebbe preso tempo, a qualunque costo.
 
 
 
 
“Akainu aveva già in mente di uccidermi. 
Non avrebbe avuto pietà di me. Nessuna.
La mamma ha capito subito che lui non mi avrebbe mai risparmiata, e l’ha capito in tempo. Non ha sprecato parole nemmeno per abbassarsi a contrattare con lui, perché lei lo sapeva già. 
L’ho vista chiara e tonda, l’idea del sacrificio in lei: si sarebbe gettata anche all’inferno per me. 
Mi ricordo il suo volto, il terrore nei suoi occhi, e non la stessa paura di adesso, legata soprattutto al sentirsi impotente davanti a lui, ma la paura per me. Una paura che difficilmente puoi dimenticare. É indelebile.
Ho questi ricordi difficili, e sono per lo più legati a dei dettagli, sensazioni, sguardi.” 
 
“Vuoi fare una pausa?” 
 
Rin scosse la testa, o forse era solo un accenno, ormai totalmente immersa in quel ricordo tanto doloroso quando difficile era tramutare le sensazioni in parole. 
 
“Lei lo ha provocato più volte, sovrapponendosi tra me e lui. Lo teneva a distanza, affrontando i soldati che si fiondavamo su di noi con facilità, ma innervosendolo sempre di più. 
Io come una stupida sono rimasta ferma lì, senza fare nulla. Ricordo solo di aver provato delle emozioni così forti, con un grigio presentimento addosso che non potevo capire, tutto dovuto allo sguardo della mamma che ancora oggi è fermo davanti ai miei occhi come fosse quel giorno. Non l’avevo mai visto così. 
Io non ero mai stata veramente in pericolo, prima di quel giorno. 
La vidi venire ferita, colpita ferocemente, senza nessun risparmio. Mi pareva di sentire lo stesso dolore sulla pelle ad ogni colpo. Me lei, nel frattempo, pensava solo a me e non a sé stessa. 
Io non ho mai urlato, osservavo tutto e basta. Ricordo questo gran silenzio. Ma quando incontravo nuovamente quello sguardo, piangevo…
“mamma, quando finisce? Mamma quando finisce”
Che stupida bambina sono stata!” 
 
“Non puoi incolparti di questo” 
Il tono di Robin era smorzato dall’angoscia e un senso di claustrofobia l’aveva colpita alla gola, riducendo ancora di più il suo tono.
“Sei troppo intelligente per prenderti le colpe per come ti sei sentita in una situazione così terribile”. 
 
“Sai, ad un certo punto la mamma si é voltata per rassicurarmi e ha detto una frase che mi ha fatta a pezzi, da lì al corso degli anni a seguire…le parole più brutte che avessi mai sentito.”
Rin alzo il capo con uno strano sorriso di resa addosso che non sapeva affatto di felicità. 
“Mi disse: “vedrai Rin…ora arriva Papà e tornerete a casa”. 
Mi soffermai parecchio su quel tornerete a casa, poiché significava che lei non ci sarebbe stata, che lei non sarebbe tornata.” 
 
Le mani le erano ormai diventate tutte rosse, graffi pieni di rabbia sfogata sulla sua pelle candida all’esterno ma provata dal continuo uso della spada all’interno, nei palmi.
Sentì il cuore di Robin sussultare, e capì di averla spaventata. 
 
“Sai che ho fatto, invece? Ho lo stesso annuito come una stupida, senza pensare al reale significato di quelle parole. Pensavo solo alle braccia di papà…pensavo solo di voler tornare a casa. Che stupida bambina. Stupida, stupida, stupida frignona viziata!” 
 
“Rin…”
Gli occhi della mora, sempre imperscrutabili, ora trasparivano un dolore concreto evidente. Era davvero riuscita a spaventarsi da quelle parole. 
“Non é umano sentirsi in colpa per aver avuto paura…!”
Provò a rincuorarla comunque, anche se si vedeva che era impaziente di conoscere il seguito, incitandola a continuare, nonostante però una paura crescente. 
Ma la bambina aveva la gola secca, quasi bloccata, vergognandosi di ciò che stava ammettendo. Sulle sue mani comparirono dal nulla quelle di Robin che fermarono il suo torturarsi, guardandola per invogliarla a respirare e prendere fiato. 
“Eri solo una bambina…anche io mi sono addossata a lungo colpe che non sono mai state mie. Devi ascoltarmi su questo…”
Rin così smise di ferirsi le mani, alzando la testa su Robin, in uno sguardo intenso e affranto, che fermò le sue parole. 
“Fu in quel momento che lui la colpì, forte…alla pancia…Fu in quel momento, quando il suo bastone cadde a terra spaccato in tre pezzi, che sentii il mio cuore fermarsi. 
Mamma. Chiamai nella mia testa. 
Ma non usciva niente. 
Mamma. Mamma.
Niente, non avevo più voce, l’avevo usata tutta. Avevo sprecato la voce inutilmente solo per paura, per colmare la mia stra maledetta paura… non riuscivo nemmeno più a piangere. Volevo urlare ma non potevo farlo. Ricordo ancora la sensazione, ricordo ancora il dolore della gola.” 
 
 
 
Nami era riuscita ad abbattere tutti i soldati da sola e con una sola mano. Akainu l’aveva colpita di sorpresa, poiché infastidito da quel suo riuscire a cavarsela nonostante la situazione di svantaggio. 
“Perché te la prendi così tanto con noi?”gli disse, mentre riusciva a reggersi sulle ginocchia, ma da lì a rialzarsi e combattere ancora a lungo iniziava a vederla veramente dura. E tutte le volte il suo esitare nel rimettersi in piedi faceva sorridere sempre più quel maledetto. E così, la rossa, faceva quello che sapeva fare meglio: prendere tempo. “Che cosa ti abbiamo fatto proprio noi? Cosa ti brucia tanto?” 
Nami sapeva che quello era l’ultimo sacrificio che avrebbe potuto chiedere al suo corpo malandato, ormai prossimo al collasso. Sentiva un fuoco acceso dentro di lei, che le dava la forza per rimettersi in piedi. Quel colpo del Marine era stato deleterio, e ne era bastato solo uno per renderla uno straccio. Le aveva fatto male. Le aveva fatto male davvero, tanto da essere consapevole che un altro colpo avrebbe potuto ucciderla. 
Sentiva del sangue scivolarle dalle gambe, e una lacrima attraversarle il viso nello stesso momento; la lacrima per il suo bambino, che ora come ora non sapeva proprio se potesse esistere possibilità di salvarlo. Le doleva così tanto il ventre, lo stomaco, le dolevano anche le gambe. Il senso di nausea era così forte, che se avesse ceduto al vomito, si sarebbe strozzata da sola. Persino la sua gola era così dolorante, tanto da non aver voglia di parlare ancora. 
Stava succedendo tutto da capo: come sua madre aveva lasciato lei senza un genitore, per salvarla, lei si ritrovava a fare lo stesso a Rin. 
Un’altra lacrima a rigarle il volto mentre avanzava e tirava via la figlia dalla traiettoria che separava lei dal marine. 
Perché doveva succedere ancora? 
E la ricordava bene la sua rabbia per la morte di Bellemere, per quel sacrificio che da bambina non era riuscita a comprendere. 
Non voleva lasciare Rin, aveva così tanto ancora da insegnarle, ma sapeva che sarebbe stata al sicuro lo stesso, protetta; non sarebbe stato come per lei, Rin aveva Zoro, aveva due famiglie intere che avrebbero lottato per lei. L’unica ragione che la faceva sorridere e che le dava la forza per accettare quel maledetto destino.
E Zoro…
É a lui che pensava. A quanto si sarebbe infuriato perché lei non aveva rispettato un patto, la promessa di stare fuori da guai. Si, si sarebbe tanto infuriato, e chi lo avrebbe sopportato, poi?
Ma dove diavolo si era perso?, si chiedeva devastata dalla sua assenza. 
Un’altra lacrima a sgorgarle sul volto. 
Le mancava così tanto. 
Ripensava alla sua carezza sul braccio, sul portico di Coco: bastava davvero poco per farla sentire al sicuro. Alle loro notti insieme, nel sentirsi l’unica a poter condividere i suoi lati più intimi. Ad essere l’unica a poterlo toccare, anche solo per dargli una lezione o una bella botta in testa. 
Zoro, lui, quello con cui aveva sempre di che discutere, era il suo più grande rammarico. L’unica cosa al mondo che non l’avrebbe fatta andare via in pace. Il calore del suo petto, l’intensità del suo sguardo quando facevano l’amore, il tocco rude della sua mano quando era preoccupato, il modo unico che aveva di imbarazzarsi quando si trattava di tirar fuori i sentimenti o compiere un gesto minimamente carino. Ciò che amava di più di lui era che si imbarazzava e vergognava di qualcosa di normale come dire “ti amo” ma non si faceva problemi a stringerle il braccio quando la sentiva vivere un momento difficile, o ad osservarla e accorgersi di tutti i suoi cambiamenti d’umore: non si rendeva conto che quello era più dimostrazione d’amore che dirlo a parole. Lui, l’uomo di cui si fidava più al mondo, da cui aveva accettato a sua volta regole e rispettato opinioni. Lui troppo severo, lui troppo poco indulgente, lui…così buono.
Non l’avrebbe mai ammesso con nessuno, nessuno davvero!, ma in quel piccolo frammento rimpiangeva ogni secondo che avevano perso. Pensava a quel momento nella taverna, rimpiangeva il non aver abbassato i toni, l’aver seguito solo il suo orgoglio. Rimpiangeva il non averlo fermato sulla porta e stretto così forte da fargli sentire che lo sapeva bene quanto si sentiva amata, e quanto sapesse che quello per lui era un vero sacrificio, il non adempiere ai suoi compiti per il suo capitano.
Le mancava. E le sarebbe mancato anche da morta. 
Tuttavia, ora, si rendeva conto di essere impotente di fronte a quella tragedia: lei sarebbe morta lì. E senza poterlo toccare ancora, senza poter vedere quei lineamenti indurirsi contro di lei, quella mascella serrarsi quando lo faceva arrabbiare, quello sguardo intenso che le prometteva la salvezza, che ora, più che mai, l’avrebbe confortata. 
 
I capelli le ricadevano a ciocche sugli occhi appiccicandosi attorno al viso sporco di sangue. 
Gli occhi gonfi di rabbia e delusione per quello sporco uomo che non meritava di chiamarsi marine, che non aveva fatto i conti con la sua furia, con quanto avrebbe potuto diventare pericolosa in battaglia se si trattava di evitare il fare del male a un bambino. 
Con una smorfia piena di dolore, era in piedi un’altra volta, pronta per una contromossa. 
 
“Tu vuoi proprio morire, vero?” 
Sibilò il marine, quasi oltraggiato da quella donna senza nessun potere che lo sfidava apertamente. 
“Non la toccherai mai!”
Gli rispose in un ghigno appena accennato, mentre si parava esplicitamente tra Rin e lui. 
Ma, nemmeno stavolta, riuscì ad evitare di esser travolta da quella potenza inaudita. 
Lui non si era risparmiato: sentito insultato nell’orgoglio da una debole donna pirata che lo aveva tenuto occupato anche fin troppo, aveva sferrato un altro colpo. 
Nami ricadde a terra come investita da un treno, e, facendo richiamo a tutte le sue forze e senza emettere un solo gemito per orgoglio, l’unica cosa che fece fu allungare un braccio verso la figlia.  Si rannicchiò il più possibile su Rin e quasi smise di respirare. 
Il sangue pulsava. 
Non era sicura di essere ancora viva.   
 
 
 
 
 
“Lei era a terra, davanti a me, in una pozza di sangue. Non un po’ di sangue, non una semplice ferita, non svenuta: era a terra, con la pancia rivolta al pavimento, in una macchia di sangue che si propagava come olio sotto di lei. Il suo viso rivolto a destra, verso di me, che mi guardava; vedevo le sue labbra sillabare il mio nome. 
Ho gattonato fino a lei, senza riuscire né a piangere, né ad urlare. Volevo chiamarla. Volevo crollare. Ma non vi riuscii. Le misi le mani sul viso, sulla spalla, la smossi…ora non non ricordo bene come andò. Nei miei ricordi non ci sono nemmeno rumori, non ci sono voci, nessun dialogo, ci sono solo visi, espressioni e paura. 
Ricordo un’ombra che avanzava, era ancora Akainu. 
La mamma si mosse in tempo, prendendomi tre le braccia e facendomi ancora una volta scudo col il suo corpo, coprendomi con il suo e, quando quell’ombra ci fu addosso, un’altra arrivò su di noi ancora più velocemente, e non vidi più nulla.” 
 
 
Robin non parlava.
Il suo viso sembrava essere attraversato da delle lame che le impedivano di muovere gli zigomi. Ancora quel senso di claustrofobia. Ancora la gola bloccata. 
“Rin…” la voce quasi non le veniva fuori, “ti prego…” fece un respiro, “se devi dirmi che morirà…basta, abbiamo sbagliato ad affrontare questa conversazione…avevi ragione, non voglio sapere più niente!”  
La mora, con le gambe improvvisamente deboli, si era messa in piedi e reggeva forte la ringhiera della Sunny.
“Non posso affrontare tutto questo…ci siamo spinte oltre…io non”
 
Rin aveva visto Robin vacillare in quel modo solo un’altra volta. Perdere quella fierezza e compostezza. 
Sussultò un attimo, nel ricordarlo, e ne capì immediatamente lo shock. 
Le permise di prendersi un momento, ma non aveva intenzione di fermare il racconto ormai avviato. 
 
 
“Quando mi sono risvegliata, non so quanto tempo dopo, ma non doveva esserne passato tantissimo poiché avevo addosso lo stesso vestito e mi sentivo sporca di terra e sangue, ricordo che mi facevano male gli occhi e anche la testa, da quanto avevo pianto. 
Ma, qualcosa di caldo e morbido mi stava tenendo stretta. Ricordo il respiro vicino al mio orecchio, il tuo respiro Robin. 
Ero tra le tue braccia. 
E ricordo il tuo cuore battere veloce sotto di me. Eri agitata. 
Non ti avevo mai sentita così. 
Vidi il tuo profilo, e vidi ancora la paura, quella che mi spaventava, così decisi di chiudere gli occhi, imponendomi di non guardare.” 
 
 
 
“Robin, cosa fai?” 
Franky era apparso di corsa nella stanza della mora, abbassando la porta delicatamente per non svegliare Rin. 
“La bambina! é ferita! Dobbiamo medicarla!” 
“lei sta bene. Il sangue é…di Nami”
Quelle parole pronunciate con timore. 
“Maledizione! Perché non hanno risposto al lumacofono! Chopper cosa ha detto?” 
L’agitazione del cyborg era palpabile; non faceva che passarsi una mano tra i capelli, muovendosi da una parte all’altra della stanza. 
“É ancora dentro. Voglio andare ad aiutarlo ma…non voglio lasciarla…”
“Dalla a me!” Si offrì, allungando le braccia davanti ad una Robin titubante nel volerla lasciare, mentre una lacrima le attraversava il viso. “Dalla a me!” 
Ma in quel momento Sanji entrò nella camera da letto dell’archeologa, con una espressione furibonda e preoccupata, non molto difficile da interpretare. “Ci sono novità?” 
Osservato dai due, il cuoco si era subito concentrato sulla rara lacrima scivolata sul viso della donna, capendo immediatamente tutto il suo turbamento, quitando così il suo. Provò improvvisamente a rassicurarla con lo sguardo, avvicinandosi a lei e, dolcemente, togliendole Rin dalle braccia. 
“La tengo io, Robin-chan. Ci penso io a lei.”
 
 
 
 
L’archeologa, scesa così per l’infermeria, incontrò Rufy seduto a terra appena fuori, oltre ad essere pieno zeppo di ferite esterne, con tanto di sangue ancora fresco, il viso barbuto provato, i lineamenti seri, gli occhi appena aperti con dentro il vuoto, poteva scorgere anche le sue ferite interiori, erano così leggibili, come uno dei suoi tanti libri. 
“Capitano!” 
Richiamò la sua attenzione con la voce che voleva incutere sicurezza ma che invece risultava essere, per la prima volta, un po’ tremante. “Devi alzarti!” 
Vide Rufy posarsi una mano a pugno sull’occhio gonfio, e strofinarla sopra. Annuì. 
“Robin…solo…un attimo.”
“Zoro? É dentro?”
Rufy si tolse il cappello, poggiandolo su una gamba. Scosse il capo in segno di dissenso. 
“Non é mai entrato…” 
L’archeologa sospirò, la situazione era pure peggiore se i suoi compagni non riuscivano a rispondere attivamente, ad elaborare la gravità della cosa. Fece comparire una mano sulla spalla dell’amico, lasciandogli una pacca sopra.
“Sono sicura che lui ha bisogno di te, in qualche modo.” 
Il capitano annuì, mettendosi difficilmente in piedi, con le lacrime che cadevano silenziose dal suo viso. Si costrinse di ricacciarle dentro. Si costrinse a rimettersi in piedi. 
 
 
 
“La seconda volta che ho riaperto gli occhi” riprese a raccontare, “mi trovavo tra le braccia di Sanji. Riconoscevo l’odore del bagnoschiuma che usava a quel tempo, mischiato al forte odore di tabacco, che in generare odiavo, ma su di lui, quel miscuglio, era buono. 
Ricordo che faceva su e giù, su e giù, come che mi stesse cullando, e devo dire che funzionava, perché era riuscito a quietare anche i miei sogni, oltre che le sensazioni di quel momento. 
Tenevo ancora lo stesso vestito, quindi sapevo che era ancora quella notte.” 
 
 
“Dovremmo metterle il pigiama e farla dormire su un letto comodo, hoho” 
La voce di Brook interruppe quel perfetto momento di pace, mentre in piedi, osservava l’esterno dalla finestra che dava sul ponte. 
“Non voglio che stia sola in questo momento” fu la rapida risposta del cuoco, che, nervosissimo, stava evidentemente non fumando solo per non farlo aspirare a lei. 
“Pensi che sia meglio portarla da Zoro?” 
“No” 
“Non essere arrabbiato con lui.” 
“Quando questo inferno passerà, lo disintegrerò.” 
“Non é stata colpa sua, Sanji”
“Una cosa e basta doveva fare! Una sola!”
Ringhiò arrabbiato, facendo ancora su e giù, su e giù per la stanza, lasciando piccoli tocchetti delicati sulla schiena di Rin.  
“Per quanto ne sappiamo, Nami é uscita dalla taverna senza avvisarlo…non avrebbe potuto fare niente…Sanji, sfoga la tua sofferenza in un altro modo…se ora te la prenderai con lui, Zoro ne approfitterà, vi userete entrambi per non affrontare il dolore.” 
“Bastardo!” 
“Sanji!”
Lo rimproverò seriamente lo scheletro, ancora intento nell’osservare il fuori. 
“Guarda, Zoro é sul ponte. Ma perché é fuori e non dentro? Ma che sta facendo?” 
Una manina si depositò sul collo pulsante del cuoco, facendolo immediatamente fermare.
“É mia…” sillabò appena.
“É tua?”
“É mia la colpa…”
La risposta improvvisa arrivò flebile dalle labbra della bambina. “Volevo trovare papà…e allora siamo uscite, e...”. 
Sanji si fermò allibito, voltandosi a guardarla mentre apriva piano un occhietto da cui usciva una lacrima. 
“Non ti arrabbiare con papà…ti prego.” 
Brook si avvicinò intenerito, accarezzandole i capelli sulla nuca. “Signorina, mi permetta di dissentire!” Abbassò il corpo, trovandosi faccia a faccia con il muso imbronciato e assonnato di Rin. “Non c’è nessunissima possibilità che possa essere colpa di un fiorellino. Lo sai che i fiori hanno dei meriti importanti? Tu che fiore sei? Qual é il tuo preferito?” 
“Il girasole” 
“Oh, che bel fiore! Ebbene, lo sai che i girasoli non hanno mai colpa?”
“Non lo sapevo.” 
 
 
 
 
 
“Zoro!”
Lo chiamò all’attenzione il cecchino. “Ma cosa cavolo stai facendo qua fuori?” 
Seduto sul cornicione della Sunny, lo spadaccino, a petto nudo, si legava una benda fai da te attorno alla ferita al braccio che grondava sangue. 
Non gli rispose, cercando difficilmente di legarla aiutandosi con i denti, in un ghigno di rabbia. 
“Zoro!!!”
Usop lo chiamò ancora, ma il diretto interessato sembrava non volerlo proprio sentire, continuando a stringere così forte quella benda fino a farla spezzare sul suo bicipite, aumentandogli la fuoriuscita di sangue e provocandogli un urlo di dolore. 
Ne prese ancora un’altra, ripetendo il tutto, e oltre i denti estrasse nervosamente la spada dal fodero, pensando di usarla in qualche modo per aiutarsi.  
“Non é qua che devi stare in questo momento!” 
“Lasciami in pace, Usop!” 
“Devi andare in infermeria!” 
Il nasuto non ci vide più niente, perché quello continuava imperterrito a ferirsi il braccio mentre evidentemente la medicazione non riusciva proprio a farla. Stringendo forte i pugni sul fianco, e con le lacrime copiose che iniziavano a scendergli, lo ammonì pesantemente anche con lo sguardo.  
“Stai soffrendo! Ma non é così che devi affrontarlo adesso! Devi andare in infermeria!” 
Ma quello continuava ad ignorarlo, stringendo la nuova fasciatura, che ancora una volta spezzò, provocandosi dolore. 
“Basta! Smettila!”
Il cecchino si avvicinò di più, stringendo tra le mani il Clima Tact distrutto, che aveva recuperato per aggiustarlo. 
“Non devi fare niente adesso, puoi crollare se devi, dannazione!”
Ma Zoro continuava a stringere, stringere forte quelle stupide bende che a poco sarebbero servite per tamponare il suo dolore.
“Prenditi un momento!” 
“Smettila di pensare al peggio.”
Rispose, ancora stringendo la fasciatura coi denti. “Solo i deboli si fanno controllare dalla paura!” 
Con il volto attraversato dal terrore, Usop si sentiva così arrabbiato con lui, sapeva che Zoro non era uno facile, o uno che sarebbe scoppiato in lacrime come loro, ma questo era troppo persino per lui. “Ma non capisci che è grave?” 
“Sta zitto!!!” 
“Zoro!”
“Sta Zitto!”
Il pirata dal naso lungo non riusciva proprio a trattenere le lacrime, che ormai avevano preso il sopravvento su di lui, innervosendo ancora di più il verde, che faceva di tutto per ignorarlo. Aveva le mani tenute a pugni stretti su quell’oggetto che lo stava facendo spiritualmente a pezzi, mentre la loro speranza minacciava di consumarli ora che la nauseante realtà aveva colpito duramente. 
“Allora se queste sono le condizioni, se essere debole significa soffrire apertamente per chi si ama, io lo sono, sono debole e ne vado fiero!”
Usop non voleva infierire sulla situazione, ma qualcuno doveva parlare con quella testa dura e farlo reagire, anche se niente sembrava funzionare, tranne che nominare una precisa parola… la peggiore. 
“Se muore…tu…” 
Fu in quel momento che lo vide voltarsi verso di lui, con il suo sguardo più duro, quello che arrivava direttamente dall’inferno, lasciando la presa dei denti sul nuovo tentativo di fasciatura. 
“Adesso basta!”
Lo ammonì lo spadaccino, con l’occhio diventato improvvisamente molto più grande. “Lei non morirà!” 
Usop, imbestialito con lui, come mai prima, stava per attaccarlo nuovamente con toni più alti, quando però notò una cosa che non aveva mai visto prima: la mano di Zoro sull’elsa della spada, stava tremando. 
“Zoro…”
sillabò allora, leggendo nei suoi occhi una paura che non aveva mai scorto. Il suo piangere e arrabbiarsi riuscì a quietarsi per un attimo, non sapendo più cosa dire, se non che sentirsi uno stupido per aver inflitto il colpo di grazia in quell’uomo, suo amico, che era sempre stato il più sicuro e inscalfibile di tutti, ma che in quel momento forse non lo era più.
Sentì una mano sulla spalla, e, voltandosi, preso dal panico vide Rufy, col cappello sugli occhi, avvicinatosi silenzioso. 
Usop era stupito di vederlo lì; e la paura di una brutta notizia iniziò a paralizzarlo. Il capitano alzò il capo, guardando dritto nella direzione di Zoro, in silenzio, aspettando di avere la sua attenzione. 
Ci volle tanta pazienza nell’aspettare che Zoro riuscisse davvero a medicarsi, dal momento che aveva solo che peggiorato di molto la sua ferita al braccio, provocandosi appositamente dolore. 
Stavano in silenzio fissando la scena davanti a loro mentre il tutto si sbriciolava e metaforicamente bruciava, pregando per la salvezza di Nami. Ognuno dei cappello di paglia erano trattenuti nei loro respiri, nelle loro paure.  
Fu solo allora che, cercando di quietare il suo panico interiore, con tutto il suo coraggio, Zoro, voltò il capo verso Rufy, che ancora aspettava immobile, e trattenuto. 
“… é viva…” 
Una notizia sperata, attesa, pregata. Il sollievo dei cuori dei presenti era arrivato fino a Brook, che in ascolto, ora lo stava rivelando a Sanji e Rin. 
Ma Rufy però non aveva finito di parlare, e Zoro lo aveva capito. 
“Ha perso molto, moltissimo sangue…sei costole rotte, un polmone collassato, un braccio fratturato…e” quando lo sguardo del verde divenne nero, Rufy si fermò. 
“Zoro” 
chiamò la sua attenzione con cautela. 
Gli amici videro lo spadaccino scivolare a terra, con la spada seguirlo, rimbombando sul pavimento della nave: per una volta non ne aveva avuto nessuna cura. 
“Niente bambino…” aveva chiuso l’occhio, ridimensionandolo, come avrebbe voluto fare con quel nuovo dolore “é questo che stai per dire?” 
“…Si, questo.” 
La voglia di crollare di Rufy era incommensurabile. Ma rimase serio. Rimase un appoggio sicuro. Rimase il capitano. Rimase il suo amico, la spalla su cui piangere.  Seppur sapesse con certezza che Zoro non l’avrebbe usata. 
 
 
 
 
“Mi risvegliai nuovamente, ancora bloccata in quella terribile notte. Niente più odore di sangue, ma di pulito, insieme ad un odore diverso ma familiare, che conoscevo bene. Indossavo il pigiama e mi trovavo tra le braccia di Usop che dormiva con la bocca spalancata, probabilmente emotivamente distrutto, seduto sulla sedia in infermeria. 
Aprii leggermente gli occhi, forse timorosa di imbattermi in qualcosa di troppo duro da sopportare, senza muovermi eccessivamente per la paura di scoprirlo. 
Finalmente lo vidi, papà. Era seduto sul letto, al capezzale della mamma, che da quella visuale non riuscivo a vedere bene, tranne che notare come due fili la collegavano ad un macchinario che monitorava i suoi segni vitali.
Ricordo il rumore fastidioso di quella macchina. Non lo sopportavo. 
Ma, ancora di più, ricordo il rumore di denti che battevano. Un rumore quasi inesistente che però ho sentito. Un rumore per me straziante. 
Penso che quella fu l’unica volta in cui lo vidi piangere. Seppur in silenzio. Seppur con lacrime quasi silenziose. Non aveva perso tanto la fierezza, quanto la fiducia. 
Ed io mi sentii così male per lui, come una stupida che pensava solamente al padre eroe infallibile, impenetrabile da ogni dolore e ferita. Perché il mio papà non aveva mai avuto paura di niente prima di quell’occasione.
Così, non gli avevo concesso nemmeno una tregua a quel ruolo, a lui che era sempre stato solo una roccia…fui così tanto ingiusta nei suoi confronti, che scelsi di tornare a dormire per non sentirlo, per non vederlo. 
Faceva troppo male. 
E lo feci. Dormii per un altro giorno di fila, e senza svegliarmi mai nel frattempo. Avevo espresso un desiderio: non volevo più vedere quelle facce spaventate, non volevo vedere la mamma a terra, non volevo vedere papà ridotto in quello stato.
E tutto si avverò. 
Al risveglio sembrava tutto già così diverso, c’era il sole che filtrava dagli oblò, l’aria attorno era più pulita. Non sentivo male agli occhi o alla testa, seppur la confusione del risveglio mi stranì. 
Papà era lì, con me, finalmente. Lo trovai al mio capezzale, mi aveva scosso con titubanza per svegliarmi, riuscendoci con successo.
“Ma quanto ancora vuoi dormire?” 
Mi disse, accogliendomi tra le sue braccia, dove mi ci fiondai svelta, senza perdere un minuto di più. Mi aveva spaventata il vederlo diverso, il vederlo insicuro e instabile. Lui era la nostra sicurezza, la nostra forza, non poteva mostrarsi perso. Non aveva questo diritto. Non poteva permettersi di crollare. E lui lo sapeva. 
“Hei-hei fa piano!” 
mi sgridò, e in quel momento notai tutte le sue nuove ferite ben “imbalsamate” da Chopper. 
“Stai bene?” 
gli chiesi, titubante e spaventata nel ricevere la risposta. 
“Io? Certo!” 
mi disse, guardandomi in faccia serio e offeso per quella domanda per lui ridicola, come aveva sempre fatto. 
Fui felice. 
 
“Mamma?”
Trovai il coraggio di chiedergli, dopo, scrutando il suo viso in cerca di qualunque segno di cedimento. Ma non ci fu. Non arrivò mai. 
“Starà bene.” 
Mi scompigliò i capelli, e mi fece segno di seguirlo in cucina, come se niente fosse stato. 
Ero così felice in quel momento. Quei gesti mi avevano dato forza.” 
 
Sospirò. 
 
“Ma ero solo stupida e ingenua. Io non avevo capito un bel niente di quel dolore.” 
 
 
 
 
Dopo cinque giorni dallo scontro, Nami si era risvegliata; niente di così eccitante, come si aspettavano tutti, aveva solo aperto gli occhi per un attimo, il tempo di costringerla con i gesti a bere qualcosa, per poi riprendere a dormire. 
Il suo corpo non era proprio in via di guarigione, che sarebbe stata molto lunga e dolorosa, ma, almeno quello stava reagendo. Per il resto sembrava quasi arrendevole, sembrava non voler stare mai sveglia. Per quattro volte aveva fatto la stessa cosa, aprendo e richiudendo gli occhi subito dopo. 
 
“Non sta lottando abbastanza!” 
Aveva detto Zoro dopo un mese in quello stato, battendo un pugno sul muro. 
“Zoro!” lo ammonì Usop, “dalle il suo tempo, per diamine.”
Il verde alzò la testa guardandolo serio in viso. “Non esiste” 
“Perché sei sempre così duro, eh? Maledizione!” 
Il cecchino lo vide entrare nuovamente in camera sua, e dirigersi verso il letto dove avevano adagiato la rossa. Lo seguì, tirandolo per il braccio ferito, facendolo imprecare. “Che cosa vuoi fare? Lasciala riposare!” 
“Deve rimettersi!” 
“Non sono tutti come te, lo capisci sì o no? Rufy fa qualcosa! Chopper!” 
Ma i due amici erano rimasti immobili sulla porta, aspettando di vedere. 
“Io posso guarire solo le ferite del corpo” aveva specificato il dottore.
“Nami!” la chiamò, avvicinandosi al letto. “Forza, svegliati.” 
La scosse per le braccia senza metterci forza. “Basta dormire.”  
La vide muovere piano la testa e aprire un solo occhio stanco. Lo guardò negli occhi infastidita, trovandoselo così vicino d’improvviso.
“Forza” con una mano dietro alla testa provò a farla sedere “devi bere e anche mangiare!” 
Lei riuscì ad allungare un braccio con estrema fatica e dargli un debole colpo sulla faccia, incenerendolo con quello sguardo che spesso sapeva dedicare solo a lui.
“Va bene” accennò un sorriso il verde “colpiscimi dai!” 
Ma la mano di lei ricadde sul materasso, come se non riuscisse più a tenerla in piedi. Stava per richiudere gli occhi quando Zoro riprese ancora a scuoterla. 
“No, devi stare sveglia, almeno per un po’!” 
Il cuore che pulsava, la rabbia che tornava ad invaderlo. “Nessuno su questa nave si é arreso, hai capito?”
La rossa continuava a guardarlo, mettendo da parte il lato arrendevole per presentargli uno sguardo di sfida. 
“Così…guardami così, me lo merito, no?” 
Alzò nuovamente il braccio colpendolo alla faccia per la seconda volta e cercando di allontanarlo da lei, spingendolo via con un’accennata determinazione. 
“Vuoi essere la più debole di questa ciurma?”
Riuscì a farla smuovere un poco di più di prima, e, soprattutto, a farla appena scaldare, capendolo da quella presa al braccio che diventava sempre più forte. “Brava”, si complimentò, lasciandola fare. “Avanti.” 
“Z-zitto” le uscì finalmente una parola dalla bocca, rimasta bloccata per troppo tempo. “Chiudi la bocca!” Allungò entrambe le braccia, allontanandolo. “Vattene! Vai via”
“No, rimango” 
“Vattene ho detto” 
“No”
“Lasciami dormire” 
“No”
“Lasciami dormire, stupido, lascia…”
Delle lacrime spontanee la presero alla sprovvista, rigandole il viso. Si sentì morire dentro, poiché non voleva piangere, non davanti a loro, non davanti a lui, che la stava provocando chiamandola “debole”, e questo la faceva più dannatamente incazzare. Lo spinse ancora, abbassando lo sguardo per nascondersi. Non aveva nessuna voglia di affrontarlo, non ne aveva la forza. 
“Vai via” 
Ma quello che sentì arrivare non era un insulto, non era una provocazione, ma erano due braccia solide ad avvolgerla per la schiena trascinandola delicatamente sul suo busto. 
“Non me ne andrò mai più” 
Poi non disse più niente. 
La lasciò piangere silenziosamente su di lui, tenendola stretta, mentre una porta alle loro spalle si richiudeva piano. 
 
 
 
 
 
Nonostante gli antidolorifici assunti in larghe dosi, le ossa le facevano male. Era riuscita però a girarsi per il fianco destro, trovando un po’ di sollievo, dal momento che non avrebbe accettato un minuto di più quella stessa posizione. Trasalì quando qualcuno, nel buio, appoggiò una mano sopra la pelle nuda della sua spalla, spaventandola. 
“Aspetta,” veva subito sentito una voce accompagnare il gesto, benché appena in un sussurro “non ti farà più male così?” 
Zoro cercò di chinarsi su di lei per osservarla meglio. Vedeva le mani chiuse in due pugni in modo così forte che le sue nocche erano diventate bianche; il viso pallido e umido dal sudore - stando in quel letto senza poter fare ancora un bagno; l’espressione dolorante - e per fortuna non più vuota come nei giorni precedenti, che lo aveva spaventato non poco, il tutto nella luce tremolante della luna che filtrava nella stanza, illuminando appena i loro visi. Nonostante non fosse più vuoto lo sguardo, Nami, sembrava lo stesso come una statua, e sembrava altrettanto insensibile.  
Voleva rassicurarla, voleva cingerla più di così, ma si era congelato a metà azione. Sapeva che i suoi gesti sarebbero stati solo un ostacolo e che non avrebbero guarito le ferite di un cuore. Tutto quello che poteva fare adesso era aspettare, e aspettare era una tortura. 
Nami lo aveva riconosciuto prima ancora di sentirlo parlare, dal suo tocco impacciato della mano. Lo sentì cingerla quasi impercettibilmente, quasi senza nemmeno toccarla, poggiando appena il capo sulla sua testa. Zoro era lì, nel letto, con lei. Nami non poteva conoscere i pensieri dell’uomo, ma lo sentiva, e sapeva che lui non ne avrebbe fatto parola, che aveva timore di farle ancora più male. Gli occhi a farsi pesanti, di nuovo, ma per la paura, e la gola secca, per l’orgoglio che non le permetteva di dire niente. 
Era arrabbiata con lui? 
Forse sì. 
Ma forse era ancora di più la paura della sua reazione a spaventarla. Era come se avesse timore che lui ora s’imponesse di essere buono e attento, ma che dentro invece avesse un fuoco acceso pronto a divampare addosso a lei. 
Che lui fosse in realtà quello più arrabbiato. 
 
“Nami”
Lo sentì parlare col suo solito tono che poteva dire tutto e niente, mentre strofinava la testa sulla sua. 
“…non farlo mai più…non provare mai più a farti uccidere…”
Il suo tono era il solito, ma una piccola percezione faceva capire che stava nascondendo una sofferenza disarmante. 
Non era sicura di aver sentito bene, non poteva aver pronunciato solamente quelle parole. 
Ma non era arrabbiato? E la predica per non aver mantenuto una promessa? 
Si poteva chiamare pure sconvolta in quel momento stralunato. Forse erano le medicine, o la situazione ancora così surreale. Certo, non c’era dolcezza nel suo tono, in quel caso si, che avrebbe dubitato di sognare…ma nemmeno rabbia. Era tutta paura e l’angoscia che aveva di perderla. 
Non riuscendo a dire niente, e terrorizzata all’idea di poter precipitare, si rannicchiò ancora di più contro quel petto robusto, con la schiena, crogiolandosi del calore che emanava - quello che tanto aveva sognato mentre pensava di morire - e, percependo il suo respiro, ma anche il battito di quel cuore forte, iniziò nuovamente a provare qualcosa, a sentire qualcosa. 
 
“Hai il battito accelerato…”
 
Fu l’unica cosa che le venne da dire, senza che nemmeno fosse una vera risposta. 
 
Lui rimase in silenzio. 
 
 
 
 
 
 
 
 
Camminava avanti e indietro nella stanza, furioso oltre ogni limite. Non ci poteva credere che fosse accaduto davvero. Cosa avrebbe detto a Nami? Come le avrebbe spiegato una cosa del genere? 
“Zoro” il cyborg si fiondò in difesa della minore, mettendosi in mezzo. “É tutta colpa nostra.” 
“Ma cosa ti é saltato in testa?”
Urlava a sua figlia, ignorando l’amico, mentre lo superava. 
Non lo aveva mai fatto. Non le aveva mai urlato contro in quel modo. 
La vide seria, che tratteneva due lacrimoni sotto agli occhi con tutta la sua forza d’animo.  
“Un frutto del diavolo. Hai mangiato uno di quei dannati frutti?” 
Aveva le mani in testa, Zoro, dall’esasperazione. “Con tutto quello che già abbiamo passato. Anche questa poi…” 
“I bambini sono curiosi…” provò ad intervenire lo scheletro. 
“Zitti, é tutta colpa vostra!” Indicò Brook e Franky. “Dalla sua nave dovevate recuperare informazioni, non oggetti.”
“Ma c’era scritto ‘importante’!” 
“Dai, che male c’è, in fondo l’ho mangiato anche io…e anche io lo trovai in un forziere!”
Rufy iniziò a ridere di gusto, battendo una mano sulla spalla dell’amico esasperato. “Anche Robin, Brook e Chopper lo hanno mangiato, e siamo tutti forti!”
L’occhiata che ricevette bastò per farlo tremare, soprattutto quando aggiunse “e a Nami sarai tu a dirlo, immagino?”
“Oh, be…” il capitano si grattò la testa, non proprio convinto. 
Sospirando arreso, lo spadaccino si voltò nuovamente verso la figlia, ancora immobile e con la stessa espressione nello sguardo. “Lo sai che non potrai più nuotare?”
“Non m’importa.” 
“Non ti importa?”
“No!” 
Restava altezzosa e fiera in una posizione immobile e sicura. 
Vedendo quella convinzione, il verde placò la sua rabbia, avvicinandosi a lei. 
“Ma perché l’hai fatto se sapevi cos’era?” 
“Per proteggere.” 
“Proteggere?” 
le chiese Robin stupita. 
“Proteggere chi?” 
Fecero eco gli altri. 
“Nessuno dovrà più rischiare di morire per me.”
 
Era chiaro come il sole che la bambina non aveva superato l’evento nemmeno lontanamente come loro invece volevano credere. Era chiaro come il sole che si stesse riferendo a Nami. 
 
Zoro si quietò. 
 
 
 
 
 
Rufy, sulla polena, la sua postazione prediletta, osservava l’isola su cui ormai erano ancorati da giorni, senza essere però mai sbarcati. Ed era incredibile per lui, una tale resistenza. Ma lo aveva fatto per garantire protezione totale alla sua ciurma, a Nami. Senza di lei, poi, potevano navigare solamente il giusto. Robin non troppo lontana, lo teneva d’occhio, mentre leggeva i diari di Nami con tutte le indicazioni nautiche, in attesa di capire quale sarebbe stata la prossima direzione da prendere. 
Entrambi si voltarono, quando, al tramonto, lo spadaccino si rivelò sul ponte con la sua solita espressione enigmatica. Al seguito aveva la piccola, ancora in punizione per quello che aveva fatto. Che poi, la punizione non la sapeva ancora nessuno. 
“Sta per piovere” rivelò lei, alzando la testa verso le nuvole. 
Il capitano, che l’aveva sentita forte e chiara, orgoglioso, fece un salto dalla polena, mettendole subito il suo cappello sulla testa, “allora sarà meglio rientrare per la cena”, le sorrise, battendole un cinque con la mano. 
“Rufy”
Il verde non aveva smesso di guardarlo, nemmeno per un attimo. Aveva qualcosa d’importante da dirgli, che, nel momento in cui l’altro ricambiò il suo sguardo, capì immediatamente. 
Zoro non aveva mai chiesto nulla, non aveva mai voluto favori e non aveva mai preteso di riceverne. Ma stavolta, stavolta aveva una richiesta ben precisa. E non era per lui: era per Nami, era per Rin. 
“Qualunque cosa tu voglia fare, la faremo.” 
Fu l’affermazione convinta del moro, che aveva già intuito tutto e non vedeva l’ora di ricambiare l’amico, di rendergli un favore, di fare qualcosa che era in suo potere per alleviare il suo dolore, di essere, finalmente, la sua spalla.
 “C’è una rotta?” 
 
 
“Villaggio Shimoshiki.” 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: ______________________________
Salve a tutti, 
vi prometto che sarò nuovamente brevissima. 
Eccomi con la mia ultima fatica. Se, per puro caso, ve lo starete chiedendo, si, non è finita. Ebbene, c’è anche “Il passato del futuro – parte terza.” 
Mi odiate per questo? 
Non lo so, fatemelo sapere se vi va. 
Probabilmente il modo in cui ho scelto di raccontare può dare fastidio, ma ho seguito solo l’ispirazione. 
 
Dal momento che non riesco a rispettare le scadenze che prometto, stavolta non lo scriverò direttamente. Ma spero di pubblicare in fretta. 
 
A presto con la prossima odissea. 
 
 
 
   
 
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