Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
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Autore: WillofD_04    25/03/2022    2 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Forse non potevo fare niente per Rufy, ma c’era qualcosa che potevo fare per me stessa. Anzi, c’erano più cose che potevo fare per me stessa. Così mi ero messa all’opera. Come prima cosa avevo chiesto ad Usop di rendere il mio zaino impermeabile e di sigillarlo, in previsione delle rovinose avventure che avrei vissuto con i Mugiwara per trovare il Poignee Griffe: avevo intenzione di portare con me il cellulare – dopo che era comparsa l’applicazione che mi consentiva di vedere i miei famigliari non me ne separavo mai – e non potevo permettere che si bagnasse, o peggio. Quel telefono era l’unico contatto che mi rimaneva con il mondo dal quale provenivo, l’unico modo in cui potessi vedere la mia famiglia, e non volevo rischiare di romperlo. Il cecchino era stato felice di potersi rendere utile, così gli avevo affidato la mia sacca e lui aveva iniziato a lavorarci su. Mi aveva assicurato che sarebbe stata pronta in giornata. Poi ero andata da Franky, questa volta in previsione della guerra. Gli avevo chiesto di rendere più potente la mia Mr. Smee, e per farlo avevo portato con me le catene di agalmatolite che avevamo “rubato” a dei sequestratori quella volta che avevano tentato di rapirmi ed ero stata salvata all’ultimo dallo sparo di un Rivoluzionario. Sapevo che ci sarebbero tornate utili in ogni caso, sebbene il cyborg mi avesse detto che non potesse farci nulla. L’agalmatolite, a causa della sua durezza, era un materiale estremamente difficile da plasmare, e lui non aveva né il modo, né il tempo, né gli strumenti per modellarla sulle lame dell’ascia, come gli avevo chiesto. Però si era offerto di potenziare la mia arma usando un metallo più duro e resistente, e io era stata ben felice di affidargliela. Tuttavia per ultimare il lavoro ci sarebbero voluti più giorni, quindi sarei stata disarmata per un po’. Non che pianificassi di mettermi a combattere contro qualcuno, ma con la ciurma di Cappello di Paglia non si poteva mai sapere. E il fatto che stessi per partire con loro senza la mia ascia mi rendeva “appena” un po’ angosciata.
Infine, avevo chiesto – non senza un certo timore – a Zoro di aiutarmi a diventare più forte, anche quello in previsione della guerra. Di fronte alla mia goffa domanda aveva sorriso. Non ero riuscita a decifrare il suo ghigno, perciò non avevo capito se fosse sorpreso, contento o se pensasse che la mia richiesta fosse ridicola. Non avrei potuto biasimarlo in nessun caso, comunque: era assurdo pensare di poter diventare più forti in appena un paio di settimane. Ne ero consapevole, eppure dovevo provarci, perché in ballo c’era la mia vita e la vita di tante persone a me care. Zoro lo sapeva e lo capiva, ecco perché aveva accettato. Sospettavo che per lui quella fosse una sfida, perciò avrebbe fatto di tutto per vincerla e questo non poteva che rendermi contenta.
Mi aveva assicurato che avrebbe provato a insegnarmi come dosare le energie per controllare meglio l’Ambizione dell’Osservazione e poterla tenere attivata più a lungo. Sapevo che sarebbe stata dura, ma ero impaziente di iniziare l’allenamento.
 
«Sii prudente,» si raccomandò Maya, poggiando delicatamente una mano sulla mia spalla.
«Io sono sempre prudente. Sono loro quelli spericolati.» Indicai con il pollice il gruppo di persone dietro di me.
Era arrivato il momento di separarmi dai Pirati Heart. Di nuovo. Stavolta però sarebbe stato solo per qualche giorno, e loro sarebbero stati nei paraggi per tutto il tempo, insieme a Franky, che aveva deciso di rimanere a sorvegliare la Sunny. Io ne ero contenta, perché così poteva continuare a lavorare sulla mia Mr. Smee.
Gli accordi erano chiari: nessuno dei miei compagni avrebbe preso parte alle ricerche del Poignee Griffe, ma per evitare di perdere tempo sarebbero rimasti ormeggiati vicino alla costa dell’isola Stein, l’unica zona che i Mugiwara dovevano ancora perlustrare. Speravo solo che il tutto finisse nella maniera più veloce e indolore possibile.
Per semplificare la missione – ammesso che con loro si potesse usare il termine “semplificare” – la navigatrice aveva proposto di dividerci in due gruppi. Il primo, composto da Brook, Carrot, Chopper, Robin e Rufy, avrebbe esplorato il territorio ad Est dell’isola, mentre il secondo, ovvero io, Nami, Sanji, Usop e Zoro, avrebbe controllato quello ad Ovest. Il motivo della separazione stava nel fatto che, a quanto mi avevano detto, l’isola Stein era un’isola molto grande e dividendoci avremmo avuto più possibilità di trovare ciò che stavamo cercando. Per tutto il tempo ci saremmo tenuti in contatto tramite un lumacofono. Avevamo deciso con lo stesso metodo che la ciurma di Cappello di Paglia aveva usato a Punk Hazard. Non mi sembrava una grande idea affidare il nostro destino a dei bastoncini colorati, ma non avevo comunque voce in capitolo. La cosa che mi dispiaceva di più era di non poter controllare Rufy. Però insieme a me c’era lo spadaccino, così avremmo potuto approfondire meglio il discorso dell’allenamento. E poi con Sanji non sarei di certo morta di fame.
«Sei pronta?» mi chiese Nami, sorridendomi cordialmente. Mi voltai verso di lei e annuii, facendo altrettanto.
Salutai con la mano i miei compagni. Alcuni di loro – Shachi, Penguin, Bepo, Maya e Omen – erano approdati sulla terraferma per salutarmi. I due marpioni si erano perfino offerti di accompagnarmi, ma Law non glielo aveva permesso. Per fortuna. L’ultima cosa che serviva a me, Nami e Robin era ricevere le loro avances inappropriate. Sarebbero stati solo una distrazione per noi.
Fissai un’ultima volta il Polar Tang, lontano qualche decina di metri. Ero un po’ delusa che il mio Capitano non fosse venuto a darmi le ultime raccomandazioni, ma del resto non era uno a cui piaceva perdersi in chiacchiere e non c’era bisogno che spendesse delle parole per me. Ero in mani sicure e sapevo badare a me stessa. Più o meno.
Presi un respiro profondo, mi girai e mi addentrai per la fitta foresta dell’isola senza guardare indietro. Il mio nuovo zaino impermeabile era pronto, e così ero io.
 
***
 
«La mia povera schiena...» si lamentò Usop, massaggiandosi la zona lombare.
Annuii con l’aria di chi la sapeva lunga sull’argomento, tuttavia non dissi niente, per non sembrare lagnosa. Non era il massimo dormire per terra, soprattutto se il terreno era duro, roccioso, scosceso e tremava ogni due per tre a causa dei geyser disseminati per l’isola. Per non parlare degli insetti. Il nasone non aveva di questi problemi, ma per chi ne aveva il terrore – come me, Sanji e Nami – era un grosso problema doversi addormentare con quegli esseri che camminavano su e giù per i nostri corpi. La cosa peggiore, però, erano le continue litigate del cuoco e dello spadaccino. In quei giorni avevano dato il loro peggio ed erano arrivati a gridarsi contro perfino per uno stupido rametto che era stato utilizzato per alimentare il fuoco. Per fortuna i pugni della cartografa erano in grado di rimettere tutti in riga.
Il problema era che erano tre notti che nessuno di noi, a parte Zoro, che si sarebbe potuto addormentare anche nel bel mezzo di un campo di battaglia, riposava bene. Ed erano tre giorni che la mia frustrazione non faceva altro che aumentare, perché dopo aver passato ore ed ore a cercare il Poignee Griffe nessuno di noi l’aveva trovato. All’altro gruppo non stava andando meglio, però. Neanche loro avevano un’idea ben precisa di dove o come cercare la pietra rossa. Continuavamo a fare supposizioni su supposizioni, guidati solo dalla speranza e da un dannato enigma che non portava letteralmente da nessuna parte. L’unico motivo per cui ci trovavamo su quell’isola era che era pieno di geyser. L’indizio che avevano decifrato accennava a un luogo nel quale il cielo incontrava il mare, e secondo l’intuito della navigatrice i geyser c’entravano qualcosa in quella storia. Io, dal canto mio, cominciavo a pensare che avremmo fatto prima a rinunciare.
Dietro di me, udii il cecchino emettere altri versi sofferenti.
«Smettila di piagnucolare e continua a camminare,» lo rimproverò il cuoco, facendo rinsavire anche me. Non era il momento di mettersi a fare i pessimisti. I Mugiwara non lo erano.
Dopo un paio di sbuffi risentiti, Usop si decise a riprendere a camminare e ci raggiunse. Nel momento in cui mi affiancò gli sorrisi. Il mio sorriso si tramutò in una risatina quando lo vidi fissarmi con scetticismo. Nonostante tutto, era bello sapere che in quel gruppo c’era qualcuno di “umano”, che la pensava come me e che non era circondato da un’aura di ottimismo e positività.
Con la coda dell’occhio vidi Zoro passarmi accanto e superarmi, e senza pensarci gli artigliai la spalla con la mano e lo costrinsi a voltarsi verso di me. Mi guardò interrogativo.
«Zoro...» iniziai, pensierosa. «Mi rendo conto che è una cosa un po’ assurda da chiedere,soprattutto perché il tempo a nostra disposizione è poco, però... quando inizieremo gli allenamenti, potresti insegnarmi a scagliare dei fendenti volanti?»
«Dei fendenti volanti?» Incrociò le braccia al petto.
Annuii. In quei tre giorni avevo avuto modo di pensarci bene. Dopo aver visto Zoro che ne scagliava uno, mi ero convinta che quello potesse essere un punto di svolta per me. «Se pensi che non sia possibile, lascerò perdere. Ma vorrei provarci. Ho bisogno di trovare un colpo che mi renda più pericolosa.»
«Io ho accettato di aiutarti a diventare più forte. Ma tu combatti con un’ascia, io sono uno spadaccino. Spada e ascia sono armi diverse,» mi spiegò in tono sapiente. Non ero idiota, non avevo bisogno che qualcuno mi facesse notare la differenza, ma capivo cosa volesse dire.
«Lo so, però sei l’unico che come me utilizza delle armi da taglio per combattere. L’unico abbastanza forte da potermelo insegnare, perlomeno.»
«E il tuo Capitano?» Fece un mezzo sorriso, un sorriso enigmatico che non compresi appieno.
«Tecnicamente Law non è uno spadaccino. Combatte abbinando la nodachi ai poteri del suo Frutto del Diavolo.» Stavolta toccò a me sfoggiare un’espressione sapiente.
Mi rispose qualcosa che io non udii, perché ero troppo impegnata a inorridire. Sentii solo vagamente le parole “mesi di allenamento”, come se fossero un eco lontano.
Guardai in alto, deglutii sonoramente e mi paralizzai. A qualche centimetro dalla sua testa, penzolante da un ramo, c’era un ragno. E non era un ragno qualsiasi. Era marrone, peloso ed era grande almeno il doppio della mia mano. Il doppio della mia mano. Non avevo mai visto una mostruosità simile, né pensavo che potesse esistere.
«Oddio...» mi lasciai scappare, mentre il panico si impossessava di me.
Zoro, non capendo cosa stesse succedendo, alzò lo sguardo. Quando vide quel simpatico animaletto peloso piegò la testa da un lato e, nonostante la sorpresa iniziale, sorrise.
«Che... che stai facendo? U-uccidilo, forza,» lo sollecitai con voce tremante.
«Perché dovrei? Non mi ha fatto nulla di male.» Scrollò le spalle.
Lo fissai attonita. Quel ragno non gli aveva fatto nulla di male!? A lui forse no, ma... esisteva. E questo era un male!
All’improvviso, come se avesse captato i miei pensieri, l’aracnide cominciò a muoversi. Le sue zampe tozze si spostavano sapienti, avvinghiandosi al filo di bava dal quale pendeva, che si allungava sempre di più e riduceva lo spazio tra lui e lo spadaccino. A quel punto, dopo che il mio cuore ebbe perso qualche battito e fu ripartito al triplo della velocità, impazzii completamente.
«No. No, no, no, no, no, no, no, no. No,» farfugliai, iniziando a camminare sempre più velocemente ad occhi sgranati. Continuavo a guardare in basso, cercando di concentrarmi sulla strada da percorrere, perché non volevo provare più orrore di quanto ne stessi già provando. Se avessi visto un altro ragno, non avrei retto. La cosa peggiore era che non potevo nemmeno difendermi in caso di attacco, perché non avevo la mia Mr. Smee.
Nel frattempo, gli altri si erano distanziati di un centinaio di metri da me e Zoro, dato che noi ci eravamo fermati. Li avevo persi di vista e il fatto che stessi vagando da sola e disarmata nel bel mezzo di una foresta infestata da ragni giganti non mi rendeva affatto tranquilla. Dovevo trovarli. E in fretta anche, prima che quegli esseri spregevoli mi mangiassero. Come se fosse un segno del destino, la mia faccia si scontrò contro qualcosa, qualcosa di appiccicoso, e dovetti fermarmi. Riportai lo sguardo dritto davanti a me. Per poco gli occhi non mi uscirono fuori dalle orbite. Ero incappata in una ragnatela gigante. Il pensiero di avere la bava di un ragno sul volto fu abbastanza per provocarmi un conato di vomito. Poi, lo vidi. Appollaiato su un ramo c’era l’artefice di quell’obbrobrio. Un altro ragno. Se possibile era ancora più grosso di quello di prima. Non per niente, la sua tela era abbastanza grande da avvolgermi il corpo. Non appena vide che la sua trappola aveva sortito l’effetto sperato, si mosse ad una velocità che mi sembrò supersonica. La vista si fece appannata e mi sentii mancare per un nanosecondo. La tela era così resistente che non riuscivo a romperne i fili. Maledetto bastardo dalla saliva d’acciaio. Poi mi ripresi. La mia fine non sarebbe di certo avvenuta per mano di uno schifoso aracnide. Mi liberai alla svelta da quella roba appiccicosa, lasciando il ragno a bocca asciutta, e me la diedi a gambe levate, pulendomi il viso velocemente con il braccio. Non sapevo nemmeno se stessi andando nella giusta direzione, ma non mi importava. Volevo solo allontanarmi il più possibile da quella oscenità.
«Che schifo! Che schifo, che schifo, che schifo!» gridai a squarciagola, come se quello bastasse a levarmi di dosso la sensazione di avere sulla faccia la saliva di un animale che non solo aveva cercato di mangiarmi, ma che mi faceva anche ribrezzo da sempre. Una mossa stupida, la mia. Le mie urla potevano aver attirato altri ragni in zona. Scossi la testa con violenza, cercando di scacciare quel pensiero inquietante dalla mente. I miei occhi iniziarono a vagare da tutte le parti alla ricerca di qualche altra possibile “sorpresa”. Se non fossi stata così sconvolta avrei attivato l’Haki.
Inciampai un paio di volte su delle radici che sporgevano dal terreno e dei sassi, ma non arrestai la mia corsa.
«Cami! Mia Dea! Cosa succede!?» La voce di Sanji mi arrivò alle orecchie come una benedizione divina. Tirai un sospiro di sollievo. Riuscivo a sentirlo! Dovevano essere vicini. Non mi fermai, anzi, corsi più velocemente. Se li avessi raggiunti, il cuoco mi avrebbe accolto tra le sue braccia e ci avrebbe pensato lui a proteggermi. Forse. Non era un segreto che anche lui avesse paura di ragni e insetti. Praticamente l’unico sul quale potevo contare era Usop; il che era grave.
Mi voltai un’ultima volta per controllare di non avere qualche creaturina disgustosa alle calcagna, poi spostai lo sguardo verso le chiome degli alberi. All’apparenza sembrava tutto tranquillo.
«Sanji, dobbiamo andarcene subito, qui è pieno di rag...» iniziai, tuttavia non riuscii a finire la frase. All’improvviso, la terra iniziò a mancare sotto ai miei piedi.
Stavo precipitando. Le mie mani cercarono istintivamente un appiglio a cui aggrapparsi, ma non c’era. Non c’era niente attorno a me, solo aria. Planai nel vuoto per una decina di metri. Ero talmente nel panico che non mi ero accorta che la strada sotto di me fosse finita. Come avevo potuto essere così stupida?
“Non di nuovo,” pregai nella mia testa, ricordandomi dell’ultima volta in cui era andata a finire così. Sarei morta se non fosse stato per Marco. Ma stavolta non era lì.
La mia caduta si arrestò qualche secondo dopo, non appena andai a sbattere contro qualcosa. Trattenni un grugnito di dolore e mi augurai che non fosse un dannato ragno. Udii anche le voci soffocate di qualcun altro, senza riuscire a capire che cosa dicessero. L’impatto non fu di certo gradevole, ma neanche terribile come mi aspettavo. Hack mi aveva reso più resistente.
Qualcosa sotto di me si mosse e si lamentò. Fu lì che capii. Ecco perché l’impatto non era stato tremendo: perché ero atterrata sul morbido. Più precisamente, su Sanji e Usop. Sperai che ne fossimo usciti tutti illesi e che non se la prendessero troppo con me. Prima di alzarmi mi accertai di non avere nessun osso rotto. Era tutto a posto. Avevo i muscoli un po’ indolenziti, ma supponevo che facesse parte degli effetti collaterali del precipitare da un’altezza superiore ai dieci metri. L’importante era che fossi viva e più o meno intatta.
Il cecchino, sotto di me, provò a dimenarsi e a liberarsi della mia presenza ingombrante, così io rotolai su me stessa – e sopra al cuoco – fino a che non fui per terra. Stavolta per davvero.
Girai la testa verso Nami, in piedi a qualche metro da noi e incolume. Aveva la fronte aggrottata, molto probabilmente era indecisa se essere divertita dalla situazione o se invece preoccuparsi. Almeno lei stava bene, non era stata – letteralmente – travolta da tutto quel casino. Io, invece, avevo fatto strike.
«Ahia, ho colpito qualcosa con la testa,» si lamentò Usop, che nel frattempo si era rimesso in piedi, massaggiandosi il cuoio capelluto.
«Sì, la mia testa, razza di idiota,» gli comunicò Sanji con sguardo truce, mentre si rialzava e si toglieva la polvere dai vestiti.
No, molto probabilmente ero io quella contro cui avevano sbattuto la testa. Eppure i due ragazzi non sembravano essersi accorti di me. Ancora faticavano a capire cosa fosse accaduto.
«Ma... cosa è successo?» si chiese confuso il nasone, continuando a frizionarsi la testa e guardando in alto alla ricerca di indizi.
Rimasi stesa a terra, immobile. Alla fine non mi ero fatta niente, ma sarebbe stato più prudente fingermi morta. Fu solo quando mi ricordai del covo di ragni che mi rialzai ed iniziai a tremare. Soltanto in quel momento il biondo si accorse di me. Spalancò gli occhi e si avvicinò alla velocità della luce.
«Dolce Cami, stai bene?» mi chiese apprensivo, avvicinando il suo viso al mio. Per un attimo temetti che volesse baciarmi.
Il cecchino si voltò di scatto verso di noi con espressione sconcertata. «Chiedi a lei se sta bene!? È precipitata su di noi a peso morto dal cielo e ci ha quasi fatti ammazzare!»
A quanto pareva aveva capito tutto. Non che ci volesse molto. In mia difesa, non era colpa mia. Non avevo pianificato di cadere da un burrone, né tantomeno di riatterrare sui due ragazzi. Era stata una coincidenza che, nonostante avesse causato dei danni, mi aveva salvato la vita.
Il biondo fulminò il cecchino con lo sguardo e quest’ultimo sembrò rimpicciolire.
«Mi dispiace, ragazzi, davvero. È che c’erano dei ragni enormi e...» provai a scusarmi, mortificata, ma ancora una volta non riuscii a finire la frase.
«Ragni?» m’interruppe Sanji, impallidendo. Se non fossi stata rintronata per tutto ciò che era successo poco prima avrei potuto giurare di aver visto una gocciolina di sudore scivolargli lungo la tempia.
«D-dove?» Nami iniziò a guardarsi intorno con aria circospetta e terrorizzata.
Lo pseudo sorriso che si era formato sulle mie labbra nel constatare che non ero l’unica che aveva di questi problemi svanì nel momento in cui notai il modo in cui mi stavano guardando il cuoco e la navigatrice. Entrambi sembravano aver visto un fantasma alle mie spalle. Oppure non era un fantasma quello che avevano visto...
Un centinaio di brividi mi attraversarono il corpo.
«Vi prego, ditemi che non ce n’è uno dietro di me,» feci, già pronta a scattare.
«Avete davvero paura di un paio di innocui ragni?» si intromise Usop, stranamente spavaldo. Tutti e tre gli regalammo un’occhiataccia carica di odio. Lui, che aveva paura anche della sua stessa ombra, aveva il coraggio di prendere in giro noi per la nostra aracnofobia. Nel vederci così minacciosi, il nasone fece un passo indietro, alzò le mani in segno di resa e simulò un sorriso innocente.
«Se non ci sono obiezioni, proporrei di andarcene da qui e continuare a perlustrare,» suggerì Sanji, accendendosi una sigaretta. Potevo avvertire che non era tranquillo, come non lo ero io.
Annuii con convinzione. Volevo andarmene da quel posto il più in fretta possibile. Avevo paura che potesse sbucare qualche altro animale poco raccomandabile dal nulla.
«Ragazzi...» Nami ci richiamò all’ordine. Guardammo tutti nella sua direzione, curiosi di sapere cosa volesse. «Dov’è Zoro?» chiese poi, lievemente allarmata.
All’improvviso mi ricordai di lui e fui assalita dall’ennesima ondata di angoscia della giornata. Quando avevo visto il ragno ero scappata senza pensare minimamente a lui. Era rimasto indietro. Chiusi gli occhi e gettai indietro la testa. Merda. Ci eravamo persi il marimo.
 
«Non sei stanco?» chiesi ad Usop, mentre camminavamo fianco a fianco – e soli soletti – nella foresta infestata dai ragni.
«Di cosa?» Si voltò a guardarmi. Mi strinsi nelle spalle.
«Di dover sempre fare il lavoro sporco al posto dei tuoi compagni,» replicai, setacciando il sentiero con gli occhi per vedere se ci fosse traccia dello spadaccino. Dal momento che si era perso – e che tecnicamente era colpa mia – era toccato a me andare a cercarlo. Sanji tuttavia si era impuntato, sostenendo che non potessi andare da sola, così aveva costretto Usop a venire con me, mentre lui e Nami avrebbero continuato le ricerche del Poignee Griffe. Il lumacofono l’avevano tenuto loro. Con un po’ di fortuna magari avremmo tutti trovato ciò che cercavamo. Oppure noi avremmo trovato la pietra e loro il loro compagno. Non mi sarei più stupita di nulla, a quel punto. Il cecchino non si era mostrato troppo entusiasta all’idea, ma se non altro, essendo l’unico di noi a non essere aracnofobico, potevo contare sulla sua protezione. Sempre che non avesse fatto il codardo come suo solito e non fosse scappato a gambe levate.
Il cecchino sbuffò una risata, riportandomi alla realtà.
«Considerando che sei stata tu a perderlo di vista...» Si accompagnò con un cenno della testa e un’alzata di sopracciglia.
«Non l’ho perso di vista! È stato lui a perdersi. Io ho fatto soltanto ciò che era giusto fare,» mi giustificai, cercando di rimanere calma.
«Te la sei data a gambe,» rimarcò, osservandomi con eloquenza.
«Ho salvaguardato me stessa,» precisai affilata, fulminandolo con lo sguardo. «E comunque tu non puoi parlare. Te la dai sempre a gambe.»
Ci guardammo per un istante, entrambi risentiti. Poi scoppiammo a ridere. Supponevo che nessuno dei due avesse torto. Avevamo sfortuna, però: cercare quell’idiota di un marimo in un territorio così vasto e ostile era come cercare un ago in un pagliaio. Anzi, era peggio, perché l’ago che cercavamo noi aveva la facoltà di muoversi liberamente per il pagliaio e andare in giro a fare danni.
Continuammo a camminare per ore ed ore. Passammo un giorno intero a tentare di rintracciarlo, talvolta anche chiamandolo a gran voce, ma di Zoro non c’era nessuna traccia. Sembrava sparito nel nulla. Maledetto, maledettissimo spadaccino. Chissà dove diavolo era finito. Perché dovevo avere sempre a che fare con individui problematici? Perché per una volta non poteva filare tutto liscio? La risposta me la fornì Usop quando guardai per l’ennesima volta verso di lui e lo sentii sbuffare rumorosamente. Forse la sfortuna era contagiosa. Era lui che aveva infettato me, o io che avevo infettato lui?
Alla fine, dopo un lungo giorno di ricerche, decidemmo che sarebbe stato meglio fermarci e accamparci per la notte. Eravamo stanchi e affamati, e io ero anche piuttosto frustrata. Mi stavo pentendo di aver accettato di aiutarli. Sarebbe stato mille volte meglio e più sicuro rimanere sul sottomarino a trangugiare vino come se non ci fosse stato un domani con i miei amati compagni di bevute. Così avrei avuto anche il tempo di allenarmi.
Il terreno tremò di nuovo, facendomi sussultare e imprecare mentalmente. Non bastavano insetti enormi e spadaccini idioti, a tormentare le mie giornate c’erano anche i geyser.
«Non abbiamo scelto un posto molto fortunato,» constatò Usop, ravvivando il piccolo fuoco che aveva appena acceso con un bastoncino. Annuii eloquentemente, accompagnandomi con un’alzata di sopracciglia.
«No, infatti. Ma suppongo che questo sia il meglio che l’isola Stein abbia da offrire.»
«Già. Andiamo?»
«Sì.» Mi rimisi lo zaino in spalla e mi rialzai, affiancando il cecchino. Avevamo bisogno di altra legna per alimentare il fuoco. La sua fiamma era troppo debole perché potesse scaldarci durante la notte. Inoltre, nonostante Sanji ci avesse lasciato metà delle provviste che aveva preparato, entrambi sapevamo che non era il massimo mangiare del cibo praticamente congelato. Per fortuna il saggio cuoco della ciurma di Cappello di Paglia aveva optato per cucinare la carne e non il pesce, altrimenti avremmo dovuto fare i conti anche con la puzza che emanava quella pietanza.
La terra tremò di nuovo. Uno dei geyser aveva eruttato all’improvviso, producendo un boato assordante. Ciò che mi spaventava di più era che non era acqua ciò che usciva dagli sfiatatoi, ma aria. Tonnellate di aria compressa che si riversavano fuori dai crateri per poi esplodere come bombe. Mi aggrappai ad Usop, colta alla sprovvista e impaurita. Inutile dire che lui sembrava più terrorizzato di me. Rimanemmo uno appiccicato all’altra per qualche secondo buono, finché la scossa non finì e il rumore si arrestò.
«Questo era vicino...» Il cecchino si guardò intorno con circospezione. «Dobbiamo fare molta attenzione.»
Sospirai, cercando di riprendere il controllo del mio corpo e del mio battito cardiaco. Stavamo rischiando grosso solo per prendere della legna da mettere sul fuoco. Era buio pesto, praticamente non vedevamo più in là del nostro naso – il che per Usop poteva essere una buona cosa – e dovevamo procedere con la massima cautela per non incappare in uno dei geyser sotterranei disseminato per l’isola. Era come attraversare un campo minato: non sapevamo con precisione dove erano collocati i geyser, perché non potevamo vedere i loro sfiatatoi. A guidarci avevamo soltanto delle minuscole torce. Come se tutto questo non fosse stato abbastanza, dovevamo fare i conti anche con la friabilità del terreno che, a causa delle numerose e potenti eruzioni giornaliere, era stato indebolito e rischiava di cedere ad ogni minimo passo che facevamo. Sentivo che stavamo sfidando troppo la sorte, e iniziavo a pensare che sarebbe stato meglio congelarci il sedere per una notte e mangiare cibo freddo piuttosto che morire polverizzati.
Qualcosa si posò sulla mia spalla sinistra. Sgranai gli occhi e mi affrettai a scrollarmela di dosso. “Non un altro ragno,” supplicai tra me e me. Mi girai e mi calmai solo quando notai che si trattava della mano di Usop. Tirai un sospiro di sollievo e lo guardai male.
«Dobbiamo rimanere uniti,» mi ammonì. Realizzai soltanto in quel momento che ero stata così presa dalle mie macabre riflessioni che avevo continuato ad avanzare per conto mio, alla svelta e senza prestare attenzione al sentiero. Gli puntai la torcia in faccia per controllare che fosse tutto a posto. Annuii e potemmo riprendere a camminare fianco a fianco.
Dopo qualche minuto di silenzio assoluto, il cecchino decise di dire la sua. Se avessimo saputo cosa ciò avrebbe comportato, molto probabilmente saremmo stati entrambi zitti.
«Ci conosciamo da parecchio tempo, perciò non ti offendere se te lo dico, ma... sembri un po’ isterica.»
Mi immobilizzai all’istante e raddrizzai la testa. Anche lui si fermò, fissandomi con aria interrogativa. Quella constatazione, per quanto stupida potesse sembrare, mi fece fischiare le orecchie e stringere i pugni fino a far diventare bianche le nocche. In quegli anni pensavo di essere diventata una persona equilibrata, ma a quanto pareva non era così.
«Sembro un po’ isterica!?» gridai, girandomi verso di lui e allargando le braccia. «Certo che sembro un po’ isterica! Lo sono! Sono molto isterica! Sono tre giorni che non dormo, oggi per poco non sono stata mangiata da un cazzo di ragno gigante e per scappare dalle sue grinfie sono precipitata giù da un burrone. Ho perso di vista quell’idiota di Zoro e adesso devo cercarlo, al buio, in un territorio che pullula di insetti schifosi e geyser che esplodono ogni tre secondi facendo tremare tutto. Sono stanca, affamata e non ho neanche un’arma per potermi difendere in caso di pericolo! E qui ce ne sono, di pericoli! E tutto per cercare una dannata pietra antica che forse non è nemmeno su quest’isola! Vorrei vedere come ti comporteresti tu nella mia stessa situazione!»
Bruciavo di rabbia. Ero così furiosa che temevo che avrei preso fuoco da un momento all’altro. Non sapevo nemmeno perché fossi esplosa all’improvviso, dal nulla, eppure non riuscivo a contenere la mia ira. Ero “semplicemente” arrabbiata. Usop aveva inconsapevolmente aperto il Vaso di Pandora.
«Io sono nella tua stessa situazione,» puntualizzò il moro con un certo fastidio, facendomi infuriare ancora di più.
«Sì! Ed è già un miracolo che non abbia tentato di scappare o che non ti sia venuto uno dei tuoi famosi attacchi di mal-di-non-posso-sbarcare-su-questa-isola!» gli urlai, allargando ancora di più le braccia.
«Ehi!» Si finse offeso, guadagnandosi un’occhiata folgorante da parte mia. «Calmati. Troveremo Zoro.»
«Non possiamo esserne sicuri! Sono mesi che cercate il Poignee Griffe, e ancora non lo avete trovato!» gridai a squarciagola, al punto che probabilmente perfino la testa di muschio – ovunque fosse – mi aveva sentito.
«Troviamo sempre quello che cerchiamo, alla fine.» Se era diventato Usop l’ottimista, la situazione era grave, anche se avevo motivo di credere che lo dicesse più per confortare se stesso che me.
Sbuffai e scossi la testa, contrariata. Si era capovolto tutto. Era tutto sbagliato. E non volevo essere lì, in quel momento. Volevo essere con i miei compagni, sul sottomarino, al caldo e al sicuro, a mangiare ciò che ci aveva preparato Ryu, a scherzare con Shachi e Penguin, a parlare di cose da ragazze con Maya, ad allenarmi con Bepo. Persino prendere un dannato tè verde insieme a Kenji mentre discutevamo del nostro bacio mi sembrava un’alternativa migliore a quello. L’aver deciso di essere lì era ciò che mi disturbava di più, perché avevo avuto la possibilità di scegliere. Non che avesse importanza, ormai non c’era nulla che potessi fare per cambiare le cose. Tornare da sola sul Polar Tang era fuori discussione.
«Sai che c’è? Non importa. Finiamo di prendere la legna che ci serve e torniamocene alla nostra confortevole radura.» Rilassai i muscoli tesi e tentai di calmarmi.
Per tutto il tempo il cecchino mi aveva osservato con l’aria di chi comprendeva perfettamente la situazione. Essere capitata proprio con lui era in parte una consolazione, mi era mancato avere al mio fianco qualcuno che potesse capirmi e che fosse pronto a darsela a gambe invece di mettersi a combattere. Non era giusto prendersela con lui.
Vidi Usop guardare oltre la mia spalla e sgranare gli occhi. Prima che potessi rigirarmi o muovere un passo, però, lo sentii afferrarmi il braccio e trascinarmi verso di lui. Non mi resi del tutto conto di quello che successe nei secondi successivi. Percepii solo un rumore che quasi mi lacerò i timpani, seguito da una forza invisibile ma potente che sbalzò entrambi in avanti. O all’indietro. Non ne ero sicura. Ciò di cui ero sicura era che io e il cecchino andammo a sbattere l’uno contro l’altra e volammo per qualche metro, per poi ricadere a terra con un potente tonfo.
Uno dei geyser sotterranei era esploso ad un paio di metri da noi. Ecco cos’era successo. Tanto per cambiare, perché le cose, per una volta, non potevano andare nel verso giusto.
«Porca puttana, Usop!» gridai, rotolandomi per terra in preda al dolore e tenendomi una spalla. «Ma che cazzo hai al posto del naso!? Una sciabola!?»
«Ahi, ahi, ahi, il mio naso!» si lamentò lui, dietro di me. Come prevedibile, la sua voce risultò nasale e strozzata. Ci eravamo scontrati mentre eravamo per aria, e nessuno dei due era uscito indenne dallo scontro. Il naso del cecchino mi aveva colpito – per non dire pressoché trapanato – la spalla sinistra, proprio sotto alla clavicola. Non sapevo come fosse possibile, ma il suo naso era più potente dello Shigan.
Buttai fuori tutta l’aria che avevo in corpo e tirai su il busto. Massaggiai la parte contusa per qualche altro secondo e smisi soltanto quando fui sicura che non avevo niente di rotto. Evidentemente, però, Usop non era stato fortunato quanto me, perché continuava ad emettere mugolii gutturali. Recuperai la torcia di scorta che tenevo nello zaino – quella che avevo prima mi era scappata dalle mani nel momento in cui il geyser aveva eruttato – e la puntai contro il moro. Mi lasciai sfuggire una smorfia compassionevole quando vidi la situazione in cui versava il suo naso. Sì, avevo decisamente avuto più fortuna io, dato che sembrava la copia esatta della cicatrice che aveva Harry Potter sulla fronte. Era spezzato in due punti e formava tre distinti segmenti, che puntavano in tre diverse direzioni. Non era un bello spettacolo.
Cercai le garze nello zaino e le tirai fuori: avrei dovuto sistemarglielo.
Il rumore che fecero le ossa quando le rimisi al loro posto fu raccapricciante persino per me. Per fortuna avevo imposto al cecchino di tapparsi le orecchie, non avrebbe retto, altrimenti. Questo, tuttavia, non gli impedì di strillare come una mandragola. Alla fine, però, andò tutto per il meglio e dopo avergli fasciato il naso potemmo tornare alla radura che avevamo scelto per passare la notte.
 
Non passò molto prima che ci addormentassimo entrambi. Eravamo stanchi, affamati e doloranti, e io ero anche piuttosto inquieta. Non vedevo l’ora che finisse tutto. Le cose non potevano andare peggio di così. Niente pietra, niente Zoro, niente di niente. C’erano solo ragni che volevano cibarsi di me e geyser capaci di polverizzarmi che eruttavano a sorpresa. Non che non mi aspettassi di ricevere qualche sorpresa durante questa gita con i Mugiwara, ma non ero preparata a questo. Era troppo per me. Almeno non pioveva e non faceva troppo freddo. Dopo quanto ci era successo avevamo rinunciato a raccogliere la legna ed eravamo tornati immediatamente alla radura. Dato che non potevamo morire di fame, ci eravamo dovuti mangiare la carne congelata. Era così dura che temevo di rimetterci qualche dente, ma il sapore non era cattivo. Poi, stravolti, ci eravamo addormentati; non prima che Usop si lamentasse per qualche buon minuto per il dolore al naso. Gli era “magicamente” passato dopo che lo avevo minacciato di romperglielo di nuovo.
Ciò che mi svegliò fu un rumore sospetto. Normalmente avevo il sonno pesante e non mi sarei ridestata per un fruscio distante, ma in quelle circostanze era difficile non essere vigili anche nel sonno. Tirai su il busto e sbuffai silenziosamente, pregando che il rumore che avevo sentito non fosse correlato a nulla di pericoloso. Mi resi conto che anche Usop si era svegliato. Ci scrutammo per qualche secondo, indecisi sul da farsi. Poi il cecchino si portò l’indice alla bocca e mi fece cenno di fare silenzio. Rimanemmo in ascolto per qualche altro minuto, allerta. Non avevo le forze di attivare l’Haki, perciò potevo contare solo sul mio udito. Percepii dei passi. Qualcuno stava correndo... verso di noi. Non feci in tempo a realizzare il tutto che mi ritrovai davanti una figura. Il mio cuore smise di battere e non accennò a riprendere fino a che non realizzai a chi appartenesse la sagoma. Usop, a fianco a me, tremava come una foglia.
Assottigliai gli occhi e piegai il busto in avanti per tentare di capire se quello che stavo vedendo fosse un miraggio o meno. La mancanza di sonno giocava brutti scherzi.
«Rufy!?» feci sorpresa, la voce mi uscì roca e impastata. Lo osservai per un attimo, le sopracciglia aggrottate. Lui stava fissando un punto imprecisato davanti a sé con espressione un po’ vacua. Non sembrava in sé.
«Oh, accidenti!» esclamò Usop. Lo guardai interrogativa. «Sta avendo uno dei suoi episodi di sonnambulismo. Gli succede quando sta dormendo, gli viene fame e non trova del cibo nelle vicinanze: continua a vagare in stato di semi-incoscienza finché non trova qualcosa da mettere nello stomaco,» mi spiegò poi, facendo un passo verso il suo Capitano.
La cosa era assurda, soprattutto perché Rufy aveva attraversato correndo un’intera isola mentre dormiva solo per avere qualcosa da sgranocchiare, ma ormai non mi stupivo più di niente quando si trattava dei Mugiwara, perciò non feci domande. In fondo, ciò che gli stava capitando non era poi tanto diverso da quello che succedeva a Big Mom. Finché non avesse tentato di uccidermi, a me stava bene così.
«Cibo...» biascicò Cappello di Paglia, allungando una mano verso i nostri zaini.
«Non abbiamo cibo qui, Rufy.» Parlai lentamente e scandii bene le parole, nella speranza che mi capisse. Io e Usop avevamo finito tutto ciò che Sanji ci aveva dato da mangiare.
«È inutile, non può sentirti.»
In qualche modo, però, Rufy sembrò recepire la mia affermazione, perché rinunciò all’idea di curiosare nei nostri zaini, girò i tacchi e sfrecciò via. Il cecchino si catapultò in avanti e mi tirò per un braccio.
«Non è in sé, dobbiamo seguirlo e assicurarci che non si metta nei guai.»
Gettai la testa all’indietro, sconsolata, ma recuperai lo zaino e cominciai a correre. Non avevo nessuna voglia di mettermi a seguirlo e fargli da balia, volevo tornare nel sacco a pelo e dormire, ma Usop aveva ragione: l’isola Stein era un’isola piena di insidie. Geyser sotterranei, terreno friabile, ragni giganti, spadaccini vaganti... Non potevamo lasciare quell’idiota al suo destino. Non potevamo lasciare che vagasse da solo, di notte, senza che fosse cosciente, né potevamo permettere che si perdesse come aveva fatto Zoro. Se gli fosse successo qualcosa non ce lo saremmo mai perdonato.
Per fortuna lo ritrovammo poco dopo, per puro caso, mentre si arrampicava scompostamente su un albero. Ovviamente non si trattava di un albero normale. Era una pianta che si trovava in bilico su un precipizio a strapiombo sul mare. Da quanto riuscivo a vedere non aveva foglie, ma solo frutti. Tanto per aggiungerlo alla lista di cose strane e potenzialmente pericolose che c’erano sull’isola Stein. Si era adagiato precariamente su un ramo e si stava allungando per prendere uno dei frutti. Con la pochissima luce che c’era non riuscii a vedere di quali frutti si trattasse, ma non era da escludere che fossero tossici per l’organismo. Anche quello sarebbe stato un ipotetico problema. Un problema grosso. Con la coda dell’occhio vidi che il cecchino aveva assunto un’aria preoccupata e mi si scaldò il cuore per il bene che voleva a Rufy. Lui, che era un fifone di prima categoria, non solo aveva rinunciato a preziose ore di sonno, ma stava anche rischiando la sua incolumità per aiutare il suo amico. Per me o per chiunque altro non lo avrebbe fatto.
«Dobbiamo tirarlo giù di lì,» mi disse risoluto, prima di incamminarsi a passo svelto verso l’albero. Lo seguii. Che altro potevo fare?
Ci piazzammo sull’orlo del precipizio, sotto la pianta, e pensammo a un modo per recuperare Cappello di Paglia senza che nessuno di noi cadesse in mare. Prima che potessimo compiere qualsiasi mossa, però, ci fu un boato, e poi la terra tremò per l’ennesima volta. Mi aggrappai all’albero per tentare di recuperare la stabilità perduta. Quando rialzai lo sguardo, Rufy non si trovava più sul ramo. Usop imprecò, io andai nel panico per qualche attimo. Se era come pensavo, ovvero se aveva perso l’equilibrio ed era caduto in mare, rischiava di morire. Mi immobilizzai e guardai il cecchino, indecisa sul da farsi.
Una mano spuntò dal basso e si piantò tra i miei e i suoi piedi, artigliandosi al suolo. Era la mano di Rufy, senza dubbio. Tirammo un sospiro di sollievo. Stava bene, non era caduto in mare: aveva avuto la prontezza di riflessi necessaria per allungare il braccio e aggrapparsi alle rocce della scogliera. Il mio sollievo, tuttavia, durò ben poco, perché udii uno scricchiolio. Io e Usop ci girammo a guardarci, entrambi con l’espressione a metà tra l’afflitto e il preoccupato. Sapevamo cosa stava per succedere.
All’improvviso, il terreno cedette e si sgretolò sotto ai nostri piedi.
Per la seconda volta, quel giorno, precipitai nel vuoto, e con me anche il Capitano dei Mugiwara e il Re dei Cecchini. Non feci in tempo a pensare a niente, non mi resi neanche pienamente conto di cosa stesse succedendo, finché non mi ritrovai sott’acqua. L’impatto fu violento e traumatizzante. Per un istante mi sentii come se un milione di gelidi spilli stessero attraversando il mio corpo e mi mancò il respiro. Solo quando mi fui abituata al freddo mi resi conto della situazione. Dovevo risalire in superficie. Eppure c’era qualcosa che me lo impediva. C’era una forza misteriosa che mi stava trascinando verso il basso. Un mulinello. Un vortice impetuoso che stava tentando di risucchiarmi al suo interno.
I polmoni iniziarono a bruciare. Aria. Avevo bisogno di aria. Più nuotavo, più mi muovevo, e più mi sembrava di essere trascinata verso il fondo dell’oceano.
Lottai con tutte le mie forze per risalire in superficie, ma non ci fu nulla da fare. Stavo per perdere conoscenza. Se non potevo fare niente io, nemmeno Rufy aveva qualche possibilità. Forse, però, Usop era riuscito a mettere in salvo entrambi. Ormai ero troppo distante dalla superficie per poter sperare che lo facesse anche con me.
“Rufy, se muoio per colpa tua e dei tuoi disturbi psico-fisici ti garantisco che te la farò pagare cara, dovessi finire all’Inferno,” pensai rabbiosa, prima di essere completamente inghiottita dal mulinello.
   
 
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