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Autore: Glenda    22/04/2022    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Insomma, che posto era, quello?”

“Lei ha perso il diritto di fare domande nel momento in cui si è finta ciò che non è, signorina-col-cane.”

“Andiamo, signor Dolbruk, sono una giornalista, mistifico per mestiere e devo – devo – essere invadente, altrimenti non lavoro. Se non lo capisce lei…”

“Che significa se non lo capisco io?”

“Lei che campa sulla sua immagine, andiamo!”

“Oh, per la miseria, che brutta idea si è fatta di me!”

“Allora la smentisca, sono tutta orecchi, ho un sacco di cose da chiederle. Non abbia timore, persino la sua guardia del corpo mi considera inoffensiva!”

In effetti Adrian si era mostrato stranamente accondiscendente: le aveva pure permesso di salire in macchina ed ora lei, dal sedile di dietro, lo stava tormentando con quell’interrogatorio snervante. Snervante perché era risentito. Con Karìma Mirèl. Con Adrian. Ma anche con se stesso, senza capire bene il perché.

“Non ho timore. Non di lei, mi creda.”

“E di cosa ne ha?”

Noam sospirò. Quella che avrebbe dovuto essere una serata di gioia era diventata l’ennesimo gioco delle parti: lui bloccato nel suo ruolo, e quei due… quei due, beh, due personaggi di passaggio, che non avevano davvero interesse a conoscerlo.

Meglio, pensò in quel momento. Tutto sommato meglio così.

Non aveva mai raccontato a nessuno dei suoi rapporti con la Casa Stellata. Forse era una stupidaggine, eppure avrebbe preferito se quello fosse rimasto un luogo solo suo. Non ne aveva parlato neppure agli amici… Ma poi, poteva dire di avere amici? Conosceva quasi tutta la città, e tutta la città conosceva lui: aveva attorno centinaia di persone che lo invitavano, lo chiamavano, ricercavano la sua compagnia, ma non aveva stretto veri rapporti di intimità con nessuno. Tranne, appunto, con coloro che lavoravano in quel posto. Almeno un po’.

Alla Casa Stellata era stato assunto pochi mesi dopo essere arrivato, solo e smarrito, a Noravàl: una laurea in scienze della formazione e qualche esperienza pregressa gli erano serviti come titoli d’accesso. Era stato per lui il luogo dove aveva stretto relazioni come era abituato a concepirle: relazioni come quelle che aveva prima di lasciare Mòrask, fatte di conflitti, di rabbia, di lealtà e di passione. Anzi, probabilmente era stata proprio l’influenza di Mòrask a spingerlo a cercare impiego in un posto così: aveva bisogno di trovarsi in qualche modo coinvolto con vite a disagio, con situazioni di degrado che non sembravano trovare spazio nelle strade limpide della capitale. Una volta un vecchio – forse uno degli stessi che gli avevano parlato delle montagne – gli aveva detto che se anche un giorno fosse riuscito a partire, non avrebbe mai potuto andarsene davvero. Forse era solo una suggestione creata dallo smacco di vivere in un paese abbandonato da Dio, ma i suoi compaesani, specie gli anziani, finivano sempre per l’attribuire alla città qualcosa di magico e di vagamente maledetto.

Noam non credeva alle maledizioni: non era andato via con l’idea di fuggire, ma con quella di costruire e la politica era stata solo stato lo sbocco naturale di quel desiderio. Eppure si rendeva conto che certe scelte rispecchiavano un senso di colpa. Certe volte, avrebbe tanto voluto dimenticare; ma non si poteva dimenticare qualcosa che si era costretti a nascondere, e smettere di nascondere significava distruggere tutto ciò che era riuscito a costruire fino ad allora.

Scheletri nell’armadio, già. Scheletri.

“Io sono un educatore.” disse, eludendo l’ultima domanda e risalendo all’indietro nella conversazione “Prima della candidatura, lavoravo lì. Sono affezionato ai ragazzi e al personale, e loro lo sono a me, quindi tengo i contatti. Ma detesto l’eventualità che questo aspetto della mia vita privata smetta di essere privato.”

Questa volta anche Adrian alzò un sopracciglio.

“Perché?” chiese la donna.

Le parole non ebbero bisogno di farsi cercare a lungo.

“Perché è una roba paraculo.” disse, senza mezzi termini “Ed io provo l’orticaria per le paraculate, signorina-col-cane.”

“Karìma.”

“Karìma,” gli fece eco, atono “l’attenzione all’infanzia è una paraculata. I diritti delle donne sono una paraculata. Le giornate istituzionali contro la violenza, il bullismo, l’omofobia, il ricordo di questa e quella strage, e la lotta alla fame nel mondo: sono. tutte. paraculate. Viviamo di immagine, ha ragione lei. Quindi. Quindi io sono, di fatto, un educatore, ed un educatore eletto in parlamento che partecipa ad una festa nel centro per minori in cui lavorava è una paraculata colossale. E no, non si tratta di salvaguardare la privacy dei ragazzi o la mia, né si tratta di una modestia che non ho: si tratta, semplicemente, di fare in modo che il mio progetto politico non cerchi di abbellirsi sfruttando immagini che, beh… che non sono attaccabili. Che sono banalmente e tiepidamente condivise da tutti. Poi magari lei mi dirà che è una divoratrice di bambini, apprezza i mariti violenti e trova il razzismo una forma di pulizia, ma…” fece un mezzo sorriso “immagino che se lo pensasse non ne farebbe pubblicità.”

La vide annuire più volte e sorridere.

“Lei è delizioso dal vivo ancora di più che in tv.”

Poi il sorriso scomparve, come riassorbito dalle linee del suo volto.

“Lei è delizioso, nonostante il suo scheletro nell’armadio sia parecchio ingombrante.”

La guida di Adrian rimase liscia e rilassata, ma lo sguardo cercò lo specchietto in tralice.

“Perché nessuno sa che suo padre è una delle vittime dell’attentato al traforo del Nòdoask? Lei ha una tragedia alle spalle che sarebbe la più nobile delle ragioni per lottare contro il terrorismo. Invece Orizzonte nasce come movimento per il dialogo con i separatisti e lei stesso ha richiesto l’inserimento della proposta per lo statuto autonomo del Dàrbrand nel programma di Liberi insieme. C’è un bel controsenso in questo, o comunque una storia più complessa di quel che sembra: scusi se mi interessa.”

“Io non…”

Stava cercando le parole, che stavolta non vennero. Ne aveva trovate solo una manciata, e non riusciva a farle uscire… quando la macchina accostò dolcemente al marciapiede.

“Credo che lei sia arrivata a destinazione, signorina Mirèl.” fece Adrian, lapidario “Chiami pure un taxi e vada a fare il suo sciacallaggio da qualche altra parte, evitando di infastidire ulteriormente il mio cliente.”

 

***

 

Non se lo aspettava.

Non si aspettava che gli sarebbe accaduto – e così presto – di trovarsi a provare sollievo perché Adrian aveva tenuto qualcuno alla larga da lui.

“Il solo pensiero di persone che allontanano la gente al mio passaggio mi fa venire la claustrofobia”: gli aveva detto nemmeno due mesi prima.

Nemmeno due mesi.

Che coerenza del cazzo.

Si sentiva stordito, come diviso a metà: da un lato il desiderio di fingere che tutto andava bene, richiudere nell’armadio il suo scheletro e augurarsi che Adrian non facesse domande, dall’altro quello di essere onesto e confessargli che sì, quella donna lo aveva messo in difficoltà, ma non per via di uno scheletro da nascondere, quanto per i ricordi che quello scheletro gli rinfacciava, puntandogli un dito contro come nella scena di un film dell’orrore a basso budget.

Nel dubbio, fece la cosa che era meno da lui: rimase zitto. E poiché nemmeno Adrian disse niente – lui, almeno lui sì, restava fedele al personaggio – il percorso fino a casa proseguì in un silenzio completo e perfetto. Pieno di scheletri. Sovraffollato.

Lasciarono la macchina nell’autosilo – lo spiantato Yiv non aveva la patente - e proseguirono a piedi.

Ancora silenzio, ma rotto da un piacevole rumore di tuoni che borbottavano in lontananza.

Presto sarebbe piovuto.

“Mi dispiace.” disse Noam, all’improvviso.

Adrian non si voltò e mantenne il passo costante.

“Di cosa?”

Ecco, di cosa. Di un sacco di roba e di niente. Non lo sapeva nemmeno lui, ma sentiva di provare quel sentimento e forse non era rivolto ad Adrian.

O forse un po’ sì.

“Di essere essere uscito senza avvisare, credo.”

“Crede.”

Non c’era punto interrogativo in quella frase: solo attesa.

“Di essere superbo. Di sfidare tutti continuamente solo per il gusto di smontare le certezze altrui.”

Adrian tacque di nuovo, per il tempo di alcuni passi.

“Io apprezzo il suo gusto di smontare le certezze altrui, ma poiché, dal punto di vista di chi la guarda, lei sembra invece averne moltissime, è poi chiaro che qualcuno cerchi di attaccare le sue.”

“Io… davvero sembro questo?”

“Magari non lo fa apposta, ma ciò che la gente vede è un uomo che è sempre a proprio agio, qualunque cosa faccia o dica, uno che si espone senza provare alcuna forma di imbarazzo, uno che non si crea problemi ad assumere la leadership: e questo non si fa senza certezze.”

Noam rifletté qualche attimo. Non poteva negare che Adrian avesse ragione: in qualche modo, anche quando voleva essere solo spontaneo, anche quando non cercava le attenzioni degli altri, finiva per trovarsi sotto i riflettori. E, purtroppo, la cosa gli piaceva. Per questo, pur non impegnandosi attivamente per farlo, non faceva mai niente per non farlo. Era così anche da ragazzo: negli anni del liceo, non era stato lui a proporsi come rappresentante, ma poi lo era stato per cinque anni; non aveva fondato lui il movimento di cui era stato membro fino alla fuga da Mòrask, ma ne era diventato, di fatto, il punto di riferimento; finiva sempre per mettere la sua faccia ovunque ci fosse bisogno di ottenere approvazione, e quell’approvazione era la sua trappola: era più forte di lui.

“Il problema” continuò Adrian “è che quelli come lei sembrano finti. Quindi invincibili. Per questo quella donna ha creduto di poter dire qualsiasi cosa, certa di non poterla in nessun modo ferire.”

Ferire.

Quanto era pesante quel verbo, e quanto si sentiva addosso quel peso, quella sera.

“A me non interessano i fatti suoi, a meno che non interferiscano col mio lavoro. Ma lei è più vulnerabile di quel che crede alle ferite e meno lungimirante di quel che crede nelle sue, ehm, relazioni. Perciò mi permetta di tenerle alla larga personaggi di quel calibro, Noam.”

Sentire pronunciare il suo nome fu un sollievo.

 

  
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