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Autore: The Custodian ofthe Doors    25/04/2022    0 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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-Keep calm and read slow-







Capitolo XVII- Haze.





La sala del trono di Ade era ormai diventata più popolata di quella dell’Olimpo.
Il Dio dei Morti avrebbe tanto voluto bandire chiunque dalle sue stanze ma sapeva di non poterlo fare, sapeva di dover per forza dar udienza a chiunque gli si presentasse in un momento così delicato.
La Death Race sarebbe dovuta essere motivo di svago, di leggerezza e sebbene Ade non avesse mai davvero creduto che lui, così come Thanatos ed Efesto, si sarebbero mai potuti rilassare davvero, non avrebbe neanche potuto prevedere ciò che era successo, tutti gli eventi ed i problemi che si erano susseguiti.
 
E l’ultima diretta di Eolo non ha aiutato per nulla.
 
In effetti era proprio il Dio dei Venti la figura sfocata e traballante che spiccava come una candela nel centro dell’enorme salone nero.
Lo sforzo che quell’essere faceva costantemente, ogni giorno della sua divina ed infinita esistenza, era davvero ammirevole, per non dire sciocco. Portare costantemente tutte le novità ed i pettegolezzi che serpeggiavano tra gli spiriti dell’Olimpo, tra i mortali, cercare di intrattenere la divina noia era ciò che c’era di più stupido al mondo, per Ade. Non che non lo avesse già detto al dio, o che non l’avesse detto a tutti gli Dei, ma la sua opinione non aveva mai interessato davvero nessuno.
 
Non quando questa non determina la salvezza o la sconfitta dei loro divini deretani.
 
Eolo vibrava come un ologramma mal trasmesso, lo sforzo di suddividere la propria essenza, del presenziare in più luoghi contemporaneamente, era evidente sul suo volto sbiadito.
Era già difficile per lui, che doveva costantemente comparire in ogni angolo dell’Inferno per far sì che tutto funzionasse al meglio, non voleva immaginare quanto lo fosse per l’altro, che scindeva la sua forza divina nella vastità dei cieli, nei templi, nei canali ufficiali e in quelli ufficiosi, nonché al cospetto di Zeus ogni qual volta questo decidesse di chiamare lui o uno dei suoi figli a proprio piacimento.
Per molti semidei ormai era diventato un dato assodato e scontato il fatto che gli Dei potevano comparire in più luoghi allo stesso tempo, ma probabilmente ne ignoravano la vera importanza, il vero potenziale, così come ignoravano tante altre cose.
 
Se solo si fermassero per un istante a pensare a quante cose, quanti eventi, quanti destini si possono manipolare dividendo la propria essenza in luoghi diversi, in modi diversi.
Quanti danni si potrebbero fare. Quanti sono stati già fatti.
 
Eolo si torceva le mani, ogni tanto una cartellina od un foglio compariva tra di esse per scomparire l’attimo dopo. Il dio sudava freddo ed Ade poteva vederlo anche tramite quella scarsa connessione.
 
«Se ci fosse Ermes qui ti direbbe di farti controllare la connessione wi-fi, nipote.» disse con espressione neutra.
La proiezione vibrò ed Ade giurò d’aver visto un nervo guizzare infastidito sulla gola dell’altro.
«Non credo sia il momento adatto per le battute zio, non in una situazione delicata come questa.» tagliò corto.
Ade rimase impassibile. «Sei l’ennesimo che si palesa nella mia casa senza uno straccio di invito, il sarcasmo è l’ultima cosa che potete negarmi tutti voi.»
«Beh, non in questo momento. Hai visto la diretta di oggi?» domandò ansioso.
Il Dio dei Morti fece una smorfia.
Come se avesse potuto perdersela.
 
«Purtroppo per me, sì. Minosse dovrebbe smetterla di andare in giro e rimanere al suo posto a fare il suo dannato dovere. L’ho già graziato una volta, dopo tutto ciò che aveva tramato con mio figlio, se non vuole perdere il lavoro dovrà smetterla di fare la diva.»
«Non è questo il problema!»
«Sì che lo è. Hai la più pallida idea di quanto ci metta Shakespeare a prendere una decisione? Hai idea di quante anime buone siano finite nelle Praterie degli Asfodeli perché non conoscevano le sue poesie o si sono stancati di sentirlo decantare sonetti e gli hanno chiesto di smetterla e sbrigarsi? Minosse è un sadico, ma almeno non perde tempo! E intanto la fila si allunga. Continuando di questo passo dovrò concedere il dannato aumento a Caronte.» borbottò fra sé e sé.
Eolo però non pareva in vena di lamentele sulla gestione dell’Inferno perché si fece rosso dalla rabbia, stanco dell’esser preso alla leggera da tutti quegli Dei maggiori che credevano di aver problemi più grandi dei suoi. Beh, se qualcuno non l’avesse ascoltato in quel momento probabilmente ne avrebbero avuti davvero di problemi più grandi di stupide insinuazioni fatte in diretta in prima serata.
 
«Il gobbo! È questo il nostro problema! Le domande fatte a Minosse non erano in programma, non erano state approvate! Mi era stato esplicitamente detto di non tirare in ballo le anime scomparse, quelle graziate e quelle ricomparse come per magia.»
«E allora perché-»
«Non sono stato io! Te l’ho detto, è stato il dannato gobbo! Abbiamo provato a resettarlo, a cancellare le domande, a staccare la spina!»
Ade aggrottò le sopracciglia. Ogni macchina presente negli studi televisivi divini era stata fatta da Efesto, erano i suoi automa perfettamente composti, bilanciati, privi di volontà propria.
«Cosa stai cercando di dirmi?» domandò assottigliando lo sguardo.
Quella frazione di essenza divina che era Eolo vibrò come se la sua presenza lì dovesse estinguersi da un momento all’altro. Ade non dubitava fosse così, tutte le divinità legate ai cieli avevano diversi problemi nell’Oltretomba.
«Sto cercando di dirti che qualcuno ha manomesso il gobbo! Che qualcuno ha deliberatamente deciso di porre le domande più scomode e sbagliate da porre! Ti ricorda nulla?» chiese quello sarcastico, proprio come suo zio.
Il dio respirò a fondo. Se era davvero ciò che stava pensando erano seriamente nei guai.
 
Hai un altro alleato al tuo fianco, Gio? Hai scelto davvero bene, dannato bastardo.
 
«Spero vivamente tu non stia insinuando che si sia introme-»
«Per l’Olimpo, ha fatto di peggio con meno! Te la sei scordata quell’annosa e fastidiosissima storia di qualche millennio fa? Quella che scatenò una delle più grandi guerre dell’epoca? Non c’erano i dannati gobbi da cinepresa al tempo!» Eolo era sempre più spazientito, sempre più ansioso ed Ade non poteva dargli torto.
«Hai delle prove schiaccianti?» domandò con tutta la serietà e la calma che riuscì a racimolare.
Eolo alzò entrambe le sopracciglia, scioccato, come se l’idea che la sua parola non bastasse lo avesse colpito profondamente. Poi espirò con forza.
«Ho visto un ghigno galleggiare nel nulla, poi due occhi verdi. Luminosi. Serpenteschi.» fece una pausa fissando lo sguardo dritto in quello del Dio dei Morti. «Ti basta?»
Ade sospirò, il volto una maschera impassibile. «Il mostro dagli occhi verdi.» mormorò appena.
Eolo annuì. «L’invidia le è sempre stata bene addosso, come un vestito fatto su misura.»
«Così come le è sempre stato bene l’oro.» aggiunse l’altro, tetro.
«Sì, ma questa volta non è un pomo quello che ha gettato in pasto agli Dei, non è la proclamazione di una regina sopra le regine quella che ha proposto.»
Ade distolse lo sguardo per posarlo sul suo trono, dove un lungo drappeggio scuro riposava placido come non avrebbero mai potuto fare i suoi fili, la sua trama.
Quante delle anime usate per tessere il suo mantello erano state tratte in inganno proprio da quello stesso ghigno?
Non batté le ciglia, non proferì respiro.
 

Anche la discordia aveva voltato le spalle all’Olimpo per seguire il Mortale, per seguire Giordano Delle Vie.
 

«Perché la cosa non mi stupisce?»


 
*


 
Se si fosse sforzato abbastanza sarebbe stato in grado di richiamare alla mente la sensazione della mano callosa di sua madre che lo colpiva con forza quella volta che aveva bestemmiato in chiesa, inciampando sul tappeto della navata centrale. Se si fosse sforzato, avrebbe potuto anche sentire il formicolio della pelle bollente, la sensazione dei denti stretti con forza per non far scappare neanche un suono.
Se l’era vista brutta, soprattutto perché se il prete avesse fatto una scenata poi si sarebbe dovuto sopportare anche le urla isteriche dell’amica di sua madre. Si domandava spesso come una donna così comune e banale fosse potuta entrare in sintonia con una donna forte e speciale come era sua madre.
Alexia era stata per così tanto tempo l’unica donna della sua vita che forse, forse, a quasi cinquant’anni dalla sua morte, a quasi quaranta da quando aveva deciso di rinascere, Nathan si era reso conto di averla elevata sopra tutte le altre, sopra ogni persona e ogni capitano mai avuto. Era stata il suo modello di paragone per ogni singolo essere entrato nella sua vita, persino per Lucy in un certo senso.
Quelle due erano così diverse ma così incredibilmente simili che Nathan si domandò se forse non si fosse innamorato di sua moglie solo ed esclusivamente perché sapeva che Alexia l’avrebbe approvata.
Anche in quel momento il modello che sua madre aveva impresso a fuoco nella sua mente non poteva far a meno di saltar fuori dal passato, di proiettare un’invisibile Alexia proprio di fianco all’amazzone che lo scrutava con sguardo agguerrito.
Che porca di quella troia doveva proprio ritrovarsi davanti una donna in un momento delicato come questo?
Nathan non era maschilista, davvero, aveva avuto tante compagne donne, tante sorelle al Campo e anche qualcuna sul campo. E c’era Alexa e c’era Lucy e ora, notò con una nota di sorpresa che lo infastidì, persino Eliza appariva nella lista delle donne combattenti con cui avrebbe affrontato volentieri una missione. Forse con Eliza c’avrebbe anche fatto a pugni. Forse. Ma solo perché era una figlia di Nike e aveva le botte di forza sovrumana e-
 
Nathan si gettò a terra probabilmente giusto in tempo per schivare il coltello da lancio che l’amazzone aveva scagliato dritto verso la sua testa.
L’arma si perse nella folla, conficcandosi nel petto di una povera anima del tutto estranea a quel conflitto, ma la guerriera non parve minimamente farvi caso.
Lo fissava dall’alto del suo metro e novanta, Nathan era certo che quella dannata gigantessa fosse persino più alta di Golia stesso. Dei dell’Olimpo, che cazzo le avevano dato da piccola? Quella se l’era mangiata la madre, altro ché.

«Concentra la tua attenzione su di me, figlio degli Dei, se vuoi superare questa prova.» disse con voce ferma e profonda, il tono perentorio e minaccioso fece storcere il naso all’altro: era abituata a dare ordini e a vederli eseguiti all’istante.
 
Non era una guerriera a caso, questa era un generale o qualcosa del genere.
L’ho già detto “cazzo”?

 
Rotolò sulla pancia, puntellandosi con le mani sul terreno per rialzarsi al volo e mettersi in posizione difensiva. Non era nulla che non avesse mai fatto, che non avesse fatto di recente per altro. Aveva combattuto con quelle animuncole da strapazzo durante la prova precedente, preso a pugni un muro d’edera per tirare fuori la pazza.
 
Anche se poi è stata Eliza a salvarla. Cazzo, perché puntualizzo le cose ora? Questo è l’influsso della rompipalle, sto diventando come lei. Porca puttana, porca puttana.
 
«Sono concentrato, non dubitarne.»
«Invece è proprio quello che faccio, figlio di Ares. Sei un combattente ed un beato, dimostrami di essere degno di entrambe e allora, anche una volta sconfitto, ti lascerò passare.»
Lo disse quasi con magnanimità e Nathan ci vide rosso.
Se solo si fosse preso un attimo per ragionare si sarebbe reso conto che per tutta la durata della gara, fino a quel momento, era riuscito a fare qualcosa che, in vita, aveva raramente fatto: pensare prima di agire.
Oh, Eliza si fidava di lui, Golia, il moccioso, la figlia di Apollo, la strega e pure roscio malpelo, si fidavano tutti dei suoi piani, li ascoltavano con attenzione e poi sì, magari ne discutevano, ma lo facevano ragionandoci tutti assieme.
Probabilmente era stata la presenza degli altri, la necessità di avere un piano per non far correr loro più pericoli del dovuto, la stessa esigenza che aveva una vera squadra, ciò di cui, come singolo, non si era mai curato. Ma fino a quel momento aveva sempre pensato a cosa fare, come muoversi. Era stato un leader il cui dovere era quello di portare i suoi compagni al sicuro. E sì, sì, non era davvero lui il leader di quella squadretta da quattro soldi, così come la principessa l’aveva costretto ad ammettere, ma si era sempre comportato come tale per lo meno.
Ora era solo. Ora non era il capo, il superiore, il compagno o l’amico di nessuno.
Le vecchie abitudini erano dure a morire così come ogni stupida storia aveva sempre banalmente ripetuto, Nathan però lo stava per sperimentare sulla propria palle e non poteva dire che la cosa gli dispiacesse troppo.
Piantò bene il piede a terra, molleggiando una volta sul posto prima di avanzare a testa bassa, pronto a colpire l’amazzone con quanta forza aveva in corpo.
 
Vediamo se piacevo più io a mio padre o te.
 
Lo pensò con un ghigno strafottente stampato in faccia, mentre l’adrenalina iniziava a pompargli veloce nelle vene, correndo assieme al sangue ad ingrossare i muscoli, a caricarli di tensione repressa com’era stato per tutta la sua vita.
Ci sarebbe stato tempo dopo per pensare a come, da anima morta, non avrebbe dovuto aver adrenalina o tensione muscolare, ma in quel momento c’era una luce che lampeggiava nella sua testa, come la sirena delle navi, quella luce accecante, rossa, che girava su sé stessa gracchiando un suono acuto che ti si infilava fin sotto pelle.
Era la chiamata della guerra, era la campanella prima dell’inizio del match, il fischio dell’arbitro ed il gong dei filmetti cinesi di serie b che aveva visto in Vietnam, sottotitolati in Thailandese.
Era il corno che suonava per dare il via alla caccia alla bandiera ed era da una vita che Nathan non lo sentiva più.
Sembrò che quello stesso suono lo potesse sentire anche l’amazzone, perché non appena Nathan le fu sotto tiro non cercò minimamente di difendersi ma solo d’attaccare.
Il pugno che gli arrivò dritto sullo zigomo lo fece a mala pena retrocedere, la forza di Ares lo tenne stabile in piedi ma non mitigò il dolore acuto che gli perforò la testa, il sapore fantasma di sangue sulla lingua.
Si riscosse subito assestandole a sua volta un pugno sul fianco, ma la donna pareva fatta di ferro e neanche si piegò, afferrandogli invece il polso e torcendogli il braccio, costringendolo ad inginocchiarsi per non darle le spalle.
Sapeva che quella posizione era fin troppo sconveniente e si protesse in tempo la pancia con un ginocchio prima che l’amazzone potesse sferrargli un calcio.
Era forte e precisa, una forza mostruosa ed una capacità marziale, fatta di ore, giorni, anni d’addestramento continuo e serrato. Nathan poteva riconoscere con facilità un soldato quando ne vedeva uno, che fosse quello più canonico in divisa o più atipico come la donna nel peplo corto e la stretta armatura davanti a lui.
 
Sopra di lui.
 
Precisò una fastidiosa vocina dannatamente simile a quella di Lea.
Forzò la presa della sua avversaria buttandosi di peso verso il terreno, costringendola a lasciarlo per non finire sbilanciata. Nathan si girò veloce sulla schiena roteando le gambe per calciare via la donna, ma questa saltò rapida ed agile come un grillo, scagliandogli a sua volta un calcio dritto contro lo stinco.
Avrebbe volentieri bestemmiato gli Dei e tutti quelli come loro, ma in quel momento il fiato gli serviva per altro e solo un verso indistinto fischio tra i denti serrati, acuto come il cigolio di una porta.
Continuarono quello stupido balletto per ciò che parvero quasi ore, ogni volta che Nathan riusciva a colpirla, o anche solo ad avvicinarsi a lei, incassava il doppio di quello che le aveva dato e per un attimo, per un folle momento, si domandò se quella non fosse la sua fine, se non fosse davvero destinato a soccombere sotto i colpi martellanti di una guerriera amazzone immortale.
Prese un respiro profondo, al stronza era così sicura della sua superiorità da concedergli di tanto in tanto di riprendere fiato, girandosi ad afferrare il primo malcapitato di turno per rifilargli un pugno in piena faccia e mandarlo dritto dritto al creatore.
 
Se solo già non ci fosse.
 
Puntellò un piede a terra e si poggiò sul ginocchio, ansimando come un morto non avrebbe dovuto fare, asciugandosi il sudore che gli colava dalla fronte ed il sangue che gli impastava la bocca.
 
Porca di quella puttana laida.
 
La guerriera tornò a dargli completa attenzione ed alzò un sopracciglio come a chiedergli se fosse pronto a ricominciare.
Nathan avrebbe voluto dirgli di smetterla di fissarlo in quel mondo, con quello sguardo di superiorità sul volto privo di sentimenti. Avrebbe voluto dirle che se si stava rompendo tanto le palle poteva dargli il colpo di grazia e lasciarlo lì a morire davvero, dirle che se non era degno della sua cazzo di grazia se la sarebbe andato a prendere da qualche altra parte.
Era rabbia quella che gli ribolliva nel petto, ma anche vergogna, invidia, un mix letale di sentimenti che non provava più da tanto tempo, non tutti assieme per lo meno, e che lo fecero quasi barcollare. Si sentiva come un moccioso alla sua prima lezione di spada, come la prima volta che sua madre aveva provato ad insegnargli i rudimenti dell’autodifesa e l’aveva mandato con il culo a terra in meno di un minuto. Si sentiva umiliato nel profondo, incapace di tener testa ad un solo soldato.
Cosa pensava di fare una volta tornato su? Se non era in grado neanche di vincere uno scontro uno-contro-uno con un avversario addestrato, come poteva pensare di tornare in vita ed affrontare la profezia?
 
Come posso fermare quella fottuta profezia se neanche sono in grado di difendere me stesso?
 
Aveva perso di vista i suoi compagni, si era fatto prendere dalla foga del combattimento come ogni volta, com’era sempre stato anche in vita. Si era immerso nell’aria densa di adrenalina, di paura e di eccitazione e la sua mente era andata in black-out. Aveva pensato di poter affrontare chiunque, di potercela fare contro tutto e contro tutti e invece era bloccato lì dagli Dei solo sapevano quando, a farsi fare il culo a stelle e strisce da un’amazzone annoiata.
Per quanto ne sapeva Lea e Jonas poteva essere ovunque, potevano esser stati attaccati da una guardia o da un concorrente, potevano essere finiti nel fottuto occhio di Sauron o schiacciati sotto la carica delle altre anime com’era già successo ad altri. Aveva perso i suoi compagni, quelli che avrebbe dovuto proteggere e non era neanche in grado di difendere sé stesso. Come poteva pretendere di salvare Olivia?
 
Se è vero. Se la storia della profezia è vera, se parlava davvero di lei e non di un’altra persona a caso. Se non sono stato ingannato. Se sono ancora in tempo. Se è ancora viva. Se supererò questa prova. Se le supereremo tutte fino ad arrivare alla finale. Se noi-
 
Noi.
Se noi.
Se non stava facendo tutto quel casino solo per arrivare su e scoprire che ogni speranza era ormai persa. Quanto sarebbe stato devastante in quel caso?
Nathan si rese conto di aver messo da parte, di aver sottovalutato, in un qualche modo anche deprezzato ciò che sarebbe successo poi, l’accordo ultimo per cui si erano riuniti tutti e otto.
Arrivare fino alla fine e poi combattere tra di noi, senza rancore.
 
Senza rancore ‘sto grandissimo cazzo.
 
Nathan sapeva che, volente o nolente, arrivati all’ultima gara, sarebbe stato impossibile mettere da parte quella barzelletta di rapporto e fiducia che avevano instaurato durante ogni prova e che, con tutta probabilità, qualcuno avrebbe ceduto. Se non per debolezza d’animo, per nobiltà.
Banalmente, era ovvio che Cade non avrebbe mai attaccato Jonas, era ovvio che l’avrebbe protetto fino alla fine, fino a quando non sarebbero rimasti solo loro due ed era ancora più scontato, almeno ai suoi occhi, che giunti all’ultimo atto il bastardo non ce l’avrebbe fatta ad ammazzare il ragazzino e, piuttosto che fargli del male, avrebbe rinunciato lui alla vittoria.
Così com’era ovvio che Golia non avrebbe mai attaccato né il moccioso né Lea. Eliza non avrebbe mai alzato un dito contro chi era più debole ed indifeso di lei. Jane, in uno scontro, non avrebbe mai potuto avere la meglio su di loro, mentre la rompipalle era già morta una volta per fare la cosa giusta, non c’era alcun dubbio che sarebbe stata disposta a farlo di nuovo. Quanto a lui, persino Nathan dubitava che sarebbe mai potuto riuscire a dare il colpo di grazia a molti di loro. Forse a Jane sì, forse anche a Cade, forse ad Eliza solo alla fine di un lungo combattimento, solo per non farla soffrire.
Inginocchiato a terra, sporco di fuliggine, sudore, sangue e strano pulviscolo proveniente con tutta probabilità dalle sfere dei ricordi, Nathan si rese conto che il loro brillante, brillantissimo pianto, quello per cui tutti aveva concordato, senza rancore, solo affari, li aveva fottuti tutti, uno per uno.
Con gli occhi sgranati puntati dritti in quelli dell’amazzone, il figlio di Ares si rese conto che se il contratto era stata la condanna a morte che si erano firmati da soli, il loro accordo erano le catene che si erano messi.

Peggio dei gioielli di quei due.
 
Cicno.
Cicno era l’incognita della loro alleanza, di lui Nathan non sapeva assolutamente nulla se non la sua discendenza divina. Lui sarebbe stato l’unico in grado di vincere sopra tutti, sopra tutto.
Fece forza sul ginocchio e si mise in piedi traballando.
Non doveva pensarci ora, anche se l’unica cosa che gli rimbalzava per la mente come una cazzo di pallina di gomma impazzita era che si erano fottuti tutti da soli.
 
Ci siamo fottuti da soli. Siamo fottuti. Siamo fottuti.
 
Lui voleva tornare sulla terra per fare qualcosa di buono, per fare finalmente la cosa giusta e salvare Olivia come non era riuscito a fare con Lucy, ma se lei non fosse stata davvero in pericolo?
Ma cosa volevano fare gli altri?
Si pulì la fronte con il dorso della mano e assottigliò lo sguardo, l’amazzone sembrava quasi attenderlo pazientemente.
Che senso aveva per gli altri tornare in vita? Gli unici che potevano sperare di rivedere i membri della loro famiglia, i diretti discendenti per lo meno, erano lui, Cade e Jonas. Lea era stata adottata se ricordava bene, la famiglia di Eliza era morta con lei, così come quella di Cicno. Quanto a Jane ed Úranus, una aveva perso entrambi i genitori e l’altro non sapeva se sua madre fosse riuscita a scappare, se fosse riuscita a dare alla luce il fratellino e se il bambino fosse sopravvissuto.
Traballando leggermente, la bocca asciutta e la mente confusa da troppi pensieri che si accavallavano gli uni sopra gli altri, come sempre nel momento meno opportuno, Nathan si domandò quanto dovessero essere cinici, crudeli e menefreghisti gli Dei per pensare di riportare in vita genti che non appartenevano più al mondo sulla loro testa, che non avevano più nulla, neanche la loro terra.
Sarebbero tornati per cosa? Per chi? Per vivere in che modo?
Lui sarebbe potuto tornare al Campo, avrebbe allenato i nuovi semidei una volta svolta la sua missione, ma un tipo proveniente dal Cinquecento come Úranus, cosa poteva aspettarsi? Che prospettiva di vita avrebbe avuto?
Scagliandosi ancora una volta contro la donna, l’occhio acuto del combattente che sembrava attivarsi come un radar automatico, ricevuto in dotazione dalla nascita assieme a corredo semidivino di dislessia e deficit dell’attenzione, Nathan si ripeté per l’ennesima volta che agli Dei non fregava un cazzo. Non fotteva nulla di loro, del futuro.
Gli Dei non volevano salvare un’anima, non si erano posti il problema. Era puro show in tutto e per tutto.
Perché se ne stupiva tanto? Già lo sapeva, era perfettamente consapevole di quanto fossero stronzi, cos’era cambiato?

È cambiato che ora hai qualcuno al tuo fianco che, se dovesse vincere e tornare sulla terra, vivrebbe probabilmente peggio di quanto non abbia fatto fino ad ora.
È cambiato che se uno di loro dovesse vincere finirebbe probabilmente male. In prigione nel migliore dei casi, senzatetto, in manicomio o direttamente morto.

 
E dove li avrebbero fatti tornare? Sarebbero riapparsi sulla terra esattamente dov’erano quando erano morti? Sarebbero riapparsi nel luogo sovrastante l’Ade in cui si trovavano in quel momento, alle porte dell’inferno? Cazzo, quanti dei suoi parlavano inglese? Perché l’ultima volta che aveva controllato il fottuto inferno di trovava a Hollywood.
Schivò un paio di colpi della sua avversaria ma per quanto il suo corpo andasse in automatico, per quando sapesse cosa fare meglio di quanto non lo sapesse lui stesso, in quel momento non riusciva a concentrarsi a pieno, non riusciva a escludere tutte quelle preoccupazioni inutili dalla sua mente.
Era veramente ridicolo ed imbarazzante il modo in cui si stava facendo tutte le pare mentali che probabilmente si sarebbe potuta fare la rompi palle o il moccioso in piena crisi di panico.
Si sentiva quasi soffocato da tutti quei dubbi, dalla paura innaturale, qualcosa che non gli apparteneva. Non era il suo primo rodeo, non era il primo combattimento che affrontava separato dai suoi compagni, senza sapere come stessero, se fossero ancora vivi. Sapeva gestire questo genere di emozioni, non era lui, non era da lui, non-

L’amazzone lo colpì sulla spalla con le mani intrecciate, la forza del colpo lo fece cadere in ginocchio per l’ennesima volta, un dolore lancinante che gli portò un attimo di lucidità in mezzo a tutta quella foschia.
 
Foschia. Non sono io, è la fottuta Foschia.
 
Non fece in tempo a decidere che tutti i suoi strani pensieri fossero da imputare della foschia, prima ancora che la donna potesse anche solo caricare il prossimo pugno qualcosa di duro lo colpì dritto dietro la nuca.
La nebbia che gli ottenebrava la mente sfocò il suo campo visivo, avvertendo il corpo farsi debole, pesante. Una voragine gli si aprì nello stomaco. Fu esattamente come trovarsi per la prima volta su di una nave nel mezzo del Pacifico, come salire all’apice delle montagne russe, l’attimo prima di cadere, l’attimo esatto in cui i ganci scattavano e ci si ritrovava a cadere così velocemente da esser sicuri di aver lasciato tutti i propri organi su quel picco.
Nathan avrebbe potuto trovare altre centinaia di paragoni, per quanto la sua vita fosse stata breve non gli aveva risparmiato quel genere di situazioni, di sentimenti, di paura, sconforto, sconfitta.
 

Mi hanno battuto.
 

Era l’unica cosa che gli rimbombava nella mente.
 
«Fine della corsa, giovanotto.» mormorò divertita la voce roca di un uomo.
Un fruscio di vestiti, il nuovo arrivato si mosse, ma Nathan non poteva vederlo mentre scivolava a terra.
«È un piacere rivederti, Mirina.»
L’amazzone ispirò dal naso. «Non c’era alcun bisogno di intromettersi, Roger.»
«Oh, lo so mia cara, ma sembrava un osso duro il tipo, uno testardo. Così abbiamo fatto prima e possiamo andare a dedicarci anche agli altri, no?»
 
Nathan smise di prestare attenzione ai due, gli occhi spalancati puntati ancora verso la donna si chiusero lentamente mentre si lasciava andare al suolo svuotato di ogni energia. I sandali dell’amazzone furono l’ultima cosa che vide.
 

Era appena stato sconfitto dalle guardie dell’Ade.
 


Nathan Wright aveva appena fallito la quinta prova.



 
*



 
Ansimando frastornato il giovane fissò la figura che svettava su di lui. Poteva vedere solo la schiena dell’uomo ma giurò che anche in quell’oscurità, nella luce crepuscolare dell’Ade, il combattente fosse inondato dai raggi del sole.
 
Non è un pensiero poi così lontano dalla realtà.
 
Lo vide allungare una mano davanti a sé, un guizzo bronzeo gli balenò tra le dita, un pugnale sporco di sangue che l’uomo pulì senza troppa cura contro la propria coscia scoperta.
Si voltò poi verso di lui, gli occhi celesti gli ricordarono il cielo d’inverno, limpido, freddo, puro, infido, pronto a nevicare, a ghiacciare ogni goccia d’acqua e farne grandine, promettendo di rovinare raccolti e case.
Úranus deglutì e si domandò non per la prima volta chi diamine si fosse portato dietro Cade, com’era possibile che il giovane irlandese riuscisse ad attrarre a sé dannati dai poteri instabili e dal passato oscuro.
Cicno gli sorrise benevolo, facendolo sentire piccolo ed indifeso malgrado la differenza della loro stazza.
Inclinò la testa di lato. «Pensi di riuscire ad alzarti? Dovrai dirmi tu dove si trova il luogo predisposto al nostro incontro.»
Úranus annuì piano, poggiando una mano a terra per bilanciarsi e rimettersi in piedi.
Alcuni metri davanti a loro il corpo di un uomo sulla trentina giaceva privo di vita sul terreno bruciato. Non sapeva quando fosse corretto poi definirlo “privo di vita”, forse sarebbe stato più corretto dire “di anima”, ma rimaneva il fatto che la profonda e sanguinolenta ferita che gli si apriva sul petto aveva decretato la sua dipartita forse definitiva anche da quel mondo.
Cicno gli diede le spalle non appena si fu accertato che il compagno si fosse alzato, osservando con attenzione il nugolo di anime che si affrettava e combatteva attorno a loro.
Erano stati fortunati per un primo momento, spinti in una zona particolarmente popolata le guardie dell’Ade erano state troppo impegnate con le anime più agguerrite per prestar attenzione a loro. Poi qualcuno doveva aver pensato che la strategia applicata alla gara precedente potesse rivelarsi utile anche lì, così alcuni avevano iniziato ad attaccare anche altri partecipanti.
Úranus si era ritrovato a dover schivare colpi di spada senza riuscire a capire chi lo stesse attaccando e perché. Aveva individuato poi un uomo con una strana calzamaglia scura, vestito in una giubba che poteva sembrare di raso, gli occhi accesi da un sentimento che il semidio non era riuscito ad indentificare. Gli era bastato posare lo sguardo sulla lama per iniziare già a sentire i primi sintomi del panico, le prime avvisaglie dell’ansia, del potere di suo padre che scalpitava per uscire, sempre più eccitato, come una belva che sente il giogo al suo collo allentarsi ogni momento di più.
Poi l’uomo si era bloccato, una punta di freccia scintillante era apparsa al centro del suo collo, scomparendo poi come rievocata lontano dalla sua vittima.
Il sangue era zampillato come birra da una botte, fiotti lunghi che quasi l’avevano colpito. Quando il corpo, l’anima o qualsiasi cosa fossero diventati, era caduto a terra, Úranus si era ritrovato ad alzare lo sguardo ed incontrare quello freddo e lucido di Cicno. Era stato solo il primo di cinque nemici.
Il greco era più magro di lui, più fine, più basso, aveva sopportato le torture dei Campi di Pena per millenni, eppure era stato il suo salvatore. Cicno l’aveva difeso senza fiatare, ogni sua mossa era parsa naturale e quasi trattenuta, come se non avesse voluto mostrare appieno le sue capacità.
Il figlio di Fobetore era rabbrividito, seguendolo con attenzione senza perdere mai un passo, osservandolo far girare i coltelli tra le dite fini, scagliarli con la precisione di un arciere e richiamarli a sé con la maestria di un incantatore.
 
«Dobbiamo dirigerci verso le porte, da lì raggiungeremo la nostra meta.» disse come un automa, giuso per non rimanere in silenzio.
Cicno annuì e strinse la presa sui pugnali che teneva in mano.
Osservò con occhio critico tutto ciò che lo circondava, tutti coloro che si agitavano come insetti affannati, ansiosi di raggiungere il nido sicuro.
Malgrado la zona in cui si trovassero pullulasse di anime il figlio di Apollo sapeva che ce ne sarebbero stati altri come quegli stolti, desiderosi di morire sotto le sue lame. Per di più c’era anche quell’inutile gigante che non faceva altro che costringerlo a stare doppiamente attento.
Che senso aveva essere così grandi se poi non si era in grado di difendersi da sé?
Se il suo padrone non gli avesse imposto di fare tutto il possibile per portare tutti i suoi compagni alla linea del traguardo, sfida dopo sfida, se ne sarebbe già liberto.

Forse potrei spingerlo nel fascio di luce, potrebbe sembrare un incidente.
 
Fece schioccare la lingua contro il palato: no, c’era il serio rischio che ne uscisse vivo.
Si guardò attorno ancora ed allungò una mano verso Úranus per fargli cenno di rimanergli vicino il più possibile.
 
«Rimani vigile, cerca anche i nostri compagni, ci siamo divisi in malo modo, il figlio di Ares è l’unico combattente rimasto con mia sorella ed il giovane Jonas.»
«Credi non riesca a proteggere entrambi?» domandò l’altro apprensivo.
Cicno si concesse una smorfia solo perché conscio che non sarebbe stato visto. «Credo sia possibile che al primo ostacolo Nathan dica loro di scappare per poter fare l’eroe e combattere da solo.»
«Sarebbe sciocco da parte sua.»
«Sarebbe logico, da soli si può pensare solo alla propria salvezza, non si deve prestar attenzione anche a proteggere terzi, non si hanno punti deboli se non i propri.» affermò con decisione.
Se quella fosse o meno un’insinuazione su come Cicno sarebbe potuto andar avanti con più facilità se con lui non ci fosse stato anche Úranus, nessuno lo poteva indovinare, non con la fastidiosa abitudine di parlare sempre francamente che il greco aveva.
«Sarà difficile individuare le vesti- mimentiche? Credo si chiamino così, di Nathan.»
«Cerca i loro biondi capi, la camicia candida di Lea o quella più mal ridotta di Jonas.» rispose secco Cicno afferrandolo per un braccio e spingendolo ad aggirare uno scontro tra più anime.
Úranus guardò quei corpi ormai inesistenti combattersi con ferocia e disperazione, qualcuno già a terra, qualcuno inginocchiato davanti ad una guardia dell’Ade che gli imponeva la mano sulla fronte.
Un leggero alone luminoso si diffuse sotto il palmo del combattente e l’islandese rimase a fissare imbambolato il marchio che affiorava sulla pelle sporca. Era dunque quello il lasciapassare per le anime degne? Ne serviva uno anche a loro per poter oltrepassare le Mura Bianche o sarebbe bastato giungere sulla loro soglia per essere decretati vincitori?
Perso nei suoi ragionamenti non si accorsi di un uomo che si stava facendo largo tra la folla, dritto verso di loro. Non vide il simbolo di Ade brillare sulla sua fronte, gli abiti che indossava erano anonimi, un mantello corto gli nascondeva le braccia, la pistola che teneva stretta nella mancina, la destra che si allungava veloce per stringersi attorno al polso di Cicno.
Il figlio di Apollo voltò a mala pena il capo, inclinandolo solo leggermente verso quello che era uno dei membri più anziani della sua vera fazione.
L’uomo accostò la testa alla sua , la barba ed i riccioli neri gli solleticarono la guancia ma Cicno rimase immobile ed imperturbabile mentre il figlio di Bia gli mormorava poche, semplici parole all’orecchio.
 
«Cerca la guardia rossa, uno dei tuoi è nelle mani del servitore del nostro padrone, ma con lui c’è anche un combattente inconsapevole. Alla mia sinistra, volteggia come un falco a caccia, lo riconoscerai facilmente.»
 
Lasciò scivolare la mano e scomparve veloce com’era arrivato.
Cicno non si voltò neanche a guardarlo, limitandosi a richiamare l’attenzione di Úranus e a tirarlo nella direzione desiderata.
«Dove stiamo andando?» domandò quello accigliato.
«Ho visto un guizzo rosso svettare sopra le teste delle anime.» disse solo.
L’altro sembrò quasi risvegliarsi a quelle parole, drizzando la schiena e allungando il collo nel disperato tentativo di scorgere Cade.
«Da quella parte?» chiese indicando un punto imprecisato.
Cicno annuì senza distogliere lo sguardo dal suo obiettivo, dal vero guizzo rosso che aveva intravisto.
Se solo Úranus fosse stato un poco più attento e meno smanioso di riunirsi a compagni che, evidentemente, apprezzava più di lui, si sarebbe ricordato che il figlio di Apollo aveva un vista abbastanza acuta da poter essere certo se qualcuno a quella distanza potesse essere uno dei loro o meno. Ma in quel momento la fretta di Úranus non faceva che giovare a Cicno, che ben presto si ritrovò a battere le palpebre perplesso.
Lui conosceva quell’uomo, lo conosceva eccome. Solo che l’ultima, nonché la prima, volta che l’aveva visto, indossava una tunica verde.
 
È l’uomo che mi ha portato dal mio signore, è anche lui un suo servitore.
 
Quanti erano gli alleati del suo padrone? Queste anime che avevano giurato fedeltà ad altri Dei, ad Ade stesso, in verità ponevano la loro vita al servizio di quell’essere?
La guardia rossa stava combattendo assieme ad altri suoi compagni, vestiti in modo del tutto diverso rispetto alla sua veste di seta lucida. Saltava con un’agilità e ad un’altezza tale che Cicno avrebbe giurato essere quasi una dote divina. Le lunghe maniche vorticavano attorno al suo corpo e alle armi che maneggiava, una lunga spada dritta ed un falcetto. I capelli scuri parevano animati da vita propria e quando si allungarono per legarsi attorno al polso di un’anima e lanciarla lontano da lui, Cicno seppe con certezza che quell’uomo doveva discendere dagli Dei.
 
Forse non dai nostri.
 
Con un affondo rapido anche un’altra anima venne eliminata con facilità dalla gara, lasciando libero il guerriero di alzare lo sguardo nero ed incrociare quello celeste di Cicno.
Gli parve quasi d’avvertire la puntura di un insetto, qualcuno ridacchiò nella sua testa, voci acute e divertite, come di spiritelli dispettosi pronti a dargli la risposta giusta.
 
Kami.
 
Quella parola gli saettò nella mente, poi il guerriero distolse lo sguardo dal suo e sorrise.
 
«Mjöllson-san, è un sollievo vederti di nuovo qui. Non eravate con la signorina Elena?»
 
Alle spalle di Cicno Úranus sorrise sotto la folta barba rossa, accelerando il passo per andare incontro all’uomo.
 
Il figlio di Apollo si concesse solo allora di sorridere: se questo era davvero frutto del caso, la divina Tiche doveva essersi tolta la benda che le copriva gli occhi ed aver puntato lo sguardo dritto su di lui.
O più semplicemente, pensò ghignando più apertamente, questa non era altro che l’ennesima riprova del potere del suo padrone.



 
*



 
Le mura scure erano ricoperte di scaffali scolpiti nella pietra. Su ogni ripiano erano allineati oggetti provenienti da ogni epoca. Sui ripiani più alti tavolette d’argilla, cocci rotti e cortecce incise segnavano il ricordo dei primi giorni in cui gli umani avevano provato a tramandare le loro storie, le loro parole, attraverso una forma scritta, inscritta, incisa nel tempo.
Sotto di essi invece facevano bella mostra di sé vecchi papiri arrotolati e stretti con una cordicella. Quella era la sezione che gli interessava, la parte di mondo, le ere, tra cui stava frugando.
Ade si maledì da solo, doveva esser stato per forza lui l’ultimo a metter mano tra quelle stuoie e per un motivo a lui sconosciuto non le aveva rimesse in ordine.
Cos’era successo? Cercava qualcosa sui romani forse? Poi c’era stata qualche improvvisa convocazione e aveva lasciato tutto così alla rinfusa?
Probabile.
Dietro di lui Persefone se ne stava tranquilla seduta al lungo tavolo d’ebano decorato, l’unghia smaltata che percorreva pigramente ogni incisione, lasciando dietro di sé una scia luminescente.
 
«Se mi fai fiorire di nuovo il tavolo giuro che il prossimo sarà di sale.» l’avvertì continuando a srotolare e riarrotolare papiri velocemente.
La dea sbuffò ma non gli rispose, preferendo alzare lo sguardo sull’enorme sfera luminosa che galleggiava a mezz’aria al centro del tavolo.
Dentro di essa, proprio come aveva potuto ammirare dal suo mosaico, scene frammentate si scambiavano di posto a velocità disumana mostrando la prova in corso, quella di sua madre.
Madre che, per altro, si era rifiutata di uscire dalla sua bella camera lussureggiante, specie se per infilarsi in, citando testuali parole, “un mausoleo di pietra e vecchi documenti polverosi di cui non se ne ricaverà mai nulla”. Quelli erano i momenti in cui si domandava come sua madre e suo marito si ostinassero a dire di non aver nulla in comune.

La simpatia, quest’oscura magia proibita.
 
Impuntò il gomito sul tavolo e poggiò la guancia sul palmo della mano.
 
«Stanno facendo di nuovo uno scempio. Il Guardiano sta mettendo a ferro e fuoco tutto l’ingresso dei Campi Elisi. Non ce li mando i miei giardinieri a rimettere in ordine.»
«I miei giardinieri, cara.» le fece notare lui a denti stretti.
«Quel che è mio è tuo, caro, funziona così il matrimonio.»
 
«Qualcuno lo ha mai detto ad Era? Se avesse saputo fin dall’inizio che gli amanti del marito sono anche suoi sarebbe stato tutto più divertente.»
 
Un suono secco, palesemente uno schiaffo dietro la nuca, fece girare i due sovrani dell’Inferno verso una delle arcate della grande biblioteca.
Thanatos superò con una smorfia l’arco ed entrò a passo sicuro nella sala, fermandosi solo per raccogliere un frammento di papiro scivolato da uno degli scaffali.
«Questo non stava ad Alessandria?» domandò rivolto allo zio.
Ade si strinse nelle spalle. «O qui o a fuoco, direi che è il male minore.»
«Il furto?» chiese ironica Persefone.
«Oh, questo è il motivo per cui è lui il mio zio preferito.» Ipno saltellò dentro verso il fratello passando da un piede all’altro come un fenicottero infermo sulle zampe lunghe. Sorrise al gemello e gli passò un braccio attorno alle spalle, alzandosi sulle punte per poter raggiungere il suo livello.
«Che dice? È un pezzo di profezia? Non facciamo prima ad andare a chiedere alla Sibilla?»
Il Dio dei Morti chiuse gli occhi massaggiandosi le tempie. Questo, questo era il motivo per cui non passava del tempo con i suoi fratelli. Perché parlavano troppo, perché si prendevano troppe confidenze. I morti erano decisamente meglio.
«Credi seriamente che andare a chiedere alla Sibilla se si ricorda di una profezia fatta un secolo fa sia una buona idea?» soffiò fuori tra i denti serrati.
Ipno si strinse nelle spalle e lasciò la presa sul fratello, saltellando di nuovo via, verso Persefone.
Salì sul tavolo con un balzo e si sedette a gambe incrociate vicino alla cugina, ammirando la sfera.
«Chi vince?»
Persefone alzò un sopracciglio. «Questa non è la domanda che non devo farvi assolutamente quando fate quel vostro gioco mortale?»
«Detta così sembra che il gioco ci ammazzi! Naaa! D&D è un'altra cosa. Qui chi vince? Le guardie o le anime?»
«Le guardie sono meno delle anime, ma molte di loro non sanno neanche cosa significhi combattere un corpo a corpo. Per di più, il Guardiano fa il suo lavoro.»
«Oh! L’occhio di Saruman?»
«Sauron.» lo corresse senza gioia Thanatos. «Saruman è lo stregone supremo che poi diventa cattivo.»
«Giusto, quello che poi diventa una sfera stroboscopica.»
«Cosa?» domandò la dea improvvisamente interessata.
L’altro gemello sbuffò voltandosi verso i due. «Diventa “Saruman il multicolore”, non “La palla stroboscopica”. Prima era Saruman il bianco, perché era a capo de-»
«Se non la smettete immediatamente il tavolo non sarà l’unica cosa che trasformerò in sale.» sibilò Ade riaprendo gli occhi e fulminandoli con uno sguardo. «Tolkien è nelle Isole dei Beati, se volete discutere sui nomi dati ai suoi personaggi allora potete accomodarvi fuori di qui.»
Ipno batté le palpebre sorpreso, scostandosi il cappello dalla fronte con l’indice. «Brutta giornata? Stanno vincendo troppo facilmente?»
La dea provò a rispondergli, a spiegare che no, non stavano vincendo troppo facilmente e che, anzi, il Guardiano stava mietendo parecchie vittime, ma Ade si voltò di scatto verso di loro, dando definitivamente le spalle agli scaffali e marciando con passo pesante al centro della stanza.
«Il problema non è la prova! C’è Efesto a controllarla, c’è Demetra nella sua bella stanza a godersi lo spettacolo, ci sono le telecamere della ETV puntate su ogni cosa anche solo vagamente interessante! C’è l’intero mondo divino ad osservare questa pagliacciata e, nonostante ciò, qualcosa riesce sempre a sfuggirci, a passarci sotto il naso come dei dannati mortali!»
Batté con forza le mani sul piano, poi con un gesto secco fece spostare la sedia posta a capotavola e vi si sedette.
«Non ha alcun senso tener d’occhio chi vince e chi perde, se non capiamo cosa c’è sotto.»
Persefone prese un respiro silenzioso e si alzò con calma per raggiungere il marito. Gli poggiò una mano sulla spalla e l’altra sulle sue.
«Credevo avessi capito cosa sta cercando Giordano.» mormorò piano.
Thanatos ed Ipno si scambiarono uno sguardo d’intesa, il primo si sedette anche lui ed il gemello gli si avvicinò, come attratto da una calamita.
«Vuole la sua famiglia, no?» domandò Ipno, portando le gambe al petto e nascondendole sotto la palandrana.
Ade annuì. «Non vuole semplicemente la sua famiglia. Sa che non può ottenere nulla del genere, non dove si trovano adesso.»
«Per questo cercavi tra le carte di Alessandria?» azzardò Thanatos, «Cerchi qualche vecchio presagio, qualche vecchio tentativo di fare ciò che sta facendo lui?»
«No. No, non cercavo questo. Cercavo i suoi predecessori, frugano tra le memorie delle genti.» espirò, «Io e Demetra pensiamo stia cercando il Crocevia
Lo disse con tono neutro, come se stesse riportando un mero dato di fatto, una certezza assodata.
Persefone si accigliò, senza capire. Sul volto di Ipno parve passare il vago spettro di una smorfia, ma fu Thanatos a pietrificarsi, immobile, attonito.
«Non può farlo. A noi divinità della Morte è precluso l’accesso al Crocevia, gli altri Dei dovrebbero essere tutti all’oscuro della sua esistenza e ai mortali è impossibile anche solo immaginare un luogo del genere. Come avrebbe fatto Giordano a scoprire anche solo della sua esistenza?» chiese agitato, la mano stretta attorno al bordo della veste di suo fratello.
Ipno inclinò la testa, allungano una mano alla cieca per prendere quella del gemello carezzandola con gentilezza: lui poteva spiegare facilmente come Gio l’avesse scoperto, l’aveva visto dopotutto.
 «Cloto. Glielo mostrò lei. Gli mostrò il luogo in cui tutto si univa e si divideva. Il punto in cui l’energia si intrecciava. Gli disse che se fosse riuscito a metterci le mani il suo verbo sarebbe stato legge. È questo vero?»
Sciolse la presa dalla mano del fratello ed allungò le braccia davanti a sé, le maniche della cappa scura scivolarono indietro lasciando scoperti i polsi pallidi, dai suoi palmi scivolò sabbia candida e fine, che cadde come il flusso ininterrotto di una clessidra, una cascata bianca che iniziò velocemente a colorarsi dei riflessi della stanza per poi assumerne altri, sempre più decisi, sempre più sensati.
L’immagine che vi apparve era quella che Ipno aveva visto nella Dimensione Onirica. La vecchia stanza, la donna dal capo velato, il bambino con la camicia da uomo, la luce accecante che sprigionarono i suoi occhi quando finalmente vide ciò che un giorno, quasi un secolo dopo, avrebbe potuto realizzare ogni suo desiderio.
La sabbia si accumulò velocemente sul piano scuro, arrivando a toccare i piedi del suo padrone, a scivolare oltre il brodo, sulla veste nera di Thanatos, un ennesimo e perenne rimando di quanto lui ed il suo amato gemello fossero diversi anche nel loro potere.
Ade non aveva distolto lo sguardo neanche per un momento, il flash improvviso di luce ancora impresso nelle retine, era sicuro che se solo avesse chiuso gli occhi avrebbe potuto vedere quella scena per sempre.
Sì, era stata Cloto, se la donna velata era davvero lei, o comunque era stato quell’essere dalle fattezze femminili a mostrare al piccolo Gio dove trovare ciò che più bramava. Ma era un potere immenso, era qualcosa che neanche Giordano Delle Vie avrebbe potuto imbrigliare, neanche uno come lui poteva farlo.
 
«Oh, ma invece può.» lo riscosse Ipno dai suoi pensieri.
La sabbia cambiò velocemente colore, l’immagine divenne più nitida, meno sbiadita dal passato, più vicina al presente.
Era la casa di Gio ora, quel secondo salotto di cui non aveva mai saputo cosa farsene e che aveva trasformato in uno studio che non usava quasi mai se non per fumare. Era seduto alla scrivania, coperta di fogli che nessuno di loro aveva interesse ad osservare. No, il punto focale era l’uomo che parlava con Ipno, un uomo che, stringendo il Dio del Sonno con gentilezza, gli domandava dove credeva fosse stato per tutto quel tempo, gli chiedeva cosa fosse per lui “il tempo”.
 

“Perché è bene, per l’ennesima ed ultima volta, che voi Dei ricordiate che il ‘tempo’ è l’ultima cosa che potrebbe mancarmi.”
 

«Si è addentrato nella Dimensione Onirica e lì sappiamo bene che non vi è un regolare scorrere del tempo. Forse qui da noi sono stati minuti, ore, giorni in cui spariva e nessuno sapeva dove ritrovarlo, ma lì, nella Dimensione Onirica, può aver passato anni ad allenarsi per questo momento.»
«Ma cosa vuole? Cosa c’è in questo Crocevia? È affar tuo, Thanatos?» domandò Persefone confusa.
Il Dio della Morte chiuse gli occhi e scosse leggermente la testa. «Non è “affar mio”, non per come tu lo possa intendere. Ha a che fare con la morte, per questo io e lo zio ne siamo a conoscenza, ma ha anche a che fare con la vita.»
«È letteralmente il punto d’incontro di ogni strada che conduce alla vita e alla morte. Dove ogni sentiero si incrocia. Da lì si può giungere a molteplici luoghi, uno più pericoloso dell’altro.» mormorò Ade lasciandosi andare contro lo schienale della sua sedia.
Ipno ritrasse le mani, immergendole nella sabbia accumulata sul piano. Giocò distrattamente con i granelli, facendoseli scivolare tra le dita, pensoso.
«Quando diciamo che “sta cercando la sua famiglia”, intendiamo sua sorella o i suoi genitori?» chiese a tutti e nessuno, senza aspettarsi una risposta. «Perché Cloto gli mostrò quel luogo? Perché ha atteso tutti questi anni per raggiungerlo?»
«Non l’ha ancora raggiunto. Ha solo messo in tavola tutti gli strumenti per poterlo fare ma- gli manca qualcosa, gli manca un allineamento che sfugge anche a me.» ammise Ade.
Thanatos strinse gli occhi ed espirò profondamente, suo zio non sapeva cosa potesse mancare, ma forse lui sì.
«Gli manca una copertura.» iniziò lentamente. «Per giungere al Crocevia si deve appartenere a quel luogo o detenere un potere tale da poter contrastare le forze che lo governano.»
«E lo ha. Te l’ho detto fratello, ha passato infinito tempo nella Dimensione Onirica, ha accumulato poteri che noi forse non possiamo neanche immaginare.»
«Non è solo quello.» insistette l’altro. «Il Crocevia è terra di nessuno se non del Fato, del Destino, del Caso. Un Dio può sopportare il pellegrinaggio per quelle vie, ma nulla può impedire alle loro ancelle di scorgerlo prima ancora che giunga a destinazione.»
«Quindi gli serve una copertura.» ripeté Persefone annuendo.
Non riusciva a capire dove questo Crocevia portasse, cosa intendessero gli altri per “terre di nessuno”, evidentemente ben distanti dall’idea che loro, “comuni Dei” avevano di quel termine, ma era ormai chiaro che sia Ade che Thanatos, - che mia madre, anche mia madre lo crede – pensassero che quello fosse l’obiettivo di Gio, e se per raggiungerlo doveva nascondersi agli occhi delle ancelle…
 
L’unico modo per nascondersi a mortali, mostri, Dei e creature di ogni genere-
 
Persefone si bloccò, alzando lentamente lo sguardo sulla sfera che fluttuava al centro del tavolo. Le immagini della quinta sfida di alternavano con la stessa disumana velocità di prima, ma ora quel velo sfocato, quella nebbia che adornava ogni frammento di immagine, di evento, di presente, prendeva tutto un altro significato.
 
«È per questo che gli serviva la Death Race.» mormorò piano.
I suoi cugini alzarono lo sguardo su di lei, Ade inclinò di poco il capo, l’orecchio teso alle parole della moglie ma lo sguardo fisso sul legno scuro sporco della sabbia bianca di Ipno.
«Come diversivo?» provò Thanatos, pur sapendo che non era quella la risposta corretta.
Persefone a mala pena scosse il capo. «Lo è, ma non nel modo che credevamo fosse. Lo sta usando per distogliere l’attenzione non da ciò che sta facendo lui, ma da ciò che noi stiamo permettendo che avvenga.» con un gesto secco della mano la sfera fluttuante si fermò e poi, come una vecchia cassetta che si riavvolge su sé stessa, tornò all’inizio della proiezione. Riapparve il palco, Demetra nel suo vestito giallo, il muro di Foschia alle sue spalle.
«Ha aperto le iscrizioni a tutti i morti del mondo, a chi lo meritava e a chi no. Sapeva che in molti, tra i dannati, avrebbero cercato di scappare, di trovare le Porte della Morte e tornare da soli al mondo dei vivi. Voleva che lo facessero perché-»
 

«Perché quando un’anima si perde nei meandri delle Praterie degli Asfodeli finisce per perdere tutto di sé, fino a fondersi con la Foschia stessa, alimentandola. E, più Foschia c’è, più potenti sono le arti magiche, più grande è l’inganno. È il gioco di un prestigiatore ed il piccolo Gio ha capito come sfruttarlo al meglio.»
 

Non avevano sentito i passi leggeri e regolari dell’ultimo ospite di quell’inaspettata riunione, così concentrati sui loro doveri, sulle loro ipotesi dall’esser stati sordi al rumore dei tacchi bassi che scandivano il tempo dell’entrata in scena di un nuovo ma vecchio personaggio.
Un sorriso ampio e ferino apparve nel buio di una delle innumerevoli arcate senza fine che adornavano ogni sala della Casa di Ade. Tra le ombre i denti affilati scintillarono di un riverbero verdastro che andò ad intensificarsi quando sul ghigno fluttuante apparvero due iridi verdi e luminose, tagliate da fini pupille serpentesche.
Palpebre invisibili s’abbassarono per un attimo oscurando la luce sinistra, per poi riaprirsi contornate di ciglia scure. Poi le sopracciglia arcuate, il naso leggermente adunco, le labbra che, con lentezza, prendevano consistenza e colore attorno ai denti, tirate e rossastre. I contorni del volto emersero dalle ombre come fossero acque torbide. Il mento appuntito, gli zigomi ossuti e la fronte ampia adornata da lisci capelli neri.
La Dea entrò nella biblioteca esponendosi alla luce azzurrina delle torce e a quella chiara della sfera fluttuante, della sabbia bianca che rifletteva ogni colore brillando come neve al sole.

«Come altri vi hanno già detto, non bisogna domandarsi cosa stia facendo, ma cosa ha già fatto il piccolo, caro Giordi. Perché, signori miei, il danno è bello che fatto ormai, le anime inutili, e qualcuna di quelle scomode, si sono disperse nelle Praterie, quelle che non avete trovato, ad ora, saranno state inghiottite dalla Foschia diventando parte di essa, alimentandola. Il bel muro di Foschia della tua mammina non ha fatto altro che aiutarlo ancor di più, chissà che non l’abbia fatto apposta...» insinuò divertita avvicinandosi ai quattro attorno al tavolo.
Gli stivaletti bassi e logori, i jeans rovinati e la felpa viola stonavano con quell’ambiente, con le vesti di chi lo abitava, ma la Dea continuò a muoversi perfettamente a suo agio, gli occhi puntati dritti in quelli neri di Ade.
Sorrise beffarda e si infilò una mano nella tasca della felpa, stringendo ciò che vi era nascosto dentro.
 
«Se il problema del Crocevia è ottenere il potere per potervi accedere, lui ce l’ha.» superò Ipno e Thanatos, ignorando quando il Dio della Morte si mosse come a voler proteggere il fratello da un suo possibile attacco.
«Se, allora, il problema è non farsi vedere, voi stessi gli avete dato il modo di non esser visto, il mezzo ideale che persino le ancelle non possono contrastare.»
Arrivò alla sinistra di Ade, posandogli una mano sulla spalla ed chinandosi verso di lui come il perfetto specchio di Persefone.
Quella la fissò senza proferir parola, trattenendo quasi il fiato in attesa che la cugina parlasse, che pronunciasse le ultime, fatidiche parole che avrebbero dato il via alla sua personale profezia, che avrebbero segnato un ennesimo punto di non ritorno.
Con lentezza la nuova arrivata estrasse la mancina dalla tasca, ponendo l’oggetto che essa teneva tra le mani pallide e magre di Ade.
 
«Ora resta solo da vedere cosa prenderà alle ancelle e riuscirà nel suo intento.
Sua sorella? I suoi nipoti? Clara, Al, la sua famiglia, tutti i ragazzi del vecchio avamposto… tu su chi scommetti, zio? Ce la farà? Verrà sconfitto? Lo lasceremo fare? Lo lasceranno fare?» tolse la mano da quelle di Ade e gli posò un bacio sulla tempia.
«Io punto tutto su Gio
 
Si sollevò dal re degli Inferi e tonò sui suoi passi, lanciando un bacio anche ai gemelli della notte ed un vago saluto a Persefone.
 
«E per quanto abbia avuto anche io le mie puntate sbagliate, mi sento incredibilmente fortunata oggi. Oh, temo tu debba delle scuse a Eolo, zietto caro, nel caso fagliele anche da parte mia, mi faresti un gran favore. So quanto non gli piaccia quando si gioca con le sue attrezzature e non ho proprio voglia di sentirlo lamentare.
Ora perdonatemi, ma ho un appuntamento con un vecchio amico, vuole avere aggiornamenti da questo fronte e in cambio me ne darà di nuovi dal suo.»
Con un ultimo sorrisetto divertito, così com’era apparsa, la Dea se ne tornò nell’ombra da cui era venuta, lasciando dietro di sé solo silenzio e dubbi. Veloce e letale com’era sempre stata.
 
Ade abbassò lo sguardo sull’oggetto che stringeva tra le mani.
Chiuse gli occhi e si domandò quanto in là si sarebbe spinto Giordano, quanto in là si era già spinto.
Le luci della sala si rifletterono sulla superfice lucida del pomo dorato. Sulla buccia liscia una breve frase incisa con precisione.
 

“Al vincitore”.
 

Eolo aveva ragione, ovviamente. La Dea della Discordia era giunta a fargli visita come richiamata dalle insinuazioni del Vento, felice di proclamarsi parte di quella macchina artistica, interprete attivo di quella commedia degli inganni.
Non poteva più rilegarla tra le possibilità, non poteva più fingere che fosse solo frutto della paranoia di un dio sull’orlo di una crisi di nervi.
Tra le sempre più numerose file di Giordano Delle Vie ora poteva contarsi anche la divina Eris



 
*



 
Il vecchio Roger ne aveva viste di cose nella sua vita, nel suo passato.
Aveva viaggiato per anni lungo la costa dell’America del Sud, era salito su di una nave ad appena sei anni, a lavare i ponti e pulire lo schifo che i marinai si lasciavano dietro. Aveva servito quella che al tempo veniva chiamata Compagnia delle Indie Orientali, aveva persino rischiato di arruolarsi. Questo, prima di finire su di una nave senza simboli, preso sotto l’ala del vicecapitano a cui aveva salvato la vita.
A ripensarci ora, Roger ne rideva con gusto. Al tempo lavorava in una bettola al porto, in attesa di raggiungere l’età giusta per potersi finalmente arruolare e viaggiare per mare come aveva sempre sognato. C’erano delle stanze in quel vecchio ostello, dove le prostitute portavano i mariani, dove più di una volta i gendarmi avevano scovato avanzi di galera e ricercati.
Roger non aveva fatto molto, aveva solo visto di sfuggita il volantino con il ritratto dell’uomo che le guardie stavano cercando e vi aveva riconosciuto il volto di uno dei pochi clienti gentili di quel postaccio. Era salito di soppiatto sino alla camera dove l’uomo riposava, cercando di non calpestare le vesti sporche sparse sul pavimento polveroso, per andare a scuotere il vicecapitano Tikei e avvertirlo.
Ricordava ancora l’uomo battere le palpebre e guardarlo confuso. Ricordava la velocità con cui si era alzato e aveva recuperato tutti i suoi averi, rivestendosi alla bene e meglio e accecandolo con un sorriso giallastro ma dai denti dritti ed integri.
 
«Te ne devo una, ragazzino. Vieni alla mia nave, la Belle Rose, e saprò come ripagarti.»

C’era andato, alla fine del suo turno, invece di buttarsi sull’ammasso di paia e vecchie coperte ruvide che era il suo letto, nel retro della locanda, si era incamminato verso il porto e aveva raggiunto la Belle Rose. Si era ritrovato con una manciata di monete in mano ed aveva pensato d’aver fatto il colpo grosso. Poi Tikei gli aveva chiesto cosa progettasse di fare per il futuro e Roger, stupidamente, gli aveva detto di voler navigare, che probabilmente si sarebbe messo al servizio della Compagnia, perché era il modo più semplice per imbarcarsi.
Gli occhi scintillanti del corsaro gli brillavano davanti ancora oggi. Il vicecapitano Tikei gli offrì molto più di un po’ di grana facile, gli offrì un sogno senza regole se non quelle del mare.
Quando anni dopo l’uomo era diventato capitano, quando ancora più tempo dopo quel titolo era stato passato a lui, sull’albero più alto della Belle Rose Roger aveva issato una bandiera rossa. Quando la sua vecchia ragazza era arrivata alla fine dei suoi giorni Roger le aveva dato fuoco assieme a quello stesso vessillo e al corpo del vecchio Capitano Tikei.
Aveva trovato un altro veliero, più bello, più moderno. Aveva scelto vele nere per non esser viste nella notte e poi, ad ultimo, aveva tinto di nero anche la sua bandiera, cucendoci sopra grossolanamente un teschio di profilo e due tibie incrociate.
Aveva navigato, scivolando sull’acqua salata, tra le onde alte, tra le navi mercantili e quelle della Corona. Aveva visto due mari scontrarsi, leggende antiche e assurde sul perché anche a loro mortali fosse concesso vedere uno spettacolo del genere. Aveva combattuto, perso amici, compagni, guadagnatosi il rispetto della sua ciurma e dei suoi simili, alle volte persino dei suoi nemici.
Era stato durante una delle battaglie più violente in cui fosse mai capitato, rincorso con vento a favore da tre velieri spagnoli intenzionati a riprendersi qualche piccola cosuccia che aveva rubato loro, che Roger aveva scoperto per la prima volta dell’esistenza degli Dei Greci.
Richiamare le voci dei suoi compagni alla memoria, era facile. Le grida sopra i boati dei cannoni, le esplosioni che giungevano sempre un po’ più vicine, un po’ più forti. Qualcuno gli aveva gridato che il mare era loro ostile, che era una donna capricciosa che non si sarebbe accontentata di nulla se non delle loro anime e della loro nave.
Roger, attaccato al timone come se ne andasse della sua stessa vita, aveva riso sprezzante:
 
«Se è questo il giorno della nostra morte, così sia! Il mare sarà anche una donna capricciosa, come tu dici, ma non dar a lei la colpa delle azioni dei venti traditori.
Il mare c’ha dato tanto, c’ha dato tutto. Soldi, vino, donne, gloria e libertà, prima o poi sarebbe giunto anche per noi il momento di pagare il conto!
»
 
Qualcuno l’aveva guardato attonito, altri, troppo impegnati a rispondere al fuoco o nemico, o a spegnere quello sulla nave, avevano riso amareggiati ma concordi: ogni vita ha la sua fine, dopotutto.
Ma la loro non sarebbe arrivata qual giorno e neanche per molti a venire.
Era stato quello il momento in cui una voce femminile aveva raggelato tutti loro.
Una donna dal corpo morbido avvolto in una veste bagnata, drappeggiato come un panno su di una vecchia statua, la pelle abbronzata dal sole incessante che si specchiava sempre sul mare, gli occhi screziati come i riflessi dei raggi sulle onde, i capelli dello stesso colore delle alghe viscide che s’attaccavano alle navi. C’erano piccoli animali marini che le camminavano sulle braccia nude, tra i capelli gocciolanti. Quando sorrise, guardando Roger, i suoi denti brillarono come la madreperla.
 Talassa, la madre primordiale del mare, sembrava un miraggio, l’apparizione che era, e pareva anche piuttosto contenta che, per una volta, la colpa di tutto non fosse stata data di nuovo a lei ma al vento insidioso.
Era stata lei a chiamare Euribia, la dea del dominio dei mari, lei a comparire d’improvviso davanti a Roger e toglierli delicatamente le mani dal timone, lasciando che fosse l’altra a prenderne possesso, a guidare lui e la sua ciurma lontani dal pericolo.
Avere una donna a bordo portava male. Averne due era una richiesta di sventura.
Quando giunsero sulla terra ferma e i suoi compagni scesero quasi scappando dal ponte, Roger rimase a guardare il Mare dritto negli occhi e giurò, giurò sulla sua libertà, che da quel momento in poi la Dea sarebbe stata l’unica a cui avrebbe votato la sua vita.
Aveva giurato di vivere per mare, libero, per sempre. L’aveva giurato alla brezza marina e alle onde, alla sua vecchia Belle Rose e al Capitano Tikei. Quel giorno lo fece di nuovo ed il Mare accolse la sua promesse benedicendolo.
Alla fine dei suoi giorni, Roger aveva chiuso gli occhi cullato dalle stessa braccia che lo salvarono in quella lontana, lontanissima battaglia. Il Mare gli sussurrò all’orecchio che il suo nome sarebbe rimasto nella storia, che il suo ricordo sarebbe vissuto per sempre, che la sua anima avrebbe trovato finalmente riposo. Libera, come lo era sempre stata. Come il mare.
 
Non aveva mentito Talassa, l’aveva portato nelle lande dei Giusti e lì, davanti al Signore di quel regno, aveva fatto sì che la sua anima venisse riconosciuta come beata, aveva chiesto ad Ade di lasciare a lei il suo servizio, così come aveva votato in vita. Il Dio dei Morti non aveva potuto negarle nulla.
Fu proprio durante una delle missioni per la sua Dea che Roger incontrò un personaggio un po’ particolare, un giovane uomo seduto su uno sputo di terra in una piccola ed insignificante lagunetta di un ancor più piccolo paese, ben lontano dalla sua America e dai suoi grandi oceani.
Dondolava i piedi a pelo d’acqua, canticchiando in una lingua che non conosceva e che non avrebbe mai imparato a parlare. Era curioso, era… strano. In quel corpo s’agitava un’inquietudine che Roger non era riuscito a comprendere, non in quel momento, non negli anni, nei decenni a venire. Ma il giovane piaceva alla sua Dea e Roger avrebbe fatto di tutto per esaudire i desideri del Mare, anche aiutare un ragazzino dall’animo in tumulto ad attraversare gli oceani senza che quel pallone gonfiato di Poseidone potesse metterci bocca.
 
«Ma tu, cosa vai cercando?»
«Una via di fuga verso il mare aperto.»
 
Aveva detto il giovane senza guardarlo in faccia, perso nel contemplare l’orizzonte finito di quella pozzanghera che quelle genti osavano chiamare mare.
Anni addietro, gli aveva posto ancora la stessa domanda.
 
«Che vai cercando, ragazzo?»
«Un modo per perdermi, credo.»
 
E ancora.
 
«Cosa cerci adesso?»
«Una rotta che nessuno ha ancora tracciato.»
 
E ancora.
 
«Dopo tutto quello che hai visto, che hai fatto, cosa vai ancora cercando?»
«Ho trovato la mia rotta, ora mi servono solo dei compagni.»
 
L’aveva guardato con quegli occhi accecanti, scintillanti come l’erano stati quelli di Talassa la prima volta che gli era apparsa, com’era da sempre il mare nei suoi ricordi.
 
«Hai voglia di rimetterti a lottare, Capitato Roger?»
 
Il vecchio, ma giovane, pirata si passò una mano sulla fronte e poi tra i lunghi capelli neri. Quella massa informe ed arruffata che l’aveva sempre distinto dai suoi compagni, che preferivano rasarseli soprattutto per eliminare i pidocchi e le zecche che potevano farvici il nido.
Convincere Mirina a lasciarlo da solo con il figlio di Ares era stato davvero faticoso, sia perché la donna non lo credeva in grado di svolgere un compito così banale – “La Divina Talassa mi ha affidato compiti ben più rognosi! – sia per via del presunto legame tra le Amazzoni e Ares, o Marte o quel che cavolo era.
Dannati Dei, erano fin troppi a fare tutti la stessa roba. Come Poseidone che si credeva il Dio supremo del mare quando la sua Talassa era il mare.
Si accovacciò a terra, pungolando con la canna della pistola la guancia del semidio, schiacciata contro il suolo sporco e bruciacchiato.

«Ti ha detto bene, ragazzo, se non ci fossi io ti userebbero come scudo umano per il faro della morte, lì.» disse accennando con l’arma ad un punto vago dietro di loro.
«Che cos’avrai poi di così speciale per farmi addirittura correre qui a pararti le chiappe lo sa solo quell’altro pazzo. Però sembri un tipo rognoso, probabilmente ti piacerebbe, lui. Ma non so quanto sia possibile il contrario.»
Si grattò la testa con la pistola, era una brutta abitudine, lo sapeva, aveva visto un paio di persone farsi un bel buco d’areazione per le cervella in vita sua, così come aveva visto gente infilarsi la pistola nei pantaloni ed evirarsi al primo movimento sbagliato, ma era positivamente convinto che, nella morte, nessun pezzo del suo corpo se la sarebbe presa troppo male per un colpetto.
Doveva attendere senza muoversi di lì, continuando a fare la veglia al biondo finché qualcuno non sarebbe arrivato a prenderselo. Forse un’altra guardia, forse un suo compagno, o un compagno del ragazzo, qualcuno che si occupasse della seconda fase di quella gara.
Quando Talassa gli aveva comunicato che per la quinta prova avrebbe servito Ade e Demetra come meglio credevano, Roger era rimasto interdetto, le sopracciglia aggrottate ed il naso arricciato.
 
Come?
 
Ogni desiderio del Mare era un ordine per lui, ma ciò non toglieva che fosse strano che Talassa lo lasciasse alla mercé non solo di un Dio, ma di due. Due Dei che non andavano notoriamente d’accordo ed erano famosi per dare ordini contrastanti alla stessa anima finendo inevitabilmente per ucciderla perché le avevano disubbidito. All’uno o all’altra. O a entrambi. O a nessuno ma avevano comunque accontentato anche l’altro, insomma, non due esseri a cui lasciare uno dei tuoi prediletti.
 
Il suo prediletto. Non c’è nessun altro.
 
Pensò sogghignando rialzandosi in piedi e sgranchendosi le gambe.
Nonostante il suo titolo di “persona-morta-preferita-dal-Mare”, Roger si era ritrovato con un foglio di cartaccia, uno di quelli che tante volte aveva visto sporcare i mari un tempo limpidi, con su scritto un elenco di nomi, lo status e il posto da cui provenivano. Se il nome non era sulla lista a Roger non doveva importar nulla di quell’anima, ma Nathan Wright, sfortunatamente per lui, era lì presente. Per la precisione, posto nello stesso sottogruppo di sette anime al cui capo ve ne era una “particolare”.
 
"Il gruppo del Crudele."
 
Sperava solo che il tipo arrivasse in fretta, anche se non aveva la più pallida idea di come avrebbe fatto a trovare il suo amico. Erano poche le anime in grado di individuarne altre, forse un centinaio, che a confronto con tutti quelli che ancora si ostinavano a gareggiare era davvero un numero irrisorio.
Ma le speranze di Roger vennero presto accontentate, quando tra la folla che vorticava attorno al suo cerchio d’interdizione apparve una macchia rossa che sarebbe stato in grado di riconoscere tra mille.
 
Se io sono il più fedele al Mare, lui è il più fedele al Cielo.
 

«SHILON! Ehi! Caro, vecchio muso giallo! Che bello vederti da queste parti! Dimmi che cercavi- ah.»
Aveva gridato a gran voce per superare il rumore assordante delle lotte, ma si era subito morso la lingua quando aveva visto altre due anime al seguito del giapponese.
Un sorriso storto gli si aprì sul volto nello scorgere un secondo viso famigliare, bello e perfetto come le polene delle navi più ricche.

Oh, eccome se lo ha trovato.
 
Guardando il figlio di Apollo avvicinarsi assieme ad un altro compagno, probabilmente il figlio di Fobetore, se quell’aria da condannato a morte gli diceva il giusto, Roger si ritrovò a pensare che “Crudele” fosse il nome giusto da dare a quel ragazzo, la cui bellezza era vivida, accecante, crudelmente candida e perfetta in mezzo a quell’inferno.
Era proprio il genere di persona che lui avrebbe scelto.
La guardia imperiale gli fece un cenno con la testa, dietro di lui il tipo inquietante teneva lo sguardo fisso sul ragazzo a terra, torcendosi le mani smanioso come se si stesse trattenendo dal correre verso di lui. Fu in quel momento che Roger si rese conto che nessuno dei due giocatori aveva il simbolo della benedizione sulla fronte, eppure quello che macchiava la coscia nuda del greco era senza ombra di dubbio sangue.
 
«Roger-san, lieto di vederti al pieno della tua forma.» lo salutò la guardia.
Roger sorrise. «La gente è troppo preoccupata a cercare gente in giubba blu per rendersi conto che anche un pirataccio come me si è messo a fare il corsaro.»
Shilon Yu inclinò leggermente la testa. «Malgrado gli anni, è ancora difficile per me comprendere i termini della tua epoca.»
«Pirataccio se sotto il comando di nessuno, corsaro se al comando della corona. O dell’impero, o di quel che vuoi. Hai dei bei visini con te, chi sono?» chiese cambiando completamente discorso, il pezzo di carta con l’elenco dei nomi stretto nel pugno infilato nella tasca profonda della giacca.
Il greco alzò un sopracciglio come se avesse perfettamente capito che quella fosse solo una recita, il gigante rosso invece aggrottò le sopracciglia a quella stupida sentenza.
Roger ghignò. «Chiedo perdono, un bel visino, l’altro terribile combattente, brutale, forte, grrr!»
«Roger-san, per favore, non è il momento delle burle.»
«Ehi, mi ha guardato male quando l’ho detto! Ora, non so se perché non gli è piaciuta la battuta o perché qui all’inferno non si vede un cazzo di niente e non capisce se sono serio o meno, ma non voleva essere un’offesa, giuro.»
Úranus lo guardò confuso e fu il biondino a trarre tutti fuori da quella conversazione sterile.
«Il mio compagno non è avvezzo all’ironia, signore, ma non è un bruto e non vi sfiderà per questo. Per altro, è preoccupato per il giovane ai vostri piedi, la Dea Tiche ci è stata propizia e ha fatto sì che, nel nostro cammino, rincontrassimo uno dei nostri compagni.»
Shilon Yu annuì brevemente, scostandosi di lato per lasciar passare i due semidei verso quello svenuto. «Posso supporre che non sia stato tu a sconfiggerlo, Roger-san?»
«Cosa te lo fa pensare? Il fatto che non abbia un buco in testa?» scosse il capo. «No, è stata Mirina, io gli ho solo dato la bastonata finale. Il ragazzo qui le ha prese di santa ragione.»
Il gigante rosso fece scattare la testa verso il pirata. «Nathan è stato sconfitto?»
La sua voce suonò tombale anche nel mezzo di quel casino degno di una bordata mercantile. Roger lo guardò impallidire più di quanto già non lo fosse, serrare la mascella e chiudere le mani a pungo. Era evidente che l’informazione l’avesse sconvolto, come se non avesse messo in conto che il compagno, un figlio di Ares, potesse essere caduto durante quella prova.
 
Ma anche tu non sei messo meglio, forse non sei stato sconfitto, ma neanche benedetto.
 
«Già, cose che succedono purtroppo! Voi anche non ce l’avete fatta? Shilon, non mi vorrai mica dire che dobbiamo lasciare tre poveri semidei alla mercé di questi balordi, senza neanche una protezione!»
La guarda fece per rispondergli ma il greco lo batté sul tempo.
«Grato che vi preoccupiate di noi, signore, ma posso assicurarvi che le mie sole capacità saranno sufficienti per tener al sicuro entrambi i miei compagni. Come ho fatto fino ad ora.»
«Cicno-san ha ragione. È stato in grado di proteggere sé stesso ed il suo compagno, scontrandosi contro anime selvagge prive del senso dell’onore che lega noi guardiani dell’Ade, saprà prendersi cura anche di Wright-san.» si voltò verso il greco e gli sorrise lieve. «Ma è anche vero che le fatiche da voi svolte fino ad ora vi hanno reso onore. Non mi è concesso benedire chi non ha provato il suo valore, ma posso farlo con voi.»
«Oh! Oh! Posso farlo io? Non ho ancora benedetto nessuno! Volevo farlo con il biondino a terra ma Mirina non me lo ha fatto fare!» saltò su Roger emozionato. «E poi, andiamo! Il gigantone è comunque sopravvissuto fino ad ora, no? Anche solo per la capacità di star dietro ad uno come lui senza intralciarlo, riuscendo a nascondersi dietro qualcuno che è la sua metà, dovrebbe valergli qualcosa, dico bene?»
Shilon Yu si lasciò sfuggire quello che era palesemente il principio di un ghigno e scosse la testa con lentezza, come se non credesse alle sue stesse orecchie.
Úranus non sembrava troppo d’accordo, il corpo proteso verso Nathan come se fremesse per toccarlo ed accertarsi che stesse bene, la mente solo per metà attenta alle parole del pirata.
«Ma io non ho fatto nulla, Cicno è-»
«E statti zitto tu! Sto cercando di lavorare per te qui, collabora un po’!» lo zittì subito Roger.
«Solo loro due, Roger-san, non puoi concedere la grazia da un’anima che è stata sconfitta e a cui il suo sfidante non ha dato la propria benedizione.» lo ammonì il giapponese.
«Ma così Nathan sarà vulnerabile.» protestò il figlio di Fobetore, guardando la il soldato imperiale con apprensione. «Shilon Yu, ve ne prego.»
«Vuol dire che il nostro figlio di Ares avrà la possibilità di riabilitare il suo nome e dimostrare a tutti noi d’esser ancora degno di questa sfida e di suo padre.»
La voce di Cicno aveva una nota definitiva che non ammetteva repliche, qualcosa di duro che alle orecchie di un bon ascoltatore sarebbe suonato come fastidio, come disapprovazione per la sconfitta cocente che il semidio aveva subito.
Úranus non poté dirlo, ma per Shilon Yu e persino per Roger quella era la reazione di qualcuno che pretendeva che il suo compagno si dimostrasse degno del suo nome, della sua discendenza. Qualcosa di assolutamente comprensibile e accettabile. Di giusto.
Il guardia rossa annuì per l’ennesima volta e fece cenno al pirata di imporre la sua benedizione sulle fronti delle due anime salve.
Úranus guardò come in trance la mano callosa dell’uomo posarsi con leggerezza sulla fronte del greco, covando nel palmo un’improvvisa luce calda e chiara. Pochi attimi dopo il simbolo di Ade brillò sulla pelle tirata, per poi sfocarsi in quella che pareva una macchia, come un livido luminescente.
L’islandese dovette abbassarsi per poter riceve anche lui la sua benedizione, trovandosi a chiudere gli occhi quando al sensazione di calore gli sfiorò la fronte.
Non s’accorse così di Cicno, dello sguardo che si era scambiato con Shilon Yu, di come quello gli avesse indicato una direzione generica mormorando due nomi a loro conosciuti, come il figlio di Apollo avesse annuito e si fosse poi inginocchiato al fianco di Nathan, voltandolo a pancia all’aria ed esaminando velocemente tutte le sue ferite.
Quando riaprì gli occhi il pirata gli sorrideva divertito, quasi trovasse ironico che un uomo grande e grosso come lui avesse avuto paura di qualcosa di sconosciuto.
«Buona fortuna allora, gigantone. Anche a te, figlio di Apollo, mi raccomando!» disse ammiccando a Cicno.
Shilon Yu si chinò in avanti in un piccolo inchino. «Mjöllson-san, Cicno-san, che la fortuna possa assistervi. Portate i miei saluti ai vostri compagni.»
Úranus guardò il guardiano dell’Ade allontanarsi assieme all’altro, boccheggiando senza sapere cosa dire, tentato di fermarlo, di chiedergli di aiutarli e non lasciali lì da soli, con Nathan svenuto e Cicno solo a poterli difendere. Il panico cominciò a farsi largo in lui, doveva fermarli, richiamarli indietro, chiedere a Shilon Yu come fare entrare anche Jonas oltre le porte bianche, se il Guardiano potesse ucciderli anche una volta benedetti.
Ma non un suono uscì dalle sue labbra, che strinse per farle smettere di tremare.
 
«Non farti prendere dal panico ora. Abbiamo trovato Nathan, Cade, Eliza e Jane sono assieme, ne sono certo. Ciò che ci preme ora è risvegliare lui e trovare il prima possibile mia sorella ed il giovane Jonas.»
La voce calma e mielosa di Cicno suonò come un rimprovero, tra le trame delle sue parole Úranus poté leggere un chiaro “non complicare il nostro percorso con le tue sciocche paure, non abbiamo bisogno d’altro”, ed aveva ragione, ne aveva da vendere, ma in quel momento non c’era nulla che lo potesse calmare. Era successo tutto così in fretta, la separazione, gli attacchi, la fortuna sfacciata d’aver trovato Shilon Yu malgrado stessero ricercando Cade e poi la guardia imperiale che li accompagnava proprio da Nathan, vegliato da un altro guardiano e quindi salvo da altri possibili attacchi. Solo a lui sembrava tutto troppo bello per essere vero? Sarebbe stato ancora così semplice? Come se qualcuno avesse scritto quello stesso percorso per loro?
«Potrebbe svegliarsi tra ore, non sappiamo quanto siano gravi le sue ferite. Non possiamo muoverci se è ancora incosciente.» mormorò riprendendo a torcersi le mani, a grattarsi le cuticole con le unghie corte e sporche.
Cicno fece una smorfia infastidita, ma Úranus gli dava le spalle e lui, chino sul volto di Nathan, era schermato dai suoi stessi capelli.
 
Sciocco e pavido figlio degli incubi, spaventato dalla tua stessa ombra e da tutto ciò che ti è ostile, e dire che hai incontrato la morte per un fine così nobile…
 
«Credo tu ti sia dimenticato chi è il maledetto bastardo che mi ha dato i natali.» mormorò a denti stretti, cercando in ogni modo di non far trapelare il veleno che covava in petto dalle sue parole.
Prese il viso di Nathan tra le mani e abbassò il capo finché qualche morbido ricciolo non sfiorò la fronte dell’altro.
Era divertente come alcuni dei suoi compagni non prendessero ancora in considerazione il fatto che anche lui fosse un guaritore, che le sue arti poteva esser loro d’aiuto come, se non più, di quelle di sua sorella. Ma era palese che non si fidassero ancora completamente di lui e Cicno si ritrovò a chiedersi se, in una situazione diversa, in cui Úranus fosse stato completamente focalizzato su di lui e non solo sui tumulti che li circondavano, il figlio di Fobetore gli avrebbe permesso di curare Nathan, come avrebbe fatto Cade senza pensarci due volte, o se avrebbe temuto per la vita del compagno.
Si sarebbe tenuto il dubbio, malgrado scommettesse sulla prima.
Socchiudendo gli occhi Cicno iniziò a mormorare parole in una lingua antica, un dialetto dimenticato che fluiva dalle sue labbra come acqua.
Goccia dopo goccia si depositò sulla pelle di Nathan, bagnandogli il capo di un’energia che da decenni il giovane non aveva più saggiato.
Era come una dolce carezza, una mano amorevole e fresca che gli si posava sulla fronte tesa, alleviando il dolore che gli stringeva la testa come una morsa, sgonfiando il pulsare ritmico della sua nuca assieme al livido che si era formato per il colpo del calcio della pistola.
Qualcuno lo stava svegliando con delicatezza, come faceva sua madre durante le vacanze, come aveva fatto Lucy tante volte quando finiva in infermeria al Campo, quando era domenica e non potevano rimanere a poltrire al letto.
Nathan socchiuse piano gli occhi, un bagliore accecante come la luce che filtrava dalle tende mal chiuse della sua camera da letto, irradiando di calore la pelle che riusciva a toccare, lo accolse assieme ad un melodia sconosciuta ma piacevole.
Avvertiva un leggero formicolio alla fronte, gli ricordava i capelli di Lucy, quando si sporgeva su di lui per baciarlo.
Poi arrivò la sensazione del terreno sotto il corpo, la luce si fece più fioca, il formicolio sparì, i suoni della battaglia eruppero prepotentemente nella sua bolla sicura.
Cercò di alzarsi in piedi il più velocemente possibile, l’immagine dell’amazzone che lo fissava seria gli saettò nella mente assieme al dolore secco alla testa. Qualcuno l’aveva colpito alle spalle proprio quando realizzava che la sua confusione era dovuta alla massiccia presenza di Foschia nell’aria. Doveva rimettersi in piedi e continuare a combattere, non poteva accettare di-
 
«Nathan! Sei sveglio! Come ti senti? Non ti alzare, rimani disteso.»
La voce che lo raggiunse per prima fu quella di Úranus ed il figlio di Ares sbatté le palpebre confuso quando se lo ritrovò inginocchiato di fianco.

Che cazzo ci fa lui qui?
 
«E tu che cazzo ci fai qui?»
Ma prima che l’islandese potesse rispondergli gli occhi di Nathan si fissarono su una macchia luminescente che gli brillava sulla fronte lentigginosa.
Quello era il marchio dei graziati, dei benedetti, dei vincitori. Quello per cui lui non era stato reputato degno.
 
«Come hai fatto ad ottenerlo?» domandò a voce bassa. Perché l’idea di Úranus che combatteva a mani nude gli era così aliena da risultare impossibile.
 
Come ha fatto lui a vincere la gara e io ad essere sconfitto?
 
Úranus deglutì, qualcosa sul suo volto parlava di vergogna, di disapprovazione per il suo stesso status, come se credesse di non meritarselo.
 
«Siamo qui perché siamo venuti a cercarti. Temevamo fossi in difficoltà, da solo a combattere per difendere la tua vita e quella di Lea e Jonas, ma a quanto pare, fortunatamente, è solo la tua vittoria quella che hai perduto. Ed Úranus ha ottenuto la benedizione delle guardie dell’Ade perché ha seguito i miei passi senza mai intralciarmi o complicare la nostra delicata situazione.»
Un brivido gelido percorse la pelle del semidio, mentre quella voce dolce si tingeva lentamente di soddisfazione, di goduria, di tanto orgoglio da sfiorare la superbia.
Perché lui, di cui tanto si era preso gioco, mettendone in dubbio le capacità, sminuendone la virilità e la forza, era riuscito a sconfiggere il suo nemico, riuscendo nel mentre anche a proteggere un compagno – un compagno problematico che avrebbe potuto causare una catastrofe se solo si fosse sentito troppo minacciato – e a trovarne un altro.
Nathan alzò lentamente lo sguardo, improvvisamente conscio di avere il capo poggiato sulle gambe dell’altro, che probabilmente lo aveva anche fatto rinvenire con la sua magia.
Dall’altro, bello e spietato come un angelo vendicatore, come il suo stesso padre, Cicno lo guardava con la soddisfazione con cui i vincitori guardano i vinti che avevano osato sfidarli e sbeffeggiarli.
 
Un dannato che per secoli non ha conosciuto che dolore e sofferenza che supera un beato che ha sempre avuto la fortuna di potersi tenere in allenamento.
 
La sconfitta bruciò ancora più forte.
 
«Come diceva il nostro caro amico Cade: Ben svegliato, bell’ addormentato, dormito bene?»
 
Il ghigno che gli regalò su accecante e rovente come il sole che si abbatteva nella Valley.
Un figlio di Apollo era riuscito in ciò in cui aveva fallito un figlio di Ares.
 

La sconfitta bruciava due volte ed aveva il sapore dell’umiliazione.



 
*


 
Philip Reed si rivelò essere un uomo estremamente pacato e gentile.
A voler essere sinceri, Jonas non sapeva cosa si fosse aspettato dall’uomo, anche perché non aveva mai messo in conto la possibilità di incontrarlo.
Quel momento però l’aveva spinto a riflettere su dove potevano trovarsi i parenti dei suoi compagni. Fu la prima volta che si domandò anche se sua madre o i suoi nonni, o i suoi amici e conoscenti fossero presenti alla Death Race, se avessero deciso di partecipare o meno.
Aveva sempre dato per scontato che almeno le donne della sua famiglia fossero finire ai Campi Elisi. Per suo nonno non aveva avuto tanta speranza perché sapeva quali erano le sue opinioni politiche, chi aveva appoggiato negli anni, e se quell’Inferno somigliava anche solo un po’ a quello dei cristiani, suo nonno aveva tradito patria e benefattori, probabilmente.
Ma la gara era stata aperta a tutti, che ci fosse anche lui tra i partecipanti? Che ci fosse la sua intera famiglia? O forse, come avevano fatto molti, erano rinati?
Era perfettamente consapevole che quello non fosse il momento migliore per farsi quel genere di domande, ma Jonas ormai aveva fatto l’abitudine al suo schifoso tempismo per ogni cosa della sua vita. O nella sua morte. O in entrambe in effetti.
Stavano camminando in mezzo alla battaglia come se non vi fosse nessuno sul quel campo oltre a loro. La zona franca che l’uomo portava con sé sembrava essere del raggio perfetto della luce crepuscolare dell’Ade, come la ruota di un’enorme gonna da dama seicentesca che impediva alle altre anime di avvicinarsi.
Jonas osservò con apprensione tutti quei corpi scontrarsi tra di loro senza mai entrare in quel cerchio d’interdizione che li proteggeva più di quanto non avrebbero mai potuto far da soli, ma che non gli impediva ugualmente di saltare sul posto o muoversi spaventato ogni qual volta qualcuno gli si facesse troppo vicino.
Si strinse ancora di più a Lea, aggrappandosi alla sua mano quando la donna gli prese la sua con gentilezza, passandogli un braccio attorno alle spalle e tirandoselo davanti.
Lanciava sguardi attenti e quasi minacciosi ad ogni anima, ad ogni guardia, senza mai distogliere per troppo tempo l’attenzione dall’americano.
Era il padre di Eliza, su questo non c’era alcun dubbio come lui stesso aveva confermato sorpreso, ma non significava nulla, non per lei.
Avrebbe voluto potersi fidare, farlo ciecamente proprio per via del legame di sangue che legavano l’uomo ed una delle loro compagne, ma Lea non poteva abbassare la guardia, non quando c’era la vita di altri in ballo, non quando c’era un bambino con lei, non quando quella coincidenza le pesava addosso come la canna di un fucile puntata alla testa.
Quante possibilità c’erano che tra tutti i concorrenti, in un luogo così vasto, Philip Reed, padre di Elizabeth Reed, trovasse proprio loro due? Una persona educata, tranquilla, dal volto familiare ed il comportamento gentile, come quello che si riservava ai più piccoli o alle persone spaventate, deboli, com’era possibile che una persona del genere, incontrasse proprio due come loro? Due anime che non erano in grado di difendersi da sole, spaventate anche, disperse, separate in modo brutale dai loro compagni, facili bersagli di cui uno probabilmente impossibilitato ad oltrepassare le Mura Bianche senza aver sconfitto una guardia?
Era tutto toppo perfetto, troppo comodo.

Lo sospettavamo, avevamo già capito che le prove stavano spingendo sempre di più solo i semidei a rimanere in gara, ma questo non è un po’ troppo palese?
 
Guardò di traverso il volto di Jonas, per scorgere qualunque segno di sconforto che non fosse l’ansia e la paura che non li avevano mai abbandonati.
Era sempre stato così piccolo? O Lea lo vedeva finalmente per ciò che era solo in quel momento? Fino ad allora era sempre stata palese la sua stazza, così magra ed acerba in confronto all’altezza di Úranus, alla propria, a confronto con il fisico compatto di Cade, quello allenato di Eliza, quello piazzato di Nathan. Era stata palese anche la fisionomia completamente differente da quella di Cicno, una statua greca che camminava, come invece era stata ovvia la similitudine con la figura minuta di Jane. Ma ora, che c’era solo lei a dividerlo dal pericolo, ora che non c’era più nessuno che avrebbe potuto fargli da scudo, nessuno per cui non sorprendersi della palese differenza di corporatura, Lea lo vedeva ancora più piccolo.
Era ridicolo, le era servito vederlo lontano da tutti per rendersi conto di quanto fosse effettivamente null’altro che un bambino all’iniziò della sua crescita, del percorso per diventare adulto, eppure ora pesava così tanto quella semplice constatazione.
La mano che teneva sulla spalla del ragazzino si strinse quasi involontariamente, stupendosi della sua magrezza, della sensazione dell’osso che subito premeva sul palmo, oltre il sottile strato di pelle.
Strinse i denti e deglutì, ammonendosi da sola per aver anche solo formulato quel genere di pensieri: Jonas era un figlio degli Dei esattamente come lo era lei, come lo erano i loro compagni, e se anche la sua età poteva spingerla a provare quel senso di protezione verso di lui, quasi materno, doveva ricordarsi che non era davvero un bambino, era capace di fare le sue scelte e, Lea lo sapeva, sarebbe stato capace anche di tirarsi fuori dai guai da solo, di combattere per la sua vita.
O almeno lo sperava con tutta sé stessa.

È fuggito una volta dai problemi, sono certa che non lo farà di nuovo.
 
Forse la sua era solo utopia, forse cercava solo di vedere il lato migliore di ogni persona, di ogni situazione, di vedere sempre la luce anche nel buio, ma voleva davvero credere che nel momento in cui si sarebbero dovuti dividere anche il suo piccolo amico sarebbe stato in grado di vendere cara la pelle, di dimostrare a tutti loro quanto valesse.
Lo guardò di nuovo e gli strofinò la mano sul braccio, in un segno di conforto.
Jonas puntò subito gli occhi nei suoi,  incespicando sui suoi stessi passi, stringendo la mano sinistra a quella di Lea per non sbilanciarsi.
 
«Su, manca poco.» Gli mormorò lei supportandolo.
«La signorina ha ragione, siamo quasi arrivati giovanotto.»
Il sergente Reed voltò il capo scrutandoli da oltre la spalla, facendo un cenno d’approvazione con la testa prima di tornare a guardare dritto davanti a sé, sicuro come doveva esserlo stato a vivo.
«Potrete aspettare i vostri compagni lì, oltre il confine dei Campi Elisi sarete al sicuro da tutto e tutti.»
Lea annuì. «Per il momento.»
«Per il momento, sì. Non mi è dato sapere cosa gli Dei hanno in serbo per voi, ma mi auguro che non comporti la distruzione dei Campi stessi, o dovremmo rincontrarci di nuovo dalla parte opposta del campo di battaglia.»
Lo disse quasi gli dispiacesse l’idea di doverli affrontare seriamente e Jonas non dubitò che dovesse essere così.
Allungò la mano per torcere il braccialetto di stoffa che portava all’altro polso, indeciso se parlare o meno, cercando lo sguardo di Lea per aver un lasciapassare, perché gli dicesse che un minimo di conversazione non fosse nulla di grave.
Jonas voleva sapere, voleva chiedere a quell’uomo apparentemente così disponibile quante più informazioni possibili.
Quando non riuscì nel suo intento espirò con forza dal naso, seccato da quella situazione.
 
Al diavolo, al massimo mi dirà di chiudere la bocca.
 
«Lei- poi lei tornerà qui in mezzo? A cercare Eliza?»  domandò cauto.
La presa sul suo braccio si serrò per un attimo, poi rilassandosi. Un avvertimento a stare attento, a dosare ogni parola.
Il sergente annuì. «Il mio intento era proprio quello di ritrovare mia figlia, in effetti. I numeri non sarebbero stati dalla mia parte, ma sentivo di dover provare anche se non avevo la certezza che fosse riuscita ad arrivare fino a qui. Ora so che le mie speranze non sono vane.»
A quelle parole Lea alzò un sopracciglio. «Saprebbe come trovarla? Riuscirebbe a rintracciarla tra tutti i concorrenti?»
 
Come ha fatto con noi?
 
«Posso provare. Non sono onnisciente e non ho poteri straordinari come voi, ma anche noi guardie dell’Ade abbiamo i nostri metodi.»
«Come avete fatto a trovare noi? Tra tutti quanti…» chiese ancora lasciando la frase in sospeso.
Reed rallentò il passo fino a fermarsi, davanti a loro un gruppo di almeno venti anime combattevano le une contro le altre menando colpi senza curarsi di chi fosse a riceverli.
L’uomo fece una smorfia di pura disapprovazione che i due ragazzi non poterono scorgere, ma videro chiaramente il modo in cui i combattenti si dispersero, come se al centro esatto della mischia vi fosse stata un’esplosione, non appena il sergente mosse la mano di fronte a sé.
Si voltò verso di loro accennando un sorriso tirato, toccandosi il cappello in segno di scuse. «Disperdere le anime è un qualcosa che si impara subito, quando si serve il Divino Ade.»
«E avete anche un localizzatore di anime?» domandò ironico Jonas battendo le palpebre. Diamine, lui non riusciva a domare i suoi poteri, quelli che tecnicamente gli erano innati, e quell’uomo “disperdeva le anime” perché era una cosa utile quando lavoravi per Ade.
Se questa non era ingiustizia, Jonas non sapeva proprio cosa fosse.
 
«In realtà, no. So di cosa state parlando perché mi sono state mostrate le nuove tecnologie del mondo moderno, ma malgrado sappia cosa sia un localizzatore, temo di dovervi deludere, ragazzo, ne siamo sprovvisti. Per la maggioranza.»
«Allora come avete fatto a trovarci, a trovare proprio noi.» insistette il ragazzino, «Proprio i compagni di sua figlia, non le pare assurdo?»
«Jonas.» lo chiamò piano Lea.
Ma l’altro la ignorò, non stava dicendo nulla di male, non si stava ponendo con maleducazione all’uomo, non lo stava insultando e non lo stava attaccando, voleva solo sapere perché, dopo essersi perso i suoi amici, fosse giunto proprio il padre di uno di essi a salvarlo, senza sfidarlo, senza mettere in dubbio quanto e se fosse degno di entrare nei Campi Elisi. Perché era tutto così facile quando gli altri erano invece sicuramente in situazioni difficili e pericolose. Ma soprattutto voleva sapere se quell’uomo avrebbe potuto ritrovare anche gli altri, riportarli da loro, al sicuro, salvi oltre la linea del paradiso.
Jonas era stanco, la tenzione che l’aveva animato fino a quel momento si stava insinuando fin dentro le ossa che non aveva più, facendogli formicolare la pelle, contrarre i muscoli. Ogni suono lo faceva saltare, ogni movimento veloce al limitare del suo campo visivo era un oggetto pronto a colpirlo. Il braccio di Lea attorno alle sue spalle solo l’ennesimo rimando al fatto che se avesse avuto problemi ad entrare nei Campi avrebbe dato problemi anche a lei perché era sicuro come poche volte in vita sua che la giovane non l’avrebbe abbandonato, neanche se questo significava attendere oltre il confine. E a nulla valeva il cerchio protettivo che il Sergente Reed emanava, Jonas si sentiva come un uccellino sotto ad una campana di vetro: certo che questa lo schermasse dal contatto con il mondo esterno ma non che gli impedisse di osservarlo nella sua cruda realtà.
Senza contare che sotto ogni campana, prima o poi, l’ossigeno finisce.

L’uomo stette in silenzio, pensoso. Avevano ripreso a camminare con un passo più svelto, ora più vicini gli uni agli altri rispetto a quanto non lo fossero stati in precedenza.
 
«Temo di non potervi dare una risposta gradita. Un mio compagno mi ha indirizzato verso di voi, dicendomi che avrei trovato due anime indifese e in difficoltà. Cercavo mia figlia in quel momento ma lui mi spronò ad andare, a fare la cosa giusta.» la voce si fece più bassa, quasi incerta, come se lo stesso Reed si stesse ponendo delle domande a proposito. «Mi ha detto che forse mi avrebbe avvicinato di più ad Eliza, una giusta azione per un giusto tornaconto.» mormorò più a sé stesso che ai due.
Jonas guardò accigliato Lea, confusa tanto quanto lui.
Un giusto tornaconto? Di cosa stava parlando?
Cercando di trovare le parole giuste per chiedere altro, Lea sussultò quando si rese conto di quanto le mura fossero improvvisamente più vicine.
Anche Jonas le guardò allibito, già dimentico delle parole misteriose dette dall’uomo, spazzate via dalla rinnovata e crescente paura nel trovarsi letteralmente alle porte di un luogo che, per decisione superiore, gli sarebbe dovuto essere precluso per l’eternità.
«Ma quando diavolo- ?»
«La Foschia, deve essercene ancora moltissima nell’aria. Confonde la mente, lo sai, è ciò che nasconde il mondo divino da quello mortale. Deve aver nascosto anche le mura a tutti noi.»
«Se non si sa con certezza quanto manca alla meta è più facile arrendersi.» affermò il sergente, dritto e sicuro com’era stato fino a quel momento.
L’uomo rallentò il passo, scostandosi di lato per poterli affiancare. «Ma noi siamo vicini, venite.»
Ai piedi delle Bianche Mura non vi erano così tante anime, constatò Jonas voltandosi per scrutare cosa si erano lasciati alle spalle. Ciò che riuscì a vedere però furono solo una serie indefinita di figure astrette, ombre che si allungavano e si accartocciavano su sé stesse, piegandosi e muovendosi come alberi in una tempesta.
Un suono strozzato gli uscì dalle labbra: come poteva tutta la zona circostante essere mutata in così breve tempo? Erano nel mezzo della battaglia, erano davanti ad un gruppo di anime, poi tra mille altre ed ora-
 
Vuoto.
 
«La Foschia. Temo sia la risposta ad ogni domanda, ragazzo.» allungò la mano davanti a sé indicando un punto indefinito che andò ad addensarsi lentamente nei contorni della porta più grande che Jonas avesse mai visto.
La fissò a bocca aperta, battendo le palpebre nel tentativo di schiarire quella visione il più velocemente possibile.
«È enor- rme.» balbettò inciampicando sulla ‘r’.
Lea piegò le labbra in un sorriso tirato. «Perché non hai visto quella centrale.»
Il ragazzino la guardò con la stessa espressione attonita, seguendo poi con attenzione ciò a cui il sergente continuava a puntare.
Se non glielo avessero indicato, Jonas non l’avrebbe mai visto, non si sarebbe mai reso conto che dopo la porta gigantesca quel chilometro di muro che reggeva la cornice di pietra finiva in un arco ancora più grande. Se più di una nave transoceanica poteva entrare nella prima porta, nella seconda Jonas era sicuro ci sarebbe potuto entrare anche il monte più alto di tutta la Germania. Se la prima era enorme la seconda era mastodontica.
E lui sarebbe dovuto entrare lì.
Come potevano, le anime beate, varcare con tranquillità quell’uscio? Come potevano non sentirsi schiacciate da così tanta grandezza, da quell’imponente sfoggio di potere? Le porte parevano bocche fameliche pronte a fagocitare ogni povera anima finita in quell’inferno, l’entrata del palazzo di un gigante che avrebbe potuto calpestarli come formiche.
Era forse quella la vera stazza degli Dei? Quella che le altre anime avevano chiamato “vera forma”? Erano davvero così grandi? E gli umani erano davvero così piccoli?»

Non siamo neanche formiche, né sabbia, siamo polvere. Polvere e cenere.
 
L’aria gli si fermò in gola, bruciando nei polmoni, facendogli lacrimare gli occhi dallo sforzo, dalla paura, dal terrore.
Doveva davvero entrare lì dentro?
Era davvero quello il luogo dell’eterno riposo dei giusti? Così marziale, così solenne.
 
I Cancelli Neri incutevano meno paura. Com’è possibile che l’idea di dover rientrare lì ora non mi sembri più spaventosa del dover entrare negli Elisi?
 
Non poteva entrare lì, non poteva proprio. Era impossibile che lo lasciassero passare, un’anima mal ridotta come la sua, macchiata di peccati, tradimento, abbandono, codardia… era un codardo, era un codardo, come poteva trovare il coraggio di varcare quelle porte?
 
Non posso. Non mi faranno mai entrare. Non posso farlo.
 
«Lea…» iniziò piano, «io non credo di-»
 

 
«Oh, quindi sarebbero questi i famosi Campi Elisi? Ammetto di averli sempre immaginati più… candidi
 
 
Si girarono di scatto, il solo suono di quella voce così famigliare li fece muovere come attratti da un magnete. E pensare che non era neanche quella più conosciuta.
Lea chiuse gli occhi una preghiera silenziosa, mandata a suo padre, all’Olimpo, a Padre Eterno e anche alla Vergine. Li avevano ritrovati. Non tutti ancora, ma era già qualcosa.
Quando riaprì le palpebre però, osservando bene i nuovi arrivati, una secchiata d’acqua gelida gli scivolò addosso.
Cicno camminava tranquillo verso di loro, senza neanche guardarli davvero. Comprensibilmente tutta la sua attenzione era catalizzata sulle Mura Bianche, sulle grandi porte, che lasciavano scorgere l’interno di quello che non era altro che il paradiso, la terra promessa per tutte le anime meritevoli, dove avrebbero trovato la pace eterna. Ma Cicno era stato destinato ad altri lidi, recluso in luoghi più oscuri, e fu come un flash nella mente di Lea quando si ricordò che il giovane era morto mille anni prima della venuta di Cristo, mille anni passati all’inferno, mille anni da sommare agli altri mille, quasi duemila, per arrivare all’anno della morte di Nathan.
 
Nathan.
 
Il soldato camminava lentamente dietro il greco, zoppicando, l’espressione tesa, furente, ma ben diversa da quella che gli aveva visto sfoggiare durante i suoi litigi. No, sembrava molto più… arrabbiato con sé stesso?
Non lo sapeva, non le sarebbe potuto interessare di meno il motivo del suo stupido broncio da moccioso insoddisfatto. Quello che le importava era la sua andatura claudicante, il modo in cui Úranus – gli Dei siano benedetti, tutto intero e senza neanche un graffio – teneva un braccio teso vicino a lui e l’altro alle sue spalle, come se avesse paura che potesse crollare da un momento all’altro.
Úranus con le sopracciglia aggrottate ed un macchia, come un livido luminoso al centro della sua fronte. La stessa macchia che sfoggiava Cicno sotto i riccioli morbidi. Una macchia che non riusciva ad intravedere sotto la frangia bionda di Nathan, neanche ora che era più vicina.
Lea non se ne rese conto, non si accorse d’essersi messa a correre, d’aver proteso le braccia verso il figlio di Ares e d’averlo stretto a sé anche contro le proteste mezze tossite del giovane. Lo costrinse a sedersi a terra, senza neanche parlargli, scostandogli i capelli, tastandogli delicatamente le braccia, la gamba su cui faceva fatica a poggiarsi, le costole in cerca di qualche osso rotto. Gli fece abbassare la testa, notando dei rivoli rossastri sul collo e masticò un paio d’imprecazioni mentre esaminava la ferita sulla nuca.
 
«Che diamine ti è successo? Come sei riuscito a farti conciare così? Dei dell’Olimpo, ma ti hanno preso a mazzate? Úranus! Tu non hai nulla, vero? Che gli è successo?» cominciò a chiedere veloce.
Posò le mani sullo stinco sinistro e iniziò a recitare un canto curativo, veloce e concentrata, attenta all’incantesimo quanto all’espressione sul viso di Nathan.
Úranus deglutì. «Da quel che so le sue ferite sono dovute ad uno scontro con un guardiano dell’Ade. È stato colpito alla nuca da una pistola.» rispose accucciandosi di fianco ai compagni.
Lea digrignò i denti, passando poi al braccio. «Cos’era? Un soldato?»
«Un’amazzone.» sibilò Nathan serrando la mascella quando la figlia di Apollo strinse troppo le mani attorno al grande livido che si stava colorando sulla pelle. «E non c’è bisogno che t’agiti così tanto, mi serve solo un attimo per riprendere fiato e poi-»
«Un’amazzone con una pistola? Sei serio?» domandò lei guardando Úranus ad occhi sgranati.
L’altro scosse la testa. «No, c’era un uomo con una pistola, era una guardia anche lui, vegliava su Nathan quando siamo arrivati. Shilon Yu è stato la nostra guida, non so se saremmo riusciti a ritrovarlo senza di lui.»
«Bene, almeno era una persona fidata di Shilon Yu. Sarei stata felice di rivederlo.»
«Ti porta i suoi omaggi.»
«Te ne sono grata. Tu stai bene?»
«IO sto bene. Non ho bisogno di cure di nessun tipo!» sbottò ostinato Nathan.
Lea lo ignorò completamente.
«Sì, non ho nessuna ferita, sono forse solo un po’ sporco.»
«Come hai fatto ad arrivare sano e salvo fin qui? Non hai combattuto?»
A quello Úranus si bloccò. Poi alzò lentamente lo sguardo verso le porte, oltre le spalle di Lea.
«No. Io non ho dovuto alzare neanche un dito. È stato Cicno a proteggermi e poi a proteggere entrambi sino a qui.»
 

Jonas rimase fermo, senza neanche spostare lo sguardo su Lea e sullo scatto che aveva fatto verso un Nathan decisamente più ammaccato di quanto non lo avesse mai visto per tutta la gara.
Sembrava quasi fosse una magia e a questo punto Jonas non dubitava fosse veramente così, ma ogni volta che il greco era nei paraggi, ogni volta che entrava in scena, non riusciva a far a meno di catalizzare tutta la sua attenzione su di lui.
Cicno lo guardava sereno, le spalle rilassate ma dritte, lo sguardo calmo e limpido.
Non c’era nulla che indicasse affaticamento, stanchezza, dolore nel suo aspetto, nel suo portamento. L’unica cosa che stonava era una striscia rossastra sulla coscia nuda, della perfetta ampiezza della lama di uno dei suoi pugnali. Pugnali che riposavano nelle loro cinghie, sporchi di sangue.
Nathan era ferito, Úranus sembrava solo impolverato, sporco e sudaticcio. Cicno era perfetto come lo erano le statue candide nei musei.
Che i semidei dell’antichità fossero diversi, avessero doti superiori rispetto a tutti coloro che li avevano seguiti?
Com’era possibile che Nathan, Nathan per l’amor del cielo, fosse in quelle condizioni e Cicno risplendesse di luce propria?
Come aveva fatto a giungere sino alle porte, con due compagni impossibilitati a combattere, benedetto se il segno sulla sua fronte significava qualcosa, senza riportare nessun danno?
Come aveva fatto a trovare la strada giusta per le porte, per loro due, quando c’erano muri di anime a dividerli, quando si sarebbero potuti trovare in un qualsiasi punto delle monolitiche entrate?
 
Chi diamine sei? Sei davvero così potente? Perché in questo caso, allora, nessuno di noi ha la minima speranza contro di te.
 
Cicno però gli sorrideva, gentile e magnanimo come sempre, quella madonna rinascimentale dall’espressione quasi materna che emanava sicurezza, benessere.
Un alone caldo che si liberava dal centro del suo petto, aprendosi in onde concentriche come quelle che si formavano sull’acqua piatta quando vi si lanciava dentro un sasso.
Lo sfiorarono con delicatezza, dissipando l’ansia e i pensieri negativi che l’avevano attanagliato davanti alla maestosità delle porte, alla consapevolezza che quello non era il luogo adatto a lui, non quello che gli era stato designato, non quello che si meritava. E, probabilmente, tra tutti quanti, Cicno era quello che poteva capirlo meglio, quello che sapeva, che sapeva senza bisogno di spiegazione, ad un livello più intimo e profondo di quanto anche Jane o Cade avrebbero potuto fare.
Perché esattamente come lui, anche Cicno aveva agognato le Mura Bianche, anche lui le aveva sognate e maledette in egual misura.
Gli ci volle un attimo per capire cosa stesse succedendo, al fondo del suo campo visivo, in secondo piano, oltre il figlio di Apollo, Lea stava curando le ferite di Nathan esattamente come Cicno stava curando la sua ansia, le sue paura.
 
«Sei illeso vedo, ne sono lieto.» parlò gentilmente, avvicinandosi ancora di più a lui.
Jonas deglutì. «Abbiamo avuto un aiuto. Dopo esserci separati da Nathan abbiamo incontrato il padre di Eliza. So che sembra assurdo ma è la verità. Non so come-»
«Il Fato è ignoto anche agli Dei, ma se la sua volontà era quella di farvi incontrare il padre di Eliza allora anche nel caso più impossibile sareste riusciti ad incontrarlo.»
«Sì, credo di sì…» mormorò. «Tu- tu neanche sei ferito, vero? Hai del sangue sulla gamba ma non vedo tagli.» continuò esaminando con attenzione la coscia liscia e priva di sfregi.
Cicno annuì. «Non sono stato mai ferito, no. Dopo millenni di torture è ben altro ciò che può lacerare le mie carni. Il sangue che vedi non è mio, ma tributo di un nemico.»
«Oh. Ah, certo. I pugnali anche sono sporchi, hai- devi essere davvero molto forte se non sono neanche riusciti a colpirti. Comunque ti saresti anche potuto-» si bloccò. Guardò Cicno aggrottando le sopracciglia, poi si sporse oltre di lui per guardare gli altri. Úranus era illeso ma Nathan aveva evidente bisogno di cure mediche.
Cure che anche Cicno avrebbe potuto dargli, così come aveva fatto con Cade, così come aveva fatto con lui stesso.
«Perché non hai curato anche Nathan?» domandò d’improvviso, freddo.
Il greco però non si scompose, anzi, sbuffò aprendosi in un ghignetto divertito.
«Perché il nostro grande eroe qui non ha voluto.» disse ad alta voce aprendo le braccia in un gesto teatrale. «Il suo orgoglio è rimasto talmente ferito dalla sconfitta subita che ha creduto giusto iniziare ad espiare le sue colpe soffrendo inutilmente.» spiegò voltando in fine la testa verso gli altri compagni.
Lea fissò il figlio di Ares con gli occhi socchiusi, quasi stesse combattendo tra l’idea di prenderlo a sberle o finire di curarlo.
«Tu cosa?» chiese in un sibilo alterato.
Nathan grugnì. «Non ho bisogno di cure. Né delle tue, né di quelle della principessa, lì.»
Stava palesemente concentrando il discorso sul fattore “cura”, cercando di evitare ampliamente la parte della “sconfitta”, e Cicno se ne accorse perfettamente. Sorrise.
«La principessa ha metaforicamente tenuto intatte le tue possibilità di avere un erede fino a qui e anche quelle di non donare il tuo corpo a terzi. Sono sicuro che sia te che Cade trovereste un modo molto più conciso e volgare per dirlo, ma ci accontenteremo dei miei “paroloni da professorone”, giusto?» disse marcando sulle ultime parole, chiaramente dettegli in precedenza dall’altro.
Jonas batté le palpebre guardando Nathan scettico: aveva seriamente rifiutato di farsi curare da Cicno per puro orgoglio maschile? Per evitare di dovergli, oltre la salvezza, anche la salute?
Storse il naso per nulla impressionato.
«La versione concisa e volgare è “la principessa ti ha metaforicamente salvato il culo e evitato che qualcuno ti fottesse”.»
Cicno ci pensò su per un attimo, valutando la frase mentre Lea ed Úranus lo guardavano quasi sconcertati da quell’improvviso uso di turpiloquio e Nathan bestemmiava.
«Con la storia dell’erede mi riferivo più ai suoi testicoli che al suo fondoschiena, ma presumo abbia comunque senso.»
«”Ti ho salvato le palle?”» propose allora correggendo il tiro.
Cicno annuì soddisfatto. «Ti ho metaforicamente salvato le palle. Più volte, aggiungerei.»
Nathan digrignò i denti come l’animale che era. «Non avevo alcun bisogno di farmi parare il culo da nessuno!»
«Disse quello che è stato sconfitto.» ritorse Cicno con semplicità.
Un velo freddo cadde sui ragazzi, il rumore delle battaglie lontano ed attutito dagli strati di Foschia che ancora permeavano l’area.
Poi il rumore secco di uno schiaffo e Nathan imprecò di nuovo portandosi una mano alle testa.
«Aio! Cazzo!»
«TU COSA?»
«Non l’ha già fatta questa domanda?»
«Sì, ma prima sul perché non si fosse lasciato curare da me.»
«Giusto.»
«Ma che cazzo vuoi! Non è che l’ho fatto apposta a- E CHE CAZZO! MA TI STAI FERMA!»
«UNA COSA! UNA COSA SOLA DOVEVI FARE, WRIGHT! SOLO UNA COSA! VINCERE LA DANNATA PROVA! DOVEVI SOLO COMBATTERE E SEI ANCHE QUELLO PIU’ BRAVO DI TUTTI A FARLO! IN TEORIA! ERI SOLO! DOVEVI COMBATTERE SOLO PER TE! E ORA? ORA CHE FACCIAMO!»
«SENTI EH! ORA NON CAGARE IL CAZZO ANCHE TU!»
«SI INVECE CHE CAGO IL CAZZO ANCHE IO!»
«Per favore, non litigate ora.» provò Úranus inutilmente.
 
«Uh, sta imprecando anche Lea…» mormorò Jonas incassando la testa nelle spalle.
«Non è piacevole quando due figure genitoriali litigano, posso capirlo.» annuì Cicno dando le spalle ai due e tornando a guardare le mura.
«Ehi, non sono le mie figure genitoriali! Ce l’ho avuta una madre e, in un qualche modo, anche un padre. Avevo mio nonno.» cercò di difendersi senza un reale motivo.
A Cicno non parve minimamente interessare, si strinse in sé e poi tornò alla sua esaminazione. «Spero solo la smettano presto di urlarsi contro, non so se il raggio di luce sia attratto solo dalle anime o da qualche sentimento in particolare e con Nathan ridotto in quello stato, se attirasse l’attenzione di una guardia dell’Ade, non avrebbe possibilità di vittoria.»
Jonas lo guardò confuso. «Ci siamo noi qui, no? Per aiutarlo dico.»
Ma l’altro non ne sembrava così sicuro. «Io l’ho protetto fino a qui, ma abbiamo incontrato solo anime partecipanti. Il simbolo che brilla sulla mia fronte e su quella di Úranus è stato sufficiente per tenere lontani i veri soldati, ma se uno di loro dovesse avvicinarsi e sfidare l’unica anima senza benedizione qui presente, non so quanto ci sarà permesso intervenire.»
«Ma-»


«Il tuo compagno ha ragione. Se uno dei miei commilitoni dovesse decidere di sfidare solo il giovane ferito nessuno di voi potrebbe intervenire. Soprattutto in virtù della benedizione.»

Jonas saltò sul posto, spaventato. Si era completamente dimenticato della presenza del Sergente Reed, malgrado fosse stato proprio lui a riferire a Cicno d’averlo incontrato solo pochi minuti prima. Evidentemente, proprio come la figlia, sapeva essere più silenzioso di un gatto quando voleva.
Il figlio di Apollo osservò l’uomo in blusa scura come avrebbe fatto con un oggetto bizzarro, inclinando la testa ed esaminandolo con attenzione.
«Somigliate molto a vostra figlia, signore. O forse sarebbe più corretto dire che lei vi rassomiglia in modo incredibile.»
L’uomo chinò leggermente la testa in cenno d’assenso.
«Philip Reed, al servizio del divino Ade.»
«Cicno di Tebe, figlio del maledetto Sole.»
«Mi spiace informarvi che non potrete aiutare i vostri compagni in caso di duello diretto. Ma se lo sfidante non dovesse specificare condizioni, sarete allora libero di intervenire.»
Cicno annuì. «Anche ve ne fosse la possibilità, non credo Nathan accetterebbe il mio aiuto o quello di chiunque altro.»
Jonas sbuffò. «Sarebbe da sciocchi.»
«Sarebbe un fatto d’onore e nessuno dovrebbe porsi tra un uomo e la redenzione del suo nome e di quello della sua famiglia.»
Quelle parole lo sorpresero come mai avrebbe creduto. Non tanto per il loro senso quando per via della persona che le aveva pronunciate.
Cicno teneva la mascella chiusa senza serrarla, ma era evidente nella piega dura delle sue labbra quanto quell’argomento lo toccasse da vicino. Forse più di quanto non avrebbe amato ammettere o far trapelare.
Il sergente Reed annuì concorde e poi, con un gesto fluido, estrasse un vecchio orologio da taschino dall’interno della giubba e lo consultò rapidamente.
«Temo che il mio tempo qui sia scaduto, il lavoro mi chiama. Ma vi pregherei di accordarmi un favore.»
«Parlate pure, saremo felici di esaudire il desiderio del padre di una compagna.»
«Vi sarei grato se poteste dire a mia figlia di aspettarmi all’entrata. Al gabbiotto per la precisione. Lì troverete Shilon Yu, che da quel che ho potuto capire avete già incontrato, e lui saprà come trovarmi. Ho qualcosa per mia figlia e vorrei essere io stesso a consegnarglielo.»
Cicno sorrise gentile e chinò il capo in cenno di assenso. «Nulla di più semplice, signore. Avete la nostra parola.»
«E tanto mi basta, giovane semidio, tanto mi basta.» si rimise il cappello e lanciò uno sguardo ai tre ragazzi ancora a terra, intenti a litigare. «Portate i miei saluti anche ai vostri compagni e, per l’amore di Dio, fateli tacere prima che attirino le arpie.»
Con questo rivolse loro un rigido cenno militare e s’incamminò sparendo tra spire di Foschia.
Jonas rimase fermo sul posto. Lo sguardo crucciato puntato dove l’uomo era appena scomparso, incapace di formulare anche il più semplice saluto, la più banale delle rassicurazione. Se non ci fosse stato Cicno con lui, probabilmente si sarebbe anche dimenticato di avvertire Eliza e la donna non avrebbe mai più rivisto suo padre. Ma il fatto era che la sua mente era rimasta incagliata su quell’ultima parola.
«Le cosa?»
 
«Avete sentito il padre di Eliza? Se non smettete immediatamente di strepitare come delle arpie queste vi scambieranno per loro compagne e verranno a prendervi!» disse ad alta voce Cicno voltandosi verso i ragazzi, le mani sui fianchi come un genitore intendo a sgridare i figli.
Sembrava quasi la versione greca antica de “l’uomo nero”, pensò con leggerezza Jonas, rassicurato dalla tranquillità con cui Cicno aveva accolto quella notizia.
Poi sgranò gli occhi.
 
«Le cosa?!»


 
*


 
«Dice destra.»
«Non dice destra.»
«Ti dico di sì.»
«Per l’ultima volta. Non indica destra e sinistra, indica un percorso.»
«E il percorso gira a des- tra!»
 
Cade si girò di fianco per menare un pugno dritto in faccia ad un’anima che gli era caracollata addosso. 
Sbuffò. «E che cazzo, sembra che ci prendano più di mira ora che prima!»
«Siamo fuori dall’attenzione delle guardie dell’Ade, non degli altri concorrenti.» ripeté per l’ennesima volta Eliza. Poi tornò a guardare l’oggetto che brillava tra le mani di Jane.
La figlia di Ecate si era impegnata come mai le aveva visto fare in tutta la gara. Sapeva che fosse in grado di fare magie di diverso genere, che quanto meno le sarebbe stato possibile farle se ne fosse stata a conoscenza, ma non l’aveva vista cimentarsi in un incantesimo “concreto” da quando aveva creato la bussola per portarli fuori dal Labirinto.
Ora, ciò che aveva creato, somigliava moltissimo ad una bussola in bolla, una base piatta larga quanto le mani giunte della giovane, una cupola trasparente a contenere un pulviscolo fine e in movimento come la polvere che passa davanti ad una lama di luce. Nella bolla i granelli si univano per formare l’immagine di un posto, il frammento del prossimo luogo a cui si sarebbero dovuti avvicinare, ciò che avrebbero dovuto vedere davanti a loro e seguire. Ad Eliza non sembrava un oggetto particolarmente comodo o funzionale, per nulla intuitivo e facile da seguire, ma stava facendo il suo lavoro e questo era ciò che contava davvero. Oltre al fatto che Jane si stesse impegnando moltissimo per tenere attivo l’incanto e, al contempo, imporre alla bolla il suo volere.
L’immagine cambiò e apparvero due uomini intenti a combattere, alla loro sinistra una donna con una divisa simile a quella di Nathan aveva appena atterrato un’altra anima in una lunga tunica bluastra.
Eliza alzò la testa, allungando il collo per individuare le anime protagoniste di quella scena e le trovò con facilità.
«Di lì!»
Cade sorrise allegro. «Te l’avevo detto che era a destra!»
«Sta zitto, pazzo rosso, mi deconcentri!»
«Certo, quando ho ragione io ti deconcentro, quando hai ragione tu puoi tranquillamente gongolare, tanto non è che perdi la traccia!»
«Ovviamente, io posso godere dei frutti della mia- dannazione!» esclamò sussultando spaventata, mentre un’esplosione tra la folla mutava repentinamente l’immagine.
«Non ti distrarre! Le anime che ci sta mostrando il tuo incantesimo sono da quella parte.» la spronò Eliza stringendosi di più a lei. Anche se mutava il percorso da seguire l’obiettivo non cambiava, dovevano ritrovare i loro compagni, giungere prima da chi ne aveva più bisogno e poi andare dagli altri.
Da sopra la sua spalla Cade si sporse un poco e poi allungò il braccio individuando a colpo sicuro la scena reale.
«Di là!»
«Ci sta portando fuori dalla mischia.» notò la mora, guardando diffidente chi li circondava, scorgendo un cavaliere a cavallo alla loro sinistra e poi, subito dopo, tre anime dalle maglie arancioni.
«Che cazzo ci fa un cavallo qui in mezzo? Non gli tagliano le zampe?» domandò Cade aggrottando le sopracciglia. «Quelli sono semidei come noi.»
Jane neanche alzò il capo ma annuì. «Ce ne sono molti, non li hai notati? Stiamo lentamente diventando solo semidei. Ne abbiamo parlato fino allo sfinimento, possibile non ascolti mai?»
«Magari l’avete fatto quando ero disperso, non mi attaccare sempre in questo modo.»
«Non ti sto attaccando!»
«Non ricominciate!» li ammonì subito Eliza, intimando loro di star zitti, specie nel momento in cui passarono vicino a qui semidei.
Li superarono in fretta ma Cade non poté far a meno di ascoltare ciò che stavano dicendo, seppur solo un frammento di conversazione.
 

«- davvero paura quel biondo. Certo che era una semidio, ma l’hai visto?»
«Sì, ma sei sicuro fosse figlio suo?»
«Ti ricordi che cazzo ha fatto il padre durante la guerra di Troia? I greci se lo ricordano bene pure da morti.»
«Cazzo- spero di non rincontrarlo. Quello è capace che t’ammazza senza che te ne accorgi.»
«Quello è capace che t’ammazza e te lo fa sentire tutto. Se è sadico solo un decimo del padre-»
 

Senza rendersene conto il rosso si ritrovò a ghignare.
Non sapeva il perché, non poteva averne la certezza, non poteva metterci la mano sul fuoco, ma qualcosa gli diceva che il biondo di cui stavano parlando quei semidei era proprio uno dei suoi biondi. Qualcuno che faceva paura, che aveva un padre sadico che aveva fatto danni durante una guerra.
Cade sorrise più ampiamente.
 
E bravo soldatino, ti sei fatto riconoscere allora, eh?
 
«Cade! Mantieni il passo, per l’Olimpo! Ci manca solo di perdere anche te!»
«Di nuovo…»
«Jane!»
«Ah! Che dolore! Elza, difendi il mio onore per me!»
 
Presto l’incantesimo li avrebbe portati via di lì, presto avrebbe rivisto i suoi compagni, si sarebbe assicurato che stessero tutti bene, specie il suo piccolo bienas, e avrebbe detto a Nathan che anche lui e le ragazze si erano fatti onore.
 
Se solo avesse saputo quanto si sbagliava.
 

 
«Io te lo dico, i figli di Apollo non vanno mai sottovalutati. Lo sanno tutti che il sole brucia senza guardare in faccia nessuno.»
 


 
*


 
Nathan non aveva voluto sentir ragioni. Non aveva bisogno d’essere curato e non aveva alcuna intenzione di rimanere fermo come un coglione a farsi medicare dalla crocerossina lì presente.
L’umiliazione per la sconfitta subita si era solo ingigantita quando aveva realizzato che Cicno ed Úranus erano invece stati graziati e sebbene quest’ultimo avesse ammesso che lui, in realtà, non aveva fatto niente, quell’affermazione era solo andata a sommarsi alla rabbia e alla vergogna che provava per sé: non solo lui, figlio di Ares, addestrato al Campo, Marines, non era riuscito a sconfiggere una singola guerriera; non solo il suo combattimento non era stato neanche reputato degno, tanto che la donna se n’era andata senza graziarlo, malgrado le regole lo permettessero. No, non bastava tutto ciò, ora doveva anche convivere con l’idea che quella cazzo di principessina degli elfi di Cicno fosse riuscito a sopravvivere al marasma di corpi e combattimenti, che l’avesse fatto senza riportare un solo danno, un misero graffio, e che nel mentre si fosse anche premurato di proteggere Úranus, che era il doppio di lui ed era ugualmente illeso.
Cicno aveva fatto un lavoro tanto ammirevole da meritarsi la benedizione anche senza aver combattuto una guardia, tanto da far sì che anche il suo compagno fosse benedetto.
E lui, il grande figlio di Ares, fottutissimo figlio della guerra, era stato sconfitto e anche malamente.
Per questo non voleva farsi medicare. Il dolore era il prezzo che doveva pagare per la sua penosa performance. Il dolore era l’unica cosa che poteva ricordargli quando reale fosse quella sconfitta, quando fosse vicina, quanto bruciasse. L’unica cosa che poteva ricordargli che non fosse solo frutto della sua immaginazione, un sogno, come tutto quello che era successo in quegli anni negli inferi.
Nathan doveva continuare a sentire il bruciore, le fitte, le pulsazioni lancinanti alla testa. Non doveva dimenticare troppo facilmente, non voleva.
Per questo Cicno l’aveva maledetto, di nuovo, all’immobilità, permettendo a lui e alla sorellastra di agire in coppia, più velocemente e in modo più efficacie. Malgrado era stato presto ben chiaro a tutti che il greco avrebbe potuto far da sé senza il minimo sforzo.
Sforzo che invece aveva preteso tutta la forza di Jonas per non scoppiare a ridergli in faccia quando, d’improvviso, alle parole del figlio di Apollo Nathan si era bloccato in ogni movimento, la posa plastica e rigida diapositiva del gesticolare irritato con cui stava cercando di scacciare Lea. Il ragazzino l’aveva guardato cadere all’indietro come una tessera del domino, preso al volo da Úranus e depositato lentamente, di nuovo, a terra.
L’aveva fissato a bocca aperta e poi aveva serrato le labbra, gli occhi socchiusi in un banale tentativo di minimizzare l’espressione di pura ilarità che tirava ogni muscolo del suo viso. Serrò gli occhi e si voltò, non voleva sbottargli a ridere davanti, era già abbastanza imbarazzante di per sé esser stati pietrificati in una posa così buffa, con un cipiglio così battagliero e la bocca aperta nel pronunciare l’ennesima bestemmia.
Si morse il labbro cercando di ridere senza far rumore ma quando si voltò di nuovo, ripresa un minimo di compostezza, si ritrovò gli occhi azzurri di Nathan, l’unica parte del corpo che ancora poteva muoversi, fissi su di lui. Jonas poteva giurare che l’altro lo stesse maledicendo a sua volta, che gli stesse intimando di non ridere e che quello non era altro che un comportamento da lurido traditore.
Jonas ghignò. «Se solo avessi smesso subito di fare i capricci, ragazzino¸ ora non saresti in punizione.»
Nathan sgranò gli occhi, allibito.
Lea invece ridacchio senza vergogna e Cicno, voltata la testa verso di lui, gli regalò un sorrisetto compiaciuto e un occhiolino d’approvazione.
Dio, quanto avrebbe riso Cade quando glielo avrebbe raccontato. Quanto avrebbe riso Jane. Quanto l’avrebbero preso per il culo entrambi. E anche Eliza probabilmente
In quel momento, mentre i due guaritori si occupavano del soldato, Jonas si ritrovò lentamente a perdere il sorriso. Dov’erano gli altri? Stavano bene? Erano feriti?
Spostò lo sguardo dai suoi compagni e lo puntò verso la nebbia, la Foschia, che ancora permeava quei luoghi.
Paradossalmente, tutti quei banchi nebbiosi, lo aiutavano a percepire il campo di guerra come finito, come un qualcosa con dei confini entro cui stare. La nebbia l’aiutava a pensare che ci fosse un limite a dove il suo sguardo poteva spingersi, che ci fosse una distanza misurabile e concreta, che le Praterie degli Asfodeli, l’Inferno, non fosse infinito ed illimitato come le precedenti prove avevano fatto creder loro.
Quegli spazzi enormi lo facevano sentire piccolo, più piccolo di quanto già non fosse, ed impotente, debole e vigliacco, lo facevano sentire sperduto come lo era stato in quella grottesca sala d’attesa, nel lungo corridoio scavato nella roccia che l’aveva condotto alla banchina del traghetto.
Piccolo, insignificante e impotente.
Come si era sentito per buona parte della sua vita.
Stare con i suoi compagni glielo aveva fatto dimenticare, ogni tanto, gli aveva dato l’illusione che ci fosse sempre qualcuno vicino a lui, pronto ad aiutarlo in tutto e per tutto. Ma ora erano di nuovo divisi e non per loro scelta. Erano lontani gli uni dagli altri, il loro miglior combattente ferito, tre di loro impossibilitati ad usare i loro poteri, una che poteva usarli solo per far del bene, altri che non potevano abusarne o il loro divin genitore se la sarebbe presa.
Era tutto così complicato, tutto così difficile. Ne sarebbe davvero valsa la pena? Correre, lottare, sopravvivere, aiutarsi, affezionarsi, per poi scontrarsi e sperare di sopraffare gli altri per tornare in superficie.
Lui e Lea avevano avuto fortuna quella volta, ma quante possibilità c’erano che un colpo del genere accadesse ancora? Che la fortuna gli avrebbe sorriso proprio quando sarebbe arrivato il momento di impugnare un’arma contro uno dei suoi amici?
 
Chi mi dice che la Fortuna preferirà me, un dannato, ad un grande eroe, ad un beato?
 
Nessuno, nessuno poteva assicurargli che tutto sarebbe finito bene.
Riabbassò lo sguardo sugli altri, Nathan era privo di ferite e iniziava lentamente a muovere il naso, le falangi. Lea lo guardava soddisfatto ed Úranus sembrava semplicemente sollevato che tutto fosse finito.
Solo Cicno lo fissava di rimando, come se sapesse – lui sapeva sempre – quando Jonas avesse pensieri più tristi, più cupi.
Era il loro legame speciale, era quel filo che li teneva l’uno ancorato all’altro, che li connetteva ad un livello più alto di quanto Jonas avrebbe mai potuto immaginare. Un legame che Cicno sapeva apparentemente sfruttare e controllare meglio di lui, vista l’improvvisa ondata di calma che gli solleticò le caviglie nude. Sembrava quasi volesse dirgli che lui era lì, pronto ad aiutarlo, ma Jonas, per quanto si fidasse sempre di più del greco, rimaneva fondamentalmente sospettoso, incapace di metter la propria vita, i propri sentimenti, nelle mani di qualcuno senza esser certo di come fosse veramente l’altro. Cicno poteva anche sembrare la persona più gentile del mondo, ma lo era davvero?
Jonas scosse il capo, stringendo lentamente la mano attorno al proprio polso iniziò poi a giocherellare con il bracciale di stoffa, pensieroso.
 
«Perché non andate a rompere il cazzo a lui? Guarda che faccia da morto ha.» sbottò d’improvviso Nathan riuscendo finalmente a mettersi seduto.
Cicno lo guardò inclinando leggermente la testa. «Ma noi siamo morti. So che per te è un ricordo più vicino rispetto ai nostri, ma il giovane Jonas ha esattamente la “faccia” che dovrebbe avere.»
Il soldato fece una smorfia. «Ma porca di quella puttana, ma ce l’avevate l’ironia nell’antica Grecia?»
«Certo che sì, per questo posso dire perfettamente che tu non ne ha neanche un briciolo.» e con questo si alzò spolverandosi le vesti, porgendo una mano ad Elena per fare lo stesso.
La ragazza rise accettando l’aiuto e quando anche Nathan, grugnendo e borbottando ingiurie, si tirò finalmente in piedi, ci fu un attimo di silenzio interrotto solo dai risolini di Lea.
 
«Certo che sei bassino per essere un ventiquattrenne.»
 
«MA PORCO ZEUS!»


 
*
 
 

Jane batté le palpebre. Era un fulmine quello che aveva appena visto?
Le immagini si stavano facendo sempre più distorte, più pallide, come se fossero filtrate da un velo di nebbia. Le anime erano sempre di meno, sulle loro fronti brillavano sempre più spesso le stesse macchie che loro stessi avevano.
Poi un improvvisa macchia luminosa e Jane si fermò di colpo, ritrovandosi Cade ed Eliza contro prima ancora di poter dir loro nulla.

«Ehi! Che c’è adesso, non capisci da che parte andare?» chiese il rosso curioso.
«Le anime si stanno lentamente disperdendo, stiamo arrivando in una zona grigia, non credo ci siano molti combattimenti, ma è sempre bene rimanere all’erta.»
«Allora? Sai dove dobbiamo andare?» continuò Cade incalzante.
Jane annuì piano. «Ho visto un fulmine.»
«Figlio di Zeus? Ce ne saranno da queste parti.» disse Eliza voltandosi a destra e sinistra alla ricerca di qualche traccia divina.
«Ho visto anche una luce improvvisa ed accecante.» mormorò quasi sperando di non farsi sentire.
Ma i suoi compagni la sentirono più che bene.
La figlia di Nike si irrigidì. «La colonna di luce? Parli del faro?»
«Del coso che mi ha guardato e puntato?»
L’altra annuì ancora. «Secondo il mio incantesimo di tracciamento dobbiamo andare da quella parte, ma-»
«Ma è anche dove si trova ora quella cosa.» concluse Eliza per lei. Sospirò. «Non credo abbiamo altre opzioni, vero?»
«No, non mi mostra nessun altro passaggio.»
«Allora dobbiamo muoverci e anche in fretta, perché significa che il Guardiano sta puntando nella stessa direzione in cui si trovano i ragazzi e se c’è davvero poca gente da quelle parti sarà difficile schivare quell’affare maledetto.»
 
Ripresero a camminare senza aggiungere altro, accelerando il passo e rimanendo ben all’erta per il più piccolo cambiamento di luce.
O per la puzza di carne bruciata.


 
*
 


«Potete smetterla di battibeccare per cinque minuti? Il padre di Eliza ha detto che ci sono le arpie e che se urliamo rischiamo ci sentano.» sibilò Jonas guardandosi attorno con ansia.
Nathan sbuffò. «E grazie al cazzo che ci sono le arpie, secondo te chi la pulisce tutta la merda che si lascerà dietro sta gara? Vestiti, corpi, buche nel terreno fatte dal fottuto occhio di Sauron.»
«Quindi era un occhio?» domandò Úranus innocentemente.
«Un cazzo di gigantesco occhio di fuoco che era il concentrato di tutto il fottutissimo potere oscuro di una specie di dio corrotto.»
«Corrotto da cosa?»
«Sono certo che il figlio di Ares potrà raccontarcelo in un altro momento. Ora dobbiamo concludere la gara e superare le porte. Una volta al sicuro oltre i confini dei Campi Elisi potrete discutere di storie fantastiche nell’attesa degli altri.» propose loro Cicno indicandogli con un ampio gesto della mano le mastodontiche entrate.
Lea però aggrottò le sopracciglia. «Non possiamo concludere la gara, dobbiamo trovare gli altri e aspettarli.»
«Non sarebbe la prima volta che qualcuno di voi finisce la sfida prima di altri. Cade aveva con sé la sfera di Úranus ed Úranus quella di Cade, quando vi ho conosciuti, ma tutti voi altri eravate già vittoriosi dalla vostra prova.»
«Ma porca puttana, ma ce la fai a parlare come mangi?»
«Non voglio sapere quali fossero le tue abitudini alimentari e la tua educazione, ma se vorrai ancora raccontarmelo in seguito potremmo farlo al sicuro, oltre le porte.»
«Ma se superiamo le porte non sappiamo se poi, in caso i ragazzi avessero bisogno d’aiuto, potremmo uscire per correre da loro.» fece notare Jonas.
«Non sappiamo neanche se potremmo passare senza una benedizione.» puntualizzò Lea.
Il greco sospirò, un respiro pesante che servì solo per aiutarlo a contenere i nervi per un po’ più di tempo.
Erano davanti alle dannate porte dei Campi Elisi, non c’era nessuna guardia che potesse fermarli, anzi, una di loro aveva anche scortato due giocatori fino ad un posto sicuro, se fossero rimasti fermi lì sarebbero stati esposti a qualunque possibile attacco, che fosse via terra o da cielo. Come potevano non capire una cosa così banale e basilare?

«Capisco i vostri dubbi, ma Nathan come soldato saprà dirvi forse meglio di me quanto rimanere fermi nello stesso punto in uno spazio aperto sia pericoloso. Specie se non tutti possono difendersi.»
«La principessa ha ragione.» disse Nathan strappando quasi un sorriso compiaciuto a Cicno, quasi. «Ma è anche vero che non sappiamo se gli altri hanno la loro cazzo di benedizione o no e che io non ne ho una. Non posso entrare negli Elisi in questo modo.»
Se avesse potuto bestemmiare suo padre e tutti i suoi famigliari l’avrebbe fatto in quel momento.
Quello stupido di un figlio di Ares non gli aveva appena detto che preferiva combattere ancora, e magari anche essere sconfitto, e mettere in pericolo tutti gli altri per poter recuperare l’orgoglio ferito. Cicno capiva perfettamente il bisogno del biondo di dimostrarsi all’altezza della situazione, specie dopo una sconfitta così cocente, e normalmente gli avrebbe anche dato ragione, ma in quel momento la sua priorità era mettere al sicuro quanti più membri della sua squadra fosse stato possibile e Nathan Wright glielo stava impedendo con il suo stupido bisogno di una redenzione che solo lui vedeva.

«Avrai modo di rifarti in seguito, ma comprendi che se dovessero attaccarci solo io ed Úranus saremmo esentati, se non banditi, dal combattimento e che tu dovresti occuparti della tua vita e di quella di Lea e Jonas?»
Un verso sprezzante lasciò le labbra del giovane. «E tu pensi non ne sia in grado?»
Cicno avrebbe voluto prenderlo a calci in bocca e fargli saltare tutti i denti, ma non poteva farlo, non davanti a tutti, non in una momento del genere.
«Penso che sarebbe pericoloso per loro.» rispose a denti stretti.
«Sono capacissimo di badare a me stesso.» s’intromise Jonas stringendo le braccia al petto.
«Ma per favore, non sai neanche dare un pungo.» lo schernì Nathan.
«Vuoi provare?»
«Sì, provaci va! Tanto se ti rompi il polso c’è chi te lo ripara.»
«Ammesso che sia il mio polso a rompersi e non il tuo naso.»
«Non sarebbe la prima volta.»
«Potrebbe essere l’ultima.»
«Uh, che paura!»

Úranus si torse le mani a disagio. Malgrado non volesse dirlo apertamente anche lui era della stessa idea di Cicno. Dovevano mettersi al riparo, al sicuro oltre le porte. Non era mai una cosa intelligente starsene in un’area sgombera, sotto l’occhio acuto di predatori più grandi, forti e veloci di te. Ed Úranus, in quel momento, si sentiva proprio così, come se ci fosse qualcosa di ancora più pericoloso che li stava fiutando, che si stava avvicinando sempre di più.
Con questa sensazione di inevitabilità anche un leggero sentore di magia iniziò a solleticargli il naso.
I banchi di Foschia che li circondavano si muovevano con lentezza, espandendosi e diradandosi di continuo senza una vera logica. Il pizzicorio che lo stava sfiorando in quel momento sembrava simile alla sensazione che aveva provato inoltrandosi tra la Foschia, una sensazione molto più blanda rispetto alla forza distruttiva del muro che era crollato loro addosso, ma c’era anche qualcos’altro in mezzo, qualcosa che sembrava anch’esso Foschia ma non lo era davvero.
Non si trattava della stessa illusione, della stessa magia, ma ne aveva la stessa matrice. Come due tessuti filati dalla stessa lana, uno più grezzo e ruvido, l’altro più liscio e setoso, ben fatto. Era la differenza tra un incantesimo generato da un potere esperto e quello di un novizio. Un novizio che stava spingendo la sua magia sino a lì, sino a loro. Come se li stesse cercando.
Jane?
 
Úranus si volse in ogni direzione, cercando di capire da dove provenisse quella sensazione, quel leggero venticello che gli portava al naso un odore familiare ma non conosciuto.
Doveva concentrarsi senza lasciarsi prendere dal panico, ma in quel momento l’ansia d’essere trovati, d’essere attaccati e non poter far nulla per aiutare i suoi compagni, non faceva altro che alimentare il suo disagio.
Un disagio che sembrava condividere con l’incantatore che stava producendo quella magia.
Il giovane uomo aggrottò le sopracciglia, improvvisamente sordo e dimentico degli altri e dei loro stupidi litigi infantili.
La magia portava con sé un velo d’inquietudine, la necessità di accelerare il passo, di correre in un luogo sicuro, di scappare da qualcosa. Ma cosa?
Con uno sforzo sovrumano Úranus si costrinse ad accogliere in sé quel sentimento, a farlo suo e rilanciarlo al suo proprietario, come una spola che veloce passava da un lato all’altro del telaio. Raccoglieva l’ansia e rimandava indietro il dubbio, una domanda tacita che sperava sarebbe stata d’aiuto agli altri, a far capir loro che in quel momento non erano in pericolo.
 
«Cosa fai?»
 
Úranus saltò sul posto, Cicno lo guardava con un’espressione neutra in volto, immobile ed inespressiva come una statua.
L’islandese alzò leggermente gli occhi per individuare velocemente la causa del malumore del compagno: Jonas, Lea e Nathan stavano discutendo, la figlia di Apollo teneva per un braccio quello di Ares che sembrava più che intenzionato a raggiungere il fratellastro di lei, mormorando a mezza bocca qualcosa che non poteva sentire.
«Nathan non è d’accordo con te?» domandò di rimando.
Cicno prese un respiro profondo e poi espirò piano. «Mi duole dire una cosa del genere, ma se dovessero attaccarci io sono stato benedetto, è lui il perdente, è lui quello che dovrà combattere non solo per sé ma anche per altri. Se non vuole prestarmi ascolto, se non vuole far la cosa giusta solo per potersi flagellare nella speranza che suo padre non sia troppo imbarazzato dalla sua cocente sconfitta, allora non è affar mio.» rispose secco stringendosi nelle spalle. Si stava trattenendo il più possibile per non infilzarsi le unghie nei palmi, per mostrarsi tranquillo. «Se gli altri non vogliono ascoltarmi e mettersi in salvo solo perché tre anime, di cui due buoni combattenti, con poteri divini spiccati ed utili, potrebbero non esser stati benedetti, cosa di cui dubito viste le doti dei nostri compagni, e necessitare del loro aiuto, l’aiuto di due anime che non hanno armi e non posseggono poteri offensivi, ancora una volta, non è un mio problema.
Cosa stai facendo?»
Úranus lo guardò per un lungo istante e poi deglutì. «Senti anche tu questa leggera scia magica?»
«Quella che supera la Foschia e che porta con sé sentimenti di impazienza?» domandò con tono monocorde.
«Penso sia Jane che ci sta cerando.» ammise temendo in parte la reazione del greco.
«Penso che sia possibile.» annuì Cicno. «Così come potrebbe essere un combattente dell’Ade o un altro partecipante. Non rischiare inutilmente, abbiamo già tre stolti pronti a mettere in gioco la loro esistenza per nulla, non diventare il quarto, te ne prego.» aggiunse in fine lanciandogli un’occhiata penetrante.
Úranus non voleva diventare un altro fardello sulle spalle di Cicno, come per altro era già stato in precedenza, ma era più che sicuro che ci fosse Jane dietro quella presenza latente che lo sfiorava con sempre maggiore intensità. Ed a cui, per altro, aveva già risposto.
«Sono convinto sia lei, Cicno. Ho già sperimentato la sua magia sulla mia pelle, c’è sempre la possibilità che io stia sbagliando, ma-»
«Se ne sei assolutamente sicuro allora prova a risponderle.» tagliò corto Cicno, riportando lo sguardo sugli altri e sostenendo quello di Nathan senza batter ciglio. «Trova il modo di accertarti che sia lei prima di condurla qui. Te lo ripeterò un’ultima volta: se è un combattente, un nemico, c’è la concreta possibilità che l’unica cosa che ci sarà concesso fare sarà osservare i nostri compagni cadere. Se sarà più di uno Nathan non riuscirà a proteggere Jonas e Lea da solo.» tacque per un momento e poi girò il capo verso di lui, di nuovo. «E se mi sarà chiesto di scegliere chi salvare io sceglierò Jonas senza alcuno scrupolo.»
Glielo disse con serietà ed Úranus ne sarebbe rimasto quasi ferito, l’idea di aver già scelto chi aiutare, eliminando apriori tutti gli altri, gli pareva crudele, specie se l’altra anima condannata era quella della sua prima amica. Ma poi il figlio di Fobetore si ricordò dei bracciali che scintillavano ai polsi di Cicno, legati al giogo al collo di Jonas, e ogni sentimento venne rimpiazzato dalla banale e semplice logica: stavano combattendo per poter riottenere la propria vita senza dimenticarsi del proprio passato, di sé stessi ed i due giovani erano legati da un vincolo divino. Cicno avrebbe sempre salvato Jonas sopra a tutti anche solo per il semplice fatto che la sconfitta del più piccolo avrebbe potuto aver ripercussioni sulla vittoria del più grande.
Cicno gli aveva appena ricordato che malgrado i loro legami amichevoli, malgrado l’aiuto ed il supporto reciproco, erano in guerra ed in guerra non c’è posto per i buon samaritani.
Gli aveva appena detto che se non fossero stati in grado di convincere qui tre a passare le porte e fosse sopraggiunto un pericolo, lui non avrebbe salvato né Nathan né la sua amica.
Úranus deglutì.

«Lo dirò agli altri e-»
«No.» disse lapidario l’altro. «Non dar loro altri motivi per attendere qui fuori. Nathan può fare ciò che vuole ma Lea e Jonas devono oltrepassare le Mura Bianche.» e con questo tornò indietro dai loro compagni, guardando storto il figlio di Ares per un momento prima di prestare tutta la sua attenzione a Jonas e cercare di portarlo a ragione, dicendogli qualcosa che doveva averlo colpito duramente.
Úranus cercò di non concentrarsi troppo sull’espressione attonita del ragazzino, sulla vergogna che poteva leggergli in faccia, e cercò con lo sguardo Lea per chiederle, silenziosamente, da lontano, di mettersi al sicuro.
Vide la giovane stringere le labbra e scuotere leggermente il capo. Non poteva chiederle questo, non poteva chiederle di mettersi in salvo quando gli altri erano ancora in pericolo, ed Úranus lo capiva, davvero, capiva perché non volesse muoversi ma Cicno aveva ragione, loro non potevano fare nulla, Eliza, Cade e Jane erano tutti e tre in grado di difendersi in qualche modo e-
 
Si voltò.
Il fischio sottile del vento lo fece rabbrividire. Odorava di magia, così umida da sembrare bagnata, come l’aria che tirava dalle grotte, nel bosco dopo la pioggia.
Chiunque fosse si stava avvicinando e lo stava facendo con l’aiuto delle correnti stantie dell’Ade, una combinazione di odori tale da poter essere ricondotta solo a due persone.

Jane e Cade.
 
Úranus batté le palpebre, incredulo. Erano davvero loro, aveva ragione, erano i loro compagni.
Poteva sentire ancora lo sguardo di Lea puntato sulla sua schiena, ma non aveva il coraggio di muoversi, certo che se si fosse girato avrebbe perso quella traccia che li legava e avrebbe reso ancora più difficile per gli altri trovarli tra tutti quei banchi di Foschia.
Lea però non poteva saperlo e si contorceva le mani ansiosa.
Perché si era voltato così repentinamente? Perché non si muoveva?
Vicino a lei Cicno e Jonas continuavano a discutere e con sua grande sorpresa Nathan non aveva ancora aperto bocca per dar ragione al ragazzino.
 
Perché non ne ha. Questa volta Jonas è completamente nel torto e così lo sono anch’io.
 
«No. Ho detto di no ed è no!» ripeté ancora, petulante.
Cicno cercava di mantenere l’espressione più neutra possibile ma stava palesemente iniziando ad innervosirsi.
 
O forse a mostrarlo.
 
«Jonas, sono stato gentile fino ad ora, ma temo che sia stato del tutto inutile, quindi te lo dirò nel modo più diretto e crudo possibile: Non sai combattere, non sai utilizzare il tuo potere e quando lo fai si ritorce contro tutti, compresi i tuoi compagni; Nathan sarà impegnato a combattere per il suo onore e per la sua vittoria e se dovesse pensare anche a te finirebbe per essere sconfitto ancora. E se questo non dovesse-»
«Io so co-» provò a replicare il ragazzino sempre più adirato.
«E se questo non dovesse bastarti.» sibilò Cicno, un palese avvertimento a lasciarlo finire e non interromperlo ancora. «Ti ricordo che sei legato a me. Anche se non per nostra volontà, ogni cosa che fai, che ti accade, potrebbe ripercuotersi su di me. Durante la prima prova mi è stato imposto di salvarti e condurti alla meta, io non so cosa potrebbe succedere ad entrambi se l’altro venisse ferito e non voglio scoprire cosa potrebbe accadermi se anche la tua anima devesse esser uccisa e sparisse dall’Ade.»
Jonas lo fissò serrando i denti, la rabbia che gli stava montando dentro lo stava rendendo irrequieto, come se avesse qualcosa bloccato nel petto che volesse esplodere da un momento all’altro.
Era la prima volta che Cicno gli parlava in quel modo, era la prima volta che si mostrava anche solo leggermente contrariato dalle sue decisioni, che non gli usava quella calma e logica gentilezza, quella saggezza di cui si era dimostrato capace fino a quel momento.
E Jonas lo odiava.
Odiava le parole del greco, odiava il suo tono, il modo in cui l’aveva zittito, il modo in cui gli aveva intimato di tacere senza alzare la voce, senza urlare come invece doveva far lui per far valere le sue opinioni. Era di nuovo a scuola, davanti al professore che lo sgridava e umiliava davanti a tutta la classe per esser esploso nell’ennesimo dei suoi crolli, per aver perso la pazienza, la compostezza, per non essere il perfetto giovane facoltoso che doveva essere, perché si era dimostrato ancora una volta non all’altezza delle aspettative.
Ma la cosa che bruciava di più, più del sentirsi un ragazzino in un mondo troppo grande per lui, dove gli altri decidevano al suo posto e ogni parola era legge, era obbligo, più di tutto questo ciò che lo mandava in bestia era che Cicno, nonostante tutto, avesse ragione.
Jonas non aveva un potere in grado di arrecare danni fisici, non era in grado di controllarlo e non sapeva neanche come approcciarcisi. Non aveva una buona formazione fisica, gli anni di atletica non l’avrebbero aiutato a difendersi da un guerriero esperto, le sue piccole risse con i compagni non sarebbero state neanche vagamente utili. Non aveva un’arma, non aveva le conoscenze per usarne una. Era piccolo, gracile, fine. Sarebbe stato solo un peso in più, un problema per Nathan che avrebbe dovuto difenderlo esattamente come aveva fatto Lea quando si erano divisi.
Jonas voleva rimanere ad aspettare gli altri e voleva farlo solo per puro principio, per apprensione, per colpa dell’ansia di non vederli arrivare, di vederli feriti, di saperli perduti.
La paura si agitava nel suo petto prendendo forme diverse ad ogni respiro, ma ciò non cambiava il fatto che Cicno avesse ragione. Non solo non sarebbe stato di nessun aiuto, rischiava anche di arrecare danno al compagno, a qualcuno che fino a quel momento non aveva fatto altro che aiutarlo e sostenerlo pur non conoscendolo minimamente. E sì, Jonas neanche conosceva Cicno, non si fidava completamente di lui, il suo sapere così tanto ed essere così tranquillo alle volte lo irritava ed insospettiva in egual misura, ma non gli aveva chiesto nulla di assurdo, nulla di impossibile o ingiusto.
 
Fai la persona matura, Jonas, smettila di battere i piedi come il moccioso che sei.
 
Il greco continuava a fissarlo senza muoversi, senza cedere di un passo, e lentamente Jonas si ritrovò a fare respiri profondi, a tentare di riprendere possesso di sé, di avere una discussione da adulti.
Doveva solo far capire all’altro perché non potesse oltrepassare il confine.
 
«Non posso mettermi al sicuro quando non so se anche gli altri lo sono.» rispose tremante.
«Non puoi neanche andarli a cercare, sa? Quindi piuttosto che stare qui a rompere le palle è più comodo che te ne stia sul bordo della porta ad aspettarci.» s’intromise Nathan.
Jonas lo guardò malissimo, non aveva bisogno di altre persone che gli ripetessero quanto fosse solo un peso.
Cicno se ne accorse perfettamente, ma non poteva certo sgridare il soldato per le sue parole quando lui aveva appena detto lo stesso. Poteva essere molto più diplomatico però.
«Nathan non sa cosa sia l’educazione e il ben parlare, ma ha ragione. Non puoi andarli a cercare e non puoi aspettare qui rischiando di diventare un bersaglio. Oltrepassa l’entrata delle bianche mura e attendici lì. Una volta superata la linea sarai salvo e nessuno potrà toccarti.» provò a portar ragione.
«Ma non sappiamo neanche se potrò passare senza benedizione!»
«Se il padre di Eliza vi ha portati fin qui, salvandovi, e non vi ha benedetti significa che non ve n’era motivo. Penso che la benedizione serva solo a farci attraversare il campo di battaglia senza che un altro combattente si debba occupare di noi. Serve più a loro.»
Jonas annuì, incapace di fare altro. Quella era una prospettiva che non aveva calcolato. Se il padre di Eliza li aveva salvati e portati alla meta, perché non dargli anche il famoso lasciapassare?
«E se avessero bisogno d’aiuto? Se dovessero essere feriti?» continuò però incalzante.
«Rimarrò io. Posso rimanere a-» provò Lea cercando di chiudere quel discorso il prima possibile e portare l’attenzione su Úranus e qualunque cosa avesse sentito.
«Credevo che le mie parole fossero state sufficientemente chiare: voi dovete mettervi al sicuro. Tu, Lea e anche Úranus, che non è ugualmente utile in questa situazione. Non io.»
I tre rimasero immobili a fissare il greco, stupiti da ciò che stava suggerendo Cicno.
«T-tu-»
«Resteresti qui? E dov’è finita tutta quella filippica del cazzo sul fatto che non puoi intervenire perché sei già stato benedetto?» domandò Nathan aggrottando le sopracciglia.
Cicno a mala pena fece una smorfia. «Ho detto che se dovessero impormi di non intervenire allora non potrei farlo, non potrei combattere con voi. Ma nessuno potrebbe impedirmi di rimanere ad osservare lo scontro e, come avrai ben notato, sono in grado di utilizzare i miei poteri anche senza imporre il mio tocco a nessuno.»
Le sue parole suonarono risolute, definitive.
Il figlio di Ares lo guardò ammettendo finalmente a sé stesso di non riuscire a capire quello strano individuo.

Chi sei? Come fai ad essere così diverso da prima ogni volta che apri bocca?
 
Nathan assottigliò lo sguardo. Non voleva ammetterlo ma per quanto quella principessina del cazzo si fosse dimostrata fastidiosa, schifosamente gentile e anche ironicamente cinica più di una volta, aveva una capacità di porre le cose sotto un’ottica fredda e logica tale da non lasciar spazio ad obiezioni.
 
Potrebbe essere un buon leader, non so quanto sarebbe disposto a mettersi in prima fila o morire per i suoi compagni ma… ma forse anche questo farebbe di lui un ottimo stratega, conscio del suo grande potenziale e del fatto che la sua vita vale più di quella di molti soldati semplici.
 
Ma quello non era il momento giusto per giudicare le capacità direttive del greco, non ora che Jonas si era finalmente tappato quella dannata bocca e aveva smesso di fare i capricci.
Poi sarei io il moccioso.
 
Espirando con forza Nathan alzò un braccio verso le porte del paradiso, un modo più che eloquente per indicare ai due non benedetti di mettersi in marcia e fare quanto era stato loro detto. Malgrado Lea continuasse a torcersi le mani e guardare in direzione di Úranus che, come uno di quei maledetti Mastini Infernali, teneva la testa dritta e puntata verso uno dei tanti banchi di Foschia, come se si aspettasse che ne uscisse qualcosa da un momento all’altro.
 
«Úranus! Muovi quel cazzo di culo e fila con sti due oltre le porte! Rimaniamo solo io e la principessa delle fate fuori!» urlò a pieni polmoni.
Jonas soffiò tra i denti come un gatto furastico. «Non era che non bisognava urlare o sarebbero arrivate le arpie?»
«Era solo una possibilità. E poi sai quante ne ho viste in vita?» lo liquidò Nathan spingendolo nella direzione giusta, prima lui e poi Lea. «Muovi il culo anche te, rompi palle, ora Golia arriva.»
Ma Lea scosse il capo, pur girandosi nella direzione giusta e iniziando a camminare continuò a guardare l’amico, storcendo il collo, con quell’espressione preoccupata capace di irritare il soldato ancora di più.
«C’è qualcosa che non va.» disse piano.
«C’è sempre qualcosa che non va con uno di voi stronzi, ora arriva anche lui.» poi si rigirò verso l’uomo. «URANUS!»
«Non urlare!» ripeté Jonas.
«Tu l’hai fatto fino ad ora!»
«Non ho urlato!»
«Sì che l’hai fatto!»
«Io, sto per urlare.» ringhiò a bassa voce Cicno, cercando di ignorare quell’ennesimo, fastidioso ed assolutamente inutile battibecco da lattanti.
 
«Sono loro!»
 
La voce Úranus riuscì dove le maledizioni silenziose del greco non erano riuscite. Nathan e Jonas voltarono la testa in sincrono, osservando ad occhi spalancati le figure che lentamente prendevano consistenza nel fumo della Foschia.
Erano tre persone, tre anime, ed uno strano oggetto luminoso tra di loro, come una delle sfere della prova di Ermes, e più si avvicinavano, più divenivano nitide, più prendevano consistenza, colore, forma, identità.
La gonna strappata e stracciata di Jane, le sue caviglie secche e ossute, le braccia protese in avanti, le mani sporche a reggere un mezzo globo di vetro luminescente, i capelli corti che le finivano in continuazione sul volto affaticato malgrado li soffiasse in continuazione via.
Alla sua sinistra la zazzera rossa di Cade, la sua giacca disegnata dalla pittura crepata e rovinata, gli occhi verdi che brillavano come quello strano oggetto, la sacca voluminosa che gli rimbalzava sulla schiena mentre alzava la mano e saltellava per farsi notare dagli altri.
A destra, in fine, Eliza, che camminava quasi marciando, una macchia bianca data dalla camicia completamente scoperta dall’assenza della giubba blu, i capelli corti e scuri sporchi di terra ma che, ugualmente, non riuscivano a nascondere l’alone dorato che le brillava sulla fronte.
Nathan ne rimase scioccato. Dentro di sé troppe emozioni che si accavallavano le une alle altre: felicità, gioia, sollievo. Quei tre potevano anche essere dei deficienti ma erano i suoi compagni, le anime con cui aveva iniziato quella gara e con cui aveva combattuto fino a quel momento. Era così orgoglioso di vederli ammaccati ma salvi, vittoriosi, vivi.  
D’altra parte, la vergogna bruciava ancora più cocente, ancora più letale, più infamante. Loro erano riusciti a superare la propria prova, lui no. Lui era stato sconfitto, era un perdente, era un’onta per i suoi stessi compagni, per il suo reggimento, per gli altri semidei con cui aveva combattuto, per gli addestratori dell’esercito e per quelli del Campo. Per sua madre. Per suo padre. Per sé.
Erano vivi, questo sarebbe dovuto essere tutto ciò che contava, ma la vergogna, l’umiliazione di aver fallito faceva più male di quanto avrebbe mai voluto immaginare.
Malgrado li stesse osservando non vide davvero il sorriso trionfante di Jane, palesemente orgogliosa di sé per aver eseguito un incantesimo capace di farli ricongiungere. Non vide il sollievo negli occhi di Eliza e neanche Cade saltare sempre più in alto, sempre più in alto, sempre più in alto, finché qualcuno non urlò.
 
«CADE!»
 
I rosso si bloccò a mezz’aria, rigirandosi come un pesce preso all’amo. I suoi occhi si schiarirono, un’improvvisa corrente discendente lo spinse in basso e poi, veloce, colpì anche Jane ed Eliza, spostandole violentemente di lato un attimo prima che un intenso fascio di luce colpisse il punto in cui si trovavano.
Svariate urla si alzarono tutte assieme. Úranus, che era il più vicino, corse immediatamente dai compagni, afferrando Eliza e tirandola in piedi a forza.

«CORRETE!» ordinò perentorio, cercando di afferrare anche Jane.
Eliza si sciolse velocemente dalla presa, voltandosi anche lei per prendere la figlia di Ecate.
«Tornate indietro voi!» sentì urlare Cade. «JONAS! TORNA INDIETRO! SCAPPA!»
Cade stava sudando, lo sforzo improvviso di richiamare le correnti a sé, di generarne di così potenti in un luogo in cui, di norma, non ve ne era, gli pesava sulle spalle come un macigno. Probabilmente complice la fatica dovuta al combattimento si ritrovò ad inciampare sui suoi stessi passi, il vento fantasma spintonava malamente tutti e quattro, cercando di farli avanzare e di allontanarsi dal raggio luminoso allo stesso tempo, finendo solo per farsi scontrare di continuo tra di loro.
Perché quel coso ce l’aveva tanto con lui? Perché doveva esserci sempre il fuoco di mezzo?
Aveva il fiato corto, era successo tutto così d’improvviso da fargli venire le vertigini. Gli girava la testa proprio come succedeva quando saliva troppo di quota e d’improvviso si lasciava cadere in picchiata.
Un vuoto.
Usare così di colpo i suoi poteri, ad una potenza così elevata, l’aveva spinto in un dannato vuoto d’aria. Un vuoto che si stava mangiando tutto l’ossigeno incamerato nei suoi polmoni, stringendoli come una vecchia spugna bagnata.
Macchie scure iniziarono ad allargarsi al limitare del suo campo visivo, le grida dei suoi compagni si facevano ovattate un momento per poi riesplodere quello seguente. Stava per cadere, Cade se lo sentiva, e se fosse caduto le correnti avrebbero cessato d’esistere e la spinta aggiuntiva che li stava portando verso la salvezza si sarebbe estinta, lasciando campo a quell’affare infernale.
Il mondo si scurì ancora un po’, dalla bocca spalancata non riusciva ad entrare neanche un filo d’aria. Stava soffocando. Si stava soffocando da solo.
 
«Non ce la fa!» gridò Jonas correndo a perdifiato.
Per un attimo gli parve di non aver corso così velocemente neanche per scappare dai Mastini Infernali, gli sembrava quasi di volare. Di fianco a lui Lea gli teneva testa con falcate ampie, quel metro e ottanta finalmente al lavoro per spingerla in avanti, prima degli altri, affiancata da Nathan che, a denti stretti, correva proteso in avanti come un corridore in cerca del nastro della vittoria.
Fu il soldato a rispondergli con uno strozzato “lo so” e a spingere di più, l’improvvisa botta d’adrenalina a cui tutti i figli di Ares avevano imparato a tributare benedizioni che lo rendeva momentaneamente più veloce, più scattante, più forte.
«Ora crolla!» urlò di rimando Lea ed Eliza fece solo una smorfia, stringendo di più la mano di Jane e lanciandola in avanti come una frusta.
«Corri! Veloce! Veloce!»
«Lo sto facendo! Lo sto facendo! Prendi il rosso!» rispose Jane serrando i denti per lo sforzo ma accelerando quanto più possibile puntando verso la meta.
«Úranus!» gridò ancora Nathan e anche il figlio di Fobetore allungò un braccio all’indietro, pronto ad afferrare Cade o Nathan stesso se ce ne fosse stato bisogno.
Poi il vento cessò.
Cade vide il parto nero fondersi con la Foschia, scurendo le mura bianche, chiudendo le porte monolitiche. Riuscì solo a vedere Nathan gettarsi verso di lui, avvertì vagamente un braccio stringersi attorno al busto e la terra gli mancò sotto i piedi, come se avesse appena spiccato il volo.
Jonas guardò con orrore il gigantesco fascio di luce avvicinarsi sempre di più e i suoi compagni rallentare di colpo. Guardò Nathan scattare con un lupo a caccia ed afferrare Cade prima che potesse cadere a terra. Vide Úranus afferrare la giacca del soldato e ruotare su sé stesso per non smettere di correre e sfruttare la spinta per far riprendere il ritmo anche all’altro.
Vide vagamente Lea invertire marcia dopo esser riuscita a prendere la mano di Jane, Eliza voltare la testa indietro e allungarsi per cercare di soccorrere Nathan e in quel momento, in quel preciso momento, Jonas seppe che non sarebbero sfuggiti dal raggio. Che qualunque cosa fosse quel maledetto faro li avrebbe colpiti e li avrebbe inceneriti fino alle ossa.
Seppe solo che i suoi compagni, i suoi amici, erano in pericolo, che avevano fatto sempre tanto per lui anche se non lo conoscevano, anche se non sapevano nulla di lui, anche se era un danno, aveva commesso uno dei peccati più terribili del mondo e aveva detto a tutti loro quanto fosse stato meschino, codardo. Cade sopra tutti l’aveva accettato, l’aveva ricoperto d’affetto, e ora era ad un passo dal fuoco sacro, redentore dei mali.

Cade odia il fuoco.

Cosa lo attendeva su? Cosa c’era ancora per lui sulla terra ferma? Sotto il cielo limpido?
Quando si era ritrovato con quel biglietto in mano, Jonas si era detto che se non fosse riuscito a vincere sarebbe tornato sulla terra per una seconda, nuova vita. Si sarebbe dato una seconda possibilità da solo.
Forse, quella seconda possibilità, non era la rinascita.
Forse, la sua seconda possibilità, era riuscire a redimersi dal suo peccato.
Questa volta non avrebbe abbandonato nessuno, non avrebbe scelto la via più semplice.
Con ironia pensò che, ancora una volta, c’erano in mezzo un paio d’occhi verdi, ma che avevano in sé tutto un altro tipo d’amore rispetto a quelli che aveva lasciato indietro la prima volta.
Dopotutto, era così che doveva essere avere un fratello, no?
 
Nessuno potrà più chiamarmi codardo.
 
Non poteva combattere, non poteva essere utile in quel modo, sarebbe stato solo un fardello, l’ennesima anima impotente da difendere a costo della propria vita. O forse no.
Con uno scatto degno dello stesso irlandese, Jonas superò Lea, schivò Eliza e poi Úranus, passandogli dietro le spalle, nascosto dalla sua mole, dagli occhi sgranati e pieni d’orrore di Nathan.
Non lo sentì urlare mentre il getto bollente di un raggio di sole lo investiva come un fiotto d’acqua calda.
Non bruciava, non davvero. Ad occhi chiusi Jonas si godette per un momento che sembrò infinito la carezza della luce estiva, quella che ti sfiora nel pomeriggio tardo, quando il sole è già avviato alla sua dipartita e rimanervi esposto non è altro che un dolce indugiare del tempo.
Se questa era la morte era infinitamente più piacevole, calda e gentile di quanto non la ricordasse.
Almeno prima che arrivassero le immagini.
Flash esplosivi gli balenarono davanti alle palpebre chiuse. I volti dei suoi famigliari si susseguirono veloci, quello di sua madre gli si impresse a fuoco sulle retini e non riuscì a sbiadire neanche quando altri visi iniziarono a spuntare uno dopo l’altro, senza senso, senza motivazione.
Il bruciore arrivò allora. Fiamme incandescenti che gli lambirono la pelle, i muscoli, le ossa.
Stava andando a fuoco, stava bruciando vivo come le streghe, com’era successo a Jane e ad Úranus. Stava bruciando vivo ma era già morto e nessuno shock l’avrebbe salvato dal dolore gettandolo nell’oblio.
Non poteva sentire le grida degli altri, non poteva sentire le sue, ma poteva sentire quelle di persone che non aveva mai conosciuto e quelle di chi aveva amato per tutta la sua breve ed effimera vita.
Stavano soffrendo così come soffriva lui. Sentiva pianti disperati, il bruciore delle unghie che si infilano nella carne, la vergogna e i sensi di colpa, lo smarrimento, l’incomprensione, la solitudine il dolore. Così tanto, tanto dolore.
Era un buco nel petto, nello stomaco, un pozzo che ingoiava ogni organo sino a renderlo vuoto.
Lui, o chiunque avesse provato quelle sensazioni.
Oh, perché Jonas l’aveva capito, aveva capito perfettamente che ogni più piccola sofferenza, ogni fiamma che gli lambiva la pelle, era il dolore di altri, era il male che lui aveva provocato, ed era così tanto…



“Avete fatto, in vita, l’unica cosa degna, per ambire al perdono?”
 



Evidentemente la risposta era no.







 
   
 
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