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Autore: Glenda    06/05/2022    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’attentato al traforo del Nòdoask.

Adrian, come di certo molti altri, ricordava quella storia più che per la tragedia (quattro morti e altrettanti feriti: niente di particolarmente epico rispetto a eventi simili nel Dàrbrand) quanto per il dibattito mediatico che aveva sollevato. Per settimane non si era parlato d’altro; all’improvviso, dalla sera alla mattina, un individuo su due era diventato un esperto di politica desideroso di elargire il proprio parere non richiesto: chi dava la colpa al movimento separatista, chi sollevava questioni ecologiche, chi riteneva che i darbrandesi non avessero alcuna responsabilità e che dietro l’attacco terroristico si nascondesse una questione di appalti, chi, più semplicemente, si riempiva la bocca di slogan facili contro una minoranza linguistica che proprio “non voleva integrarsi”. Adrian lo trovava irritante, per questo aveva smesso da anni di accendere la tv o di leggere i giornali: l’umanità che commentava se stessa era sgradevole, prevedibile, ripetitiva e persino coloro che possedevano una reale preparazione su questo o quell’argomento di fronte a eventi drammatici cedevano alla retorica più trita. Quel senso di compassione facile mescolata all’altrettanto facile puntare il dito per il semplice gusto di gridare più degli altri gli dava sui nervi: gli lasciava un senso di appiccicaticcio, come d’umidità… e così tutt’oggi, della storia del Nòdoask ricordava solamente quella fastidiosa impressione.

Ma poter ricordare solo questo era un privilegio, lo sapeva: il privilegio di non vivere “nel paese dove muore un sindaco all’anno” (Un po’ meno di uno all’anno, in vero – aveva detto Noam Dolbruk con sfacciato candore). Lui invece ci era nato, e suo padre era morto nell’attentato del traforo. Davvero questo evento non interferiva col suo lavoro? Noam non si era espresso in merito, anzi, non si era espresso proprio: non aveva commentato, né confermato, né smentito. E Adrian non voleva “farsi gli affari degli altri”, ma conosceva gli esseri umani abbastanza bene da sapere che ci sono cose di cui non si è in grado di parlare.

Così aveva dovuto informarsi.

La “questione Dàrbrand” era una di quelle situazioni geopolitiche difficili da sbrogliare: impossibili da comprendere, secondo Adrian, se non guardate a decenni di distanza, con l’occhio di uno storico e non di un contemporaneo. Regione rimasta a lungo isolata per via del contesto geografico, aveva un’identità culturale e linguistica a se stante e solo nell’ultimo secolo era entrata a far parte della Repubblica del Kònorrand, con una decisione per lo più unilaterale. Ma una parte dei darbrandesi era stata in principio possibilista, nella speranza che l’annessione desse il via ad una rinascita economica.

Le cose erano andate diversamente e un ventennio dopo la regione si era autoproclamata autonoma con un referendum il cui risultato non era mai stato riconosciuto dal governo centrale. Al contrario. La politica della Repubblica era sempre stata reticente alle reiterate richieste di ottenere parziali forme di indipendenza, ed ogni proposta di legge in questa direzione aveva finito con l’essere affossata attraverso una strategia ormai diventata peculiare: rimandare sempre la questione “a tempi migliori”. Ma i tempi migliori non erano arrivati, il terrorismo separatista si.

Il traforo del Nòdoask era stata una questione molto discussa fin dalla presentazione del progetto: la galleria avrebbe consentito il passaggio di autostrada e ferrovia attraverso i monti Mor-Darèuk e quindi un collegamento diretto e veloce non solo tra Mòrask e Noravàl, ma anche tra la capitale e l’alta valle del Norav, nonché i valichi di confine. Una “grande opera” ad alto valore simbolico, che aveva acuito i contrasti già in corso e il dibattito all’interno della comunità darbrandese stessa: indubbiamente il passaggio dell’alta velocità avrebbe portato respiro ad un’area del paese svantaggiata, dall’altra poteva configurarsi come un’ulteriore forma di sfruttamento, oltre ad apparire ai separatisti “duri e puri” un sistema per affossare il senso di identità di un popolo.

Ma tra raccolte firme, manifestazioni, minacce, e l’omicidio di un ingegnere locale che aveva difeso a spada tratta il progetto, il traforo era stato portato a termine.

Il giorno dell’inaugurazione una bomba aveva causato quattro morti, tra questi Fidòr Dolbruk, 62 anni, capostazione, presente al taglio del nastro come rappresentante dell’azienda ferroviaria regionale del Dàrbrand. Niente di segreto, niente di rilevante: i nomi delle vittime erano stati sbattuti senza pudore sui giornali; ovvio che Karìma Mirèl avesse fatto i suoi collegamenti e fiutato una storia interessante. Magari una bella storia strappalacrime, chissà qual era il suo gusto. Non aveva mai letto un articolo di “Scheletri nell’armadio”, non lo attirava proprio: il target gli sembrava quello del lettore medio che sfoglia qualcosa nella sala d’aspetto dello studio medico o sulla poltrona del parrucchiere. E comunque non era quello il suo problema: veniva pagato per proteggere un uomo da un pericolo concreto, non per tenere pulita la sua immagine o al sicuro la sua privacy.

Allora perché aveva scaricato quella ragazza sul ciglio della strada? Perché aveva reagito in modo così protettivo di fronte alla totale assenza di minacce? La risposta la sapeva e non gli piaceva per niente: aveva voluto intervenire per dimostrare di poterlo fare, per dimostrare all’ “uomo che non voleva essere protetto” che invece c’erano situazioni in cui aveva bisogno di protezione.

Sbagliato.

Il modo in cui si stava evolvendo quel rapporto era sbagliato.

Lui non poteva permettersi di mettersi in competizione con un cliente, o peggio, di avere qualcosa da dimostrargli. Non era pagato per dimostrare niente, doveva solo svolgere bene il suo lavoro. E al diavolo le maledettissime relazioni… Ma doveva capire se la questione sollevata dalla Mirèl fosse solo un dettaglio struggente del passato di un personaggio famoso oppure l’interesse di lei (e la reazione di Noam) suggerissero qualcosa di più.

E poi.

E poi c’era quel dettaglio stonato, a cui all’inizio non aveva dato peso e a cui, dopo le parole della giornalista, aveva finito per darne – senza alcuna ragionevole correlazione – un poco di più.

C’era il modo in cui Noam era comparso alle sue spalle in totale silenzio, quella sera, mentre lui era intento a studiare lei. Il modo in cui non si era accorto della sua presenza finché non era stato a pochi passi da loro. Cosa non impossibile se qualcuno avesse voluto farlo di proposito, dato che la sua attenzione era focalizzata sulla donna e su cosa stava accadendo oltre le finestre: ma era evidente che Noam non lo aveva fatto di proposito. Dove aveva imparato a muoversi così, un uomo che faceva tanto rumore ad ogni passo, sempre?

Forse stava diventando paranoico. Non era – e non doveva essere – un “cacciatore di scheletri”, lui.

Doveva solo svolgere bene il suo lavoro.

Svolgere. Bene. Quel. Dannato. Lavoro.

***

 

Noam Dolbruk aveva chiamato il suo movimento Orizzonte perché amava riempirsi gli occhi di spazio, questo era un aneddoto che gli piaceva ripetere, e, come molte altre delle cose che diceva e faceva, non si trattava di qualcosa di costruito a posteriori per fare audience: corrispondeva a una sua necessità reale che quasi sconfinava in una dipendenza.

Ogni giorno che dio metteva in terra, che piovesse o fosse bello, che il vento di mare tagliasse la pelle o il sole picchiasse feroce, che fosse in ottima forma o esausto, Noam saliva 357 gradini per andare a sedersi al belvedere che si affacciava sull’estuario del Norav e restare un po’ lì coi suoi pensieri. Se aveva voglia e tempo faceva la scala di corsa, come forma di allenamento, e, arrivato in cima, si tratteneva a leggere un libro o ad ascoltare musica in cuffia, se invece la giornata che aveva di fronte era fitta di impegni, allora si alzava all’alba e restava lassù solo qualche minuto, il tempo – diceva – di fare scorta di respiri.

Adrian era tenuto ad accompagnarlo, ma tra le bizzarrie a cui era stato costretto ad adattarsi, trovava questa la più piacevole. La scalinata che portava al belvedere era un percorso rasserenante: sole a chiazze filtrato da chiome di alberi disposti a regolare distanza, profumi decisi di piante da fiore che un’efficiente amministrazione comunale teneva in perfetto ordine, e un gradevolissimo silenzio. Agli orari preferiti di Noam non c’era mai molto movimento: qualche turista (ma i più preferivano salire con l’ascensore panoramico), i podisti mattutini e pochi abitanti del quartiere di Noravàl alta che volevano tenersi in forma. Turisti a parte, Noam conosceva tutti, e sarebbe stato anche piuttosto logico se fossero stati gli altri a riconoscere lui, invece era esattamente il contrario. Noam ricordava nomi, volti, persino abitudini di emeriti ignoti con la precisione di uno stalker e teneva un’improbabile rete di relazioni con i “frequentatori abituali delle scala” così come si fa con i clienti di un bar di quartiere. Salutava tutti. Più persone salutava, più si sentiva in pace col mondo. “Faccio scorta di sorrisi” - diceva. Già. Come di respiri. E coi sorrisi ed i respiri ci voleva cambiare il mondo e a volte sembrava non rendersi conto di trovarsi intrappolato in un gioco di potere che era troppo più grande di lui. Quando metteva in mostra con tanta ingenuità questa sua inclinazione all’utopia, agli occhi di Adrian cessava di essere di essere l’irritante politico in carriera che lo sfidava con i suoi colpi di testa e si trasformava nello strano uomo intravisto per la prima volta quella sera davanti alla giornalista: vulnerabile, a disagio e incapace di rispondere a domande dirette sul proprio passato. L’uomo che aveva davvero bisogno di essere protetto. Non sapeva bene da cosa, però.

Il belvedere era anche diventato il luogo dove più spesso parlavano, ogni volta che – e capitava spesso - rimanevano soli. Adrian si rendeva conto di odiare ed amare quelle occasioni: gli era piacevole conversare in modo disteso con lui (che, dopo quella volta in cui, quasi per infastidirlo, gli aveva detto “se trova gradevole darmi del tu, per me non è un problema” aveva archiviato qualsiasi tipo di formalità, anche in situazioni istituzionali, figuriamoci lì), ma era convinto che dare spago a quel rapporto fosse un’arma a doppio taglio: lo rendeva meno lucido e a lungo andare poteva rischiare di fargli abbassare la guardia. Ma con chi temeva di abbassare la guardia? Con dei presunti attentatori o con Noam? Già il porsi quella domanda la diceva lunga… E tuttavia non ci riusciva proprio: quando lui cercava la sua confidenza, a qualsiasi titolo, finiva per ascoltarlo con minor distanza di quel che avrebbe voluto: la distanza che avrebbe dovuto permettergli di valutare l’entità del pericolo, anziché fidarsi delle valutazioni poco oggettive della persona che avrebbe dovuto considerare in pericolo.

Come accadde quella maledetta sera: quella in cui la valanga si staccò dal fianco del monte e cominciò a rotolare.

 

***

 

“Mi faccia capire: perché mai proprio lei dovrebbe andare a Mòrask?”

Noam si era seduto sullo schienale della sua panchina preferita, quella in cui le ombre della sera arrivavano più tardi: era da poco calato il sole ma c’era ancora molta luce, nell’aria odori e colori di un inverno in declino.

“Te l’ho detto, perché a marzo ci saranno le amministrative: Liberi Insieme ha un candidato e Zjam vuole che concordiamo una campagna elettorale.”

“Zjam…” l’attitudine di Noam a chiamare tutti per nome a volte lo costringeva a far mente locale “Intende Kàrkoviy?”

Noam sollevò il pollice in segno di conferma.

“Lei non è un pubblicitario, né è mai stato un consulente politico o un esperto di comunicazione, che mi risulti.”

“Ma sono il solo darbrandese con un seggio in parlamento.”

Lo disse senza nessuna partecipazione nella voce, e Adrian comprese.

“D’accordo,” parafrasò “la sua presenza fa audience.”

Noam ripeté il gesto del pollice alzato.

“Magnifico. L’uomo che pensa che lei sia in pericolo di vita le chiede di andare a presenziare a chissà quante occasioni pubbliche nella terra del terrorismo. Idea brillantissima: non ho parole.”

“Non è la terra del terrorismo.

Si lasciò scivolare lungo lo schienale e saltò a sedere fianco a fianco con lui.

“Non lo è, Adrian.”

La maledettissima arma del suo nome.

“Anche se sì: mio padre è morto nell’attentato al traforo del Nòdoask.”

Se l’intenzione di Noam era quella di spiazzarlo o di metterlo a disagio, ci era riuscito. Non aveva parlato per mesi della questione dal famigerato incontro con la giornalista ed ora la tirava fuori così, come un inciso tra parentesi: perché? Che diavolo passava per la testa di quell’uomo? In che modo funzionavano i suoi pensieri?

Adrian fece appello a tutta la sua professionalità: lo guardò negli occhi e si dispose ad ascoltarlo nel modo più attivo e al tempo stesso meno coinvolto di cui fosse capace.

“Perché me ne parla adesso?”

“Perché tu non mi chiedi di farlo, ma il pensiero è per te una fonte di preoccupazione, ed io non voglio che ti preoccupi di qualcosa per cui non vale la pena preoccuparsi. Specie se ti chiedo – e te lo sto chiedendo – di accompagnarmi in questa trasferta.”

Sorridente e impassibile. Disarmante come sempre. Il “soave Dolbruk”.

“Perché è così convinto di essere al sicuro?”

Noam si stropicciò la punta del naso, poi strizzò gli occhi al sole che era giusto calato all’altezza delle loro facce.

“Cosa pensi dei secessionisti?”

“È una domanda che dovrei farle io, dato che devo accompagnarla a casa loro.” rimandò indietro lui, non per eludere, ma per cogliere l'occasione di capire alcune cose che ancora non gli erano chiare. La linea politica di Liberi insieme non era certo filo-separatista, anche se, rispetto all’attuale partito di governo, era sempre stata molto più aperta a un confronto, ma Orizzonte come movimento dove si collocava? Noam non aveva mai pronunciato dichiarazioni a favore dell’indipendenza del Dàrbrand, anzi, era sempre stato estremamente cauto a questo proposito, dettaglio importante – come aveva giustamente colto Karìma Mirèl – per un uomo senza peli sulla lingua, e per di più darbrandese.

“Vuoi davvero sentirmi ciarlare di politica anche in privato?”

“No. Voglio sentire l'opinione di Noam Dolbruk quando non deve parlare davanti a una folla o ad una telecamera.”

“Pensi che sia un'opinione diversa?”

“Penso – sperando di essermi meritato almeno un po’ della sua fiducia - che sia un'opinione che non deve sottostare ai compromessi.”

Noam rise.

“Ma non ti ho detto che mi fido di tutti?” scherzò “Non c’era proprio nulla che ti dovevi sforzare di guadagnarti!”

Poi inspirò profondamente, si fece serio.

“Sai, in realtà io non amo la parola compromesso. Forse perché tutti ci vediamo una parte di rinuncia, da un lato e dall’altro. Una specie di venirsi incontro a metà strada di cui però alla fine non si è davvero contenti.”

“La politica è compromesso per forza di cose.”

“Forse. Io però preferisco pensare che la politica sia piuttosto una serie di esperimenti. So che non è un bel concetto, ma, purtroppo, al di là dell’ideale che ci sta dietro, ogni tentativo di cambiamento va sperimentato. Tu mi dirai che si sperimenta sulla pelle degli altri, ed è così. È per questo che quando ho ricevuto quella minaccia c’è stato un momento in cui mi sono sentito quasi… sollevato.”

“Sta cercando di dirmi di essere felice di sentirsi in pericolo.”

Non lo chiese, lo constatò.

“Vuoi che ti risponda di sì per potermi dire che sono pazzo?”

“Non le dirò che è pazzo: se ne compiacerebbe. E comunque ha cambiato discorso. È evidente che anche lei non ha voglia di rispondere alla sua stessa domanda.”

O forse no. Forse Noam si perdeva semplicemente nei suoi giri di parole. Voleva dire una cosa, poi gliene veniva in mente un’altra e non si soffermava a fare ordine. Tanto sapeva che sarebbe stato ascoltato lo stesso, e fino alla fine: sapeva (o ci si era pigramente abituato) di avere il potere di tenere in ostaggio i suoi interlocutori.

“Non è vero che non ne ho voglia. O, almeno, non è vero che non ho voglia di rispondere a te. Quando ho accettato di candidarmi per Liberi Insieme ho rilasciato una dichiarazione: ho garantito di non avere nessun coinvolgimento col movimento secessionista (che poi per i più è tristemente sinonimo di terrorista). Ma tu lo hai capito che non è vero. E non perché io mi senta in qualche modo secessionista. Il fatto è che chiunque sia nato e cresciuto a Mòrask non può non essere coinvolto col secessionismo, è inevitabile. Immagina di far parte di una setta, o di un clan, o semplicemente di una banda di amici: hai sempre diviso con loro l'aria che respiri, ti sei nutrito dello stesso cibo, ti sei sempre vestito in un certo modo, hai sempre usato certe espressioni… non ti si può chiedere all'improvviso di smettere di essere ciò che sei sempre stato, e questo non significa che vuoi essere per sempre membro di quel gruppo, ma semplicemente che ti senti diverso, e la trasformazione, anche quando la si desiderasse, è un processo lento. A Mòrask tutti sono almeno un po' secessionisti, perché almeno in qualcosa sono dei diversi e a questa diversità sono legati. Inoltre, non ci è mai stata resa la vita facile: la nostra identità, la nostra cultura, la nostra lingua sono sempre stati visti come qualcosa da inglobare oppure da estirpare. Non volete integrarvi è una frase troppo facile per liquidare il problema. Io non credo che la secessione sia una soluzione: penso che finirebbe solo con l'affossare la regione economicamente e danneggiare, d’altro canto, gli abitanti dell’alta valle del Norav, che con il Dàrbrand non hanno nulla in comune e che si sentirebbero tagliati fuori dal mondo a causa nostra. Condanno il terrorismo perché condanno la violenza, ma ne comprendo benissimo le motivazioni, e comprendo ancora meglio l'ostilità della mia gente verso chi li governa: è un odio che non è unilaterale, è stato troppo spesso attizzato di proposito ed incrementato da chi credeva di averne un tornaconto. È molto più facile ottenere i fondi per un traforo, quando quel traforo diventa un’opera ideologica prima che una banale attività imprenditoriale. Ma il linguaggio dell’odio non va alimentato: va disinnescato. Orizzonte vuole fare questo. Io voglio fare questo.”

“E non pensi che proprio questo ti abbia reso un bersaglio dei terroristi?”

Noam si strinse nelle spalle, sorrise.

“No.”

C’era tanta sicurezza in quel no così come in quel sorriso. Una sicurezza non semplicemente ingenua. Una sicurezza solida, una sicurezza contagiosa.

“Quella minaccia non è arrivata dai terroristi. Adrian, fidati di me.”

  
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