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Autore: blackjessamine    12/05/2022    8 recensioni
È una verità universalmente riconosciuta che i maghi non sappiano nulla di leggi economiche. Tuttavia, Gilderoy Allock una cosa la sa: in un mercato stagnante e chiuso come quello dell'editoria magica non c'è posto per due regine.
Per questo Queenie Royal, la misteriosa autrice capace di fare impazzire ogni strega con i suoi libri d'amore, rappresenta una minaccia pericolosissima per chiunque voglia indossare una corona d'inchiostro.
Una minaccia resa ancor più pericolosa dal suo essere invisibile, dal momento che nessuno, nemmeno gli editori più scaltri, sembrano aver mai posato lo sguardo su questa gallina dalle uova lilla.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Gilderoy Allock, Kingsley Shacklebolt, Rita Skeeter, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pennuti e appuntamenti




 

Erano passati tre giorni da quando Gilderoy si era ritrovato chiuso per quattro ore – quattro ore– nell’ufficio di Septimus in compagnia di Rita Skeeter. Un’esperienza a dir poco spiacevole: Rita Skeeter lo aveva incalzato con una sfilza di domande che sembravano solo un tranello teso apposta per vederlo precipitare in fallo. Domande apparentemente banali, volte a costruire la base di almeno quattro articoli diversi – quale tessuto predilige Gilderoy Allock per i suoi calzini? Gilderoy Allock ordina gli abiti nel suo armadio per colore o per occasione d’uso? Qual è il segreto per ottenere un riccio perfetto, secondo Gilderoy Allock? – ma piene di risvolti insidiosi, resi ancor più subdoli dall’atteggiamento da mastino della donna e dalla celerità con cui la sua Penna Prendiappunti era pronta a travisare ogni sua parola – Gilderoy Allock non sostiene l’economia locale, preferendo comprare lana di pecore bretoni al posto di quelle dei nostri contadini; Gilderoy Allock è costretto a riordinare personalmente i propri effetti personali, perché la sua dimora non si è rivelata abbastanza allettante per un Elfo Domestico; la testa di Gilderoy Allock è così piena di lacca che ci si chiede come possa contenere anche del talento.

Un vero e proprio incubo.

Per di più, la Skeeter sembrava del tutto disinteressata a Queenie Royal: durante quelle assurde interviste – che peraltro non avevano ancora visto la luce su alcuna rivista, e Gilderoy cominciava a vivere la posta del mattino come un'esperienza angosciante, mentre sfogliava i giornali cui era abbonato aspettandosi di scorgere un titolo malevolo su di lui – Gilderoy aveva spesso cercato di interrompere la donna provando a fare qualche domanda sullo stato delle indagini, sulla sua strategia per individuare quella insulsa scrittirce, qualsiasi cosa, ma non aveva ottenuto nulla, solo sorrisi rigidi e rapidi cambi di argomento. Sembrava quasi che alla Skeeter non interessasse davvero rispettare l'accordo preso con Septimus, come se volesse semplicemente approfittare della situazione e raccogliere quanto più materiale possibile su Gilderoy, finché le era possibile.

Insomma, erano passati tre giorni, ma Gilderoy aveva la sensazione che quei tre giorni pesassero come se fossero stati tre mesi.

Tutto ciò che desiderava era un po' di sano riposo: stendersi a letto con il viso ricoperto di un leggero strato di Elisir Pelle Splendente – un ragguardevole ritrovato di magicosmetica in grado di cambiare radicalmente l'incarnato di un mago – dimenticarsi del mondo e abbandonarsi a una delle sue frequenti fantasticherie fatte di personaggi e storie che non avrebbe mai scritto. 

E quel giovedì sera sembrava fatto apposta per quello: dopo l'intervista, Septimus non aveva affidato a Gilderoy alcuna incombenza lavorativa. Lui sapeva che quando avessero cominciato a lavorare seriamente sul manuale i ritmi si sarebbero fatti serrati e il tempo libero di Gilderoy si sarebbe ridotto quasi a zero, dunque era come se tra di loro ci fosse un tacito accordo: il lavoro del Sorriso‐Più-Affascinante-d'Inghilterra non conosceva ferie, ma Gilderoy sapeva di poter rallentare e concedersi un po' di tranquillità prima di far convergere ogni energia nel manuale senza  che Septimus lo rimproverasse troppo.

 

Il cielo fuori dalla finestra stava appena cominciando a tingersi di una leggera sfumatura d'oro, ma Gilderoy aveva deciso di considerare conclusa quella giornata. Aveva bevuto una tazza di tè arricchita da un cucchiaio di polvere proteica – non amava pozioni e intrugli per sostituire i pasti, ma non aveva proprio voglia di mettersi a bollire della verdura e quella settimana si era già concesso fin troppi sgarri alla dieta, dunque non poteva proprio permettersi la pigra tazza di latte e biscotti che desiderava – e si era già concesso un lungo bagno profumato.

Era ancora avvolto in un morbidissimo accappatoio di spugna turchese quando un lieve becchettare proveniente dalla finestra della sua camera da letto lo convinse a posare il bigodino che stava per fissarsi ai capelli. Gatsby – inconfondibile, con quel suo capo tanto piccino e gli occhi intelligentissimi, sostava elegantemente sul davanzale, un minuscolo scampolo di pergamena legato alla zampa.

Gilderoy non poté fare a meno di sorridere vedendo il gheppio dell’Auror Kingsley Shacklebolt e si precipitò ad aprire, respirando a pieni polmoni l’aria fresca e carica di umidità di quella sera di inizio primavera. L’animale entrò in casa con un frullo d’ali, si posò con precisione millimetrica sullo schienale della poltrona e fissò Gilderoy a capo chino, come a voler studiare la sua reazione. 

Ora che Kingsley lo aveva rassicurato sulla mansuetudine del rapace, Gilderoy doveva ammettere che si trattava di un animale davvero bello: il capo piccolo e tondo, il piumaggio che alternava un castano ramato a piume quasi nere, la coda che, come la testa, tendeva a un color cenere, Gatsby aveva un’eleganza tutta sua. Certo, Gilderoy continuava a fissare con sospetto i suoi artigli e il suo becco ricurvo, ma la voglia di conoscere il contenuto di quel messaggio era tale da poter superare la diffidenza. 

 “Hai qualcosa per me anche oggi?”
L’animale, quasi potesse capire le sue parole, sollevò la zampa a cui era legato il suo messaggio, in paziente attesa. 

Non era una lettera, questa volta. Non era nemmeno un biglietto, ma solo un pezzo di pergamena strappato da un foglio più ampio. Un appunto scritto di fretta in fondo alla bozza di un verbale di una qualche pericolosa missione da Auror, si ritrovò a immaginare Gilderoy. Gli piaceva immaginare Kingsley che, al termine di un lungo turno di lavoro, con qualche adempimento ancora da svolgere strappava via pergamena e pensieri al dovere per dedicare qualche parola proprio a lui. 

Gilderoy, con movimenti più goffi di quanto avrebbe voluto, sciolse lo spago che legava il biglietto alla zampa di Gatsby. 

 

È il secondo biglietto che ti mando (il primo è tornato al mittente). I tuoi incantesimi protettivi sono migliorati (ma non così tanto da fermare un Auror). Sono sicuro che potrai migliorare ancora.

K.

 

Gilderoy si ritrovò a fissare quella grafia sottile e a sorridere. Non il sorriso che dalle copertine di tutte le riviste gli era valso un premio, ma un sorriso un po’ ebete e trasognato. Gli sembrava quasi di vederlo, l’auror Shacklebolt: lui con il suo sguardo serio, tutto preso a scrivere quel biglietto senza riuscire però a nascondere un barlume di malizia e di scherzo in quelle parole apparentemente innocenti. Era sciocco, perché di certo in un solo pomeriggio Gilderoy non poteva pensare di aver imparato a conoscere per davvero Kingsley, ma qualcosa gli diceva che, se fosse stato lì di persona, Kingsley avrebbe parlato con il suo tono pacato, il viso serio e gli occhi accesi di divertimento. 

E, in un lampo di ulteriore intuizione, Gilderoy immaginò di aver capito l’intento di quel biglietto: non era certo di aver capito quale fosse lo scopo di Kingsley nell’insistere in quella frequentazione, ma se davvero, come Gilderoy sospettava – e sperava – l’interesse dell’Auror non era solamente professionale, allora l’intento di quel biglietto era evidente. Kingsley si era esposto per primo con quell’invito della domenica pomeriggio, e ora offriva a Gilderoy la possibilità di fare lo stesso, e lo faceva con indubbia eleganza. Perché se Gilderoy avesse taciuto, tutto si sarebbe spento senza imbarazzi e senza che nessuno di loro avesse detto o fatto nulla di sbagliato o compromettente. Se invece Gilderoy avesse colto l’invito implicito nascosto in quel biglietto, sarebbe stato suo compito fare un passo avanti ed esporsi, dando così a Kingsey una risposta implicita a una domanda mai pronunciata.
Oppure Gilderoy si stava sbagliando, e quel biglietto era solo il biglietto di un Auror scrupoloso e attento alla sicurezza di chiunque, anche di un comune cittadino che non sembrava essere bersaglio di alcun mago oscuro. Era probabile. Una possibilità sgradevole e che Gilderoy avrebbe voluto scartare, ma era pur sempre probabile.
Con un gesto della bacchetta, Gilderoy Appellò la sua piuma di pavone preferita – quella che usava per gli autografi nelle serate importanti – ma le sue dita, dopo il bagno, dovevano essere ancora poco sensibili, o forse unte di crema, perché la sua presa sulla bacchetta non era stata particolarmente salda e a finirgli fra le mani era stata una spazzola con il manico di madreperla.

Spazientito, Gilderoy attraversò la stanza fino a raggiungere il piccolo scrittoio e recuperare senza aiuto di magia la sua piuma. Sotto lo sguardo attento di Gatsby che, silenzioso, era planato sullo scrittoio, Gilderoy voltò il biglietto di Kingsley e vergò poche parole con la sua grafia migliore, sperando di imitare lo stesso tono in grado di nascondere l'ironia in mezzo a una posata serietà:

 

Ho una discreta passione per la perfezione, quindi sarei lieto se un Auror talentuoso volesse aiutarmi a raggiungerla.

G.

 

"Saresti così gentile da portare questa risposta al tuo padrone?"

Gilderoy non era mai stato incline a parlare con gli animali, ma Gatsby aveva uno sguardo così acuto che l'uomo era certo che non avrebbe mai allungato la zampa, se non fosse stato trattato con educazione.

Sbattendo le palpebre, l'animale sembrò accordare il proprio assenso.

Gilderoy rimase con la fronte posata contro il fresco vetro della finestra, osservando la figura del gheppio farsi sempre più piccola nel cielo sempre più scuro di quella Londra immersa nella primavera.

E vi rimase appoggiato ancora a lungo dopo che l'animale era scomparso, cercando di mettere ordine fra i pensieri sparsi e confusi che gli si affollavano in mente – pensieri che, chissà perché, avevano tutti lo stesso profilo serio dell'Auror Shaklebolt.

E poi, quando il sole era ormai scomparso per metà oltre i tetti delle abitazioni di fronte, nel cielo comparve un puntolino minuscolo. Un puntolino che si fece sempre più grande, fino ad assumere il contorno di una figura pennuta sospesa in aria in una planata che avrebbe dovuto essere inquietante – i rapaci planano per scovare una preda, no? – ma che riempì Gilderoy di gioia e di aspettativa.

Gatsby stava tornando.

Stava tornando e reggeva nel becco – nemmeno legato ad una zampa! – un altro scampolo di pergamena.

Gilderoy si affrettò ad aprire la finestra e a scostarsi per lasciare libero il passaggio all'animale, senza riuscire a nascondere l'avidità con cui scrutava il biglietto. Non poteva essere passato più di un quarto d'ora da quando Gatsby aveva lasciato casa sua a quando vi aveva fatto ritorno: certo, Gilderoy e Kingsley abitavano nella stessa città, quindi la distanza da coprire era tutto sommato modesta, ma una risposta così celere creava suggestive immagini nella mente di Gilderoy. Immagini che vedevano lui e Kingsley in pose gemelle, lo sguardo perso nello stesso rettangolo di cielo fuori dalle rispettive finestre ad aspettare spasmodicamente una risposta.

Con un fremito nervoso, l'uomo si lasciò cadere nella mano testa il nuovo biglietto.

Lo lesse, e seppe di essere in grossi, grossi guai.

 

Fra un quarto d'ora al massimo mi trovi in Saffron Street, al pub. Il mio tavolo è quello vicino alla vetrina. A stomaco pieno ci si allena meglio.

 

Era un invito a cena, quello? Se sì, era l'invito peggiore che Gilderoy avesse ricevuto – eppure lo faceva sentire al contempo leggerissimo ed elettrico come poche cose al mondo lo avevano mai fatto sentire.

Ovviamente Gilderoy doveva accettare. Gilderoy voleva accettare e avrebbe accettato, perché, al di là di qualsiasi buonsenso, al di là di ciò che avrebbe detto Septimus, al di là dei rischi che poteva correre, Gilderoy di Kingsley si fidava. Se ne fidava istintivamente, forse in maniera del tutto folle, ma del resto non poteva valer davvero la pena di vivere in un mondo in cui non ci si potesse fidare nemmeno della voce pacata e rassicurante di un uomo come Kingsley Shacklebolt.

E, del resto, Gilderoy sentiva anche che non ci sarebbe stata una seconda occasione. Sentiva che quello era l’ultimo appiglio, l’ultima volta che il gioco degli incantesimi di protezione poteva essere messo in campo. Dopo quel biglietto, uno dei due avrebbe dovuto uscire allo scoperto in maniera troppo esplicita per il mondo in cui vivevano – perché sì, Gilderoy poteva anche essere quello con più cose da perdere se il grande pubblico lo avesse scoperto intento a flirtare con un altro uomo, ma qualcosa gli diceva che anche per un Auror le cose non sarebbero state semplicissime. Entrambi si conoscevano ancora troppo, decisamente troppo poco per uscire allo scoperto a quel modo, dunque se volevano rivedersi dovevano aggrapparsi alla scusa offerta da quel bigliettino, Gilderoy lo sapeva.
Certo, c’era sempre la possibilità che Gilderoy si stesse solo raccontando un’altra delle sue storie e che Kingsley avesse delle motivazioni completamente diverse – non aveva fatto poi molto per suggerire un interesse sbagliato – ma qualcosa, nel modo circospetto con cui si era guardato attorno durante la loro passeggiata e quando avevano bevuto un tè allo stesso tavolo gli suggeriva che, in fondo, lui e l’Auror potessero avere almeno qualcosa in comune. 

Accettare quell’invito, tuttavia, presentava problemi che andavano ben oltre la possibilità che Kingsley avesse una bellissima e femminilissima fidanzata da qualche parte: accettare quell’invito significava rendersi più che presentabile in meno di dieci minuti.

Trovare degli abiti adatti a entrare in un pub babbano, non fare la figura dello straccione con suddetti abiti, e, soprattutto, trovare il modo di apparire bellissimo anche senza bigodini. 

Due respiri profondi fu tutto ciò che Gilderoy si concesse.
Non aveva tempo da sprecare nemmeno per calmarsi, ma non aveva raggiunto le prime pagine delle maggiori riviste della nazione lasciandosi prendere dal panico alla prima avversità.

Gilderoy aveva un senso estetico decisamente più sviluppato della media ed era deciso a farne un punto di forza.

“Ma senti un po’”, mormorò all’indirizzo di Gatsby mentre, con un gesto deciso, spalancava le ante del suo armadio per studiare la situazione vestiti, “non è che tu avresti qualche consiglio da darmi? Che ne so, un colore che il tuo padrone detesta particolarmente, una cosa del genere…”

L’animale, com’era prevedibile, rimase in perfetto silenzio, limitandosi a fissarlo con quel suo sguardo che, chissà perché, alla luce morente del tramonto sembrava adombrato di una sottile ironia. 

“Come non detto. Sarai bravo a consegnare la posta, ma chiamarti animale da compagnia è decisamente esagerato… allora, niente mantelli, suppongo, i babbani non li apprezzano”.

Altra occhiata divertita da parte del pennuto.

“E via anche le vesti lunghe, no? Che poi, il tuo Kingsley mi dovrà anche spiegare perché ci tiene tanto a non uscire dal suo quartiere babbano. Lo so, lo so, la privacy è importante, non dirlo a me! Ma tra quel quartiere e il Paiolo Magico ci sono discrete vie di mezzo!”
Gilderoy, intanto, aveva disteso sul letto quattro camicie di diverse tonalità di celeste – nessuna intensa quanto avrebbe voluto, ma insomma, una camicia turchese sarebbe risultata decisamente fuori luogo in un pub babbano. Con un sospiro, rinunciò anche al suo panciotto ricamato con bottoni in madreperla – perfetto con le camicie celesti – e si mise a osservare il reparto pantaloni del suo armadio. Scelse un modello di un delicato beige, consapevole del fatto che, per quanto bellissimo, sarebbe apparso banale e del tutto dimenticabile, con un abbinamento così scontato. Decise quindi di regalarsi un piccolo vezzo magico, concedendosi una cravatta cangiante perfettamente annodata.
“Oh, non guardarmi così”, mormorò spazientito all’indirizzo di Gatsby, “lo so che sono scialbo e insignificante, ma non è colpa mia se il tuo padrone tarpa le ali del mio stile!”

I capelli, però, erano un'altra questione. Se avesse potuto fare di testa sua, avrebbe scelto un cappello da abbinare alla cravatta e avrebbe coperto l'orrore di una chioma senza piega non togliendosi il copricapo per tutta la sera, ma sospettava che  i babbani non avrebbero visto di buon occhio un cappello d'argento. Ottusi.

C'era poco che potesse fare: i Bigodini-Autoriscaldanti erano un valido aiuto, certo, ma la bellezza richiede il suo tempo anche quando si può brandire una bacchetta, e Gilderoy non avrebbe mai azzardato un incantesimo sui suoi preziosi capelli, perché anche  il più piccolo errore avrebbe potuto trasformarsi in una tragedia.

Non c'erano alternative: si limitò a spruzzare poche gocce di Pozione Lisciariccio sui denti del pettine e a passare l'attrezzo nella chioma ancora umida, sperando che questo bastasse, se non a dar loro una forma, quantomeno a esaltarne lucentezza e morbidezza.

"Be', senti, questo è davvero il massimo che posso fare. Ora potresti cortesemente smetterla di fissarmi? Devo togliermi la vestaglia, mi imbarazzi, pennuto!"






 

 


 

Note:

Diciamo che ormai sono imbarazzante con questi ritmi d'aggiornamento, quindi forse ormai ho raggiunto un tale livello di imbarazzo che potrei fare quello che mi pare senza nemmeno scusarmi. In realtà, mi scuso eccome: questo aggiornamento è indecente. In realtà questa è solo la prima metà di quello che avrebbe dovuto essere il capitolo sette, ma riamandare di altre due o tre settimane l'aggiornamento mi faceva venire da piangere.

Insomma, mi dispiace davvero: questa storia meritava di essere scritta in un periodo diverso della mia vita.

   
 
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