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Autore: Glenda    12/09/2022    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Adrian non si toglieva dalla testa la strana sensazione di turbamento che gli aveva trasmesso Noam fin dal mattino: eppure, la settimana era trascorsa senza ombre e fino alla sera prima stavano scherzando davanti a un bicchiere di vino. Non erano più tornati sulla conversazione avuta la notte dell’aggressione ed anzi nei giorni seguenti Noam era stato particolarmente attento e accondiscendente, al punto da fargli credere che tutto sommato si fosse spaventato anche lui e che questo avrebbe reso, da allora in poi, il suo lavoro più facile.

Ma quel giorno, pur ben nascosta dietro una maschera da Noam-personaggio-pubblico particolarmente esuberante, una strisciante inquietudine si affacciava tra un sorriso e l’altro, tra un discorso-fiume e l’altro, nei piccoli momenti di silenzio e nel suo sguardo quando credeva di non essere guardato.

Adrian aveva cercato di formulare le sue ipotesi: il dispiacere di lasciare una seconda volta Mòrask, il timore di mettere il professor Màrna in una posizione di rischio una volta che fosse stata resa nota la sua candidatura, magari un po’ di ansia anticipatoria per il collegamento telefonico con Karkoviy, che Noam stimava come uomo ma che trovava poco lungimirante come politico.

Tutte ragioni ugualmente credibili, tutte ugualmente banali: banali per uno come Noam, banali per intaccare la sua fiduciosa leggerezza, banali, persino, per non essere dette a viso aperto.

Dunque, che cosa si agitava in quella testa? Forse solo l’umore di un sogno, o uno dei pensieri cupi che lo assalivano di tanto in tanto, come durante il loro viaggio in macchina, e che forse sarebbero sgusciati fuori in qualche bizzarra manifestazione emotiva o, al contrario, si sarebbero stemperati da soli, tornando a dormire in profondità.

Niente di nuovo o di diverso.

Eppure non riusciva a mettere a tacere il tarlo che lo rodeva: che Noam quel giorno gli stesse attivamente nascondendo qualcosa. Era appena un’impressione, ma lui era sempre stato bravo a svelare le menzogne. O le omissioni, che era più complesso, ma non così difficile con una persona che aveva imparato a conoscere tanto bene.

Così, quando non lo vide arrivare nella tempistica consueta sotto casa di Màrna, fu rapido ad allarmarsi: passarono solo pochi minuti – lo spazio di un intoppo per strada, un’informazione data a uno sconosciuto o una scarpa slacciata – prima che si affrettasse a telefonargli: “Il numero da lei chiamato non è al momento raggiungibile...”

Fu come se lo avesse già saputo o previsto.

Non pensò che Noam potesse essere arrivato in anticipo e fosse già salito dal professore, non pensò che qualcuno lo avesse riconosciuto e lo avesse fermato per parlargli, non pensò neppure – la peggiore delle ipotesi – che fosse stato di nuovo aggredito.

No, Noam sapeva di voler fare qualcosa che lui non avrebbe approvato, così lo aveva fatto senza dirglielo, ancora una volta, razza di idiota!

Innanzi tutto doveva capire dove si fosse diretto: per fortuna, prima di partire per Mòrask era riuscito almeno a convincerlo a dargli l’accesso al suo telefono per rintracciarne la posizione; questo gli permise di risalire al luogo in cui il cellulare era stato spento: non troppo lontano da dove si erano separati.

Data l’avversità del suo cliente a microfoni o localizzatori, lì terminava l’aiuto che la tecnologia poteva fornirgli, ma il centro di Mòrask non era immenso.

Raggiunse di corsa il punto in cui era cessato il segnale: una via commerciale, trasandata ma animata, poco lontana dall’ultimo hotel in cui avevano alloggiato. Noam aveva proceduto dritto per poi svoltare da qualche parte o era tornato indietro? In che tipo di posto poteva essere andato e perché? Pensò ad alcuni dei luoghi che gli aveva mostrato, pensò alle Tane, pensò che forse aveva deciso di incontrare la sua famiglia e voleva farlo da solo. Ma pensò anche ai tre balordi di qualche notte prima, a quel Marùzs di cui diceva d’essere stato amico: quanta altra gente del genere Noam conosceva lì? Di quanta non doveva fidarsi e invece – imprudente com’era – si fidava?

“Mi scusi,” chiese ad un tizio con un carrello di caldarroste allestito sul marciapiede “per caso ha visto passare un uomo vestito come me?”

Gli occhi della gente erano il migliore strumento di ricerca che possedeva e Noam – per grazia o per sventura – non era il tipo di persona che passava inosservata.

Ripeté la domanda molte volte, ad ogni individuo che gli paresse avere una buona visuale sulla strada o lo sguardo più attento di altri, finché un uomo accoccolato per terra con il berretto buttato tra le gambe richiamò la sua attenzione.

“L’ho visto io, uno vestito come te” biascicò in una lingua varnava stentata “ma aveva i capelli rossi.”

Giocherellò col berretto facendo tintinnare le poche monete che c’erano dentro in un gesto eclatante: Adrian si chinò verso di lui estraendo il portafogli.

“Dimmi in che direzione è andato.”

Il mendicante sfoggiò un sorriso sghembo.

“Se sei generoso ti dico anche dove era diretto.”

Adrian non aveva idea di come potesse saperlo o se stesse solo approfittando della situazione per portare a casa la paga della giornata, ma gli sventolò una banconota sotto il naso.

I piccoli occhi dell’uomo brillarono: “Ha preso quella svolta laggiù, a destra, vedi?” e gli indicò un largo incrocio a meno di un centinaio di metri “La strada va da due parti sole: o al parco ferroviario o alla passerella pedonale per la stazione.”

Adrian lasciò cadere il denaro nel cappello e riprese a correre.

E intanto i pensieri correvano più di lui.

La stazione.

Un padre ferroviere.

L’attentato del Nòdoask.

La paura di attraversare la galleria.

Un fratello di nome Thièl, ideologo del Fronte per l’indipendenza del Dàrbrand.

La sassata, le accuse di tradimento, quella frase: “noi combattiamo, non dibattiamo.”

L’insistenza perché la polizia non venisse chiamata.

Quel dolore muto, il suo dolore segreto.

Tutto raccontava una storia torbida, di cui quello stupido incosciente gli aveva nascosto l’essenziale.

Dove accidenti sei?

In che guaio ti trovi?

Pensieri di corsa, pensieri affannati.

Che diavolo hai fatto di me, Noam?

Non sono stato lucido, ed è colpa tua.

E ancora,

No, è colpa mia.

Se ti accade qualcosa, è colpa mia.

Aveva sbagliato tutto, fin dal principio. Aveva sbagliato ad accettare di lavorare per una persona capace di esercitare su di lui un fascino indiscutibile, aveva sbagliato a farsi intrappolare in una sfida con lui, a mettersi in competizione per dimostrargli di essere un passo avanti, di poterlo, a sua volta, sorprendere. Di poterlo capire. E ci era riuscito: aveva finito per capire troppo, per guardare il suo cielo, per sentire le sue ferite. Per volergli bene.

La strada finì in un incrocio a T, bloccata da un alto muro che la separava dai binari. A destra il percorso saliva lievemente verso una collinetta artificiale ricca di verde, mentre a sinistra una via stretta correva lungo la ferrovia, fino a raggiungere un ponte pedonale di ferro. Da che parte andare? Intorno non c’era nessuno, solo un borbottio di nuvole gonfie.

Passò un treno a grande velocità, fischiando: non si fermò in stazione, sferragliò via.

Nel silenzio innaturale che seguì, gli parve di sentire delle voci: venivano dal parco.

Gli sembrò di sentir gridare.

Non poteva distinguere le parole, ma corse ugualmente in quella direzione.

 

***

 

Avrebbe fatto in tempo a inseguire l’uomo biondo che fuggiva via, avrebbe fatto in tempo a fermarlo: ma tra loro c’era Noam piegato a terra, che cercava di rimettersi in piedi senza riuscirci e perdeva sangue dal naso, con gli abiti sporchi di chi si è ripetutamente rotolato nella polvere, i pantaloni strappati sul ginocchio e la faccia di uno che non può essere lasciato solo.

Adrian lo soccorse, estrasse un fazzoletto, gli tolse via il sangue dal viso.

“Grazie… non è niente…” mormorò lui, intercettando la sua mano con un tiepido sorriso.

“Stia zitto e mi faccia vedere.”

Diede un’occhiata d’insieme alle sue condizioni: oltre al naso sanguinate, aveva una piccola ferita sul labbro inferiore, un ginocchio e i palmi delle mani che portavano i segni di una brutta caduta, ma per il resto non c’era apparentemente nulla di grave.

“Ce la fa ad alzarsi?”

Noam annuì, ma dovette farsi aiutare per tirarsi su.

“Chiamo un taxi. La porto al pronto soccorso.”

Lui scosse la testa e nel farlo emise un flebile lamento, portandosi una mano all’altezza del collo.

“Ohi ohi…” mugolò “che botta…” cercò di muovere le spalle e le braccia, come ad accertarsi che funzionassero ancora “Ma tutto bene, nulla di peggio d’una caduta dalle scale, e molto meglio delle palle di neve col sasso…”

Molto meglio un corno: quello non era un gioco da bambini.

“Piuttosto…” continuò “mi aiuti a trovare i miei occhiali? Ti vedo tutto sfocato… sembri immerso in una grossa nuvola!”

Cosa aveva da sorridere? C’era un abisso dietro quel sorriso. Eppure non la smetteva di tenere in piedi quella farsa, nonostante la ferita sul labbro non lo aiutasse.

Adrian si guardò intorno, adocchiò il riflesso delle lenti volate ai piedi dell’altalena, raccolse gli occhiali e glieli sistemò sul naso con delicatezza.

“Wow. Ora va bene.”

“Non che non va bene. Non va bene un cazzo.”

Noam lo guardò senza cambiare espressione: docile, svuotato.

“Lei avrebbe dovuto essere a casa del professor Màrna. Lei avrebbe dovuto essere al sicuro. Lei avrebbe dovuto…”

L’altro ciondolò malinconicamente il capo, e si nascose il viso nel palmo della mano.

“Va tutto bene, Adrian. Non è successo niente. Va bene così.”

Adrian si sentiva la testa scoppiare.

Il sollievo di averlo trovato sano e salvo, il risentimento per l’ennesima menzogna di Noam, la rabbia verso lo sconosciuto che lo aveva ridotto così, la compassione per quell’angoscia densa che si sarebbe potuto toccare, la vacuità del suo sorriso inutile, quella coperta troppo corta, piena di buchi che erano strappi dell’anima, la profonda frustrazione che provava, il proprio senso di impotenza gli si agitavano dentro tutti insieme e fomentavano un desiderio esasperato di urlare, urlare, urlare...

“Maledizione, Noam! SEI UN CRETINO!!!” esplose.

Lui sbattè le ciglia, rimanendo per un istante come stordito.

Nel silenzio che seguì, ad Adrian sembrò di sentir riecheggiare la sua stessa voce infinite volte.

Poi Noam smise di sorridere e lo guardò con un'espressione indefinibile, ma d’un tratto più calma, quasi rasserenata.

“Puoi ripeterlo?”

Non era una sfida: in quelle parole non c’era nessuna provocazione, al contrario, era una sincera richiesta. Adrian sentì la sua rabbia sgonfiarsi di colpo, afflosciarsi lasciandolo vuoto, e in quel vuoto provò fastidio per la propria stessa reazione, per aver permesso all’emotività di prendere il sopravvento.

“Sei un cretino.” ripeté, senza più nulla dello slancio di poco prima.

Noam mormorò un timido “grazie” e lo abbracciò.

Che gli saltava in testa, adesso?

Dio, odiava non riuscire a capirlo! Odiava non sapere come comportarsi, come rispondergli, odiava non essere capace – come credeva di aver sempre saputo – di entrare nella mente degli altri. Che cosa era successo in sua assenza? Cosa significava quel gesto, e perché stava tremando così? Che cosa – che cosa, dannazione – gli aveva fatto quell’uomo?

“Non sapevo le facesse piacere sentirsi dare del cretino.” cercò di stemperare la tensione, avvertendo di nuovo quel fastidio verso se stesso. Noam gli parlò da sopra la sua spalla, sentiva la sua voce quasi nell’orecchio, sembrava non avere intenzione di sciogliere quell’abbraccio.

“Ma no…” mormorò “mi piace che mi abbia dato del tu.”

Era vero, non se ne era nemmeno accorto.

“E mi piace, sì, che lo abbia fatto per darmi del cretino. Che è la verità ed è giusto incassare, è una cosa che fa bene. È così che funziona un rapporto normale, no? È così che dovrebbero fare gli amici, i parenti, le persone vicine. Esserti, appunto, vicine, anche se pensano che sei un cretino. Amarti lo stesso.” la sua voce era così incerta, così sul punto di tremare anche lei “Ma se ne sono andati tutti, Adrian. Le persone che avrebbero dovuto chiamarmi col mio nome, e amarmi e criticarmi, se ne sono andate tutte. Ci sei soltanto tu.”

Non avrebbe mai più potuto dargli del lei.

“Sei anni a Noravàl, cercando sempre, sempre, di aggiustare le cose rotte, di ricostruire i ponti che mi ero bruciato alle spalle. Sei anni in cui il polline sul belvedere ha continuato a sembrarmi la neve di Mòrask, mentre io volevo distinguerle, e riuscire a amarle entrambe. Essere amato da entrambe. Ma non è servito a niente, non serve mai niente, intorno a me è soltanto vuoto. Sono circondato dalle attenzioni della gente, ma hai ragione tu… al mio fianco non c’è nessuno. Non c’è nessuno che mi possa insultare senza smettere di essere legato a me. Che mi possa dare un pugno senza smettere di volermi bene. Non ho più diritto, io, ad uno schiaffo che mi vuole bene.”

Non avrebbe mai più potuto dargli del lei.

Mai, accidenti a lui.

“Esistono schiaffi che vogliono bene?”

Noam si staccò lentamente da lui e allargò le braccia in un gesto di quieta rassegnazione.

“È quando non li senti più che impari cos’è la solitudine.”

La solitudine.

L’uomo più luminoso del mondo che parlava di solitudine.

Che brutta accoppiata. Che ossimoro stonato.

Noam non era fatto per la solitudine: non ne meritava una briciola.

Lui meritava la solitudine: non Noam.

“Ti sei appena guadagnato la seconda persona singolare.” disse “Quindi, almeno da questo momento in poi, vorrei che non considerassi la solitudine un tuo problema.”

Noam diede in una risata leggera, ma i suoi occhi non ridevano affatto.

“E tu ti sei appena guadagnato un armadio pieno di scheletri. Vuoi guardarci dentro, Adrian? Giuro che ti racconterò ogni cosa. Ogni. Maledetta. Cosa.”

  
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