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Autore: Marti Lestrange    23/09/2022    2 recensioni
[ Dall'atto I: "Era cattiva, Walburga Black, e forse è proprio la sua cattiveria ad averla tenuta viva negli ultimi mesi, quando la malattia se la voleva portare via ma lei si aggrappava al suo letto con tenacia e perseveranza. Mi sono chiesta che cosa accendesse quella cattiveria, che cosa l’alimentasse persino quando non c’era più nulla, intorno a lei e dentro di lei, al quale attingere." ]
— mini-long in cinque capitoli partecipante all’iniziativa “Cinque fette di torta alla melassa” indetta sul gruppo Facebook “L’angolo di Madama Rosmerta” ;
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Walburga Black
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra, Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'in the name of the Black.'
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dance of death.

 

[ atto III — wine ]

 

Entro nella stanza e sono già nuda. Ho fatto Evanescere i vestiti che indossavo senza nemmeno tirare fuori la bacchetta. Mi fermo in mezzo al salotto, una mano sul fianco. Sciolgo i capelli che portavo raccolti e li sento ricadermi sulla schiena, folti e lunghi, a riflettere la luce ambrata del tramonto che entra dalle imposte socchiuse. 

Damien siede in una poltrona ed è completamente vestito. Indossa ancora l’abito della festa, quella stupida festa in campagna organizzata dai Malfoy alla quale mi sono annoiata a morte, a girovagare in mezzo a mamme entusiaste dei loro pargoli (nati o in arrivo), uomini assetati di politica e sesso, elfi servizievoli con i loro vassoi d’argento, e bambini urlanti che caracollavano qui e là. Diana1 Malfoy, la padrona di casa, veleggiava tutt’intorno come una falena, vestita di azzurro, i capelli biondi sciolti sulle spalle, a spargere sorrisi come caramelle. Mentre il marito Abraxas era il più rumoroso e il più ubriaco in mezzo alla combriccola di uomini radunata accanto al gazebo. 

Ma ora non mi importa più di nessuno di loro. Ora c’è solo Damien. Lui mi guarda senza parlare, gli occhi scuri, scurissimi, lampeggianti di impazienza ed eccitazione e neri di ombre a stento contenute. Con me le lascia andare tutte, quelle ombre, e io lascio andare le mie: corrono tutte insieme come cavalli impazziti. 

“Vieni qui,” sussurra. So che è già eccitato. Lo conosco meglio di me stessa ormai. Mi avvicino, quindi, e mi fermo proprio di fronte alle sue ginocchia scostate. Lo fisso, e so che lo fa impazzire. Il suo petto oscilla su e giù, su e giù, al ritmo del suo respiro, e i miei seni scoperti oscillano anch’essi. Sento la pelle d’oca, e i capezzoli scuri sono già duri. Ho desiderato Damien per tutta la festa, ne ho seguito i movimenti e mi sono fatta seguire da lui, fasciata in un vestito blu scuro che sapevo gli avrebbe fatto girare la testa. E ora è tutto mio. 

“Perché sei ancora vestito?” Gli chiedo. Alzo un piede e lo appoggio sul suo ginocchio, scoprendo tutta me stessa di fronte agli occhi del mio amante. Damien mi poggia gli occhi in mezzo alle gambe, e deglutisce. So di averlo in scacco.

“Volevo che fossi tu a spogliarmi,” risponde infine lui, la voce roca. 

Mi arrampico addosso a lui, mi siedo sulla sua vita, e sento la sua erezione premermi contro attraverso la stoffa sottile dei suoi pantaloni eleganti. Mi muovo per stuzzicarlo, e lui mi pianta le sue mani grandi e forti sulla vita. Ci guardiamo, e io ridacchio. “Ops, scusa.” 

Allora Damien mi attira a sé e mi bacia, ed è un bacio vorace, come ogni bacio che ci siamo scambiati fino a quel momento. Non c’è dolcezza, tra noi, non c’è delicatezza, o voglia di indugiare. No, c’è solo la ruvidezza che entrambi aneliamo — e ci sono le dita veloci che strappano e divergono ed esplorano; ci sono le mani che scavano e toccano e sfiorano; ci sono le bocche che accolgono e le bocche che danno; ci sono le lingue, scattanti come serpenti, velenose e pungenti, apice e declino di ogni piacere. 

Siamo amanti, io e Damien, ma ci apparteniamo, ci apparteniamo come due bestie feroci, come due esseri forgiati uguali, come due mostri che non conoscono altro che se stessi. Non c’è amore, non ci sarà mai amore, ma c’è il riconoscimento che qualcosa ci ha creati uguali, lo stesso demone che ora ci divora, e che sempre governerà i nostri moti2

 

✩ 

 

“Mentivo sapendo di mentire.”

Alzo gli occhi dalle pergamene per guardare Walburga Black negli occhi. “Cosa intendi dire?”

“Quello che ho detto, bambina. Riguardo all’amore. Mentivo.”

“Lo amavi, quindi.”

“Lo avevo amato. Quell’agosto.”

“E poi?”

La vegliarda scrolla le spalle, magre e nervose. “E poi non l’ho amato più.”

 

✩ 

 

Rimaniamo distesi per un po’, dopo. Nudi, il sudore si raggruppa sulle nostre pelli in anfratti già umidi, cola sulla schiena e il collo. Una mano di Damien, grande, forte, tenace, è poggiata sul mio seno sinistro, lo trattiene tra le dita come se fosse un tesoro prezioso, qualcosa da custodire. Quel contatto mi tranquillizza, regolarizza il mio respiro ad un ritmo ragionevole, fa scemare ciò che rimane dell’orgasmo. 

 

Mi sposto leggermente, ma la presa di Damien su di me non si allenta. Mi piace quando non vuole lasciarmi andare, mi piace soccombere sotto il suo tocco. Mi piace aprirmi per lui e lasciarlo entrare, mi piace sentirlo dentro di me, grande e forte, e allora il piacere mi invade a ondate, si propaga come un veleno pericoloso. Mi piace quando usa una delle sue cravatte per legarmi i polsi, lo fa sempre, e io fremo di desiderio ancora prima di vederlo, già pregustando ciò che arriverà, ciò che ci sarà in serbo per me dall’altra parte di una porta chiusa. 

 

Perché la nostra storia si è sempre svolta lì, dietro una porta chiusa, in un limbo che non è nè giorno nè notte, ma è fatto delle ore rubate alle nostre rispettive vite, alle nostre esistenze incastrate insieme ad altre esistenze, effimere e fasulle. Si può dire che quell’agosto iniziò tutto, ma tutto finì, anche. Ci cullammo in quella falsa atemporalità, in quel frangente di spazio dove c’era solo il cielo e il mare - dove c’eravamo solo noi. 

 

Facevamo l’amore tutti i giorni, più volte al giorno, e dove capitava. Più i giorni passavano, più la presa di Damien Rosier su di me aumentava. Era diverso dal Damien che avevo lasciato due anni prima, prima del Giappone. Avevo ritrovato un Damien adulto, un uomo fatto e finito, con le sue forze e le sue debolezze e le sue paure, e soprattutto, con le sue esigenze. Sapere che in quei due anni non aveva mai toccato nessun’altra come aveva toccato me mi aveva dato potere, ma dirgli che nessuno, in quei due anni, mi aveva sfiorata come mi sfiorava lui, ne aveva dato a lui. 

 

E io lo lasciai fare. Desideravo arrendermi, desideravo solo averlo tutto per me, amavo entrare in sala da pranzo per la colazione la mattina e guardare Medea Greengrass dritto negli occhi sapendo cos’avevo fatto tutta la notte con il suo fidanzato, adoravo vederla squadrarmi da capo a piedi come se fossi una donnaccia per poi seppellire il suo cipiglio nervoso - era sempre nervosa, Medea - dietro la sua tazza di tè. Non poteva niente. Nessuno poteva, nemmeno il padre di Damien, per cui le relazioni extraconiugali erano cosa normalissima, anzi, ero quasi sicura che incoraggiasse il figlio a tenermi come amante. 

 

Tutto questo mi spinse sempre più nel baratro. Mi innamorai. Fu inevitabile. Combattei strenuamente, ma poi un giorno mi svegliai, e ovviamente Damien non c’era, non si fermava mai fino al mattino nella mia stanza, e io facevo lo stesso nella sua, ce ne andavamo sempre un poco dopo il sesso, ma solo quando entrambi eravamo troppo sfiniti per replicare, ecco, quel giorno mi svegliai e piansi. Così dal nulla. Ero ancora nuda, le mie lenzuola erano sporche dello sperma di Damien, e l’interno delle mie cosce era pieno di lividi accennati ma già visibili dove lui mi aveva baciata e aveva affondato i denti, e io avevo urlato, il piacere che fluiva in me senza barriere. Ero nuda e piangevo. 

 

Quello sarebbe stato l’ultimo giorno prima del matrimonio, e forse era quello che mi annientò. Ciò che avevo cercato di negare persino a me stessa - ero bravissima in quest’arte - ora mi stava facendo soccombere. L’uomo che amavo si sarebbe sposato con un’altra donna, l’uomo che, realizzai solo in quell’istante, amavo di un amore oscuro, un amore che qualcuno avrebbe definito malsano, forse, ma non me ne importava, quell’uomo si sarebbe sposato con una donna che non ero io. E quindi a cos’erano serviti gli sguardi fieri e sprezzanti rivolti a Medea, se poi sarebbe stata lei a dirgli ‘sì’ di fronte ad un altare? Mi sentii una stupida. Non solo perché mi ero arresa ad un sentimento che avevo sempre disprezzato, e rifuggito, e criticato negli altri come se fosse un morbo, una malattia difficile da estirpare ma dalla quale necessitavo di stare lontana, e dalla quale mi volevo proteggere, e impermeabilizzare, ma anche perché mi ero presa la briga di sbeffeggiare la futura signora Rosier quando l’unica a perderci qui ero io, soltanto io, Walburga Black, futura moglie di quel pusillanime di Orion Black, che non faceva altro che guardarmi da lontano e giudicarmi come tutti gli altri e sperare che gli riservassi anche solo un briciolo della mia attenzione. 

 

Piansi tutte le lacrime che non avevo mai pianto. Damien Rosier fu il primo uomo a farmi piangere, e promisi a me stessa che sarebbe stato anche l’ultimo. Non mi riconoscevo più. Non volevo guardarmi allo specchio per paura di ciò che lo specchio mi avrebbe restituito. Non volevo vedere nessuna strana luce al fondo dei miei occhi, non desideravo assistere al mio sfacelo, all’ultima barriera caduta, alla fine di ogni dignità. Perché amare era sempre stato un po’ come perdere, per me, si trattava di un gioco al quale non volevo giocare, e nemmeno assistere come spettatrice silente e passiva. Semplicemente non mi interessava. 

 

Quella mattina, nuda nel mio letto, decisi che avrei ucciso quell’amore. Lo avrei ricacciato via, nelle profondità nascoste dal quale era venuto, e promisi a me stessa, ancora, che non mi sarei più fatta sorprendere, sarei stata attenta, e cauta, avrei chiuso il mio cuore e sarei tornata ad essere l’algida Walburga, vestita di scuro anche in estate, una Black fiera del suo nome e della sua eredità. Il giorno dopo, seduta sulle sedie disposte all’esterno, sotto il sole di fine agosto, sotto il cielo italiano, dentro il mio vestito di seta viola scuro, mentre Medea Greengrass diceva quel “sì” e diventava così Medea Rosier, io mi girai verso Orion Black, e gli sorrisi di un sorriso suadente, e quando lui mi sorrise a sua volta, e alzò una mano per salutarmi, timidamente, e io notai quanto fosse elegante nel suo completo scuro, un accenno di barba sul mento e gli occhi in tralice, in quel momento seppi cosa fare. 

 

Nell’agosto del 1945 mi innamorai.

 

Nel settembre del 1945 lasciai l’Italia prima del previsto per tornare a Londra.

 

Nel dicembre del 1945 tornai ad essere l’amante di Damien Rosier. 

 

Nel dicembre del 1946 sposai Orion Black.

 

(Nell’agosto del 1945 mi innamorai - e seppellii quell’amore per sempre.) 

 

✩ 

 

“A cosa pensi?”

La voce di Damien mi riscuote. Siamo di nuovo in quella stanza. La nostra stanza. Il simbolo di ciò che siamo - e di ciò che non saremo mai. 

“Al passato.”

“Sono pensieri pericolosi.”

Annuisco, la testa che scivola un pochino sul cuscino. “Dovremmo tornare alla festa o si accorgeranno che manchiamo entrambi.”

 

“Penso che tutti sappiano di noi. L’hanno sempre saputo.” La sua mano lascia il mio seno e scende ad accarezzarmi lo stomaco. Giocherella col mio ombelico. Non è rimasto quasi nulla delle rotondità che erano apparse durante il periodo in cui aspettavo Regulus. 

Sbuffo, muovendomi leggermente, e sento la sua mano scivolare via da me. Poi le sue dita mi stringono una coscia. Forte. Non mi fa male, anzi, vorrei che stringesse ancora più forte, ma non lo fa. 

 

“La cosa ti disturba? O ti turba?”

“Nessuna delle due. Da quando è nato Regulus sembra che io abbia fatto il mio dovere di donna e non serva più a nulla.”

“Avevi già dato a Orion un primogenito. Maschio, per giunta. Proprio come voleva.”

“Sembra che Sirius non lo soddisfi. C’è qualcosa in lui che lo spaventa. Io invece lo adoro.”

“Ha i tuoi stessi occhi.” Damien mi scosta un ciuffo di capelli castani dalla fronte, mi guarda in viso espressivamente. Sembra che voglia guardarmi dentro. E forse ci riesce. 

 

“Walburga…” comincia.

Scuoto la testa. Forte. “Non chiedermelo.”

Devo chiedertelo.” 

“Devi, ma puoi decidere di non farlo.”

“Regulus è mio figlio, vero?” 

 

Chiudo gli occhi. Li riapro. Li chiudo di nuovo. Sento una lacrima, una sola, scivolarmi lungo la guancia. Riapro gli occhi e Damien me l’ha appena asciugata con un bacio. È un tocco lieve, lievissimo, così distante dai suoi soliti tocchi. E mi fa male. Invece di curarmi, quel bacio lieve minaccia di annientarmi, ché semplicemente non posso permettere che qualcosa che ho badato così bene a soffocare tanti anni prima, torni a riaffiorare dai suoi vili nascondigli per afferrarmi alle spalle e divorarmi. No. Non ho fatto tutto ciò che ho fatto per innamorarmi ancora una volta di Damien Rosier. 

 

Ma poi mi ricordo chi sono: il mio nome è tutto ciò che ho. È tutto ciò per cui ho imparato a combattere, un nome nero su bianco su un pezzo di carta - su un arazzo sempre in divenire, ma che è lì da ben prima che io nascessi. Il mio nome mi definisce, e l’ho imparato col tempo. Ho imparato anche a volergli bene, ad accudirlo, a cullarlo come un bambino in fasce, e ho promesso a me stessa che lo avrei conservato, e trattato come un tesoro, e venerato. La nobile e antichissima casata dei Black. Toujours pur. Ed è ciò che insegnerò ai miei figli, che lo insegneranno ai loro figli, e così negli anni, e nei secoli, e noi sopravviveremo, perché siamo tenaci come quelle piante che resistono all’inverno, che crescono nel gelo e trovano nutrimento nel ghiaccio. Avrei fatto di tutto per preservare quel nome. Ho fatto di tutto - se solo Damien sapesse cosa. E a chi.

 

“Non lo so.”

È tutto ciò che posso dirgli. È tutto ciò che posso dargli. 

“Non lo so, Damien.”

Ed è vero. 

Non lo so. Non l’ho mai saputo.

 

✩ 

 

Sono sola. Damien si è vestito senza dire niente, neanche una parola. Mi ha accusata di non essere sincera con lui, ma come posso? Non sono sincera neanche con me stessa. Non gliel’ho detto, l’ho lasciato parlare, ancora nuda tra le lenzuola, le ginocchia strette al seno.

 

Mi ha guardata da davanti alla porta chiusa, ha sospirato passandosi una mano sugli occhi. “Non importa,” ha detto quindi. “Non importa se non vuoi dirmelo.”

“Non lo so, Damien. Credimi, non lo so.”

Ha annuito. “D’accordo. D’accordo.”

Il suo viso è tornato duro, una maschera indecifrabile, com’è sempre. Non è più solo Damien, è tornato ad essere Damien Rosier. 

“Ci vediamo più tardi.”

Ho annuito e lui è sparito in corridoio, un fruscio di vestiti e poi più niente. 

 

Sono sola. Una bottiglia di vino elfico giace ancora aperta sul tavolino al quale era seduto Damien quando sono arrivata. Mi alzo, avvolta nel lenzuolo, e cammino a piedi scalzi fin lì. Mi siedo e bevo direttamente dalla bottiglia, ignorando il bicchiere con, al fondo, ancora una rimanenza del vino bevuto da Damien poco prima. Il liquido è caldo nella mia gola, e nel mio stomaco. Sazia e riempie. Colma tutte quelle parti di me lasciate vuote. So che dovrei tornare di là, ma non mi importa. Mi prendo del tempo, tutto il tempo che mi serve. Giocherello con la collana3 che tengo al collo, l’unica cosa che non mi sono tolta prima del sesso. Damien non ci ha fatto caso, ma perché non la tolgo mai. La indosso solo quando ci vediamo. Il piccolo teschio è caldo al mio tocco, caldissimo. È il segno di ciò che abbiamo, Damien e io, e di ciò che sono stata disposta a fare per lui - per noi

 

Mi sfilo la collana e l’appoggio sul tavolino. Inghiotto dell’altro vino, sorridendo tra me e me, sollevata.

 

✩ 

 

“Era figlio di Damien? Regulus, intendo.”

Walburga sospira, si sistema meglio contro i cuscini. Il suo respiro è ormai solo più un rantolo e mi chiedo come faccia ancora a parlare. 

“Non lo so.”

“A me puoi dirlo. Sono tutti morti, ormai. Anche Regulus.”

“Davvero non lo so. Non l’ho mai saputo.”

“Orion sospettava qualcosa?”

“Orion ha sempre sospettato qualcosa, anche perché non avevamo una vita sessuale così eccitante.” 

Annuisco. 

“Penso che la verità sia morta ben prima di me, ma d’altronde, lo hai detto tu stessa, Josephine: sono tutti morti, ormai.”

 

“E quella collana? La collana che hai nominato alla fine…”

“Oh, sì, la collana.”

“Non me ne hai mai parlato…”

“Vuoi che te ne parli?”

Annuisco di nuovo. “Penso di sì. Sembrava importante.”

“Lo è stata, per un periodo. Era pericolosa, anche se all’inizio mi piaceva giocare col fuoco.”

“Che fine ha fatto?”

“L’ho data via.”

“Okay…”

Attendo, do a Walburga il tempo di raccogliere i pensieri.

 

“È stata un regalo di Damien.”

“Oh. Chissà perché, immaginavo.”

“Conteneva qualcosa di maledetto, sai?”

“Parlamene.” Le chiedo ancora. Anzi, ormai non suona neanche più come una domanda.

“D’accordo. Se è questo che vuoi.”

 

✩ ✩ ✩

 

NOTE

1. Diana Malfoy è un personaggio di mia invenzione, moglie di Abraxas
2. Il primo pezzo è tratto dal capitolo V della raccolta “In the name of the Black”, ho solo cambiato il punto di vista e l’ho leggermente riadattato.
3. La collana l’ho citata qui.

 

Mi stavo dimenticando di postare 🙈 Arrivo di frettissima, quindi. Spero che questo terzo atto vi sia piaciuto, ci vediamo domenica 25/09 con l'atto IV (il penultimo) ♡ 

 

A presto,
Marti

 

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