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Autore: Ciuscream    06/10/2022    8 recensioni
Daphne le ha detto che, ormai, ha perso smalto; Pansy ha messo su una smorfia strana – un miscuglio indefinito di sufficienza e terribile consapevolezza – poi è passata oltre.
Se lo è chiesto spesso se, davvero, finire a fare l'amante significhi aver perso quell'altezzosa fierezza di cui si è sempre fatta vanto. Oppure è stata, dopotutto, una strategia come un'altra per ottenere, con poco sforzo, quello che le è sempre stato negato. Che cosa sia quello che le è sfuggito dalle mani, quello che ancora brucia sulla lingua, ancora non lo ha ben compreso. Forse, voleva soltanto una vendetta su Draco per quella scelta scellerata di sposare una Greengrass, la più sbiadita, o, forse, rincorreva un'attestato di vittoria su Narcissa, che le ha sempre posato addosso occhiate poco lusinghiere.
Mentre il sole tiepido di settembre le solletica le gote, però, la risposta le sembra poco rilevante.

[Lucius/Pansy – Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lucius Malfoy, Pansy Parkinson
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pozzi di pece (mai di pace) – Lucius/Pansy'
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[#writober, 6ott. - scheggia]
 

Ogni volta che Lucius torna al Manor e la lascia lì – sola, con un carico di consapevolezze a farle la veglia – Pansy ingoia libertà e schegge, Parigi e polvere, profumi e acredine di quella che è una vita per lei nuova, sporcata però da una gelosia antica e senza nome. Ci sono momenti in cui finge che tutto quello che adesso ha – la casa, un Malfoy nel letto, tempo per scivolare da un posto ad un altro senza chiedersi i perché e i per come – siano semplicemente un regalo, qualcosa per cui non viene chiesto nulla in cambio. Ma quando di fingere non ha forza – quando la sera preme e dalle lenzuola entra qualche spiffero di freddo – la consapevolezza di ciò che è davvero rende le lenzuola scheggiate, pungenti, e il sonno prende strade lontane, a lei sconosciute. Sa che Lucius non ama più Narcissa, che le loro camere ormai distano molto di più di pochi di metri di corridoio. Però non riesce a non intravedere, nell'ombra di quelli che di notte sono incubi e nel dormiveglia sono certezze, un amore adulto, d'esperienza, di mani che ricordano perfettamente i punti in cui indugiare, i tasti da premere per muovere una sinfonia di gemiti e voglie – un amore di cui lei è estranea, di cui lei sarà sempre un orpello, un surplus.

Quando uno di questi momenti arriva ad annebbiarle le sinapsi, si è allenata a mettere in atto un forzato Lumos dentro la testa. Scende dal letto, si avvolge nella seta della vestaglia, lascia che la luce di un'alba che insiste per diventare giorno le riluccichi negli occhi e la svegli, le snebbi i pensieri.

I corridoi della casa sono sempre silenziosi ma non sono immobili: le donne ritratte nei quadri di Alphonse Mucha che Lucius le ha regalato, la osservano. Primavera saluta leggera, Estate la guarda sorridente, Autunno ed Inverno si nascondono nella loro indifferenza. Le sembra di non essere mai sola, così, mentre le osserva e osserva i fiori crescere o morire intorno a loro, autonomi, incuranti di cosa succeda nel mondo reale. È un rituale che ripete spesso, in particolare il sabato mattina, quando le voci e i suoni di Montmartre sono più allegri e insistenti del solito. Beve un caffè, si veste leggera, calca un basco rosso sulla testa e si immerge nelle strade acciottolate che ora sono il suo mondo. Percorre sempre la solita traiettoria: Rue Cortot, con piedi svelti, Rue Mont-Cenis che si getta sul panorama parigino lontano, e poi devia, verso la Basilica, con il vociare che si fa sempre più alto e i Babbani sempre più fitti. Mormora un Incantesimo Distanziante e poi si immerge, senza che nessuno riesca a sfiorarla davvero, tra i colori, i suoni e gli odori di quel mercato che riversa per strada tutto ciò che è stato rinchiuso fino a quel momento in soffitte polverose, in scatole dimenticate, in ricordi da rimuovere. Si è sorpresa soltanto la prima volta di trovare lì, tra mille cianfrusaglie Babbane, qualcosa di magico e conosciuto, irriconoscibile ad occhi non di strega: ha trovato Giratempo rotte, Spioscopi sbeccati, vecchi libri di incantesimi e pozioni scambiati per sciocchezze per bambini, collezionisti e vecchie che ormai hanno perso il senno. Li ha accarezzati leggera, come fossero un'ancora alla sua realtà e poi, silenziosa, li ha trasfigurati in qualcosa di piccolo e trascurabile, per nasconderli nelle tasche del gilet. Così, adesso ha una collezione di ditali, chiodi, aghi che in realtà sono tutt'altro, oggetti magici salvati da mani sporche e sangui peggiori, da occhi inconsapevoli ed ignari. Una piccola ampolla con lo stemma di una delle più grandi famiglie magiche francesi – solo Salazar sa e solo Salazar immagina cosa farebbe un qualsiasi Rosier sapendo che un Babbano rivende qualcosa di impresso col suo stemma – adesso è fra le sue mani; poi diventa un dado, poi un biglietto di teatro, poi qualcosa di ancora più piccolo e sottile. Poi sparisce col resto, nella sua tasca, mentre lei continua a scivolare lungo la strada e l'immensità di Parigi, i suoi colori tenui, le pochi torri che svettano a scheggiare il panorama limpido, si sdraia sotto di lei come se fosse l'unica presente sopra quelle scale chiare e lucenti, come se la Basilica non fosse lì per altro motivo che per coprirle le spalle. Fa per alzare lo sguardo a cercare Lucius, per condividere coi suoi occhi dello stesso colore della pietra, quella meraviglia che le strazia il cuore. La sua assenza, però, la strazia ancora di più – un coro di schegge si pianta da qualche parte, fra le costole, e le mozza il respiro. Il caschetto corvino ondeggia leggero sotto la stoffa rossa e lei si chiede se avrebbe avuto altra sorte, se i suoi capelli fossero stati dello stesso colore del grano, come quelli di lei. Come quelli di lui.
 

*

 

Mentre prende una viuzza secondaria per tornare a casa cercando di schivare la calca, un odore leggero di cipolla, uova e altri sapori speziati, la raggiunge e la accompagna proprio fin sotto il portone, non congedandosi nemmeno sull'uscio. La Maison Rose, lì vicino, è sempre un monumento di bellezza incantata ed eterea stagliata contro il cielo terso, ma è anche madre di odori molto più profani, di voci molto più terrene, di scambi molto più colloquiali. Pansy ci posa sempre gli occhi addosso, qualche secondo più del necessario, e poi prosegue, con i pensieri colorati della stessa identica sfumature di quelle sue pareti.

Le case Babbane, tra cui quella di Suzanne Valadon, al centro delle quali Lucius ha incastrato quel suo regalo di mattoni, si spostano per lasciarla passare e lei scivola all'interno senza bisogno di pronunciare alcunché. Lou, la piccola elfa dagli abiti laceri e gli occhi enormi, la accoglie sulla soglia solerte, le piccole braccia protese per raccattare il suo gilet leggero e il cappello che le fa cadere in mano, con un sorrisetto smorzato, tiepido.

Un piccolo scalpiccio, un fermento, abita la grande sala da pranzo, altrimenti muta; la raggiunge veloce, curiosa, impaurita, di cosa provochi tanto scalpore in quelle creaturine di solito quasi invisibili, camaleontiche lungo le pareti affrescate. Poi, senza che se lo aspettasse, senza che lo sapesse, senza che immaginasse di riaverlo così presto, la figura di Lucius si staglia – monumento di bellezza – di fronte a lei. Lo fissa con gli occhi che si sgranano appena e sente muoversi sul viso un'espressione che non riflette ciò che le si dipana dentro, che si agita, che frizza lungo la spina da dorsale, frenando alla gola. Questa lascia uscire soltanto un suono di sorpresa, un'ottava che si arrampica su quella più alta e rende il tono quasi freddo, infastidito.

“Sei già tornato?”

Lucius, che deve averle preceduta di qualche secondo, sfila i guanti con un gesto morbido e marziale al tempo stesso. Indice, medio, anulare di cui pizzica la punta di pelle, che finisce poi sul marmo del tavolo; alza gli occhi su di lei per un attimo fugace, il tempo che serve per decifrare il tono, i connotati, qualche segno che gli permetta di coglierla in fallo. Talmente veloce, però, da evitare che lei faccia lo stesso.

“Ti dispiace?”

La domanda la devasta; non solo perché niente potrebbe, davvero, dispiacerle meno. Ma perché non riesce a comprendere come quelle parole, prive di qualsiasi ironia, quasi inframmezzate da una specie di sottile e recondita paura – identica alla sua –, possano soltanto esistere. Scuote il capo veloce, mentre un passo si affretta dietro al successivo e i pochi metri che li separavano, adesso diventano centimetri, millimetri, bocche che si scontrano, lingue che si cercano, salive che si mescolano.

“Dov'eri?” Un briciolo di respiro riesce ad insinuarsi tra quelle paure che fanno muro e le parole di Lucius, pensate fin dal principio, ne approfittano per uscire, per chiedere.

“Ad aspettarti”

Lucius coglie scampoli di verità nel calore del respiro di Pansy, in quelle sillabe, nel rossore che le ha spruzzato le guance, nelle mani che si sono infilate svelte fra le sue ciocche d'argento, ad aggrapparsi poi alle spalle, a premerselo addosso di impazienza, di mancanza, di pensieri velenosi che adesso sembrano ricordi lontani.

“Spero di non averci messo troppo”

Pansy si rende conto che ogni respiro non ha più il sentore di scheggia. L'aria passa calda e leggera, arriva ai polmoni, finalmente li allaga. Il profumo di Lucius è medicina e tormento, è quello che lascia un buco – enorme, silenzioso – dentro di lei, quando prende la via del Manor, si smaterializza, e lascia nell'aria soltanto particelle di quella brina silvestre.

“Purtroppo sì. Però, puoi provare a farti perdonare”

Lucius la fissa e sorride, alzando appena un angolo delle labbra. Un ghigno molto più tagliato, diabolico, premessa di quel morso che arriva ad aggrapparle la pelle morbida del collo, la gola, la giugulare che adesso è un fiume impazzito di voglie. Lecca piano quel lembo di pelle, il sapore buono di lei e quello molto più alcolico delle gocce di profumo; la bacia. La morde. La accarezza piano con la punta del naso, lascia che le mani scivolino oltre la barriera di seta che li separa.

“Ho intenzione di riuscirci”



 



Note: grazie davvero a chiunque sia passato da qua fino a questo momento! Se qualcuno ha letto qualcosa di mio su Lucius e Pansy sa che sono una coppia tra le mie preferite ma che, nei miei racconti, hanno avuto di solito una dinamica molto più “impari” e molto meno “romantica”. Sarà Parigi, sarà la primavera (ah no?), sarà quel che sarà, ma adesso mi andava di immaginarli così, bisognosi.
“La domanda [la] devasta” è una semi-citazione dalla serie “Strappare lungo i bordi” di Zerocalcare che vi consiglio vivamente, come ogni sua altra opera.
Grazie davvero ancora, siete preziosi!
Un abbraccio


 

   
 
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