Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
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Autore: WillofD_04    08/10/2022    1 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La guerra era appena iniziata e io ero già esausta. Sarebbe stata una lunga nottata. Ammesso che si trattasse di una sola notte. Non ero sicura di riuscire a resistere oltre. Non ero nemmeno sicura che sarei riuscita a resistere un’ora, a dire la verità. Avevamo dovuto combattere ancora prima che iniziasse la battaglia finale. Noi Pirati Heart avevamo passato la giornata nelle prigioni della Capitale dei Fiori. Hawkins e i suoi scagnozzi ci avevano picchiati, imprigionati e utilizzati come esche per catturare Law. Nessuno aveva potuto fare niente in proposito, neanche lo stesso Chirurgo della Morte, perché quella specie di spaventapasseri lo teneva sotto scacco grazie ai suoi poteri: se non si fosse fatto catturare, noi saremmo morti. Dopo esserci spremuti le meningi per trovare un modo per liberarlo, alla fine il moro era tornato da noi, malridotto ma vivo. Come mi immaginavo, non aveva rivelato niente ai nemici, e a noi non aveva voluto dire come avesse fatto a liberarsi. Nessuno aveva insistito e la questione era caduta lì, dopotutto eravamo solo contenti che fosse vivo e – più o meno – vegeto. Mi ero occupata io di soccorrerlo e pulire le sue ferite, ed era stato psicologicamente estenuante avere la consapevolezza che non aveva reagito e si era lasciato colpire a causa nostra.
Come se tutto quello non fosse stato abbastanza, avevamo dovuto fare i conti anche con una tempesta marina e le navi da guerra di Kaido mentre ci spostavamo da Wa a Onigashima. E si erano messi di mezzo il rapimento di Momonosuke, il tradimento di Kanjuro e un piano di Kin’emon fallito, anche se non avevo ben capito di cosa si trattasse. Oltretutto Law si era arrabbiato con i Mugiwara, perché pensavano che fossimo stati noi Pirati Heart ad aver vuotato il sacco sul suddetto piano, accusa che era crollata da sola. Non me l’ero presa con Nami e compagnia per le insinuazioni, al loro posto anche io avrei avuto dei dubbi, il problema era che non potevamo permetterci di scontrarci tra noi e far vacillare l’alleanza.
Eravamo arrivati sani e salvi sull’isola della “battaglia finale”, ma i presupposti non mi erano di conforto.
Era tutto spaventoso, a cominciare dalla forma dell’isola: un enorme teschio con le corna di una creatura sconosciuta – mi auguravo – del passato, che al suo interno ospitava un castello, e una spada gigante conficcati nelle rocce. E i nemici, mostruosi ibridi artificiali tra uomini e animali, non finivano più. Erano ovunque, un esercito di bestie che sbucavano da qualsiasi anfratto di quella dannata fortezza. Più ne sconfiggevamo, più ne saltavano fuori. E, per finire, ci era stato riferito che Kaido e Big Mom, che si trovava a Wa, avevano deciso di stringere un’alleanza pirata per conquistare il mondo, pertanto la mia paura peggiore si era concretizzata: non dovevamo sconfiggere un solo Imperatore, ne dovevamo sconfiggere due. Forse non ero la persona più ottimista del mondo, ma mi sembrava uno scenario catastrofico.
E ora mi ritrovavo ad ansimare mentre tentavo di destreggiarmi tra i corridoi del palazzo dell’uomo più forte del mondo, chiedendomi perché cazzo non avessi accettato di rimanere sul Polar Tang. Non avevo idea di quello che stavo facendo. Non avevo idea di dove stessi andando. Non avevo idea del perché stessi correndo. Sapevo solo che non volevo essere lì. Ero consapevole che sarebbe stata dura, ma non pensavo che lo fosse fino a questo punto. Del resto, si è mai pronti ad una guerra?
Prima di separarci, Law si era raccomandato che ci concentrassimo sui “pesci piccoli” e che non tentassimo di scontrarci con i pezzi grossi della ciurma di Kaido. “Se vi trovate davanti a Kaido, a una delle Tre Calamità o a uno dei Sei Saltatori, scappate. Non tentate di fare gli eroi, andreste contro a morte certa,” ci aveva detto, grave. La sua priorità era salvaguardare i suoi sottoposti. Di certo non avrei avuto difficoltà ad obbedire al suo ordine, anche se speravo di non trovarmi mai di fronte a un Imperatore o a uno dei suoi sottoposti più blasonati. Mai. Poi ci aveva dato precise istruzioni su quello che dovevamo fare e su come organizzarci. Il chirurgo sarebbe andato da Kaido, mentre noi ci saremmo divisi in piccoli gruppi – per non dare troppo nell’occhio – e avremmo dato manforte a chi ne avesse avuto bisogno. In ogni gruppo dovevano esserci un paio di medici, così da poter sempre offrire assistenza ai propri compagni e agli alleati. Io mi ero ritrovata con Penguin, la coppietta felice e... Kenji. Un’altra mezza catastrofe, per quanto mi riguardava. Speravo di potermi limitare ad aiutare e curare i feriti, ma erano passati dieci minuti da quando eravamo usciti allo scoperto e avevo già fatto fuori tre nemici: uno con la testa di un topo sulla spalla e due che continuavano a piangere dal ridere. Una delle poche cose a nostro favore era che molti dei Pirati delle Cento Bestie erano ubriachi. I loro tempi di reazione erano più lenti, i loro attacchi scomposti e alcuni nemmeno si rendevano conto di ciò che stava succedendo. Forse neanche io me ne stavo rendendo conto. Più che altro cercavo di non pensarci. Se mi fossi soffermata a riflettere sarebbe stato devastante. Dovevo solo continuare a correre e cercare di evitare gli attacchi dei nemici.
 
«Dobbiamo fare fuori i nemici tentando di risparmiare le nostre energie,» rifletté Omen ansimando mentre imboccavamo l’ennesimo corridoio.
«Continuano a spuntare come funghi, di questo passo non ce la faremo a resistere,» gli diede manforte Kenji.
Avrei voluto chiedere al novello sposo come si facesse ad uccidere i nemici in modalità risparmio energetico, ma non dissi niente. Se dovevamo conservare le nostre energie era meglio risparmiare fiato. Non stava andando tutto liscio come l’olio, ma per ora ce la stavamo cavando: era passata mezz’ora dall’inizio della guerra e avevo fatto fuori quattro Pirati delle Cento Bestie – ai tre precedenti si era aggiunta una ragazza-scoiattolo – e rimesso in piedi due samurai. Questi ultimi erano dei guerrieri formidabili. Uno di loro aveva una ferita mortale all’addome, eppure quando lo avevo soccorso mi aveva pregato di ricucirlo alla svelta, così sarebbe potuto tornare a combattere. Avevo tentato di dissuaderlo, ma lui non aveva voluto sentire ragioni, perciò lo avevo accontentato. Dopotutto non era il caso di mettersi a discutere tra proiettili vaganti, affondi di spada ed esplosioni. Si era accasciato a terra pochi minuti dopo, non prima di sconfiggere due tizi con i poteri degli Smile. Praticamente era la sua volontà a tenerlo in piedi, non gli era rimasto altro che quella. Tutti loro sembravano non patire la fatica, il dolore, la paura. In loro bruciava solo la fiamma del desiderio di vincere la guerra, di vendicare Oden, di liberare il proprio Paese dai mostri che troppo a lungo lo avevano popolato e di vedere l’alba che Toki aveva promesso loro venti anni prima. Alcuni, l’alba non l’avrebbero mai vista. Lo sapevano e lo accettavano, perché erano consapevoli che per vincere, che era l’unica cosa che contava, era necessario sacrificarsi. Era una mentalità che ammiravo e rispettavo, ma che non condividevo, perché per quanto egoista potesse sembrare, la mia priorità non era vincere, era sopravvivere. Quella era una battaglia che non sentivo “mia”, anche se non lo avrei mai ammesso ad anima viva: se mi trovavo lì era solo perché il mio senso del dovere aveva prevalso sul resto. E non sarei morta con il sorriso sulle labbra. Io quella fottuta alba la volevo vedere. La dovevo vedere.
Le mie speranze di portare a termine il mio obiettivo si affievolirono quando un’esplosione, proveniente dal piano di sopra, fece crollare il soffitto. Le macerie stavano cadendo addosso a me. Non c’era tempo per spostarsi. Pensavo che, se proprio fossi dovuta morire, sarebbe stato in un modo un po’ più glorioso. Ma la vita non va mai come vogliamo noi, altrimenti in quel momento sarei stata in riva al mare a bere vino con Sabo e Marco, o in sala operatoria con Law che mi faceva i complimenti per la mia tecnica impeccabile. Chiusi gli occhi, preparandomi all’impatto. E l’impatto ci fu, solo che non fu come me lo aspettavo. Un dolore al fianco mi fece grugnire. Mi sembrava di essere stata sbalzata di qualche metro, ma non sapevo come fosse possibile.
«Stai bene?» Qualcuno mi piazzò una mano sulla guancia. Aprii gli occhi e mi ritrovai davanti due iridi verdi che mi fissavano preoccupate.
«Kenji?» Mi guardai intorno. Ci trovavamo a un paio di metri dal crollo. «Sei stato tu? Mi hai salvata?»
Annuì e fece un piccolo sorriso. Gli diedi una pacca sulla spalla ed entrambi espirammo sollevati. Poi però ci rendemmo conto che eravamo stati separati dal resto del gruppo e che non c’era modo di ricongiungerci con loro, perché un muro di massi e macerie varie bloccava la strada. In me si fece strada il panico. Senza Penguin, che era uno dei Pirati Heart più forti, non avevamo speranza di farcela. Si era occupato lui della maggior parte dei nemici fino a quel momento.
«State bene?» Anche se Maya aveva gridato, la voce ci arrivò flebile.
«Sì!» le urlò Kenji di rimando. «Ma credo che io e Cami dovremo proseguire per conto nostro, il passaggio è ostruito!»
«D’accordo. Se non riusciamo a ricongiungerci prima, ci rivediamo a qualche minuto dall’alba all’ingresso di Onigashima, come ci ha detto il Capitano.» Stavolta fu Penguin a parlare.
«Ci saremo! Ma ora voi siete rimasti senza medici... Ve la caverete?»
«Non preoccuparti, sappiamo come tirarci fuori dai guai! Abbiate cura di voi!» gridò di nuovo Maya.
«Altrettanto!»
Avevo seguito la conversazione, ma non avevo parlato. Non mi ero mossa, forse non avevo nemmeno respirato. Ero rimasta a fissare il vuoto con occhi spalancati. Non ero preparata per quel tipo di imprevisto. Volevo tornare indietro. Come si faceva a tornare indietro?
Una mano si posò sulla mia spalla e mi scosse, ma fu solo quando vidi un uomo-falena venirmi contro a tutta velocità che mi ridestai. Un samurai si parò davanti a me e respinse l’attacco, ferendo il nemico.
«Ehi, dovete fare attenzione!» ci ammonì l’uomo, per poi tornare ad attaccarlo.
«Ha ragione,» lo supportò Kenji, guardandomi con eloquenza.
«Sì, scusa.» Distolsi lo sguardo. Mi vergognavo di essermi fatta sorprendere in quel modo. Ci tenevo a non morire, ma i miei nervi poco saldi non aiutavano.
«Ehi,» mi richiamò, accarezzandomi il braccio. «Ce la faremo,» mi disse, con dolcezza e al contempo decisione, come se mi avesse letto nel pensiero.
Non ne ero molto convinta, ma lui lo era, perciò non dissi niente. Del resto voleva solo farmi sentire meglio.
«Non possiamo fermarci. Dobbiamo continuare a correre e andare avanti,» affermai sguainando l’ascia. Mentre affrettavo il passo, pensai che quello doveva essere il mio inferno personale.
 
Il castello poteva sembrare piccolo, ma era un vero e proprio labirinto di corridoi e stanze. Erano passate un paio di ore dall’inizio della guerra e non ero ancora riuscita ad orientarmi. Per fortuna avevo Kenji al mio fianco. All’inizio pensavo che rimanere sola con lui fosse un disastro, sia per i nostri trascorsi sia perché non eravamo un’accoppiata di fenomeni in combattimento, però mi aveva stupito. Aveva una fermezza, un’efficienza e una prontezza di spirito che io in quel contesto non avevo. Era stato la mia salvezza. Se non ci fosse stato lui sarei stata letteralmente persa. Mi aveva fatto da guida e aiutato a fare fuori una decina di nemici. Funzionavamo bene insieme, eravamo in simbiosi: quando lui combatteva io curavo gli alleati e viceversa. Potevamo permettercelo perché sapevamo che l’altro ci copriva le spalle. In un raro momento di tranquillità mi ero chiesta se quello poteva essere il punto di svolta per il nostro rapporto, magari la guerra ci avrebbe fatto bene e tutto sarebbe tornato come prima.
Mi girai verso Kenji per sorridergli, ma non lo trovai. Fui assalita dal panico, fino a che non notai che era rimasto indietro di qualche metro per riprendere fiato. Aveva le mani sulle ginocchia e stava ansimando pesantemente.
«Stai bene? Sei ferito?» Scansionai il suo corpo con gli occhi per capire se avesse delle lesioni. Se lo avessero colpito e io non me ne fossi accorta non me lo sarei mai perdonato.
«Sto bene.» Alzò la testa e sorrise. «È solo che corri a ritmi troppo sostenuti per me.»
Mi lasciai sfuggire una risata mentre i nervi del mio corpo si distendevano. «Mi dispiace.»
Supponevo che gli allenamenti di Zoro avessero dato i propri frutti. In effetti era da parecchio tempo che correvamo, e non ci eravamo fermati né avevamo rallentato un attimo, eppure io non mi sentivo stanca. Forse era l’adrenalina a rendermi infaticabile, ma mi piaceva pensare che il mio duro lavoro fosse stato ripagato. Questo mi diede un po’ di conforto: il mio corpo era più resistente di quanto pensassi, le mie chance di sopravvivenza aumentavano. Dovevo “solo” dosare bene le energie.
«Non ti devi scusare.» Kenji si rimise dritto e cominciò a camminare verso di me. «È una cosa positiva. Se succedesse qualcosa almeno uno di noi due sarebbe abbastanza veloce per riuscire a scappare e si salverebbe.»
I muscoli del mio corpo tornarono tesi. Come poteva dire una cosa del genere con tanta leggerezza, con un’espressione così serena?
«Kenji, io non ti lascerei mai indietro,» affermai decisa, il tono più duro di quanto volessi. “Non di proposito, almeno,” avrei voluto aggiungere, visto che lo avevo appena fatto, ma non mi sembrava il caso di mettersi a fare i puntigliosi.
«Cami...»
«Attento! Dietro di te!» gli gridai, interrompendolo.
Una ragazza che aveva una mantide religiosa al posto della coscia sinistra stava venendo a gran velocità verso il mio compagno.
«Un uomo.» La sottoposta di Kaido si leccò le labbra, e con lei anche l’insetto verde, poi sorrise in maniera perversa. «Adoro gli uomini, sono deliziosi! Perfetti per uno spuntino notturno.»
Non pensai a niente e mi lanciai in avanti, allungando l’ascia al massimo. La mantide distese le zampe anteriori verso di me e fece quello che mi parve essere un ghigno compiaciuto. Ignorai il mio ribrezzo per gli insetti e scagliai un colpo contro l’animale. L’impatto fu talmente forte che entrambe fummo costrette a indietreggiare in direzioni opposte. Quei dannati artigli erano più duri di quanto mi aspettassi, ma dovevo trovare un modo per renderli inoffensivi, altrimenti saremmo morti sia io sia Kenji. Sapevo che aveva delle remore quando si trattava di colpire una donna, come Sanji.
«Non torcerai un capello al mio amico, stronza,» sibilai, attivando l’Heat Dial.
«Che guastafeste.» La ragazza sogghignò e si scostò una ciocca di capelli verdi dal viso. «Non è il massimo, ma suppongo che anche una donna possa andare bene per il mio spuntino di mezzanotte.»
Alle mie spalle udii delle lame scontrarsi, ma non vi prestai attenzione. Il mio avversario era davanti a me. Ci sfidammo di nuovo, e stavolta la sottoposta di Kaido tirò fuori una sciabola da dietro la schiena a tradimento. Riuscii ad evitarla grazie all’Haki, ma non fui abbastanza veloce per schivare gli artigli della mantide, che mi graffiarono il braccio sinistro. Grugnii con sprezzo mentre la donna e l’animale ridacchiavano. Gettai un’occhiata alla ferita: sembrava superficiale e per fortuna non mi faceva troppo male. Non avrei avuto bisogno di punti, l’unico punto che dovevo mettere era a quello scontro.
Vieni avanti, cara. Ho una seconda sciabola pronta per te dietro la schiena.
Pensava di ingannarmi. Ottimo. Non mi feci pregare e la assecondai. Fece per attaccarmi con la sua arma, ma con una mossa repentina tirai fuori il pugnale dallo stivale e la fermai. Con l’altro braccio fece per recuperare la scimitarra dalla cinta, così io premetti il pulsante blu e la bloccai incatenandole l’arto. Infine mi protessi dalle zampe della mantide utilizzando il manico dell’ascia. Adesso i due erano in mia balìa. Quando trovai l’equilibrio giusto feci un giro su me stessa, trascinando la sottoposta di Kaido con me, poi ritirai la catena e approfittai della sua instabilità per lanciarla in aria con un calcio – Bepo e Hack erano stati fondamentali per la riuscita di questa mossa – e darle il colpo di grazia. Saltai e mi avventai su di lei come un predatore feroce. Le lame della Mr. Smee colpirono entrambi con un solo fendente, aprendo uno squarcio che andava dalla pancia al ginocchio sinistro della donna. Lei urlò, la mantide emise uno stridio fastidioso. Fumo e sangue uscirono dalla ferita, mentre il corpo ricadeva esanime al suolo.
Dopo che ebbi smesso di ansimare ghignai soddisfatta della mia opera e soprattutto del mio ingegno. Ora avevo la certezza di aver avuto l’intuizione giusta facendomi installare l’Heat Dial nell’ascia. Funzionava alla perfezione e accresceva il mio potenziale offensivo.
«Se vuoi fare uno spuntino, la prossima volta apri il frigo, cannibale di merda,» dissi compiaciuta alla mia avversaria, che ormai giaceva a terra sconfitta. Pulii le mie lame sulla sua maglietta e, non contenta, le diedi un calcio sul costato e sputai sulla mantide. Era una cosa che normalmente non avrei fatto, ma l’adrenalina della battaglia era in grado di trasformare tutti nella peggiore versione di se stessi.
Mi voltai appena in tempo per vedere un energumeno, grande il doppio di Kenji, lanciarsi contro di lui e tirargli un pugno sullo stomaco. Emise un verso sofferto e sputò sangue.
«Kenji!» Feci per andare in suo aiuto, ma lui mi fermò con una mano, indicando poi un samurai dietro di lui che respirava a fatica.
Strinsi il manico della Mr. Smee fino a far sbiancare le nocche, riluttante all’idea di lasciarlo combattere da solo con quella montagna umana, ma alla fine cedetti e andai ad aiutare l’uomo ferito. Mi fidavo del mio compagno.
Il nostro alleato mi ringraziò con un po’ di sofferenza e si rimise in piedi. Gli sorrisi e feci un cenno d’assenso. Se era fortunato, sarebbe riuscito a sopravvivere.
Quando mi rigirai, il rosso era in ginocchio e l’energumeno stava venendo verso di me. Sguainai l’ascia e attivai l’Ambizione.
Le romperò la spina dorsale con un solo pugno.
La situazione non mi sembrava ottimale. A giudicare dalle sue dimensioni avrebbe potuto farlo davvero, e io ero troppo preoccupata per Kenji per poter pensare a un piano.
E quando ti avrò ucciso mostrerò il tuo cadavere a Sasaki-sama, così forse otterrò una promozio…
I suoi pensieri si interruppero nel momento in cui vidi un rivolo rosso colare dalle sue labbra. Il bestione cadde in ginocchio e poi al suolo.
«Mai voltare le spalle a un nemico che è ancora vivo,» disse una voce familiare dietro l’omone.
Emisi una risata sollevata e mi sporsi per trovare un paio di iridi verdi che mi fissavano preoccupate. Si rilassarono non appena vide che stavo bene. Estrasse uno dei suoi tre sai – ne utilizzava due in combattimento e uno lo teneva come riserva – dalla schiena del sottoposto di Kaido e ripulì il sangue dalla lama sul mantello di quest’ultimo. Colpire un avversario alle spalle era una cosa che non avrebbe mai fatto, andava contro ogni suo codice morale. E uccidere qualcuno... non pensavo che avrei mai visto Kenji farlo, e per di più senza esitare. Ma era necessario. Le battaglie riducevano le persone a questo. E in quel momento mi resi conto che io e lui eravamo più simili di quanto pensassi.
«Grazie,» gli sussurrai, sorridendogli dolcemente.
«Tu salvi me, io salvo te.» Mi sorrise anche lui, poi prese delle garze e del disinfettante dal suo zaino. «Ora pensiamo al tuo braccio.»
Non obiettai e gli tesi l’arto. Pulì e mi fasciò la ferita con cura e delicatezza. Una delle cose che adoravo di lui era che aveva un tocco leggero.
«Sto finendo le garze...» constatò dopo aver riposto l’equipaggiamento medico nella borsa.
«Anche io.» Lo guardai con un po’ di preoccupazione negli occhi.
«Questa guerra è un inferno.» Scosse la testa con aria sconsolata.
Gli diedi una pacca sulla spalla. Chi meglio di me poteva capirlo?
 
Era passata un’altra mezz’ora dall’inizio della guerra e, anche se fisicamente sentivo che avrei potuto resistere per qualche altra ora, avrei voluto che la battaglia finisse in quell’istante. In quei minuti avevo visto una quindicina di cadaveri, più di quanti ne avessi mai visti insieme fino a quel momento. Ma la cosa peggiore era che erano accatastati in un angolo e dimenticati, o perfino calpestati da chi tentava di fuggire, come se non fossero mai esistiti, come se prima di morire non fossero state persone, come se il loro sacrificio non avesse alcuna importanza. Durante il viaggio verso Onigashima, Law ci aveva detto che per chi non aveva mai vissuto una cosa del genere sarebbe stato terribile, e aveva ragione. Ma questo era un altro tipo di “terribile”. Comunque fosse andata a finire, sapevo che le conseguenze su di me sarebbero state pesanti. La mia unica salvezza era che non potevo soffermarmi a pensare a quello che vedevo. Il problema, però, era che stavamo finendo i medicinali. Penguin e gli altri sembravano essersi volatilizzati nel nulla, e io e Kenji non avevamo un piano alternativo.
La situazione peggiorò quando udimmo l’ennesima esplosione. Questa era più forte delle altre, ma non vicina a noi, tanto che il suolo tremò appena e dal soffitto cadde qualche innocuo sassolino. Mi portai una mano sul viso per proteggermi dalla polvere che ci circondava e con l’altro braccio cercai di scacciarla. Dovevo avere la visuale libera per rilevare eventuali nemici.
«A giudicare dal rumore, deve essere scoppiata una granata un paio di piani sotto di noi,» constatò il mio compagno, compiendo i miei stessi movimenti.
«Da quando sei un esperto di esplosivi?» Mi voltai verso di lui con aria perplessa.
Ghignò soddisfatto. «Ho i miei segreti.»
«Non sono sicura di volerli sapere.» Ridacchiai, e lui con me. In realtà mentivo. Ero attratta dal suo lato oscuro più di quanto mi piacesse ammettere. Era come se sotto al Kenji sorridente e gentile ci fosse un altro Kenji, un Kenji freddo e risoluto, un Kenji che stavo scoprendo durante la guerra e che apprezzavo. Soprattutto perché ciò che lo rendeva diverso da tutte le altre persone che avevo conosciuto era che lui riusciva sempre a far prevalere la sua parte buona. Tutti abbiamo un lato oscuro, ma il rosso sembrava esserne in totale controllo. Per questo mi sentivo al sicuro al suo fianco, sapevo che non mi avrebbe mai ferito, ma anzi, avrebbe fatto di tutto per proteggermi.
A distrarmi dai miei pensieri ci pensò quella che mi parve essere una raffica di proiettili. Anche questo suono era distante, per cui non mi preoccupai troppo per la mia incolumità, ma non mi sembrava un rumore incoraggiante. Nel dubbio mi abbassai e mi coprii la testa.
«Anche questi colpi sembrano provenire dal secondo piano. Qui siamo al sicuro,» cercò di tranquillizzarmi Kenji. C’era poco da stare tranquilli però, perché poco dopo il castello tornò a tremare, accompagnato da un tonfo sordo. Non attivai l’Haki: cercavo di risparmiare energie il più possibile e di utilizzarla solo in presenza di nemici da abbattere. Qualunque cosa stesse succedendo là sotto non era buona, ma finché era lontana e non mi coinvolgeva, mi andava bene.
Tirai Kenji per un braccio, incoraggiandolo ad andare nella direzione opposta agli spari. Il mio buon senso – e anche l’istinto – mi diceva che era meglio allontanarsi il più possibile da lì. Mi diedi una pacca simbolica sulle spalle quando, qualche secondo dopo, udii degli urli disperati in lontananza. Il rosso, che finora si era lasciato guidare – in una direzione non ben definita – da me, si liberò dalla mia presa e deviò la sua corsa verso la finestra più vicina. Lo seguii, anche se non avevo idea di cosa stesse facendo. Eravamo lontani dal cortile, troppo in alto per vedere bene, ma lo scenario che ci si presentò davanti fu comunque terribile. Due piani più in basso, come aveva detto il mio compagno, c’era un enorme ciccione con un sigaro in bocca e una grossa arma da fuoco in mano che rideva di gusto. Aveva il braccio sinistro meccanico e indossava una salopette a righe. I pochi ma lunghi capelli che aveva erano raccolti in una treccia dietro la nuca. Non faceva paura a prima vista, ma non avrei mai voluto trovarmi faccia a faccia con lui. Immaginai che fosse una delle tre Superstar. Non era Jack, l’unico di cui conoscevo l’aspetto, quindi la scelta era tra King e Queen. Sotto, nella grande aia, oltre ai corpi di tre giganti di una razza sconosciuta che giacevano al suolo immobili, c’era confusione generale. Qualcuno urlava di dolore, qualcun altro tentava di scappare. Pirati, samurai, alleati, avversari... non faceva differenza, erano tutti terrorizzati. Nel caos riconobbi alcuni dei Mugiwara, X Drake e Scratchmen Apoo. Non vidi nessuno dei miei compagni.
«Ho freddo! Aiutatemi!» gridò qualcuno.
«Oh, no! Sono stato morso!» si disperò qualcun altro.
«Aiuto! Il mio corpo si sta trasformando in ghiaccio!»
«Che freddo! Sto diventando un Oni!»
Cercai di aguzzare la vista e notai che poco a poco alcuni dei presenti si stavano trasformando in... mostri di ghiaccio. Era assurdo, com’era possibile?
«Tu hai capito che cosa sta succedendo?» Mi rivolsi a Kenji senza staccare gli occhi da quello spettacolo raccapricciante.
«Credo... credo di sì.» Era attonito. Era la prima volta dall’inizio della battaglia che lo vedevo sconvolto. Non era positivo: se avesse perso la testa saremmo morti entrambi. «È un’epidemia.»
«Un’epidemia!?» Non mi sembrava possibile. Mi trattenni dal ridere istericamente. Se era scoppiata un’epidemia nel bel mezzo di una guerra epocale eravamo alla frutta.
«Queen-sama, cosa abbiamo fatto per meritarcelo anche noi!?» gridò uno dei suoi sottoposti. Avevo ragione, era una Superstar. Era lui il famigerato Queen.
«Che importa, Pleasures!? Tanto l’unica cosa che sapete fare è ridere! Ora almeno potrete rendervi utili!» Ridacchiò diabolicamente.
«È disposto a sacrificare i suoi stessi compagni!?» sibilò Kenji a denti stretti, incredulo. Per lui una cosa del genere non era concepibile, e non lo sarebbe stato neanche per me, se non avessi già visto quello scenario. Non era quello a sconvolgermi, quanto il fatto che mano a mano si stavano trasformando tutti in mostri con la pelle blu, grandi il doppio di ciò che erano normalmente e con artigli e denti affilati. Non c’era modo di fermarlo. Se avevo capito bene, chi veniva a contatto con gli infetti veniva infettato a sua volta e iniziava ad attaccare chiunque gli capitasse davanti. Non riconoscevano più i propri amici. Era straziante.
«Non toccate coloro che sono stati colpiti, o vi trasformerete anche voi in Oni di ghiaccio! Non fatevi sfiorare la pelle, respingeteli con le armi!» Una voce che veniva dal cortile confermò i miei sospetti. Era un’epidemia a tutti gli effetti. Un’epidemia creata artificialmente, che non esisteva nei libri di medicina. E a giudicare dall’eccitazione di Queen, era lui il creatore di quello scempio.
I superstiti cominciarono ad organizzarsi per respingere i mostri senza toccarli. Avvistai Chopper insieme a Robin, Brook e Zoro. Sapevo che la renna aveva capito tutto e si era già attivato per risolvere la situazione. Il come mi sfuggiva, ma avevo fiducia in lui. Io non potevo fare niente, né come medico, né come combattente. Ero solo grata di non trovarmi in mezzo a quella bolgia infernale.
«Chiunque venga infettato, muore nel giro di un’ora!» annunciò Queen con il megafono.
A quel punto non prestai più attenzione a quello che stava succedendo nel cortile, perché Kenji si era già girato ed era pronto per correre verso il piano di sotto.
«Dobbiamo aiutarli!»
«Aspetta!» Lo trattenni per una spalla e feci in modo che mi guardasse negli occhi. «Se andiamo là in mezzo rischiamo di morire.»
«Non ha importanza. Noi siamo medici, è nostro dovere provare a curarli.»
No. No, no, no, no, no, no. Il mio peggiore timore stava diventando realtà: Kenji voleva andare ad aiutare le persone nell’aia. E voleva che io andassi con lui. Avrei dovuto immaginarmelo, erano gli svantaggi di avere un medico puro di cuore come compagno d’armi. Non potevo lasciarglielo fare. Era una pazzia, un suicidio. Dovevo dissuaderlo.
«Il nostro compito è rimanere qui, respingere i nemici e curare gli alleati che hanno bisogno di essere curati. Vuoi disubbidire agli ordini del Capitano?»
«Le persone laggiù hanno bisogno di cure! Dobbiamo andare da loro!» Mi guardò come se fossi io la pazza.
«D’accordo. Noi siamo al quarto piano, loro al piano terra. Credi che i Pirati delle Cento Bestie ci lasceranno scorrazzare liberamente per il castello? Ci vorrà un’eternità per arrivare lì, sempre che riusciamo a sopravvivere!»
«Dobbiamo tentare.» Improvvisamente il Kenji risoluto non mi piaceva più. Aveva perso la testa.
Sospirai, senza lasciargli la spalla. Se lo avessi fatto sarebbe partito alla riscossa e non avrei più potuto fermarlo.
«Guarda.» Indicai un punto al centro della piazza. «Quello è Chopper. È un ottimo medico, ci penserà lui a curarli. Troverà una soluzione.»
Non sembrava del tutto convinto e io avevo finito le carte da giocare. Mi diede indirettamente una mano Apoo, che nella confusione si era diretto al portone d’ingresso del castello, senza però riuscire ad aprirlo.
«Ehi, fratello Apoo!» lo richiamò Queen, lanciandogli una fialetta di qualcosa. «Quella è l’unica dose di anticorpo esistente. Se te la rubano, ti ucciderò con le mie mani.»
«Hai visto? Esiste una cura!» urlai nelle orecchie del rosso, sperando che questo lo riportasse sulla retta via.
«Sì, ma è in mano al nemico e dobbiamo...»
«Kenji.» Gli posai delicatamente le mani sulle guance e incastonai le mie iridi alle sue. «Non possiamo fare niente per loro. I portoni sono chiusi, nessuno può uscire e nessuno può entrare. Devi fidarti di me. Chopper e i suoi compagni prenderanno quella dannata fialetta e cureranno tutti.»
Dopo interminabili secondi di angoscia – per me – in cui la voce allegra di Queen annunciò l’inizio del suo gioco perverso stile “Hunger Games”, lo sguardo di Kenji ritornò limpido. Fece un flebile sorriso e annuì. «Mi fido di te.»
Tirai il sospiro di sollievo più lungo che avessi mai fatto.
 
«Che facciamo?» mi chiese Kenji, asciugandosi il sudore sulla fronte con la manica della divisa.
«Non lo so,» risposi io, ansimando.
Erano passati altri venti minuti. Avevo sconfitto un nemico – uno di quelli che rideva incessantemente – e ne avevo feriti due. Cominciavo a essere esausta. Il mio compagno nel frattempo si era occupato di curare tre samurai, e aveva finito le garze. Ora voleva sapere se fosse il caso di rimettersi a correre in cerca di feriti, ma non ne avevo idea. Se ci fossimo messi a vagare per i corridoi avremmo potuto essere vittime di brutte sorprese. Continuavano ad esserci esplosioni, e spari, e scontri di lame e urla di dolore e versi animaleschi, e ogni tanto le pareti tremavano. Non che ci fosse modo di ripararsi, era una guerra senza esclusione di colpi, come ci si aspettava che fosse. Ma non era una guerra normale. Perché in giro c’era gente in grado di trasformarsi in dinosauri preistorici, di rubarti l’anima, di creare virus letali, di tagliare il fuoco e non volevo neanche immaginare che altro. Ed era frenetica. Non c’era il tempo di metabolizzare le cose. Non c’era il tempo di riprendere fiato. Non c’era il tempo di pensare.
Ci fu l’ennesima esplosione, e stavolta era così vicina che vidi delle persone venire sbalzate a qualche metro da me. Seguì una risata strana e malefica e poi da dietro l’angolo sbucò un sottoposto di Kaido. Spuntarono prima le zampe, per la precisione, e solo dopo apparve il corpo. Sussultai e indietreggiai con le iridi piene di ribrezzo. Era un giovane uomo grande il triplo di una persona comune, dalla testa al torso era normale, ma appena sotto l’ombelico la sua pelle si colorava di bordeaux e si diramava in sei zampe lunghe e pelose e in un secondo, grosso corpo da insetto. Le braccia invece erano due strane tenaglie curve dello stesso colore. Aveva un caschetto di capelli bianchi, dal quale spuntavano un paio di antenne sottili.
Scossi la testa e continuai a indietreggiare. Potevo gestire una mantide religiosa, ma un ibrido con un coleottero o cervo volante o quello che era, no. Mi ricordava un po’ il Rubeus Candidum, e quello era un trauma che non avevo ancora superato del tutto. Perciò no, non avevo nessuna intenzione di combattere con quel tizio.
«Io sono Clubs, sono una Star e ora vi farò fuori!» annunciò l’uomo ai presenti nel corridoio. Dietro di lui, i suoi compagni lo incitarono.
Io e Kenji ci scambiammo un’occhiata preoccupata. C’erano cinque feriti da curare, lui aveva finito le garze e l’avversario era fuori dalla portata di entrambi. Per non parlare della mia fobia degli insetti. La situazione non era delle migliori. Clubs iniziò a venire verso di noi e notai che portava una piccola borsa a tracolla dalla quale aveva tirato fuori una granata. Se non fossi stata io il bersaglio, avrei riso. Quale persona sana di mente tiene delle granate in una borsa a tracolla? Io non potevo biasimarlo, però, perché quale persona sana di mente decide di prendere parte a una guerra nella quale i nemici tengono delle granate in una borsa a tracolla?
Si portò la linguetta della bomba tra i denti, e a quel punto pensai solo a scappare. Avevo una via di fuga già pronta, dovevo solo attivare le gambe e portare Kenji con me. Ma una folata di vento alle mie spalle mi impedì di muovermi. Fu un attimo, neanche me ne accorsi, né li vidi all’opera. Rimasi ad osservare mentre il tizio-cervo volante si contorceva come se avesse le convulsioni, le sclere totalmente bianche e l’espressione sofferente. Il suo corpo iniziò a fumare prima di cadere a terra inerte. E poi si rivelarono. I Visoni. Mi lasciai scappare una risata. Avevano fulminato Clubs. Finora non ne avevo visti molti in giro, forse perché erano impegnati a combattere con i pezzi grossi. Sembravano abbastanza stanchi e malridotti, ma avevano comunque la forza di combattere. Se questo ci era di aiuto, chi ero io per fermarli?
Li osservai mentre sfrecciavano per il corridoio e facevano fuori altri nemici con fervore e poi aiutai il mio compagno ad occuparmi dei feriti.
Li curammo tutti, ma due di loro non ce la fecero. Uno morì con gli occhi aperti, una visione terribile e inquietante. Kenji gli abbassò le palpebre con una mano, senza battere ciglio, il che mi sorprese.
«Come fai a non essere...» Mi fermai. Conoscendo il mio interlocutore, quello che avevo usato non era il verbo giusto, dovevo correggermi. «A non sembrare turbato da quello che sta succedendo?»
«Vedere questi corpi privi di vita, questi scontri, questa violenza... mi spezza il cuore.» Scrollò le spalle e distolse lo sguardo. «Ma non posso permettermi di lasciarmi distrarre da questo.»
«Devi rimanere concentrato perché vuoi sopravvivere.» Annuii sapientemente. Non era quello che volevamo tutti, in fondo?
Scosse la testa, le sue iridi limpide incontrarono le mie. «Perché al mio fianco ho una persona da proteggere.»
Mi morsi un labbro, cercando di resistere alle lacrime che premevano per uscire. L’effetto che quelle parole avevano avuto su di me era... inaspettato. Mi lasciarono attonita. Forse era la guerra a rendermi emotiva, però mi avevano toccato nel profondo. Erano semplici, eppure non erano scontate. Anche io desideravo proteggere Kenji, non volevo che gli accadesse niente di brutto, ma l’unico motivo per cui non giacevo in un angolo a singhiozzare disperatamente era che volevo sopravvivere, a tutti i costi. Avrei fatto tutto il possibile perché entrambi ne uscissimo vivi e non lo avrei lasciato indietro o abbandonato a se stesso, ma non era Kenji il mio pensiero primario. Le mie azioni erano per lo più in funzione di me stessa e della mia sopravvivenza. Ero egoista? Forse. Ero da biasimare? No, perché ci sono situazioni in cui ognuno deve pensare per sé. Una sola cosa era certa: non avrei potuto avere compagno migliore al mio fianco.
 
«Cazzo, ho finito le garze.» Sbattei un pugno sul pavimento e imprecai più volte mentre il Visone che avevo aiutato si rimetteva in piedi.
L’uomo-ghepardo mi ringraziò chinando il collo e tornò a combattere.
Kenji mi mise una mano sulla spalla per confortarmi. «Troveremo un modo.»
«L’unica soluzione è tornare sul sottomarino e fare scorta di medicinali.»
«D’accordo, andiamo. Cerchiamo di fare in fretta, però.»
Annuii e ci rimettemmo a correre, questa volta tuttavia con molta più cautela. Decidemmo di passare dal retro. Il Polar Tang avrebbe dovuto essere ormeggiato all’ingresso di Onigashima, ma la strada più lunga era anche quella più sicura. E poi avevo bisogno di una pausa dalla battaglia, dai rumori, dagli scontri, da tutto. Avevo bisogno di respirare aria fresca. Mentre scendevamo le scale che ci avrebbero portato al terzo piano, ci fu un terremoto. Persi l’equilibrio e, se non fosse stato per il corpo di Kenji che mi faceva da scudo, sarei rotolata giù per gli scalini, invece mi limitai a sbattere il sedere per terra. Il rosso dovette appoggiarsi al muro con entrambe le mani per non cadere.
«Stai bene?» mi chiese dopo che tutto ebbe smesso di tremare.
Lo liquidai con un gesto della mano, mi rialzai e ricominciai a scendere le scale. Quel terremoto era l’ennesima conferma che dovevo andarmene da lì al più presto. E per quanto meschina fosse, in me si stava facendo strada l’idea di rimanere sul sottomarino. In fondo, io la mia parte l’avevo fatta. Ora ero arrivata al limite. Non tanto fisicamente, quanto mentalmente. Dover stare costantemente all’erta era estenuante. E a ogni persona morta che vedevo mi si formava un nodo alla gola, ogni persona che non avevo potuto salvare o che avevo dovuto uccidere era come una coltellata. E ancora la guerra era ben lontana dal terminare. Non potevo più farlo.
«Kenji,» lo richiamai dopo che avemmo raggiunto il terzo piano. Aspettai che si fermasse e mi guardasse. «Io rimarrò sul Polar Tang. Non posso tornare qui. Non posso.»
Mi fissò per qualche secondo con un’espressione che non riuscii a decifrare, poi sollevò un angolo della bocca e annuì. «Almeno so che sarai al sicuro.»
Mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo, significava molto per me che non mi considerasse una codarda e che rispettasse la mia scelta. Probabilmente era l’unico tra i miei compagni che l’avrebbe fatto. Avrei voluto dargli un abbraccio, ma avevo una certa fretta.
Proprio mentre ricominciavamo a correre, ci fu un altro terremoto, molto più forte e lungo del precedente. Tutti gli scontri cessarono. Le luci tremolarono, pezzi di intonaco caddero dal soffitto e profonde crepe si formarono sul pavimento e sulle pareti. Il rumore che produceva la scossa era terrificante, qualcosa che non avevo mai udito prima e che non avrei mai potuto immaginare di udire. I vetri delle finestre – quelli che avevano resistito finora – andarono in pezzi. Kenji si aggrappò a me e mi ritrovai stretta a lui, come se fossi la sua ancora di salvezza. E, anche se il mondo ci stava – letteralmente – crollando addosso, tra le sue braccia mi sentivo al sicuro. Questo complicava ancora di più il nostro rapporto, ma al momento mi premeva solo tornare sul Polar Tang.
Rimanemmo così per un lasso di tempo indefinito, le teste sepolte nella spalla l’uno dell’altro per evitare che la polvere ci finisse negli occhi e nei polmoni. Ci tenevamo in piedi a vicenda.
«S-scusa,» balbettò il rosso quando i tremori finirono, staccandosi in fretta da me. «È che mi sono spaventato,» ammise, le guance rosse per l’imbarazzo.
Feci una piccola risata. In realtà ne ero quasi sollevata, stava a significare che anche lui era umano e che non ero solo io ad avere debolezze. Non che io non avessi avuto paura.
«Non ti preoccupare, è tutto a posto,» lo rassicurai, un sorriso sincero sulle labbra.
Mi chiesi cosa avesse potuto causare un terremoto tanto potente e mi convinsi che forse era meglio non saperlo. L’importante era esserne usciti illesi.
«Cos’è stato? L’isola non aveva mai tremato in questo modo, prima d’ora!» si sbalordì uno dei Pirati delle Cento Bestie. Se nemmeno lui aveva idea di cosa fosse accaduto, non era positivo.
Diedi una piccola spinta a Kenji per incitarlo a riprendere a correre. La regola era sempre la stessa: se noi non eravamo direttamente coinvolti, non c’era bisogno di capire. Ma il mio compagno non era dello stesso avviso e si avvicinò a una finestra per controllare la situazione.
«Cami...» mi richiamò con voce tremante. A quel punto mi affacciai anche io e... per poco non svenni.
«Porca puttana,» dissi, quasi senza fiato. Tutti i miei muscoli si irrigidirono. Deglutii più volte, sebbene la salivazione si fosse ridotta a zero. «Porca puttana!»
Anche se non eravamo molto in alto, da lì si riusciva a vedere tutta l’isola. Era ancora intera, pezzo più pezzo meno, ma non era più... un’isola. Era un enorme ammasso di rocce fluttuanti per aria, il mare sotto di noi solo un lontano ricordo. Onigashima stava volando. C’era soltanto il cielo attorno a noi. Un’infinita distesa scura e inquietante che ci suggeriva che ogni via di fuga da lì era perduta.
«No. No, questo... questo non è possibile.» La mia mente si rifiutava di credere ai miei occhi. Forse stavo avendo un’allucinazione. Però, se era così, stavamo avendo tutti la stessa allucinazione, perché anche i sottoposti di Kaido erano increduli. Gli scontri alle mie spalle erano cessati di nuovo, nell’aria c’era un mormorio titubante, ed era l’unico motivo per cui potevo permettermi di rimanere alla finestra a fissare il vuoto.
Chiusi gli occhi, sperando che fosse solo un brutto sogno. Quando li riaprii, niente era cambiato. Non era un sogno. Era la realtà. La tragica realtà.
Il panico mi investì come un’onda anomala, mi inghiottì nella sua oscurità e mi tolse il respiro. Avevo la vista sfocata, le orecchie fischiavano e sudavo. Mi sembrava che la terra sotto i piedi fosse venuta a mancare, che stessi fluttuando in aria. Di fatto, era così. Era letteralmente così. Non doveva andare in questo modo. La testa iniziò a girare, un milione di pensieri conversero tutti insieme in un punto ben preciso, causandomi dolore sopra il sopracciglio destro. Strinsi le mani in due pugni tremolanti. Il corpo mi sembrava improvvisamente pesantissimo, ogni movimento era fuori dalla mia portata. Cominciai ad ansimare, incapace di fermare il vortice di emozioni che mi stava trascinando verso il baratro.
«Se... se resto qui morirò...» sussurrai, le iridi che schizzavano da una parte all’altra delle sclere. Persi la lucidità, la razionalità e, soprattutto, la speranza. La speranza di salpare da quell’isola sana e salva. Viva. Perché non si poteva salpare. Non c’era – più – un porto e non c’era più il sottomarino ad aspettarci sulla costa. Non avevo più una via d’uscita. Non si poteva più scappare. O si vinceva o si moriva. E in quel momento, le circostanze propendevano verso la seconda opzione. Al piano terra circolava un virus mortale, sul tetto sopra di noi c’era un Imperatore e da qualche parte sull’isola ce n’era un altro. Sparsi per il castello c’erano mostri di potenza di tutti i tipi. Io e Kenji eravamo a corto di medicinali e non c’era modo di recuperarne altri. Non sapevo dove fossero i miei compagni, non sapevo se stessero bene, non sapevo se i piani fossero cambiati e non avevo modo di contattarli.
C’erano un milione di cose che avrei potuto fare. Trovare un modo per reperire altri medicinali. Cercare un rifugio e nascondermi fino a che la guerra non fosse finita. Farmi forza e continuare a combattere. Invece, feci l’unica che in quel momento mi sembrò avere senso, perché in realtà c’era una via d’uscita, una sola via d’uscita, e io volevo andare via da lì. Rimisi a posto l’ascia in segno di resa, mi sporsi dalla finestra, guardai in alto e gridai: «Stella! Devi portarmi via di qui!»
   
 
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