Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Ciuscream    16/10/2022    6 recensioni
Daphne le ha detto che, ormai, ha perso smalto; Pansy ha messo su una smorfia strana – un miscuglio indefinito di sufficienza e terribile consapevolezza – poi è passata oltre.
Se lo è chiesto spesso se, davvero, finire a fare l'amante significhi aver perso quell'altezzosa fierezza di cui si è sempre fatta vanto. Oppure è stata, dopotutto, una strategia come un'altra per ottenere, con poco sforzo, quello che le è sempre stato negato. Che cosa sia quello che le è sfuggito dalle mani, quello che ancora brucia sulla lingua, ancora non lo ha ben compreso. Forse, voleva soltanto una vendetta su Draco per quella scelta scellerata di sposare una Greengrass, la più sbiadita, o, forse, rincorreva un'attestato di vittoria su Narcissa, che le ha sempre posato addosso occhiate poco lusinghiere.
Mentre il sole tiepido di settembre le solletica le gote, però, la risposta le sembra poco rilevante.

[Lucius/Pansy – Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lucius Malfoy, Pansy Parkinson
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Pozzi di pece (mai di pace) – Lucius/Pansy'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

FRUSCI DI SERPI
(parte seconda)

[#writober, 15, 16 ott – “con te”, perso]

 

I ricordi le vorticano in mano come un impasto gassoso e brillante; li vede disfarsi e ricostituirsi, in un tripudio di forme informi, stretti dentro quella piccola bottiglia di assenzio dall'etichetta sbiadita e consunta. Non ha tempo di pensare al veloce susseguirsi degli eventi per cui, dal ritratto di Suzanne Valadon che le sussurra al tramonto, è finita ad avere in mano la copia pallida dei ricordi della sua vita – talmente piena che un capogiro le prende solo ad immaginare di immergercisi dentro. È volata a casa – Smaterializzata in un battito di ciglia – ed è corsa nella grande stanza sotto il salone dove Lucius ha nascosto un po' di oggetti, forse impaurito che, nelle sue sempre più frequenti assenze dal Manor, qualcuno – ora che anche la famiglia non è più un covo di fiducia – potesse prenderle, spostarle o rovinarle.

Un vecchio bacile in pietra troneggia dietro un'anta finemente intarsiata e Pansy lo appoggia sul tavolo con le braccia che tremano di fatica e impazienza. Lo fissa, per un secondo interminabile, con un senso di vertigine ad aggrapparle la pancia: la piccola bottiglia di assenzio – una fatina verde pallida ed immobile a fissarla – è stretta nella destra, ultimo baluardo di ancoraggio a questa realtà. Versa lentamente il contenuto e, con vortici brevi e colori che sfumano, il liquido diventa improvvisamente limpido, distillato di una vita fa; un oblò sul passato di Suzanne le appare di fronte e Pansy, con un respiro che non riempie i polmoni d'aria, tuffa il caschetto dentro la superficie ora piatta ed immobile – trasparente nel suo splendore. Si perde.

I colori intorno a lei si mescolano e si fondono, ridisegnando un paesaggio nuovo mentre la sua casa scompare e, intorno a lei, mura edite ed inedite assieme le rimandano uno scorcio conosciuto ma che non riesce subito ad inquadrare. Le ci vuole un secondo per mettere a fuoco la casa, gemella alla sua, in cui pochi minuti prima soggiornava: i muri scrostati, anneriti dall'umidità, sono adesso privi della carta da parati e si mostrano, a lei, a loro, in tutta la loro sporca tristezza. Non ci sono ritratti né specchi né quadri, solo la desolazione di una casa inabitata da tempo, fatta eccezione per topi e scarafaggi che sul pavimento liso fanno banchetto. Al centro della piccola stanza, una donna alta, dal fisico di chi ha visto molte fatiche, tiene stretta per mano una bambina con un fazzoletto a nasconderle i capelli: Pansy le è di fronte e la riconosce all'istante. Una Suzanne con pochi anni addosso si guarda intorno con aria impaurita, gli occhi chiari screziati da un sentore di estraneità che li incupisce. La vede stringere la mano alla madre e chiedere, con un tono piccolo e pigolante, “Quanto dobbiamo restare?”

La risposta però viene mangiata dal paesaggio che muta ancora e la fa sfilare davanti sequenze di una bambina che cresce e, insieme a crescere, lava, cuce, si tappa le orecchie di fronte a una madre che grida, in mano una bottiglia, sul viso uno sconforto e una perdizione che rendono aspri tratti altrimenti morbidi. Sono diapositive in scala di grigio, secondi rapidissimi che riesce a cogliere quasi per caso. Pansy è sempre vicino a lei, vede quello che lei vede, e della donna ritratta a Montmartre – il viso fiero e bellissimo – non riconosce ancora le tracce, solo una copia più piccola e più pallida. C'è giusto una bellezza acerba, mani piccole e occhi giganteschi, una bambina sottile che si allunga man mano, il seno che si fa spazio sotto i vestiti, i fianchi che si allargano e la rendono sempre più donna.

Il paesaggio si trasforma ancora di colpo e la luce che arriva successiva, un'esplosione di colori e rumori, quasi fa alzare a Pansy una mano a coprire gli occhi e una a coprire le orecchie, in un tentativo vano. Non sfuma tutto in un battito di ciglia, adesso, ma, intorno a lei, inizia a dipanarsi un grande capannone e un brulichio di persone diverse, personaggi dalle fattezze particolari: nani, giganti, animali delle più varie specie – sporchi, dagli occhi vitrei, dal pelo rado – e poi uomini e donne dai vestiti sgargianti, scintillanti di colori dei metalli e delle pietre preziose. Si guarda intorno, smarrita, alla ricerca di Suzanne: non può essere lontana – quelli sono i suoi ricordi. La intravede dopo poco: anche lei è fasciata con una tutina da ginnasta, le gambe nude, una scollatura profonda a lasciar intravedere le costole che si alzano sopra lo sterno e il petto magro. Un uomo, vicino a lei, la trascina per un braccio e negli occhi di lei, più che paura, s'intravede un'infastidita ferocia, qualcosa che trapela di risentimento.

“Muoviti, Marie, tocca a te”

Ed eccola in scena: volteggia, il corpo sinuoso che a Pansy pare quasi privo di articolazioni per quel modo così fluido di muoversi, così simile davvero ad un serpente. Poi vola: lanciata da un trapezista all'altro lì vicino, Suzanne in aria è davvero l'aquila invece che immaginava Pansy. Osserva il pubblico, le bocche schiuse, gli occhi intrappolati su quella figura perfetta che si libra nell'aria come se non conoscesse gravità, in balia di mani che segnano il suo destino.

La scena sfuma ancora ma lo sfondo non cambia poi molto. Dietro le quinte di quello che Pansy ormai è sicura sia un circo, Suzanne – poco lontano da dove sedeva qualche secondo prima – ha il corpo disteso in avanti, copiose lacrime a rigarle il viso e la caviglia nera e gonfia, enormemente più grande della gemella alla gamba opposta. Lo stesso uomo di poco prima, una folta barba a nasconderne le labbra, troneggia sopra di lei e la fissa con espressione dura, la testa che si scuote appena.

“Non posso tenerti in queste condizioni. Se non ti esibisci, sei fuori”

Suzanne fissa la caviglia che potrebbe riparare con uno schiocco di bacchetta o con una pozione, Pansy lo sa, ma invece abbassa il mento, silenziosa, e sceglie il suo destino, probabilmente lontano da lui, lontano da lì. 

 

Ancora. Suzanne non sembra cambiata da pochi istanti prima: lo stesso corpo flessuoso, lo stesso candore della pelle a contrasto con i capelli scurissimi, acconciati in onde morbide attorno al suo viso. È nuda, se non per un drappo che le nasconde le intimità più recondite e ha gli occhi assai diversi da quelli inondati di lacrime del ricordo precedente. Sono molto più fieri, molto più felini – ferini – mentre fissa qualcosa dietro le spalle di Pansy.

Si volta a guardare: dietro una tela, un uomo molto più vecchio di lei, la barba imbiancata di diverse striature, rughe ad incorniciargli gli occhi, la fissa con aria famelica e, nel mentre, dipinge, come se non potesse fare altro, i suoi tratti sulla tela. Un pennello in bocca, un altro stretto in mano, colori che sfumano sulla tavolozza e sulla superficie bianca, colori che si mescolano e, come se fossero mossi da forze magiche, prendono a dipanarsi in modo perfetto. Colore che diventa immagine, nitida nelle sue sfumature, e il volto di Suzanne inizia a diventare verità – inizia a diventare eterno. È diverso dall'originale, è come se quella nel quadro fosse qualcuno di più vissuto e perduto, una donna che quell'uomo vede nella sua testa e non in quella che gli sta seduta di fronte, lo sguardo che sembra sezionarla pezzo a pezzo.
Il ricordo sfuma: la stanza è pressoché la stessa. Si modificano le luci, gli abiti, l'acconciatura dei capelli ma l'uomo dietro la tela non muta. Solo, che ad ogni sequenza, si fa più vicino; finché non arriva a lei, i loro corpi che si fanno uno – così diversi, in quelle età contrastanti; una vita che muove i primi veri passi e una che già ha visto troppo, ma mai nulla di così bello. Pansy gli legge il pensiero negli occhi mentre lui la sfiora leggero – sguardo e mani, bocche e nasi.

La scena si muove ancora: un altro uomo, molto più giovane di quello precedente, adesso sta dietro la tela. La barba curata, grandi baffi, lo sguardo acquoso: Pansy vede una bottiglia vicino a lui a cui ogni tanto s'aggrappa, mentre ancora fissa Suzanne e disegna qualcosa di molto meno sfumato, un ritratto morbido, poco fedele, più dolce dell'espressione che lei ha realmente, con la mascella affilata e le sopracciglia corrucciate. Pensa, Pansy, che forse quello è il modo in cui lui vorrebbe vederla, quello che l'alcol permette di edulcorare. Una donna molto più docile di quella dallo sguardo feroce che le sta di fronte, un'altra donna. Guance morbide, una treccia sfatta a caderle sulla spalla, il seno che sporge timido oltre la scollatura. Dettagli di un corpo che lui conosce – conosce meglio di quello che si conosce di una modella. E poi di nuovo: un bacio, due, e poi delle grida, braccia strattonate, la scena che cambia ambientazione ed è di nuovo nella casa di Suzanne, che adesso ha mura ridipinte, pulite e un vago sentore di ospitalità, nonostante vestiti sparsi qua e là, trucchi e pettini in ogni dove, sgabelli e cavalletti e pitture e tele lasciate a metà – quelli che anche Pansy riconosce come tentativi.

“Cosa ti sei messa in testa, eh? Adesso vuoi dipingere anche tu?”

Suzanne si volta verso di lui: lo sguardo duro, una mano che va quasi a nascondere una tela a mo' di protezione, un passo in avanti. Pansy li guarda di lato, con un sentore di allarme a formicolarle le mani.

“Beh, che male ci sarebbe?”

“Sei una donna, Marie”

“Mi chiamo Suzanne, adesso. Tutti mi chiamano Suzanne, perché non puoi farlo anche tu e basta?”

“Non ti chiami Suzanne. Tu sei Marie-Clementine. Non puoi semplicemente scegliere chi essere e chi no. Prima sei la modella e l'amante di tutti i pittori di Parigi e poi basta, ti stufi, cambi nome e diventi Suzanne la pittrice?”

Suzanne serra la mascella, Pansy la vede che è colpita nel vivo. Gli occhi si assottigliano appena.

“A te cosa importa?”

“Mi importa se ti scopi altre persone, troppe altre persone”

“Tu non scopi tua moglie?”

L'uomo si ferma, la mano sulla maniglia, la mascella contratta e lo sguardo affilato; Pansy trema appena perché – d'improvviso – capisce perché Suzanne le ha detto dove raccogliere quei suoi ricordi nascosti e, soprattutto, perché.

“Non parlare di Aline, Marie. Non sai nemmeno cosa voglia dire la fedeltà”

“Ti sono molto più fedele io di quanto lo sarà mai lei. Ti amo molto più io di quanto non farà mai lei. Ma non posso stare qui ad aspettarti, ad elemosinare...”

“È per questo che lei è mia moglie e tu finirai a passare di mano in mano per tutta la vita, Marie. Non ti nascondere dietro Suzanne, questa sei e questa è la tua natura” Gli occhi la sezionano per un secondo e, nonostante le parole siano ferme, Pansy le sente vibrare di rabbia e fastidio. Quell'uomo soffre, quanto soffre lei, di non poter sopportare altro ma nemmeno di poterle dire che sì, ha scelto lei, che non le permetterà di conoscere altre mani. Me ne vado”

La porta trema appena sui cardini mentre l'uomo lascia la stanza, condita solo dal rimbombo di quel rumore e da un silenzio densissimo. Pansy sobbalza, quando la sente: un grido, di dolore antichissimo, scuote Suzanne. Lacrime identiche a quelle di molti anni prima scendono ad inondarle le guance, anche se il viso tradisce un'espressione diversa, tagliente, feroce. Un vasetto pieno di pennelli si schianta contro il legno della porta, schizzando di colore e schegge il piccolo salone. Suzanne non ha mosso le mani, che sono strette contro i suoi fianchi, in pugni dalle nocche imbiancate: si è schiantato contro la porta da solo, con la magia che le è sfuggita, improvvisa, dalle dita. Un bambino, dietro la porta che dà su un'altra stanza, affaccia oltre il legno due occhi grandi e impauriti e, silenzioso, piange anch'esso.
 

*

Pansy torna alla casa di Montmartre con un leggero capogiro; tocca con le suole a terra ma deve allungare le mani sul Pensatoio per tenersi in piedi. Si accorge di avere il respiro affannato, una specie di macigno sul cuore e impressa, sulle pupille, l'espressione del dolore che quell'uomo ha causato a lei, una maschera di umiliazione e rimpianto e impotenza. Una morsa le afferra la gola: la consapevolezza che non deve accadere lo stesso. Fa per muovere un passo all'indietro ma sente il sangue fermarsi, gelarsi e poi riprendere a guizzare più rapido e sporco di adrenalina a spasso per vene e arterie. Si gira piano, con l'ombra di una presenza alle sue spalle che sente premere sulle stesse.

Lucius, seduto in una posa morbidamente marziale sul grande divano in velluto scuro, la fissa con sguardo interrogativo e granitico, le braccia stese sopra due cuscini, l'abito da mago sostituito da qualcosa di più Babbano, come sempre quando la raggiunge a Parigi. La camicia, bianca ed intonsa, è slacciata al colletto e ai polsini, dove due serpenti d'argento e gli occhi di smeraldo sono stati disincastrati dall'asola.

La sorpresa quasi le si trasforma in un singulto; nessuno dei due pronuncia qualcosa, per secondi che sembrano trascinarsi fino all'esasperazione. Poi Pansy si rimette bene in piedi muovendo un passo verso di lui; Lucius stacca le spalle dallo schienale e si china in avanti, i gomiti sopra le ginocchia. Lei schiude le labbra, la rabbia che già le arriccia. Lui l'anticipa, però, e nelle sillabe un gelo che non conosce le fa tremare appena.

“Allora, Pansy, cos'hai visto?”

Pansy alza il mento, serra le braccia sotto il seno, lascia che i ricordi prendano di nuovo le sembianze di una nebbiolina solida e scintillante e poi parla; sillabe che nella sua bocca sente aguzze ma che, una volta uscite dalle labbra, sono molto più labili di quel che avrebbe voluto.

“Niente che ti riguardi”

“Tutto quello che succede in questa casa mi riguarda. Dopotutto, è mia” E soprattutto lo sei tu, gli resta stretto fra i denti.

“Giusto le mura possono essere tue. Tutto il resto lo hai perso”

Lucius alza appena le sopracciglia e quella che si può leggere sul suo volto forse può dirsi sorpresa, o spavento, o forse questo è quello che Pansy spera di leggerci; un segnale qualsiasi che lui non sia come l'uomo che ha appena visto fra i ricordi di Suzanne o di Marie. Lui non deve, non può, scegliere incondizionatamente l'altro.
Ha ancora in mente l'espressione di quell'uomo mentre si beava della figura di Suzanne, mentre la riversava sulla tela: bramosia e desiderio e qualcosa di vero e allagante.
La voleva. La stessa che ha riconosciuto in Lucius, mille volte, prima nascosti nel Manor e poi lì, in quella casa, per le vie di Parigi dove le ha riversato addosso tutta la necessità, più dura e più pura, di averla. Eppure... eppure quell'uomo aveva scelto altro. Lucius avrebbe fatto lo stesso?

Perso? Tu credi?”

Pansy annuisce senza convinzione, mentre gli occhi le scivolano sulle iridi color della neve, così distanti e diverse dalle proprie; poi il naso, dritto, appuntito; i bottoni della camicia aperti, la pelle candida, le mani affusolate e curate, le labbra sottili e dritte. L'anello con il blasone dei Malfoy a troneggiare al suo anulare, a nascondere una fede infinitesimamente più trascurabile.

“Perché sei tornato?”

Lucius inspira ed espira piano; non c'è calma nelle sue membra, Pansy lo vede chiaramente. È come se potesse sentirne il cuore battere impazzito, dietro quella scorza di calma glaciale. Vorrebbe spaccare quella corazza, farla esplodere con un incantesimo, essere una Legilimens più brava e affondargli nei pensieri, fra le sinapsi, scoprire tutto il marcio purulento del suo cervello. Pulirne ogni parte superflua – eliminare Narcissa, eliminare il Manor, lasciarla come padrona incontrastata di ogni suo pensiero. Regina di quella fortuna immensa, di quella famiglia immensa, di quell'uomo che ha deciso di volere, di dover tenersi stretto. Vuole vincere, come vuole vincere lui, ad un gioco a cui entrambi sono pessimi e su cui hanno fatto scommesse troppo care.

“Perché è con te che voglio stare, Pansy, nonostante tutto. Con te



 



Note: so che Pansy è folle, Lucius pure e io con loro. Di questa storia, poi, nemmeno a parlarne. Non ho davvero plottato qualcosa, seguo il flow, i prompt e quello che mi dice la riga prima. Grazie quindi di assecondare questo delirio, di leggerlo e viverlo con me. So che questa coppia è particolare quindi il mio ringraziamento è doppio per chi ha voluto leggerne, nonostante le titubanze iniziali. Per me è bellissimo ed importantissimo!
Vvb, vi abbraccio

   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Ciuscream