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Autore: _uccia_    22/10/2022    0 recensioni
Lui vive secondo un codice, il codice Vory. Nel mondo malavitoso russo esiste una gerarchia e delle tradizioni. Lei sarà lo strumento che lo farà ascendere al potere.
Lui è un sicario chiamato il Siberiano, lei una principessa della 'Ndrangheta italiana.
Quello che non sanno è che il loro destino è inesorabilmente intrecciato e che non avranno scrupolo a sfruttare la posizione l'un dell'altra per raggiungere la sommità della scalata al potere.
Perché più forte della loro ambizione, può essere solo il desiderio carnale e possessivo che pare bruciarli interamente.
Due personaggi che per quanto diversi si ritroveranno a dover lavorare di squadra, in un ambiente cupo e pericoloso diviso tra Stati Uniti, Honduras e la fredda Russia.
Genere: Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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                                                                                                         ---------------PAVEL-----------------
 

"Volkov!".
Chiamò terrorizzato, con voce forse troppo da ragazzino per farsi sentire sopra al martellare della musica metal.
Sotto di loro, il ring che si svuotava e la folla cominciava a radunarsi ai banconi dei bar urlando, bevendo e ridendo.
Il brufoloso Pavel era stato mandato in missione non di meno dal Siberiano, il Lupo. Non poteva fallire, non con lui.
"La tua donna!", avvertì indicando la folla al piano terra. "E' in pericolo!".
Il volto dell'uomo in canotta aveva fatto una ben misera fine, prima si era gonfiato in bubboni violacei, poi la pelle si era spaccata in strappi sanguinolenti, i denti e le labbra erano partiti finché alla fine una qualsiasi connotazione umana era indistinguibile.
Volkov continuava, non si fermava. La sua vittima giaceva inerme, non tentava nemmeno più di levarselo di torno.
Gambe e braccia spalancate sotto al sicario. Il volto di Volkov era un maschera di ira. I denti scoperti come un demone, l'intero corpo macchiato da schizzi di sangue.
Che nottata era stata!
Pavelino né era sempre più convinto, quello voleva dire essere rispettato. Essere abbastanza forte da difendere la propria donna e il proprio business.
Nessuno lo avrebbe più bullizzato per i brufoli e le orecchie a sventola quando sarebbe diventato un affiliato al cazzo di Vory.
Si immaginava possente, forgiato da anni di strada e galera. Con la sua amata Diana ad aspettarlo a casa... la sua bellissima biondissima e non più quattordicenne Diana.
Era un amore grande il loro, di quelli che si raccontano nei romanzi strappa lacrime che piacevano tanto a lei.
Diana faceva la parrucchiera in centro, nel dopo scuola. Avrebbe presto mollato gli studi, però. Diceva che non poteva aiutare la famiglia se non portava a casa una busta paga.
Pavel la capiva e l'amava ancora di più per questo, per il suo spirito di sacrificio e la sua correttezza di spirito. Voleva allora donarle il mondo, tutto quello che poteva desiderare senza mai aver potuto avere.
Lo faceva per entrambi, si diceva. Quando entrava nei quartieri malfamati e faceva favori in consegne a ragazzotti più vecchi di lui invischiati in traffici illegali.
Diana era diversa, Diana non sapeva... forse non avrebbe capito.

---

Quel pomeriggio pareva come tanti.
Pavel che a piedi, dopo la campanella di fine scuola, raggiungeva l'officina di periferia dove lavorava.
Un buco squallido, sporco d'olio che puzzava di plastica bruciata. Lo pagavano una miseria ma lui adorava i motori e ci sapeva fare.
Il meccanico gestore del locale lo prendeva a ceffoni dietro le orecchie ogni volta che Pavelino provava ad alzare la cresta, ma era un buon uomo.
"Lo faccio per formarti!", gli diceva sempre. "Devi rigare dritto!".
Ma quando, giorni dopo, avrebbe ripensato a quel giorno... si sarebbe maledetto con tutto il cuore.
Aveva indossato la sua tunica grigia da lavoro e si era da poco accucciato accanto a uno scooter parcheggiato sul cavalletto davanti all'ingresso dell'officina, quando un'auto consumata dal tempo e con freni urlanti si fermò in strada davanti a lui.
Il finestrino dal lato guidatore, calò con qualche difficoltoso giro di manovella.
"Ti stà cercando Ivan", esordì un ragazzo sulla ventina. Una mano sul volante e il gomito appoggiato sullo sportello.
Pavel non lo aveva mai visto prima, ma i segni blu marchiati sulle falangi delle mani raccontavano una storia di affiliazione al clan che chiamavano "Ragazzi del Vicolo".
Pavel si mise ritto in piedi. "Ora?".
L'autista tamburellò sul volante. "Ora".
Il ragazzino brufoloso si guardò alle spalle, il suo titolare era alle prese con un auto sollevata da un argano all'interno dell'officina.
Non aveva fatto ancora caso a loro.
"Devo fare un altro viaggio?". Chiese esitante, tornando con lo sguardo al nuovo venuto.
Il tipo scosse il capo. "No, é per una cosa diversa".
"Arrivo subito, allora".
Quando fu a portata dell'armadietto cominciò a spogliarsi in fretta ma non abbastanza da non essere notato dal suo mentore, che lo agguantò per un braccio costringendolo a voltarsi.
Pavel si divincolò con uno scossone.
"Allora? Dove vai?", lo interrogò l'uomo con veemenza. "Io ti pago per lavorare, non per andartene in giro".
Pavel aveva già la giacca sulle spalle, pronto ad inforcare l'uscita.
"Quello è mio cugino, dice che la mamma non stà bene. Devo andare".
Si affrettò ad aprire lo sportello dell'auto venuta per lui, ma prima di salire rivolse al titolare un ultimo saluto. "Stà tranquillo che domani lo scooter é pronto!".
Il viaggio fino al covo dei Ragazzi del Vicolo fu breve e silenzioso, la sua scorta gli aveva anticipato poche cose e poi la loro destinazione distava solo qualche quartiere più avanti.
Al loro arrivo, nel stabilimento tenuto a grezzo e con bidoni carichi di cenere agli angoli del fabbricato, c'era ad aspettarli solo Ivan.
Un armadio d'uomo con tatuaggi a ricoprirgli l'intero capo rasato, anfibi e pantaloni neri dell' esercito e una sigaretta rollata a mano tra le labbra sottili.
Lo portò all'interno di un piccolo ufficio. Nell'angolo, un altarino dedicato alla Madonna. Una bellissima e diafana signora, con velo scuro e due pistole strette tra le mani incrociate davanti ai seni gonfi.
Innumerevoli candele erano state accese in suo favore, si raccontava che non dovessero mai essere spente.
"... benedici le nostre armi, indirizza i nostri proiettili e consacra noi così che la nostra mira possa diventare la tua". Recitò in un sussurro, Pavel.
Ivan aggirò il tavolo posto al centro della stanza e sbuffò scocciato un:  "Seh, seh".
Poi allungò una mano sotto al piano e vi sganciò una pistola con carrello, di quelle che se mal impugnate ti scorticavano una mano nel rinculo dello sparo.
Il ragazzo ebbe una esitazione, si voltò dietro di lui in direzione dell'uscita dove il suo autista restava in piedi appoggiato con una spalla allo stipite. Intento a leccare la cartina di un spinello.
Decise di farsi forza, prese l'arma e la soppesò nel palmo.
Era la prima volta che ne teneva in mano una vera, quelle del tiro a segno di certo con contavano.
"Devo sparare?". Chiese sorridendo.
Ivan gliela levò lestamente dalle mani, accertandosi poi che la sicura fosse inserita.
"Ragazzo, una cosa alla volta", infilò la pistola in un piccolo sacchetto di carta per il pane. "Tieni, vatti a divertire", si frugò nelle tasche e gli lanciò qualche banconota.
Pavel non se lo fece ripetere, le prese e se le infilò nel taschino interno della giacca. "Ma perché, ci andiamo a prendere qualcosa insieme stasera?", scherzò ridacchiando.
Ivan gli passò il sacchetto tutto accartocciato, fece un ultimo tiro alla sigaretta per poi spegnerla a terra. "Non sarai mica frocio? Non ce l'hai una fidanzata?", gli rispose.
Il ragazzino era di buon umore ed era pronto a rispondere al volo, moriva dalla voglia di mostrare la foto di Diana sul telefonino a chiunque lo stesse ad ascoltare.
Ma non in quel momento.
Qualcosa lo fece desistere, non seppe definire il perché ma preferì tenere Diana fuori.
Tenere Diana lontana da Ivan.
"No", rispose con espressione contrita. "No, non ce l'ho la ragazza".
Ivan rise con un esagerato verso di gola. "E certo, con quelle orecchie e con quella faccia da culo!".
Il suo uomo alla porta si unì alla malevola risata.
Il sicario afferrò il ragazzino per la collottola e lo guidò verso l'uscita, era una morsa d'acciaio. Pavel non avrebbe potuto opporsi nemmeno volendo e l'uomo lo stava tenendo solo con una mano.
 "Vatti a trovare qualcuna da chiavare, Pav. Domani faremo qualcosa di importante".
"Per te qualsiasi cosa, Ivan".
Pavel si avviò come da istruzioni fuori in strada, non aveva notato l'occhiata che si erano scambiati alle sue spalle Ivan e il suo sottoposto.
Camminò con l'incarto in mano per almeno un ora, poi raggiunse il palazzo che gli avevano indicato e salì le dieci rampe di scale che gli avevano anticipato.
Quando fu sul tetto poté godere della vista dell'intero rione a trecentosessanta gradi.
Lì il terrazzo era ingombro di antenne e parabole, guano di uccello e cavi elettrici scoppiettanti.
Prima di fare come da istruzioni si concesse un unico sfizio, aprì il sacchetto e estrasse la pistola.
La guardò brillare sotto il sole del pomeriggio, poi si avvicinò al parapetto del terrazzo e puntò l'arma verso i passanti ignari dieci piani più sotto.
La tenne in orizzontale, alla maniera dei veri duri. Alzò il mento, braccio teso.
Era così che ci si sentiva sempre?
Poi la rimise al sicuro nel sacchetto, richiuse tutto e la nascose nel buco di una grata dietro a una parabola arrugginita.

---

Quella sera, alle otto in punto era giunto in scooter sotto casa di Diana. Si era vestito bene, la tuta sportiva più pulita e nuova che aveva.
La temperatura in quei giorni saliva e calava a piacimento e quella era una bella serata per un appuntamento, bastava coprirsi con giubbotti pesanti.
Portò l'indice e medio di entrambe le mani alla bocca e fischiò forte con un suono che prima saliva, poi calava e in fine risaliva.
Lei uscì sul suo balcone con un sorriso enorme stampato in volto.
"Ehi!", lo salutò vivacemente.
"Dai scendi!", la esortò sornione lui.
Lei scosse quella sua testolina dai lunghi capelli lisci color dell'oro. "Già papà non mi fa uscire, figuriamoci con te". E rise, con quel risolino argentino che faceva stringere lo stomaco a Pavelino.
"Torniamo presto", insistette allora lui.
Lei ancora si lasciava desiderare, andava bene così. Faceva parte del gioco.
"Abbiamo scuola domani".
Lui le mandò un bacio al volo. "E torniamo presto allora! Ci parlo io con tuo papà".
"Seh, come no!", gli sorrise ancora lei. "Ci vediamo domani in classe, ok?".
Pavel non ci sarebbe andato l'indomani in classe, ma ancora una volta preferì tenerla fuori da tutto il male che lo circondava.
La salutò, fece inversione col motorino e se ne ritornò a casa.
Alla sua fredda, sporca casa che condivideva con la madre divorziata.

---

L'indomani mattina, l'appuntamento era in un campo fuori città. Pavel doveva riprendere l'incarto per il pane e farsi trovare lì all'ora prestabilita, quindi si era vestito come se dovesse andare come sempre a scuola ma invece con suo scooter era andato da Ivan.
L'uomo lo stava aspettando seduto su un grosso copertone squarciato e abbandonato da un camion.
Reggeva un specchietto quadrato su un ginocchio mentre con l'altra mano, con la tessera del bancomat,  tagliava e disponeva sullo specchio la sua striscia di bamba.
Guardò il ragazzino avvicinarsi a piedi attraverso l'erba secca e congelata del silenzioso campo.
Ivan tirò su forte la sua striscia prima con una narice e poi con l'altra. Buttò in dietro il capo, strinse le palpebre per qualche secondo e trattenne il respiro.
Poi rilasciò, tornò a guardare Pavel e si asciugò con il dorso della mano una goccia di sangue colata da una della narici.
"Colazione dei campioni, ragazzo", sghignazzò su di giri.
Pav non disse nulla, si limitò a starsene impalato col le braccia tese ai lati dei fianchi.
"Iniziamo?", lo stuzzicò allora il sicario.
Pavel non capiva. "Cosa?".
Ivan rimise tutta la sua attrezzatura a posto, all'interno del suo giaccone. "Cosa hai provato nel vedere il Siberiano ammazzare di botte quell'uomo alla bisca, quella notte?".
"Niente, non sono affari miei", rispose il ragazzino alzando spavaldamente il mento.
Ivan ridacchiò arcuando un lato della bocca. "Non ti ha fatto nessun effetto? Però secondo me se lo colpivi tu, ti avrebbe fatto effetto".
"Mi stai dicendo di ammazzare qualcuno?", si sincerò titubante Pav.
Il sicario si alzò in piedi in tutta la sua statura, in confronto al ragazzo pareva un gigante.
"Perché? Ne sei capace?", lo sfotté l'uomo.
Pavel alzò le spalle, non sapeva se ne sarebbe stato veramente in grado. Nessuno gli aveva mai chiesto una cosa del genere.
"Sei capace?", lo interrogò ancora Ivan. Poi si fece dare il sacchetto, ne cavò fuori l'arma, tirò in dietro il carrello caricandola e gliela schiaffò in mano.
La presa del ragazzino era tremante e sudaticcia, aveva il cuore che gli martellava in gola ma non poteva certamente rifiutarsi.
"Fammi vedere che sai fare", lo spronò Ivan indicando il tronco di un albero a una decina di metri più avanti. "Mira là!".
Pavel tese il braccio e inclinò il ferro in orizzontale, il suo mentore allora si succhiò un canino rumorosamente in segno contrariato. "Ma credi di essere in un film?", lo riprese.
Poi gli si appostò alle spalle, si curvò su di lui e gli tenne l'arma ben dritta davanti.
Gli corresse l'impugnatura, aggiustò la mira e gli fece tenere il petto in fuori.
"Dritto, pure la testa!". Gli artigliò la nuca e gliela fece allineare al dentello sulla sommità della canna.
"Pronto?".
Pavel annuì con un rapido cenno.
Ivan si staccò da lui facendo un passo in dietro. "Vai, và!".
Respiro profondo, fuori l'aria dalla bocca.
Denti stretti.
Poi.. il botto.
Si era aspettato una esplosione ben maggiore, fu invece paragonabile al botto di un petardo.
Mancò il tronco di almeno mezzo metro ma aveva tenuto salda la presa e il rinculo non lo aveva sorpreso.
Preso dallo sconforto, il ragazzino abbassò la pistola puntandola verso terra.
Ivan urlò incazzato. "Dritto il braccio!" e glielo rifece alzare. Di nuovo gli fece prendere la mira. "Così, fermo. Trattieni il respiro".
Ancora si fece da parte mentre Pavel cercava con tutte le forze di non tremare e mantenere il tronco allineato al dentello.
"Vai!", lo incitò ancora Ivan.
Questa volta, Pav si prese qualche secondo in più e con un altro scoppio centrò l'albero.
Si aprì un foro e la corteccia saltò via.
Ivan batté le mani lentamente un paio di volte, mentre il rimbombo dello sparo si propagava per la landa desolata. "Uno su due, é buono", annuì soddisfatto.
"Voglio riprovare!", esultò Pavel pieno di euforia. E cominciò a mitragliare l'albero un colpo dietro l'altro, solo altri due colpi andarono però a segno. Gli altri fecero alzare solo zolle di terra tutto lì attorno.
"BASTA!", ordinò Ivan facendogli abbassare il ferro. "Vuoi sparare, vuoi sparare... Vuoi sparare solo agli alberi?".
Il ragazzo si grattò la nuca a disagio, il fiatone che ancora lo scuoteva fino all'animo.
"Vuoi sparare veramente? A sparare ai cristiani è un altra cosa".
L'uomo gli puntò l'indice contro il petto. "Devi andargli vicino!".
"Farò quello che devo", giurò Pav. "Per il clan".
Ivan si succhiò ancora un canino, occhi negli occhi con Pav. "Se vuoi veramente entrare, lo sai cosa devi fare... o te ne scapperai dalla paura?".
Il ragazzino scosse il capo, una.. due e tre volte.
Ivan gli diede un piccolo schiaffetto sulla guancia. "E bravo Pavelino".
Finito con la lezione, il sicario se lo caricò nel suo Hummer nero dai finestrini oscurati e lo portò davanti a una casetta a schiera in uno di quei quartieri da benestanti signorotti. Gente con troppa merda sotto al naso per notare la povertà che soffocava la periferia da dove venivano.
"Quello là", gli indicò Ivan.
Pavel si fece serio e concentrato, mentre adocchiava un uomo calvo ben vestito che usciva a piedi dal suo cancelletto d'ingresso per portare a spasso il cane.
"Ma chi é? Che cosa ha fatto?", provò a chiedere.
Ivan poggiò il gomito sul finestrino. "Nessuno, un pezzo di merda che non vuole pagare i debiti. Noi gliel'abbiamo spiegato con calma, ma lui non ha capito".
Pav annuì.
 Ivan proseguì: "La pistola è tua e sai anche dove tenerla. Non portarla a casa, non mostrarla a nessuno".
Pav annuì.
"Deve essere fatto come se fosse una rapina, una finita male. Entro domani sera e poi dovrai gettarla dove ti ho detto di gettarla. Mi hai capito? Non puoi assolutamente tenerla".
Pav annuì.
Ivan gli diede un altro schiaffetto in faccia. "Poi mi fai una telefonata e andiamo a farci una bevuta io e te, si?".
Il ragazzo strinse i pugni sulle ginocchia, gli veniva da vomitare.
"Ho fiducia in te, Pavelino. Ma questa cosa non la deve sapere nessuno, hai capito? Nessuno".
Ivan forse non si aspettava una risposta degna, perciò senza aspettare un cenno affermativo aprì il bracciolo del sedile e vi cavò fuori il suo portafoglio.
"Questo è solo un acconto...", gli disse porgendogli un rotolo di banconote. "Tieni e fatti coraggio, il resto arriverà a lavoro compiuto".
Pav ancora una volta accettò la mazzetta, ma non disse nulla.
L'Hummer fu rimesso in moto e i due ripartirono.

---

Passò venti minuti davanti alla gioielleria, osservando ogni orecchino e anello d'oro senza capire quale potesse essere più adatto.
La commessa gli aveva detto: "Allora, anello in oro rosa con diamante puro. Lei ne sarà estasiata".
Pav c'aveva creduto, aveva pagato dando fondo all'intero rotolo di banconote ricevuto ma non si sentiva affatto in colpa.
Quello era solo l'inizio.
Poi era tornato a casa, si era lavato ma non aveva cenato. Lo stomaco minacciava di rigettare ad ogni crampo.
Era arrivato alle nove di sera davanti alla casa a schiera designata, abbordo del suo scooter aveva seguito l'auto della vittima fino agli impianti sportivi.
Vide l'uomo calvo parcheggiare davanti all'ingresso ed entrare a piedi parlando al cellulare.
Pavel andò a piazzare il mezzo alla via laterale e quando tornò davanti allo stabilimento, si portò dietro anche il suo casco a visiera integrale.
Aspettò mezz'ora, poi l'uomo uscì reggendo sulla spalla destra un borsone.
Non era solo però, accompagnava un ragazzetto dalle gambe tozze e l'andatura claudicante. Da dove Pavel si trovava, non poteva distinguere i volti con chiarezza ma una cosa era certa: erano soli nel parcheggio.
La scadenza della commissione cadeva quella sera e non poteva rimandare oltre, per di più non c'era stato un momento più opportuno e solitario prima di allora.
Si infilò il casco in testa lasciando la visiera sollevata, tirò in dietro il carrello della pistola e mantenendosi nell'oscurità schivò ogni pozzanghera di luce gettata dai lampioni.
Era giunto ormai dietro l'auto della vittima, quando udì le voci dei due avvicinarsi.
Ancora un respiro.
Ancora le budella che si attorcigliavano.
Troppo tardi per ripensarci.
Saltò fuori dal suo nascondiglio, braccio teso davanti a lui come gli era stato insegnato. Mano ferma, dritto e denti serrati.
L'uomo lasciò cadere il borsone sull'asfalto, alzò le mani mentre ogni colorito abbandonava per sempre l'espressione di folle terrore.
"Chi sei? Cosa vuoi?".
Pavel non gli lasciò il tempo di parlare oltre.
Premette il grilletto.
Lo colpì dritto al centro del petto, un forellino appena visibile che fecce schizzare solo qualche goccia rossastra.
Non poteva mancarlo, era troppo vicino per farlo.
Una vocina acuta cominciò a strillare disperatamente, mentre tutta l'attenzione di Pav era per il cadavere steso a faccia in giù sull'asfalto congelato.
Il ragazzino che accompagnava la vittima si gettò sul corpo, scosso da singulti di dolore. Il viso perfettamente tondo, le orecchie grandi e sporgenti come parabole, gli occhi allungati a mandola... le dita tozze a stringere la giacca del padre nel straziante tentativo di risvegliarlo.
Era un ragazzino di dieci anni con la sindrome di Down.
Un disabile.
Pavel ne rimase inorridito, ebbe un conato di vomito e la vista gli si offuscò.
Puntò la canna della pistola dritta alla nuca del bambino ma non ne ebbe il coraggio. Per quella sera aveva fatto davvero tutto quello che era capace di fare.
Spinse con difficoltà il piccolo tozzo ragazzino di lato e cercò nelle tasche del cadavere il portafogli e il cellulare, poi corse via verso il suo motorino.

---

Quella notte, lui e Diana fecero l'amore al capanno di caccia dello zio del suo amico Danilo.
Un buco di pietra con tetto in lamiera ma con un grosso camino per riscaldarsi, un materasso gettato a terra e morbide trapunte per ripararsi.
Diana gli stava avvinghiata addosso, dormiva russando piano con leggeri respiri contro il petto nudo di lui.
Pav non dormiva, se ne restava fermo a fissare le lamiere eternit ondulate sopra le loro teste. Steso a pancia in su, con la testa spaccata in due dai pensieri.
"Pav, ma che hai?", lo sorprese Diana dopo quella che sembrava una eternità.
Lui le baciò la testa profumata di shampoo. "Niente, fa freddo".
Lei non parve credergli, gli accarezzò la mascella contratta e gli stampò un dolce bacio a fior di labbra. "Ma che c'é, non ti é piaciuto?".
Lui sorrise, accarezzandole il sedere. "Guarda che ho trovato", si sporse dall'altro lato del materasso verso i suoi pantaloni.
Le mostrò il cofanetto con il piccolo anellino d'oro. "Mi vuoi sposare?".
Lei portò le mani alla bocca, senza parole.
"Tu sei pazzo". Gli rispose, ma sorrise emozionata e gettandosi al collo di Pav consacrò il loro amore con un sicuro: "Si!".
Il ragazzo non poteva essere più fiero, una simile proposta fatta con un anello di tale bellezza aveva scacciato momentaneamente ogni lugubre riflessione.
Almeno fino al mattino dopo, quando prima di recarsi a scuola si fermò al bar a metà strada per fare colazione.
Gli restava qualche ultima banconota da spendere, quale mattina migliore per usarle?
Il televisore appeso sopra al bancone, fra i bicchieri di vetro, era acceso sul canale del notiziario del mattino:
"Il rapinatore lo ha sorpreso all'esterno di questo stabilimento sportivo, mentre riaccompagnava a casa il figlio di dici anni dopo il corso serale di ginnastica. Un'azione fulminea, l'assassino ha preso pochi effetti personali della vittima ed è poi scappato lasciandosi alle spalle un bambino disabile segnato a vita. Una morte di peso, un omicidio eccellente, quello di Smirnov segretario comunale di recente attivo nella lotta contro la malavita.
Era il frontman di eventi contro quella che viene chiamata Organizacija, sempre disponibile per famiglie e vittime di un male dilagante della società. Un assassinio che quasi certamente, spiegano gli inquirenti, può essere collegato al mal affare e può dare la stura a una nuova scia di sangue. Nelle prossime ore...".
Pav mollò il caffè bevuto a metà e volò rapido alla tastiera del suo cellulare, stava squillando per la prima volta quando al televisore mandarono il disegno a penna di un identikit mostruosamente simile a lui.
"... il ragazzo che vedete nel disegno è al momento ricercato come persona al corrente dei fatti. Secondo un testimone di passaggio, questo ragazzo è stato visto correre via dal luogo dell'omicidio con un casco integrale bianco in mano. Chiunque abbia qualche informazione in merito è pregato di chiamare al numero in sovraimpressione...".
Pavel si sentì male, le ginocchia cedettero e barcollando si diresse a testa bassa verso la strada.
Gli girava tutto, gli scappava da urinare ed era terrorizzato che qualcuno lo riconoscesse.
Corse fin dietro l'angolo, mentre al telefonino il segnale stava squillando per la quarta o quinta volta.
Quando una voce profonda maschile rispose con un grugnito, Pav aveva già toccato gli ultrasuoni con l'ugola:
"Perché non mi hai detto chi era quello? Non era uno scemo qualunque, avresti dovuto dirmelo".
La voce di Ivan pareva provenire da una tomba:
"Non ho detto niente per non metterti troppo sotto pressione. Sei stato bravo, dove sei ora?".
Pavel non riusciva a stare fermo, cominciò a fare su e giù per il vicolo sfregandosi la nuca e scuotendo il capo come un asino troppo testardo.
"Stò vicino a casa, mi hanno visto Ivan. Che faccio?".
"Va bene, ho capito. Ora fa una buona cosa, va a casa subito così ti do gli altri soldi che ti spettano e sistemiamo tutto".
Il ragazzo arrestò la sua marcia fissando il vuoto di fronte a sé.
Ivan gli stava parlando: "Così stiamo più tranquilli. Ti aspetto".
Pavel corse al suo scooter e partì a tavoletta verso casa.
Come aveva fatto a essere stato così stupido, come aveva fatto ad invischiarsi in qualcosa di così grosso?
Per cosa? Per un rotolo di soldi in più da sputtanarsi in un anello e una colazione?
Quando fu al parcheggio del suo condominio decise preventivamente di spegnere il motorino e proseguire a piedi, se lo avevano già identificato era del tutto probabile che la polizia fosse già al citofono di casa sua.
Stava per svoltare da una siepe quando udì due voci maschili parlottare tra di loro al portone d'ingresso allo stabile.
"Dobbiamo aspettarlo tutto il giorno?". Stava parlando una voce dalla marcata flessione russa del sud.
"Hai altro da fare?". Gli stava rispondendo un altro.
"No, per sapere".
"Non c'é altro da sapere, dobbiamo aspettare".
"E quando lo troviamo?".
"Non dobbiamo fare casini".
Pav sbirciò attraverso le foglie del suo nascondiglio e riconobbe i volti di quelli che il clan dei Ragazzi del Vicolo chiamavano Elisey e Nicolaj. Il primo più largo che alto, mentre il secondo era alto quanto un traliccio e con due spalle larghe quanto il cancelletto pedonale.
Nicolaj diede uno spintone al massiccio Elisey. "Non dobbiamo spaventarlo, mi hai capito?".
"Gli raccontiamo una barzelletta", sbuffò l'altro in risposta.
Pavel allora scappò, andò per prima cosa alla discarica dove gli era stato detto di gettare la pistola e poi se ne andò dall'unica persona di cui poteva fidarsi.
Diede appuntamento a Diana nel cortile della scuola e al riparo da occhi indiscreti gli fece vedere l'arma.
"Oh, Dio..." bisbigliò lei con occhi lucidi. "Che cosa hai fatto?".
Lui non aveva nemmeno il coraggio di guardarla, fissava invece il ferro tra le sue mani senza saper bene come articolare un discorso completo.
"Sai cosa rischi se ti beccano con questa? Non sarà nemmeno registrata! Cosa hai fatto, Pav?".
Diana aveva le guance rigate dalle lacrime.
"Il tizio alla TV, il politico... l'ho ucciso io". Sputò in fine il giovane, ammettendo così la sua colpevolezza al mondo e a sé stesso.
Si piegò in due e rigettò i succhi gastrici dello stomaco vuoto sulla ghiaia del cortile.
La ragazza gli prese la testa tra le mani e lo costrinse a guardarla. "Chi ti ha detto di farlo?".
Pavel deglutì, mentre del moccio gli colava dal naso fino al labbro superiore. "Ivan", ansimò tra un singulto e l'altro. "Ivan diceva che aveva un lavoro per me, mi avrebbe pagato bene".
Diana si prese un istante per calmarsi, ma poi ripartì alla carica: "Ivan? Lo sai come lo chiamano? Il Boia! Come hai potuto fidarti di lui?".
Pavel era ormai scosso da tremiti.
Diana fu implacabile, lo faceva per il bene del ragazzo. Era ora di svegliarsi.
"Riesci almeno a capire perché hanno fatto fare il lavoro sporco a te? Sono tutti pregiudicati, Pav! Se il politico fosse morto per mano loro, tutta la città lo avrebbe saputo e per il Boia sarebbe stato scacco matto. Serviva uno pulito, un ragazzino idiota che si prendesse la colpa!".
"Mi hanno visto, Diana!", urlò angosciato il ragazzo. Rimise la pistola al sicuro dentro la cintura dei pantaloni. "Devo andarmene, sono quì solo per... salutarti".
La ragazza lo strinse in un abbraccio mai abbastanza forte. "Dove andrai? Cosa farai?".
Pav le baciò la fronte. "Non lo so'".
"Devi andare dalla polizia, devi costituirti prima che...", ora anche la ragazza tremava senza controllo.
"Lo farò", mentì Pav prima di fuggire senza voltarsi in dietro.
Rimase al capanno di caccia un altra notte e un altro giorno, con solo dell'acqua e una merendina come pasto.
Stava perdendo tempo, lo sapeva. Era questione di tempo e lo avrebbero trovato, in quanti sapevano di quel nascondiglio nella zona rurale?
Il suo amico Danilo e suo zio di sicuro, ma l'anziano non era più praticante della caccia ormai da qualche anno a causa di una artrite mal curata alle mani.
Momentaneamente era al sicuro, ma poi?
Lo stavano aspettando a casa, lo stavano cercando in tutta la città e presto qualcuno lo avrebbe riconosciuto alla TV così, oltre a Ivan, avrebbe avuto pure la polizia addosso.
Non vedeva altra via, la scelta era la morte o il carcere.
Quanto tempo sarebbe durato dietro le sbarre?
Aveva sentito parlare tra i Ragazzi del Vicolo delle carceri sovietiche, quelle in cui erano stati loro. Si parlava di quei posti paragonandoli all'inferno in terra e quel tipo di argomento veniva spesso fatto cadere dopo una frase o due.
Troppo doloroso per ricordare e troppo umiliante per parlarne.
Tutti sapevano... tutti non potevano farci niente.
Perciò se ne uscivi anche solo vagamente sano di mente, senza il desiderio impellente di farla finita, diventavi degno per il Vory.
Si raccontava che il Siberiano si fosse fatto dieci anni dentro.
Pav non sarebbe sopravissuto per più di una settimana.
Un'esperienza che non si augurava al proprio peggior nemico. Una cella tipica doveva ospitare non più di una decina di persone ma di norma, se ne trovavano circa trenta.
Oltre a percepire l'effluvio di corpi pigiati e di acre sudore umano, si intravedevano la latrina, un cucinotto e un tavolino. Non c'era un giaciglio per tutti: per coricarsi bisognava fare i turni, anche tre per notte.
Il rumore indistinto di voci si interrompeva e tutti squadravano il nuovo arrivato, il quale noterebbe probabilmente un paio di detenuti accucciati vicino al cesso. Non erano carcerati qualunque: quei poveri cristi appartenevano alla casta degli intoccabili. Dove per intoccabile si doveva intendere nel senso deteriore: indegno di essere anche solo sfiorato. Per questo i momenti più difficili per un nuovo arrivato erano i primi. Tutti attendevano che il pivello facesse un errore, che si rivolgesse agli intoccabili senza saperlo, magari che si coricasse nella stessa branda.
Un passo falso si pagava con la degradazione nella casta più bassa della gerarchia del carcere.
Gli epiteti per questi individui nel gergo criminale russo erano innumerevoli: "offesi", "unti", "emarginati", "galletti", "topi", "pettine", "margherite". In base alle regole non scritte ma ferree delle prigioni, gli omosessuali, chi aveva toccato un pene, chi era stato cosparso di urina dagli altri carcerati e chi si era macchiato di atti di pedofilia, rientrava automaticamente nella categoria dei dannati.
 Anche chi non ubbidiva alle regole o entrava in conflitto con i boss delle celle (ad esempio per non aver pagato un debito di gioco oppure per aver fatto la spia) poteva essere degradato al ruolo di intoccabile. A quel punto la vita diventava un incubo.
La cultura delle carceri era omofoba e condannava l'omosessualità passiva, mentre quella attiva era diffusa e tollerata. Si violentava e vessava usando la sessualità per spezzare l'animo umano.
Si stuprava un altro uomo non per appetito sessuale ma per dominare.
Gli intoccabili erano spesso ragazzi giovanissimi e inesperti che ben presto si ammalavano di AIDS.
Pavel aveva sedici anni, poteva essere giudicato in caso di reato grave come un giovane adulto.
Si sedette su un basso muretto di pietre a lato del capanno, guardò le foto della sua Diana sul cellulare.
Sfoderò la pistola dalla cintura, poi la appoggiò accanto a lui. Cominciò a dondolare avanti e in dietro mentre il sole tramontava all'orizzonte e poi spariva dietro a dei spogli alberi lontani.
Era ormai buio quando il ragazzo prese una decisione.
Afferrò nuovamente l'arma, tirò in dietro il carrello e si ficcò la canna in bocca.
Un respiro, denti appoggiati sul gelido ferro.
Il silenzio... mai poi il telefonino vibrò con una chiamata in arrivo.
Il ragazzo sussultò come se avesse veramente premuto il grilletto, rimise la pistola sul muretto e urlò a squarcia gola verso il cielo notturno carico di nuvole nere.
A chiamarlo era il suo amico Danilo.
"Ohi, dove sei?", lo interrogò Danilo senza perdere ulteriore tempo.
Pavel si massaggiò la fronte imperlata di sudore freddo. "Non te lo posso dire, non so' chi ci stà ascoltando".
La voce di Danilo era incrinata dalla paura. "Sei al capanno? Te ne devi andare, mi hai capito? Gliel'ho dovuto dire dove stavi, non ho potuto mentire. E' venuto al negozio di mamma, me lo son trovato con lei mentre gli faceva provare una maglietta. Ho dovuto dirglielo!".
Rumore di grossi copertoni in avvicinamento dalla stradina sterrata.
Un mezzo pesante... enorme.
Pav balzò in piedi con la pistola in pugno, si voltò ma l'ombra del mezzo era ancora lontana e si stava avvicinando a fari spenti.
Era troppo buio, la luna piena era parzialmente coperta e in mezzo a quel campo di sterpaglie non c'erano altre fonti di luce.
"A chi?", urlò al telefono. "A chi l'hai detto?".
Sapeva la risposta.
"Ivan! Stà arrivando, scappa!".
Pavel corse nell'oscurità fin dietro al capanno come se avesse il diavolo in persona alle calcagna, piegato in avanti veloce e silenzioso mentre l'Hummer nero si faceva sempre più vicino.
Quando il mezzo fu a cento metri dal capanno, accese i fari e si andò poi a piazzare davanti all'ingresso.
Il suo autista scese con un pesante balzo dal sedile, lasciando il motore acceso.
"Ragazzo, è tutto apposto". Si annunciò il sicario aggirando l'auto e andandosi a mettere proprio fra i due fari a led. Mani sollevate ai lati del capo.
Pav esitò, strinse forte l'impugnatura della pistola e uscì allo scoperto.
L'ombra di Ivan era indistinta, si trovava contro luce e il ragazzo non riusciva a tenere gli occhi aperti senza continuare a battere le palpebre a ripetizione.
"Sei armato, ragazzo. Abbassa il ferro". Lo intimò l'ombra di Ivan mentre lentamente calava le braccia lungo i fianchi. "E' tutto ok, va bene".
Pav mantenne l'arma dritta davanti a lui, la teneva bene questa volta. Non avrebbe mancato il bersaglio, Ivan gli stava a non più di dieci o dodici passi.
Poteva farcela.
Il sicario stava ancora parlando, la voce alta e ben udibile. Pareva tranquillo... ma Pav non riusciva proprio a guardarlo in faccia per colpa di quei maledetti fari abbaglianti.
"Lo so' che tutta questa faccenda ci è sfuggita di mano, ma io sono un amico. Sono quì per aiutarti".
Ivan cominciò a muoversi e il ragazzo scosse il ferro con fare minaccioso. "Non ti avvicinare!".
Ivan fece cinque passi, poi si fermò.
"Solo due cose mi interessano, chi altri sà di quello che hai fatto? Il tuo amico Danilo ti ha visto alla TV ma dice che non ne sapeva niente".
Pav cominciò ad andare in iperventilazione. "E' così!".
Ivan si voltò verso il capanno. "Sei solo?".
Menti!
Urlava il sesto senso di Pavel nella sua testa.
"No, mi aspettano dentro". Replicò allora repentinamente.
Ivan annuì tristemente, poi sospirò. "Non credo".
Il Boia scattò come un serpente e coprì gli ultimi passi che li separavano, con una manata agguantò il polso del ragazzo e glielo torse in un agghiacciante schiocco di ossa rotte.
Pavel urlò, gli scivolò a terra l'arma e da questa partì uno sparo a vuoto verso il buio.
Ivan scattò nuovamente e con l'altra mano fece presa sul gomito del ragazzo, spezzandogli anche il braccio con una spinta.
Pav cadde in ginocchio e Ivan attuò la sua ultima mossa. Lasciò il polso del giovane e gli strinse come una tenaglia il sottile collo.
Il ragazzino cominciò con inspirazioni forzate e fame d'aria nel tentativo di sottrarsi all'impedimento della respirazione, per poi agitarsi e dimenarsi.
Il viso gli divenne cianotico, delle macchie petecchiali rosse gli comparvero agli occhi.
Pavel si stava spegnendo lentamente come una candela.

A vederli così, nell'oscurità della notte e illuminati solo dalle luci dell'Hummer, Ivan piegato sul ragazzino pareva la rincarnazione stessa dell'Uomo Nero.
"Ti sei fatto vedere, Pav. Mi dispiace, non volevo soffrissi così". Gli sussurrò all'orecchio, mentre il ragazzino chiudeva gli occhi per sempre da questo mondo troppo marcio per anime come la sua.
Una singola lacrima sfuggì da una palpebra di Pav, quando il sicario lo adagiò lentamente a terra.
Ivan fu professionale, raccolse gli effetti personali del giovane e fece un giro perlustrativo della zona.
Aprì il portellone dell'auto, ribaltò i sedili, caricò motorino e corpo precedentemente avvolto in un telo blu.
Guidò tranquillamente per mezz'ora, senza mai superare il limite di velocità.
Quando fu al cantiere del residence di prossima apertura nel nuovo quartiere borghese, scaricò il pacco ricoperto dal telo e lo portò in braccio fin dentro alla fossa delle fondamenta.
Con un grugnito lo adagiò a terra, fece un cenno all'uomo che attendeva con la betoniera e uscì dalla fossa.
Tonnellate di cemento colarono sul cadavere celandolo per sempre, mentre Ivan si accendeva una sigaretta guardando il tetro spettacolo dall'alto.
Brace rossa nell'oscurità, cappellino con frontino calato sugli occhi.
Mani giunte all'altezza dell'inguine, gambe divaricate e capo chino.
Mormorò una rapida preghiera per l'anima di Pavelino, prese poi il telefono e selezionò lestamente un numero in rubrica.

"Dà?"

Rispose una roca voce maschile.

"Fatto", si limitò a borbottare Ivan all'apparecchio.

"Bene".

La linea ricadde, Ivan si rinfilò il cellulare in tasca.
Non c'era null'altro da dire.
 
 
  
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