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Autore: summers001    04/12/2022    4 recensioni
Oscar&Andrè | probabile OOC | what if?
Si dice che il battito di una farfalla sia capace di provocare un urgano dall’altra parte del mondo. Ma cosa succederebbe allora se nella moltitudine di ripetizioni che la storia compie, ribellandosi alle regole della natura, la farfalla si posasse su un altro fiore?
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3
 
 
Nel settembre 1787, il re aveva deciso di fare visita ai suoi figli, mentre riceveva aggiornamenti da parte di un chissacché. Almeno una volta al giorno il re, infatti, passava a dar loro un saluto. Nei suoi anni a Versailles, Agathe aveva imparato a distinguere il suono delle scarpe del re, il suono del suo mantello da cerimonia strusciato sul terreno, dei lucchetti e delle chiavi che si portava dietro e persino quello dei suoi gargarismi. Non era una cosa da tutti. Luigi XVI camminava con passi goffi, instabili, incespicando sulle scarpe. Si sbilanciava a destra e sinistra, ma a corte ci erano ormai tutti abituati. Quando sentivano un rumore di scarpe scricchiolare sul marmo, Agathe si metteva in piedi, dritta, a capo chino, fingendo di non ascoltare.
 
“Ci sarebbe questo nuovo posto in Slesia, un sanatorio. Erano terre schierate contro l’Austria, vostra moglie…” spiegava la voce di un uomo, che la serva non era sicura di conoscere. Da quella posizione riusciva a vedergli solo i piedi, a malapena i vestiti.
 
“Lo so da dove viene mia moglie.” Rispose ingenuamente il re, come a reagire davanti ad una ovvietà. Luigi non parlava mai di sua moglie. Attirò così l’attenzione di Agathe, che sicura di non essere vista alzò la testa. Il re era paonazzo quando si parlava della regina e delle sue origini: la cagna austriaca. Discuteva col ministro degli esteri, si gonfiava, agitava le mani. Il popolo era troppo suscettibile per l’argomento.
 
“Maestà, la tisi sta dilagando. Dalla Slesia chiedono aiuto, pochi fondi..” continuò a supplicare quello, mentre rincorreva il sovrano in chissà quale altra stanza, lasciando Agathe con tante domande e poche informazioni, ancora a testa bassa, ferma, a non far rumore, aspettando di non sentire più voci nei paraggi, prima di tornare dai bambini che chiedevano attenzione.
 
Mesi più avanti aveva sentito la cuoca della colazione, una donna grassa, grande e sempre rossa sul viso e sul petto, parlare della tisi. La malattia gentile, la definiva lei. Se l’era presa sua madre, che Dio l’abbia in gloria. Agathe s’era allora tenuta l’informazione che aveva udito per sé: un sanatorio per la tubercolosi. Era vietato parlare di quello che sentiva nelle stanze reali, qualcuno prima o poi l’avrebbe scoperto. Poi c’era stato uno stalliere delle guardie, che aveva una sorella, il quale marito aveva ricevuto l’inevitabile condanna. Poco più tardi nei giorni, Janette, amica di vita di Agathe, la stessa che le avrebbe raccomandato pazienza con Cyril, le raccontò che suo fratello era stato da un dottore, che gli aveva parlato di tisi. Aveva dovuto lasciare il lavoro a Parigi. Sua moglie lo stava aiutando, ma non reggeva. La donna aveva infatti appena partorito il terzo figlio. Agathe allora, prendendole le mani e facendole giurare di parlarne solo con suo fratello, raccontò a Janette della Slesia. Janette riferì tutto a suo fratello e sua cognata, la quale fu convinta dalla madre, che aveva già curato i feriti in guerra sotto Luigi XV. Per i mali del corpo, quest’ultima aveva una sensibilità particolare. Quella donna avrebbe solo due anni dopo perso la figlia, il cognato ed i nipoti, ma mai perso la sua vocazione. Avrebbe aiutato i moribondi di Parigi, sperando di far del bene durante il buio pesto della rivolta, che viveva fuori e dentro. Quella donna incontrò Andrè la sera del 14 luglio 1789. Fu così che, per vie traverse, Agathe salvò la vita dell’assassino del suo amato, Oscar.
 
***
 
Avevano deciso di partire di giorno. Andrè l’aveva fatto. Aveva messo su un gruppetto che lo potesse aiutare a trovare una strada. Erano ancora a Parigi, ma a casa di Bernard e Rosalie. Quando entrò Andrè notò immediatamente una piantina della città ben elaborata, stesa e tenuta ferma da una brocca d’acqua su un angolo, due pietre da un altro ed un calamaio sul terzo. Vi si erano subito disposti tutti attorno a guardare. C’era Bernard, che col pollice e l’indice sotto al mento studiava i percorsi ed ogni tanto si sporgeva a depositare un seme su certe strade che erano ormai sbarrate. C’era Rosalie, che seguiva lo sguardo attento di suo marito, preoccupata a tratti, ed a volte guardava Oscar di nascosto. C’era Alain, che s’era spaparanzato su una sedia a cosce aperte, che aveva buttato all’indietro la testa ed aspettava il responso. C’era Andrè, che teneva l’occhio stretto e la fronte aggrottata per riuscire a scorgere ogni minimo dettaglio ed imparare a memoria quella mappa. C’era anche Oscar, che sembrava essere l’unica estranea al gruppo, che in maniera sorprendentemente silenziosa fissava una crepa nel muro davanti a lei e stupidamente pensava a quanto era stata brava la sua Rosalie ad adattarsi di nuovo alla miseria.
 
“Dovreste prendere questa strada.” Fece Bernard di punto in bianco, puntando il dito sulla mappa e tracciando una linea. Gli occhi di tutti si alzarono ad osservarlo attenti. Gli occhi di tutti tranne che di Oscar, che appena guardò, senza davvero vedere. “Ci saranno controlli qui,” fece indicando “qui,” continuò “ma non qui.”
 
Andrè annuì. Alain gli leggeva i nomi delle strade seguendo il suo sguardo e lui annuiva di nuovo. Era una complicità raggiunta col tempo, in caserma, quando la vista aveva cominciato a mancargli. Oscar non mancò di notare quel particolare. Avrebbe voluto  essere d’aiuto, avrebbe voluto partecipare, suggerire, farsi notare ancora per la sua capacità strategica, ma aveva così tanto sonno. Gli occhi bruciavano ed il tepore di quella casa sembravano condurla in un’altra stanza, quella dove aveva dormito mesi prima, dopo aver ritrovato Rosalie. Si alzò e si lasciò condurre dal ricordo.
 
Andrè perse la concentrazione quando la sedia, su cui lei era seduta, raschiò il pavimento. Aveva sperato nei suoi occhi, nella sua buona memoria, in tutto quello che gli mancava. Doveva imparare, ricordare. Si muoveva piano,  però, era educata come al solito. Si era allontanata “con permesso” ed era andata a dormire, probabilmente. C’era qualcosa che ancora gli sfuggiva. I suoi occhi erano rossi e gonfi delle lacrime che aveva pianto poco prima, l’andamento lento come se avesse le gambe pesanti. Portava ancora i vestiti sporchi, non s’era presa neanche la briga di lavarsi, come se si stesse lasciando andare alla tristezza.
 
“Vado io.” Fece Alain, alzandosi di sua volta, sicuro d’esser capace di farla ragionare. Avrebbe parlato d’impeto. Le avrebbe detto di vergognarsi, che Andrè dall’altro lato stava facendo tutto quello che stava facendo per salvarla, che stavano tutti pensando a lei, mentre lei non poteva neanche sforzarsi un pochettino di rimanere almeno presente. Fu proprio Andrè invece ad impedirglielo. Lo prese per la manica della giubba, lo guardò dritto come se ci vedesse, come se avesse capito che non si trattava altri che di una scusa pur di poter stare con lei. Lo guardò come se stesse marcando il territorio. Se lo immaginò come un cane che le pisciava addosso e la puzza della sua orina lo allontanò. Gli fece segno di non fare niente e di rimettersi a sedere. Suo malgrado, Alain obbedì, quasi gli avesse fatto paura. Non era gelosia quella di Andrè. Stava proteggendo Oscar ancora ed ancora. La proteggeva perché Andrè la conosceva. Sapeva che voleva e doveva stare da sola, come quella volta che suo padre si presentò per la prima volta con in mano un’uniforme.  
 
“Dovreste togliervi le uniformi.” Rosalie propose, quasi avesse ascoltato i pensieri di Andrè. Bernard le sorrise. Le avrebbe detto che era stata brava, che era intelligente, che gli piaceva quando partecipava alle sue cose e si dimostrava furba. Rosalie lo notò, gli sorrise complice di rimando e poi abbassò gli occhi per non farsi distrarre.
 
“Allora è deciso!” concluse Bernard in tono di festa. Liberato dall’incombenza, poteva tornare a pensare a Parigi ed alle sue vittorie, che stavano segnando il passo nella storia.
 
A mano a mano si congedarono tutti.
Andrè salutò Alain, che gli agitò solo la mano mentre se ne usciva con passo malfermo. Gli raccomandò di non bere e di passare a salutarlo l’indomani. Alain si girò: doveva presentarsi ad un addio, ma era pazzo? Lo lasciò dicendo “sì, come no” e se ne andò.
Poi fu il turno di Bernard e Rosalie. S’avviò lui verso la sua camera da letto, dando la buona notte al suo amico. Si trascinava dietro sua moglie, portandosela per la mano. Lei sorrise imbarazzata mentre si lasciava trascinare. Mormorò “buona notte” e sparì da qualche parte.
Rimase solo. Studiò ancora la cartina ingiallita. Con le dita portò il segno delle strade, si ripeté ad alta voce i nomi che leggeva abbreviati e punteggiati, in caratteri che quasi parevano cirillici. Poi, eventualmente, fu preso dal sonno e dalla stanchezza per tutte quelle emozioni nuove. S’avviò, cercando Oscar, sperando solo di bussare alla porta giusta.
 
Si sentiva fiero di come aveva reagito, delle molteplici soluzioni che aveva già trovato. Soluzioni le chiamava, già, come se avessero potuto sicuramente sistemare le cose. Alla fine la trovò. La stanza era buia, entrava solo la luce della luna dalla finestra. Le strade erano calme finalmente. Non si sentivano più urla né schiamazzi. La trovò distesa a letto su un fianco. La raggiunse e si mise sotto le lenzuola sottili per abbracciarla. Voleva solo stringerla ancora, sentire di nuovo che era sua, vivere quel breve momento di pace prima di dover partire. Se poi lei non l’avesse voluto, le avrebbe lasciato tutto lo spazio che voleva, avrebbe dormito a terra, guardandola più a lungo che poteva. Doveva però rimanere almeno un altro momento con lei a tenerla stretta. “Domani ce ne andiamo.”
 
“H-hm” mugugnò lei nel sonno.
Andrè s’aspettò di essere cacciato, allontanato con uno spintone. Invece lei si risistemò meglio per fargli spazio. Afferrò il suo braccio che timidamente le aveva posato sul fianco e se portò più vicino per stringerlo. Oscar sentì il petto caldo di lui contro la sua schiena. Era confortevole. Sembrava qualcosa che aveva già fatto prima. Si sentiva al sicuro in un letto che non era a casa sua, in una città che puzzava di morte, in un corpo che la tradiva.  
 
***
 
Al mattino successivo, Andrè si svegliò ancor prima dell’alba. Aveva dormito poche ore, forse tre o quattro. Si sfregò gli occhi, si girò e la vide. Era stesa su un fianco, abbracciava un lembo del lenzuolo, stringendolo in un pugno che si era portata vicino al viso. I capelli se ne stavano disordinati sul cuscino. Aveva gli occhi chiusi, il volto tranquillo. Respirava in maniera pesante e ritmica. Occupava così poco spazio che quasi sembrava indifesa. L’avrebbe protetta. L’avrebbe protetta da tutto e tutti. Sarebbe diventato bravo con le armi, avrebbe cullato i suoi sogni, l’avrebbe curata, nutrita ed accarezzata tutti i giorni. Si avvicinò e le lasciò un bacio quasi come un soffio.
 
Tornò al piano di sotto e ricominciò a guardare la cartina. Provò a ripetere ad alta voce quello che gli sembrava di aver imparato il giorno prima fino alla nausea. Lo ripeté ancora ed ancora come una poesia. S’immaginò di esser fermato dalle guardie reali, di dover far finta di non conoscerne nessuno, di abbassare gli occhi e di nascondersi nel buio. S’immaginò di doversi identificare, di dover pronunciare un nome falso. Provò la convinzione che avrebbe dovuto recitare.
 
Lo raggiunse Alain poco dopo. Non aveva dormito per niente. Non disse nulla, fu la prima conversazione silenziosa che fece in tutta la sua vita. Lo guardò solo in faccia e sembrarono capirsi senza dire una parola: Oscar ed Andrè erano diventati tutta la sua famiglia. Aveva accettato che lasciassero Parigi e la guerra solo per salvare la vita di lei. Non si sarebbe presentato per gli ultimi saluti, però gli era sembrato il caso di passare un’ultima volta, l’ultima raccomandazione. “Sopravvivete.” Disse solo, poi gli lasciò un sorriso triste, cominciò a piangere e se ne lamentò. Alla fine sbuffò rassegnato all’ondata di emozioni che gli stavano travolgendo il viso e si allungò per tendere la mano al suo amico e finire in un abbraccio. Abbracciò Andrè come fosse stato davvero suo fratello. Non se la sentiva di salutare anche lei. Sapeva che sarebbe stata davvero l’ultima volta. Gli bastava Andrè. E poi non voleva provocargli altro dolore, non voleva che lui lo capisse ancora una volta, che riuscisse a guardarlo negli occhi e vi leggesse quella pena profonda che stava provando per lei davanti alla morte, quell’amore profondo che mai gli aveva sfiorato l’anima. No, non poteva farlo ad Andrè.
“Stammi bene, Andrè.” Gli disse abbracciandolo un’ultima volta. Chissà se lo credeva pazzo.
 
“Stammi bene, fratello.” Rispose Andrè, spalla contro spalla, nascondendo la ferita contro il massiccio corpo dell’amico.
 
Alain sorrise amaramente. Azzeccato, pensò. Libertà, uguaglianza, fraternità. Si portò due dita alla fronte e lo salutò. Lasciò quella casa a passo lento, quasi trascinandosi, come se la tristezza lo rendesse più pesante. Neanche se ne accorse di aver camminato verso la caserma. Ci si trovò di fronte. Gli enormi cancelli erano spalancati. Raggiunse le camerate, quella che era la sua branda e vi si addormentò, confortato dagli spazi stretti, le mura sporche e le incisioni sconce sulle assi dei letti. Almeno là si sentiva a casa.
 
***
 
Si fece mattino presto e col sole s’avvicinò anche l’ora di partire. Ad Oscar era sembrato di non dormire da una vita. Appena sveglia s’era tirata le lenzuola al collo, annusandone l’odore, consapevole che quella sarebbe stata l’ultima volta che dormiva in un letto che poteva considerare come casa per tanto tempo. Forse per l’ultima volta. Si nascose sotto le lenzuola, con la luce del primo sole che appena filtrava attraverso le maglie spesse del tessuto, domandandosi se ce l’avrebbe fatta a guarire, a sopravvivere, a tornare indietro in Francia.   
 
Si scoprì di colpo quando sentì cigolare la porta. Si mise a sedere, con i riflessi pronti, memore della divisa che ancora indossava. C’era Andrè che stava entrando, ancora vestito con gli stessi abiti sporchi anche lui, portando in mano invece roba pulita che profumava di sapone di Marsiglia. Gli sembrò di essere a palazzo Jarjayes, quando Andrè le portava i vestiti lavati dalla nonna, che avevano sempre quell’odore delicato e penetrante. Era come assistere ad una ventata di ricordi. Si sentiva così pericolosamente più vicina alla fine che all’inizio, come se rivivesse a pezzi tutta la sua vita prima dell’epilogo finale.
 
“Sei sveglia.” Constatò lui. Posò i vestiti sul letto, tutti da uomo, forse di Bernard, cuciti e rammendati da Rosalie perché entrassero ad entrambi. C’erano due camicie bianche, pantaloni e giacche verdi e marroni. Niente di elaborato o pregiato, anzi. Sembravano essere fatti per non essere notati, confusi.
“E’ ora.” Fece Andrè, cercando di convincere lei a tirarsi su. Nonostante avesse dormito tutta la notte le sembrò ancora così stanca. Alla luce del mattino notò la pelle ancor più chiara di quel che ricordava. Si domandò come avesse fatto a non notarlo prima, quanto l’avesse ignorata, come fosse tutto così evidente se solo le avesse prestato l’attenzione che lui stesso vantava di riservarle. Cercò di ignorare i sensi di colpa, di concentrarsi sul viaggio, sulla missione che serviva a lei per guarire ed a lui per fare ammenda della noncuranza.
 
Andrè le allungò una mano per aiutarla ad alzarsi. Oscar la guardò. Non ci avrebbe pensato troppo prima. Si sentì come se fosse malata, debilitata, ferma, immobile a letto, trattata come se non avesse avuto neanche le forze per alzarsi da sola. La mano di Andrè pareva così minacciosa stesa davanti a lei. La rifiutò e si mise in piedi. Spiò lui poi, confuso dal suo rifiuto. Alla rabbia che provava nei propri confronti per aver permesso alla malattia di farsi spazio nei suoi polmoni, s’aggiunse quella per esser stata capace di trattar male l’unico uomo che più di tutti l’aveva amata ed il senso di colpa per lo sguardo triste che gli era comparso sul volto. Non si sentiva riposata, né bene, né riusciva a perdonare sé stessa.
 
Raccolse i vestiti che sembravano esser fatti per lei. Si chiuse in un angolo e si girò di spalle. Tolse la giacca dell’uniforme, gli stivali e s’infilò la roba nuova. I vestiti pizzicavano, il tessuto era grezzo, non era seta né cotone lavorato. Aveva quasi paura di morire di freddo con quelli di notte. Considerò l’idea di portarsi dietro l’uniforme, staccando i gradi e le spalline, così da renderla solo blu. Blu troppo brillante. La lasciò andare a terra con rabbia, l’ultimo pezzo della vecchia vita che se ne andava. L’ultima cosa che di lei traboccava di salute.
Quando si girò Andrè la stava guardando ancora in piedi. Stringeva in mano la camicia di Bernard. Le macchie di sangue rappreso, rosso scuro, marroni e nere di fuliggine spiccavano sul blu accecante. Guardando lui, Oscar capì ancor di più la necessità di dover lasciare l’uniforme. Andrè intanto la guardava fisso, neanche capiva il sentimento che gli disegnava l’espressione truce sul volto. Stringeva i pugni e pareva come spento, così diverso dal modo in cui lei l’aveva sempre pensato. Lesse come in uno specchio la sua stessa rabbia. Credette che avesse capito anche lui che la distanza verso il suo epilogo s’accorciava sempre di più. “Mi guardi come se fossi già un cadavere.” Ruggì alla fine. Si voltò per non dover sostenere il suo sguardo deluso da quello sbotto di ira che neanche lei capiva.
 
Andrè sospirò, domandandosi perché lei non fosse felice di aver trovato una soluzione, perché non riuscisse a vedere quel futuro che era ad un passo da loro eppure continuava a sfuggirgli. “Ti guardo come se tu volessi morire.”
 
Oscar ascoltò piegando lievemente il capo di lato. Davanti a lei il sole che saliva da Est illuminava la polvere che danzava nell’aria, immobilizzando l’attimo. Una striscia di luce sembrò come divider la stanza in due parti uguali. Da un lato c’era lui e dall’altro c’era lei, poeticamente divisi al buio, nessuno dei due alla luce. “Non è così.” Fece dura.
 
Andrè strinse i pugni fino a farsi male alla spalla, si passò i vestiti da una mano all’altra perché lei non lo notasse. Alzò gli occhi e gli sembrò di vedere chiaramente il disegno di vene attorno al volto di lei, sotto ai capelli. La luce azzurrina del primo mattino le faceva sembrare gli occhi quasi trasparenti. Gli sembrò di vedere un fantasma. L’istinto gli suggerì di proteggere il suo cuore ed abbassare lo sguardo, di ricordarla con i capelli color dell’oro e la pelle rosa sulle guance. Si rifiutò invece. Voleva vedere la verità fino a farsi male. Intanto la ferita ancora pulsava ed il dolore gli obnubilava la ragione. “Dimostralo.” Le disse tra i denti.
 
“Che vuoi che faccia, che mi metta a cantare?” chiese lei con fare derisorio, nascondendo le mani che tremavano dalla paura, spaventate dalla reale possibilità di morire lontano da casa, lontano dalle persone che le erano care, con Andrè invece, che avrebbe sofferto, pianto. Ne sarebbe rimasto distrutto e se quella era la sua sorte, preferiva che lui non vi assistesse. Pensò di andare lì da sola. Sarebbe tornata viva, sana o non sarebbe tornata affatto, come i figli di quella donna a Parigi. Li capiva. Capiva così bene la paura di provocare dolore semplicemente esistendo ancora, straziando e succhiando goccia per goccia l’anima di chiunque ti rimanga accanto.
 
La frustrazione di Andrè esplose. Tirò per terra il gomitolo di vestiti che si palleggiava in mano ed urlò. “Vorrei che almeno evitassi di rendermelo più difficile.” Voleva che Oscar vedesse la speranza ed insieme il dolore che gli stava provocando. Che l’aiutasse ad aiutarla, che capisse l’angoscia e l’agitazione di dover far tutto in fretta. Conosceva quel modo di fare esageratamente indipendente, come se ci fosse solo lei, come se non capisse che amore ed affetto significavano anche dolore.
 
Lo scatto d’ira di lui fece solo in modo di provocarne un altro in lei. Lo raggiunse a grandi passi. Oltrepassò lo spazio di luce, ritrovandoselo prima completamente addosso, poi alla spalle nello spazio all’ombra di lui. “Sono io quella che sta male.” Ruggì, puntandosi un dito al petto.
 
“Lo so benissimo!” Rispose lui con lo stesso disperato tono di voce. Oscar indietreggiò spaventata. Andrè lo notò e quasi si volle tappare la bocca. La raggiunse, la abbracciò la strinse, oscillando. “Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.” Ripeté in una litania “Mi dispiace, mi dispiace.” Continuava piangendo ed allora la sentì sciogliersi e ricambiare quell’abbraccio. “Ho paura di perderti.” Le rivelò poi “Così paura.”
 
“Ho paura anch’io.” Rispose lei piano. Lo abbracciò forte, stringendo fino a sentirlo sobbalzare di dolore. La spalla era ancora ferita, non era ancora guarito del tutto. Allentò la presa e piegò il capo per nascondersi tra il collo ed il mento, sul suo petto. Il peso della rabbia e della tristezza di entrambi li fece camminare fino al centro della stanza senza mai lasciarsi.  
 
Andrè si riprese, nascose le lacrime, tirò su col naso e lasciò colare quello che rimaneva per lasciare asciugare gli occhi. La guardò dritto. Finalmente erano al sole entrambi, dove la luce lo aiutava. Non resistette e le impresse un bacio umido ed impulsivo sulle labbra di lei. La guardò ancora e cercò di cogliere ed imprimere nella memoria tutte le caratteristiche del suo viso: i capelli dorati, le labbra accese del bacio ed umide della sua saliva e le sue lacrime, le ciglia nere e lunghe, gli zigomi alti. “Promettimi che ci proverai.” Le chiese quasi supplicandola.
 
Oscar sorrise. La rabbia se ne scivolò via come acqua. Il suo viso s’addolcì. Chiuse gli occhi e pensò che se aveva Andrè ce l’avrebbe fatta. Se c’era lui poteva provarci, combattere, vivere. Sarebbe stato addirittura facile, pensò, con lui accanto. “Prometto.” Promise. Desiderò di essere intraprendente nella tenerezza e di avere il coraggio di liberargli il viso dai capelli ed accarezzarlo sulla pelle che sembrava ruvida, con quella barba disordinata, appena cresciuta.
 
Andrè le prese le mani, le tenne strette, poi accarezzò le dita. “Io prometto di non lasciarti mai.” Disse piano. Le baciò le mani fredde, tra le dita, tra l’anulare ed il medio, sigillando la promessa.
 
Oscar guardò le sue mani piccole perdersi nella pelle di lui. Pensò a quanto lui fosse deciso, calmo anche nella rabbia. Era una roccia, un punto fermo attorno a cui s’era agitata freneticamente la sua vita, attorno a cui continuava a farlo.
 
“Dobbiamo uscire.” Le disse lui “Chissà cosa penseranno.” Aggiunse, continuando ad accarezzare le sue dita, a toccarla come aveva sempre desiderato fare. C’erano stati anni in cui il tumulto della gioventù gli aveva riservato solo pensieri sconci, vividi sogni ad occhi aperti di scandalose carnalità, l’umido e violento istinto di essere dentro di lei e sentirsi completo. Invece più lei s’apriva, più gli dava spazio e più allontanava quelle idee. Divenne schiavo della delicatezza, preda di un dolce e lento languore, che lo faceva sentire così sicuro.
 
“Che pensino pure.” Rispose lei. Sorrise maliziosamente, cercò il suo sguardo, lo spiò e poi abbassò gli occhi per nascondersi.
 
Andrè sorrise. Oscar era esattamente come se la immaginava: seducente, eccitante, timida, risoluta, sfrontata ed elegante. Ogni parola sembravano misurata  e ritagliata accuratamente. Era come gareggiare con lei con una spada: ogni gesto era pulito, in ogni mossa non metteva né un poco di più, né un poco di meno. Lo sorprese invece con la tenerezza. Sentiva in lei il bisogno di lui. Lo rendeva così sicuro del suo amore da dubitare di non averla capita per anni, che fosse così da sempre. Forse lo era, lo era sempre stato. Se ci ripensava c’erano sempre stati l’uno per l’altra, dalle punizioni del generale alla rivoluzione francese. Le prese il viso tra le mani. “Dobbiamo andare.” Le ripeté dolce, spronandola, un po’ forzandola, con voce tenera quasi fosse una bambina.
 
“Va bene.” Rispose lei tanto per non lasciarlo senza risposta. “Andrè.” Chiamò però un’ultima volta. E lui s’avvicinò e la baciò. Come faceva lui a sapere cosa voleva? Come faceva a capirla subito, sempre? Come faceva ad essere tutto quello di cui aveva bisogno?
 
***
 
Partirono a cavallo.
Salutare Rosalie sembrò ad entrambi come salutare una sorella più piccola. Oscar la abbracciò e la strinse. Sembrava più grande dell’ultima volta che l’aveva fatto. La strinse per le spalle, le raccomandò di fare attenzione a Parigi. Le fece promettere di andarsene se la situazione si fosse messa male, di non rischiare, non ne valeva la pena. Era lei il futuro per cui la Francia doveva combattere.
 
Salutare Bernard fu più semplice. “Ti tengo d’occhio.” Gli disse Oscar.
“Anch’io.” Rispose lui. Non aveva un significato, ma pareva memoria del vecchio conflitto che avevano avuto in passato.
 
Andrè ed Oscar corsero per le strade di Parigi nel primo mattino. Era ancora troppo presto perché la città fosse sveglia. I cittadini avrebbero sentito il rumore degli zoccoli dei cavalli, immaginando che si trattasse ancora di un sogno. Avrebbero alzato il capo dal cuscino e sarebbero istintivamente caduti di nuovo nel sonno. I soldati non erano ancora dispiegati in posizione. Quelli rimasti fedeli alla corona riposavano ancora nelle rispettive caserme. Erano troppo pochi perché si potesse organizzare una ronda. Per le strade si sentiva l’odore della ritirata insieme a quello polveroso della rivoluzione.
 
Andrè guidò Oscar lungo le strade che aveva imparato a memoria. Non le distingueva, forse alcune non le aveva mai viste, ma sapeva benissimo dove svoltare. Si ripeteva a memoria la filastrocca che aveva imparato la sera prima. Come previsto non incontrarono nessuno fino a raggiungere le campagne. Seguirono la Senna, correndo coi cavalli per non impiegare più dei quattro giorni di viaggio previsi da Andrè. Le strade erano solcate dalle tracce delle ruote delle carrozze, l’odore di alberi ed erba sotto il sole di luglio aveva sostituito quello opprimente delle strade di Parigi. Ad Oscar sembrò di poter respirare meglio anche lì. Si fermarono appena per mangiare un tozzo di pane ed uno di formaggio, portati via in un sacchetto dietro raccomandazione di Rosalie. Non erano neanche lontanamente sufficienti, ma se li fecero bastare, sperando di poter cacciare per strada, raccogliere frutta o trovare una qualche locanda o paese per la strada.
 
Quando venne la sera le prime voci che sentirono pronunciavano parole tedesche. Oscar le riconobbe subito, memore dell’accento di Maria Antonietta. Non erano stati fermati, nessuno li aveva riconosciuti. I tumulti di Parigi li aveva protetti durante la fuga. Oscar non s’accorse d’aver trattenuto il fiato fino ad allora. Sospirò di sollievo. Si sentì come sull’orlo di piangere e ridere insieme. Poi a ridere ci si mise davvero. Fermò il cavallo e scoppiò alle luci del tramonto.
 
Andrè la guardò e si mise a ridere insieme a lei. Le risate s’accesero e continuarono mischiandosi in un pianto liberatorio. Erano salvi, erano vivi.
Scese da cavallo, si guardò attorno. La vegetazione era la stessa. Gli alberi forse sembravano solo più alti e più scuri. Sarebbe stato facile nascondersi nel bosco, pensò, prima di realizzare che non dovevano più nascondersi. Sorrise ancora, di nuovo, soddisfatta. S’addentrò tra gli alberi, lasciando la strada. “Ci fermiamo.” Disse perentoria, con il cipiglio ancora da comandante. Del resto l’aveva fatto tutta la vita, comandare. Vide un posto, poche assi di legno, che delimitavano quattro mura ed un tetto. Lo raggiunse quasi di corsa. Era buio, non aveva una porta, puzzava di stalla, come di fieno ammuffito. Accarezzò il cavallo, anche lui compagno di mille avventure. Sembrava stanco, aveva bisogno di riposare. Avevano già fatto tanto. Nel sacco trovò una coperta. La stese a terra e vi si sedette. La sensazione della sella tra le gambe sembrava bruciarle le cosce. Si sentiva pesante, stanca di nuovo. Non fece davvero attenzione a quello che la circondava. In altri momenti avrebbe seguito con la vista le venature del legno. Gli occhi le si chiudevano. Era cosciente di ogni singolo muscolo del suo corpo per il dolore: tra le scapole, lungo il collo, sulle braccia, dietro i polpacci, sotto la pianta dei piedi. Era come sentirsi schiacciare e bruciare insieme.
 
Dietro di lei Andrè stava imitando i suoi gesti. Aveva fermato il cavallo, era sceso. Cercava qualcosa con cui coprirla dal freddo della notte. Sistemò i due fedeli cavalli, li legò anche se sapeva che non sarebbero mai fuggiti. Raggiunse poi Oscar, al coperto, sistemandosi accanto a lei, con le braccia che si incrociavano. Le sfiorò la mano ed allora lei si voltò e gli poggiò il capo sulla spalla. Guardò di sbieco, oltre la porta che mancava e vide le stelle. “Te le ricordi le lezioni del maestro Morin? Quel puntino laggiù è Giove.”
 
Oscar sorrise. Guardò verso il dito di Andrè incuriosita, come se le stesse dicendo qualcosa che sentiva per la prima volta. I suoi occhi nel frattempo volarono alla costellazione di Ercole, mentre ne tracciava le linee. “Puoi abbracciarmi anche senza trovare sotterfugi.” Gli disse a bruciapelo.
 
Andrè accolse l’invito. Era ancora stordito. S’abbassò e la baciò, costringendola a torcersi il collo all’indietro per poter rispondere a quel bacio. “Scotti.” Le sussurrò accarezzandole una guancia. La lasciò andare e fu preso dalla strana frenesia di dover fare qualcosa. S’alzò, s’agitò, camminò avanti ed indietro pestando le foglie e pensando. “Dobbiamo raggiungere un posto, una locanda. Riprenderemo quando starai meglio.”
 
Oscar lo guardava preda della frenesia di accudirla a dovere. Riconobbe in lui le stesse premure che le aveva sempre riservato la nonna. Voleva alzarsi, ma non ce la faceva. Era così stanca. Sospirò piano e piantando le mani a terra come fossero radici, guardandolo dal basso gli disse: “Allora non ripartiremo mai.”
 
“Cosa?” si voltò lui, sorpreso chiedendosi cosa avesse voluto dirgli.
 
Oscar cercò le parole. “Andrè, non mi passerà.” La conosceva quella febbre, le ricordava le notti a palazzo sperando che passasse, che se ne andasse, sperando di stare meglio. Ricordava la delusione al primo mattino e l’estremo sforzo che le richiedeva alzarsi in piedi, pretendere di star bene ed andare in caserma, dove almeno ci sarebbe stato lui. “Dormiamo qui, accendiamo un fuoco. Proseguiamo domani mattina.”
 
Andrè ascoltò attentamente. Lo faceva sempre, ascoltava. Ascoltava bene e poi ci rifletteva ancora meglio. Solo allora rispondeva. “No.” Disse subito stavolta. Oscar stava per rispondere, ma lui le cadde davanti in ginocchio. L’abbracciò e quasi stavano per cadere entrambi sul terreno duro. L’abbracciò e pianse. Toccò a lui stavolta piangere e disperarsi. “Scusa, non volevo.” Disse tra le lacrime. Stava prendendo una piega disperata. Ad Andrè pareva di lottare contro il tempo, come se raggiungere la Slesia avrebbe potuto immediatamente salvare Oscar dalla morte. Tirò su col naso, sembrò respirare a fatica, prima di mettere un freno alle sue emozioni.
 
Si trovò Oscar a parti inverse a consolare lui. “Non scusarti.” Gli disse accarezzandogli il capo tra i capelli. “Te l’ho promesso, ci proverò.” Continuò con voce dolce ed accomodante. “Tu però mi devi ascoltare.”
 
Andrè fece cenno di sì con la testa. Si staccò, la guardò negli occhi. Cercò di mettere a fuoco. Strinse gli occhi, sperando che entrambe le pupille lo aiutassero, ma da un lato non vedeva che una patina bianca, dall’altro faticava a riconoscere i colori. Le baciò le labbra screpolate. Era così dolce l’amore che provava per lei. Afferrò la coperta ruvida. Era grigia, spinosa, una di quelle che usavano in caserma. La avvolse e la strinse tenendola calda. Andrè sorrise pensando ad un’altra notte di pochi giorni prima, quando l’aveva stretta così per la prima volta, nei boschi. Era diventata la sua ninfa. S’addormentarono distesi mentre lui ancora la stringeva.
 
Non fu un sonno tranquillo. Più e più volte Andrè la sentì tossire e le pulì il sangue dal viso. Si riaddormentava a fatica, mentre pregava chiunque di salvarla. Si ripeteva che doveva stare bene per poterla aiutare, doveva dormire. Chiudeva gli occhi ancora ed ancora, annusava i suoi capelli, scuoteva le spalle per allontanare il freddo. Quando poi riaprì gli occhi alle prime luci dell’alba davanti a lui c’erano ancora i cavalli: legati, riposati. Tra le sue braccia Oscar dormiva ancora, come in un bozzolo. Le spostò i capelli. Con il palmo sulla sua bocca aspettò di sentire il caldo del suo alito. Pareva veloce, affannato, superficiale. Si allarmò all’istante. Le toccò la fronte, scottava ancora più della sera prima. Sapeva di non doverle dare retta, sapeva di dover insistere, sapeva che doveva essere più prudente.
 
Oscar mugugnò appena.
“Ti porto via.” Le fece Andrè, che si tirò immediatamente in piedi, rimpacchettò malamente tutte le cose tirate fuori e salì a cavallo portandosi Oscar in braccio. Si tirò Cèsar e tornò sulla strada. Spinse i cavalli a galoppo. Corse come un ossesso, quasi sentisse il ticchettio di un orologio incombergli addosso. Non si riposò, sempre attento mentre Oscar dormiva fra le sue braccia.
 
A tratti lei si svegliava. Tra la veglia ed il sonno, la sua posizione privilegiata le aveva offerto lo spettacolo del petto di lui, vestito solo di una camicia. Quella, bianca, s’era macchiata di sangue pure, proprio vicino la vecchia ferita. Era il suo o quello di lui? S’era ribellata allora, aveva chiesto di cavalcare da sola. Andrè le promise che sì, certo, solo pochi minuti per raggiungere il prossimo bivio e poi l’avrebbe lasciata cavalcare. Oscar però non rimase mai sveglia per quel bivio, né per quello successivo. Cadde di nuovo incosciente, scossa da incubi di sangue e ferite, domandandosi persino nel sogno se quello che aveva visto era reale.
 
Andrè si fermò poche ore a notte per le due notti successive. Scambiò una pistola per del latte da un contadino. Non fu difficile farsi capire. Riscaldò il latte, bagnò il pane ormai raffermo e glielo fece mangiare. Era un pasto umile, frugale, ricordava ad entrambi delle notti fredde d’inverno a palazzo. La costrinse a bere tutta l’acqua che riusciva a darle. Aveva paura per il suo fisico, che la febbre se la rosicchiasse fino alle ossa. Non parlarono più, presi dalla febbre entrambi, della tisi l’una e della frenesia l’altro.
 
Quando arrivarono in Prussia, ad Andrè bastò pronunciare la parola “sanatorio” in una lingua che non sapeva né di francese né di tedesco, che chiunque fermasse immediatamente capì. Gli indicavano strada per strada. Guardavano Oscar e riconoscevano i segni della malattia. Stare a Parigi gli era sembrato allora come rimanere nell’ignoranza. Più si avvicinava a quel posto, più invece glipare di arrivare alla conoscenza, come se la Slesia fosse l’Alessandria che stava cercando. Alla fine gli fu indicato un castello, che quasi sapeva di medievale. Era piccolo, sulla cima di una collina, circondato da mura rossicce. Non pareva fatto di mattoni, ma quasi scavato nell’argilla e nel ferro. La salita era pendente. I cavalli fecero difficoltà.
 
“Voglio scendere.” Fece Oscar, ancora priva di forze. Erano passati solo cinque giorni, uno più del previsto, eppure sembrava ancora più piccola di quando era partita. Si mise in piedi con difficoltà, ma volle camminare da sola. Pensava e credeva di doversi guadagnare la possibilità di curarsi. Si chiese quanto ci sarebbe voluto. Camminò piano, così piano da montare in Andrè l’ansia di dover proseguire in fretta, per scoprire subito come e se li avrebbero aiutati. Li avrebbe costretti, anzi, si disse.
 
Superarono i cancelli. C’era erba mal curata, alberi senza frutta dai tronchi chiari e sottili. Un portone scuro padroneggiava lo scenario minaccioso. Non si udivano voci, quel posto pareva morto da fuori. Andrè ebbe paura d’aver fatto tardi. Cominciò a pensare mentre camminava, mentre aiutava lei a cosa avrebbe fatto se non ci fosse stato davvero nessuno. La tenne per le spalle mentre camminavano. Bussarono agitando una maniglia pesante. Attesero un tempo infinito che faceva crescere l’agitazione. Alla fine, aprì una donna vestita con una gonna celeste, lunga ed ampia, un grembiule bianco ed una cuffietta dello stesso colore che nascondeva i capelli chiari. Aveva uno sguardo distaccato, quasi cattivo. Li guardò, li studiò. Si soffermò su Oscar. Notò il collo che si sforzava per respirare, la pelle diafana, malata, gli occhi rossi ed il fisico mangiato dalla malattia.
 
Oscar ed Andrè si guardarono, non sapendo davvero bene da dove iniziare, cosa dire, chiedere, come pregare. Fu lui poi a farsi coraggio, decidendo, come aveva fatto già da tempo, di prendersi cura del suo malanno. “Bon jour, madame.” Cominciò solo, ma non ebbe tempo di finire.
 
La donna alzò gli occhi. “Dentro.” Disse rivolgendosi solo a lei in un francese stentato.
 
Oscar s’avviò, entrò. Dentro pareva ancora più freddo di fuori. Le mura di pietra erano vuote, spoglie. Sembrava abbandonato proprio come dall’esterno. Pensò alla rivoluzione e comprese subito che i veri proprietari di quella struttura non l’abitavano più. Era tutto stato sottratto ed occupato abusivamente. Si chiese fino a dove i moti ribelli s’erano spinti. Si chiese cosa ne fosse stato intanto di casa sua. Da dentro non venivano che lamenti. C’era una scala che portava a quello che pareva un corridoio. Sentì gente tossire, urlare, lamentarsi. Era peggio della panetteria di Parigi. C’era odore di morte. Non era come se l’aspettava. Ebbe paura.
 
Sentì Andrè dietro di lei, fare per raggiungerla, ma la donna lo bloccò. “Tu,” l’additò non sapendo dire altro “fuori”. Andrè sembrò non darle retta, tentare di ribellarsi, ma la donna lo bloccò di nuovo “Fuori.” Fece ancora.
 
“Andrè!” lo chiamò Oscar. Si lanciò disperata da lui, recuperando le forze tutto d’un tratto. Lui invece non faceva che guardare quella donna, che non commossa neanche dal gesto spontaneo di Oscar li guardava annoiata, come se fosse costretta ad attendere là. Oscar la superò, raggiunse Andrè, le cadde quasi tra le braccia. Aveva promesso a lui di sopravvivere, come avrebbe fatto se proprio Andrè non c’era?
 
Andrè la accolse tra le braccia quasi fosse una bambina. Le prese il viso tra le mani, le accarezzò i capelli e glieli allontanò dal volto, fino a vederla tutta, innamorata e disperata. Com’era naturale vederla così, spontanea, quotidiana, bellissima. “Vai.” Le bisbigliò, mentre le catturava le guance calde.
 
Oscar fece cenno di no stringendo gli occhi, rifiutandosi categoricamente di lasciarlo, aggrappandosi alle sue braccia, stringendo nel pugno i suoi vestiti, quasi fossero un’ancora. “E’ ferito.” Cercò di spiegare ancora a quella donna che non la stava neanche guardando.
 
Andrè prese un respiro per farsi coraggio. Gliel’aveva insegnato lei, quando sparavano o combattevano: un respiro profondo rallenta tutto. L’ammirò e la accarezzò rallentando, mentre si dimenava e lo stringeva, mentre s’aggrappava a lui come alla vita. “Vai.” Le disse di nuovo. Oscar si girò a guardarlo. Questa volta aveva le lacrime agli occhi quasi separarsi allora significasse per sempre, tradendo la paura di non uscirne. Spiò dentro di nuovo, si concesse di ascoltare meglio, sperando che l’udito almeno non lo tradisse. Sentì il rumore del morbo e l’odore caldo del sudore malato. Oscar aveva paura di morire là dentro. “Vai.” Le ripeté, sperando di sembrar duro, inflessibile, una roccia, la sua ancora, la voce della ragione. Sperando di darle coraggio.
 
La accompagnò tra le braccia della donna, che la sfiorò per avvicinarla, come si fa con le fiere. Oscar sobbalzò al contatto inatteso, erano mani grandi e calde. Lei l’accolse e la portò dentro, mentre Andrè nascondeva una lacrima e sorrideva. “Troverò un modo.” Lo vide bisbigliare. “Sempre.” Aggiunse quasi urlando perché lei lo sentisse.


 


Angolo dell'autrice
Tadaaaan! Come promesso. Scrivere questa storia mi sta riportando ai tempi di The Walking Dead, come avrei voluto che fosse. Come ormai saprete, quando scrivo una storia parte sempre da una sola scena. La scena che per primissima avevo immaginato di questa storia era questa, l'ultima. Vuole essere questa, come avrete ormai capito, una storia lenta, cruda, realistica. Volevo farvi immaginare l'odore acido della febbre, la paura di vedere persone con la tua stessa malattia morire. Il tutto ovviamente con Oscar ed Andrè, il cui amore brilla in mezzo alla schifezza. Non è una storia semplice. Lenta, sicuramente. Lunga. Con quel pizzico di stranezza nella presenza di Agathe. Per darvi un barlume di speranza vi dico però almeno che avremo un lieto fine. Ammirerò chi mi seguirà fino alla fine. Lo so, non è la tipica storia che vi aspettate in questo fandom. Da lettrice preferisco anch'io quelle storie più veloci, fatte di singoli episodi significativi, che mi lasciano qualcosa di bello. 
Or dunque, ho parlato fin troppo. Vi lascio con un saluto ed un abbraccio a tutti, a presto :*
  
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