Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
Segui la storia  |       
Autore: WillofD_04    20/12/2022    3 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
«Stella!» gridai per la terza volta, con tutta la forza che avevo in corpo. «Mi hai sentito!? Ti ho detto che voglio andar...»
Una mano pressata sulle mie labbra fermò le mie urla deliranti. Mi agitai e cercai di scrollarmela di dosso e di raggiungere la Mr. Smee, senza successo. Ma perché ero stata così stupida!?
«Tranquilla, sono io. Sono io,» mi sussurrò dolcemente Kenji. Smisi di divincolarmi dalla sua presa e lasciai che il suo odore mi invadesse le narici. Non ci avevo mai fatto caso, ma profumava di lavanda.
«Cami,» mi richiamò Kenji, il suo corpo caldo pressato contro il mio. Mi abbandonai contro di lui, sapendo di poterlo fare, perché mi avrebbe sorretta. «Capisco che tu sia sconvolta. Credimi, lo capisco. E non so chi sia questa Stella o in che modo possa aiutarti ad andare via da qui, ma se continui ad urlare ti sentiranno tutti, e presto avremo alle calcagna molti nemici. Ora toglierò la mano dalla tua bocca, però ti prego, ti prego, non gridare.»
Annuii e cercai di calmarmi. Quando fece come aveva detto, mi accorsi che stavo ancora ansimando. Mi sentivo come se avessi appena corso la maratona, con la differenza che questa era una maratona più crudele. Era così subdola che non aveva un percorso ben definito da seguire, tutti coloro che erano coinvolti dovevano procedere alla cieca. E c’erano milioni di diramazioni possibili, ma poche conducevano alla salvezza. Chi sbagliava i calcoli, moriva.
Gli scontri alle mie spalle ripresero, lo stupore era ormai scemato. Non capivo come tutti potessero farsi scivolare addosso tanto facilmente il fatto che non avevamo più vie di fuga, ma sapevo che se non avessi fatto lo stesso sarei morta, che fosse per mano di un nemico o per la mia angoscia. Presi un respiro profondo, tentando di capire quale fosse l’opzione migliore, mentre Kenji mi consolava strofinando una mano sulla mia schiena.
«Stella...» Stavolta sussurrai. Mi sporsi di nuovo dalla finestra. «Che cosa devo fare?»
Cercai un suo segno, qualcosa che mi convincesse a rimanere lì e a combattere, a credere fino alla fine. In fondo ero la sua protetta, mi aveva già aiutato, avrebbe potuto guidarmi ancora una volta. Ma quando alzai gli occhi e sbirciai il cielo tramite il cratere sul teschio della creatura gigantesca, vidi solo nuvole. Scossi la testa, sconsolata. Non era quello il segno che mi aspettavo, ammesso che lo fosse. Non sapevo che fare. Volevo davvero utilizzare il mio ultimo desiderio per abbandonare i miei compagni come una codarda e tornare nel mio mondo senza nemmeno salutarli? La vecchia Cami si rifaceva viva. Ma come potevo biasimarla? Questa guerra era una carneficina, qualunque persona sana di mente se la sarebbe voluta dare a gambe. Perché non mi ero lasciata consigliare dalla vecchia Cami anche prima di accettare di partecipare alla battaglia!? Perché mi ero messa in quel casino? Come facevo ad uscirne? Come facevo a sopravvivere?
Mi afferrai il ponte del naso con le dita e abbassai la testa, sull’orlo delle lacrime. «Io non posso morire qui...»
«Cami!»
Mi voltai alla velocità della luce per trovarmi davanti Kenji che tentava di respingere un nemico che aveva le fattezze di un bruco. Non era grande, ma era alto il doppio del mio compagno e combatteva usando le zampe grasse e verdi per tenerlo occupato, mentre in ciascuna mano aveva una pistola, puntata sulla testa del rosso. Sul petto dell’uomo c’era la faccia paffuta del bruco. La lingua penzolava e l’espressione non era delle più sveglie.
«Kenji, schema a piramide,» lo avvisai mentre sguainavo l’ascia.
Il mio compagno curvò leggermente la schiena in avanti, io corsi verso di lui, saltai sulle sue spalle con i piedi e le utilizzai per farmi leva. Feci fuori l’insetto e l’uomo in un solo colpo. Dopo che l’avversario si fu accasciato al suolo pulii il sangue che era rimasto sulle lame della mia arma sulla sua camicia hawaiana.
«Grazie.» Kenji mi sorrise.
«È merito di entrambi, siamo una bella squadra.» Gli sorrisi di rimando e alzai il braccio per battergli il cinque. Nel momento in cui le nostre mani si toccarono, capii quanto fossi stata egoista. Se avessi dato retta alla mia angoscia e me ne fossi andata, avrei lasciato Kenji lì da solo. Non potevo farlo, non potevo permettermi di essere debole, perché con me c’era lui, e dovevo proteggerlo. Io non sarei sopravvissuta senza di lui, ma lui non sarebbe sopravvissuto senza di me. Eravamo imprescindibili l’uno per l’altro, se volevamo conquistare la nostra vittoria dovevamo essere una cosa sola. Soltanto così avevamo una speranza di cavarcela. Se Kenji poteva mettere da parte la sua angoscia per proteggermi, allora potevo farlo anche io. Dovevo restare lucida per entrambi.
«Stai bene, comunque?» Mi poggiò una mano sulla spalla e mi guardò con un po’ di preoccupazione.
Gli accarezzai una guancia. «Ora che so che sei tu il mio segno, sì.»
Fece un’espressione confusa, ma prima che potessi spiegargli un altro nemico tentò di assalirci. Questa volta si trattava di un uomo basso e snello con gli occhiali da sole. Non sembrava molto forte, il problema principale era che i suoi capelli castani erano in realtà un millepiedi. Anch’esso portava gli occhiali da sole e ondeggiava attorno al suo padrone – se così si poteva chiamare – con un’espressione diabolica.
«Avanti, Galley! Uccidiamoli,» il pirata sollecitò l’animale e quello ridacchiò.
Corrugai le sopracciglia. Ne avevo viste di cose strane in quel mondo, ma quella era di un altro livello.
«Me ne occupo io,» affermò Kenji, sfilando i suoi sai dalle cuciture apposite della divisa.
Non obiettai e lo osservai mentre combatteva contro la coppia con gli occhiali da sole. Nell’assurdità della situazione pensai che il lato positivo per quel tizio era che risparmiava sullo shampoo. L’attaccatura dei capelli corrispondeva al didietro del millepiedi, il corpo era appoggiato sulla spalla sinistra dell’uomo. Se fosse stata una chioma normale gli sarebbe arrivata fino alle ginocchia, ma poiché aveva vita propria, si sosteneva da sola e sovrastava in altezza il suo padrone, oscillando sinuosamente in tutte le direzioni e irrigidendosi solo quando era il momento di attaccare. Funzionava come un terzo braccio, si tendeva e al nemico il colpo arrivava come se fosse un pugno. Tuttavia era anche in grado di utilizzare le sue zampette schifose per avvolgere l’arto dell’avversario e bloccarlo, rendendolo inerte. Kenji non riusciva a mettere a segno nessun colpo, perché era impegnato a schivare i suoi attacchi. Volevano sfinirlo e approfittare della sua stanchezza per dargli il colpo di grazia.
Il millepiedi colpì il rosso sul viso e questi indietreggiò di qualche passo tenendosi la faccia. Un rivolo di sangue, che poi si pulì con la manica della divisa, gli colò dal naso e io sussultai. Non mi piaceva vederlo soffrire. Era anche per questo che me ne volevo andare, non sopportavo l’idea che potesse farsi del male. Ma avevo capito che se gli fosse successo qualcosa e io non fossi stata lì per aiutarlo non me lo sarei mai perdonato.
Continuai ad osservare il combattimento in silenzio, stando attenta a non farmi trovare impreparata in caso di attacco da parte di qualche nemico, l’ascia sempre stretta tra le mani. La cosa positiva dell’essere pesci piccoli era che in una battaglia contro una ciurma di gente ambiziosa e senza scrupoli, nessuno era interessato ad affrontarci. Volevano tutti le teste di Rufy, Law, Kidd e altri pezzi grossi lì presenti. Noi passavamo perlopiù inosservati, anche perché non attaccavamo nessuno di nostra spontanea volontà, aspettavamo che fossero gli avversari a venire da noi e rispondevamo a tono quando eravamo chiamati a farlo. Ci provavamo, almeno. Finora non ce la stavamo cavando male, si stava rivelando una strategia vincente.
Strabuzzai gli occhi nel momento in cui vidi il sottoposto di Kaido disarmare Kenji. Il millepiedi avvolse il suo busto e con una mossa rapida lo scaraventò dalla parte opposta del corridoio. Lo vidi volare per qualche metro, schiantarsi con la schiena su un muro e riatterrare flaccido per terra. Sussultai e per un momento non mi mossi. Poi mi decisi, e invece che andare ad aiutarlo, mi preparai per affrontare il nemico. Preferivo prima togliere di mezzo la minaccia.
«Questo combattimento sta andando troppo per le lunghe.»
Mi voltai e vidi che il mio compagno si era rialzato. Ansimava e sanguinava leggermente, ma sembrava stare bene. Sorrisi sollevata. Mi raggiunse in fretta e si parò davanti a me.
«Cami, schema a piramide!» Si inginocchiò e io mi affrettai a saltargli sulla schiena.
Fu più difficile abbattere l’animale questa volta, perché aveva vita propria e sapeva come evitare i colpi, ma dopo un paio di attacchi andati a vuoto, capii qual era il suo punto debole. Saltai sulle spalle di Kenji per la terza volta, ingannai l’animale fingendo di attaccarlo e, quando si scansò, scagliai un colpo contro il suo padrone. Contro la calotta cranica del suo padrone, per essere precisi. L’ascia gli si conficcò circa cinque centimetri in profondità, sangue e materia cerebrale schizzarono da ogni parte. Se non fossi stato un chirurgo e non me lo fossi aspettato, lo avrei trovato uno spettacolo disgustoso. Anche il millepiedi gemette, visto che avevo colpito il suo “posteriore”. L’uomo, ormai privo di sensi – e di vita – cadde in ginocchio, e ne approfittai per tranciare l’animale, che finì a terra qualche metro più in là. Gli occhiali da sole di entrambi erano volati via, un chiaro segnale che quello scontro era stato vinto dai Pirati Heart.
«Lo schema a piramide funziona sempre,» commentò soddisfatto Kenji dietro di me.
Emisi un verso d’assenso, del resto era una mossa che avevamo concordato prima di iniziare a combattere, appena eravamo rimasti soli, ma invece di commentare continuai a fissare il millepiedi con una certa frustrazione.
«Ma perché tutti gli insetti devono venire a importunare noi!?» Diedi un calcio alla creatura e la feci rotolare ancora più in là.
«Tecnicamente il millepiedi è un miriapode,» mi corresse il rosso.
Lo fissai con un sopracciglio alzato e lui sorrise imbarazzato. Solo lui poteva mettersi a puntualizzare su una cosa così stupida in quelle circostanze. Entrambi scoppiammo a ridere. In mezzo a tanta negatività, la cosa positiva era che mi sembrava che io e Kenji fossimo tornati ai vecchi tempi.
 
Era passato un altro quarto d’ora. Io e il mio compagno avevamo sconfitto un altro nemico, uno con una risata strana. Ci aveva dato del filo da torcere, ma alla fine aveva capitolato e si era accasciato al suolo piangendo dal ridere. A parte questo, era successo di tutto. A qualche metro da noi, nel corridoio, erano passati correndo Killer e Kidd, e quest’ultimo per poco non mi aveva portato via l’ascia e i pugnali a causa del suo maledetto potere magnetico. Ero riuscita a recuperarli prima che finissero nelle sue grinfie per miracolo. A quanto avevo notato aveva raccolto un bel gruzzolo di armi, non gli servivano anche le mie. Anche Kenji per fortuna aveva avuto la prontezza di non farsi sottrarre i sai. Non avevo visto né Rufy né Law, ma ero certa che anche loro si stessero dirigendo sul tetto. La testa di Kaido faceva gola a tutti. Sanji, al nostro stesso piano, si era fatto catturare da una donna e aveva mandato una richiesta di aiuto a Nico Robin tramite degli altoparlanti che avevano risuonato per tutto il castello. Doveva esserci qualcosa sotto, proprio per questo – e perché ero una fifona di prima categoria – non ero andata ad aiutarlo. Nel cortile, Zoro aveva rubato la provetta ad Apoo e Chopper stava tentando di moltiplicare gli anticorpi per poi somministrarli a tutti. Avevo visto tutto, perché invece di rimettermi a correre come una pazza per il castello avevo deciso di rimanere vicino a una finestra del terzo piano ad osservare la situazione. Sia io che Kenji avevamo rischiato un infarto quando avevamo intravisto Big Mom schizzare sul tetto sopra il suo fidato Prometheus. Era stato un attimo, ma l’energia che emetteva un Imperatore era paralizzante. Subito dopo di lei era apparso Marco e mi ero rilassata. Il suo arrivo era stato provvidenziale. Aveva utilizzato il suo potere per frenare gli effetti dell’epidemia, poi aveva accompagnato – o meglio, lanciato – Zoro sul tetto ed era rimasto ad occuparsi di King e Queen contemporaneamente in attesa di rinforzi. Mi aveva perfino vista e ci eravamo scambiati un rapido saluto. Ci eravamo detti così tante cose nei giorni prima della guerra, e ce ne dovevamo dire tante altre... Non era quello il momento di pensarci, però. Ci eravamo fatti una promessa: se fossimo sopravvissuti alla battaglia, mi avrebbe portato in un posto speciale e avremmo brindato insieme. Forse quello era il mio secondo segno.
Un gemito di dolore mi distrasse dalle mie riflessioni. Seguii il rumore e posai lo sguardo su un Visone agonizzante. Mi diressi da lui.
«Sono un medico, sono qui per curarti,» dissi all’uomo-cavallo. Era in fin di vita, a una prima occhiata aveva bisogno di un’operazione urgente per riparare dei tessuti gravemente danneggiati. Mi chiesi se fosse il caso di sprecare del prezioso materiale medico su di lui. Non aveva speranze senza chirurgia, e io non potevo aiutarlo, non avevo neanche più delle garze con cui fasciarlo per provare a fermare l’emorragia. Sotto di lui c’era una pozza di sangue che era destinata ad allargarsi sempre di più, il manto bruno ormai si era tinto di rosso. «Cosa posso fare per te?»
«Ho... ho due figli.» La voce gli uscì a malapena, fu un miracolo che fossi riuscita a sentirlo con tutto quel rumore. Mi avvicinai a lui e tesi l’orecchio. «Sono due gemelli, si chiamano Lucky e Luke. Lucky assomiglia a me, Luke invece ha il manto pezzato, ha preso da sua madre.» Sorrise al pensiero, poi si contorse, tossì e sputò sangue.
«Sono qui anche loro?» domandai con un nodo alla gola, avevo il terrore che potesse chiedermi di andare a cercarli.
Scosse la testa. «Hanno otto anni. Sono a Zou. Se li incontri, puoi dire loro che... che il loro papà li ama?»
Increspai le labbra, tentando di non abbandonarmi alle lacrime. C’era così tanta disperazione in quella frase. Quel Visone sapeva che sarebbe morto entro breve. Sapeva che molto probabilmente non avrei mai incontrato i suoi figli, del resto Zou non era un’isola facilmente accessibile e c’era la possibilità che morissi anche io in quella guerra. Eppure quell’uomo... quell’uomo voleva che lo rassicurassi, che gli dicessi che avrei comunicato ai suoi figli che lui li amava. Non avevo idea di come fossero fatti quei bambini e di come trovarli, non avevo idea di come raggiungere la sua isola natale, non avevo nemmeno idea di come avrei fatto ad uscire viva da lì. Ed era atroce che l’ultimo scintillio di speranza negli occhi del Visone fosse dato dall’illusione che una sconosciuta accogliesse la sua richiesta. Era atroce che si affidasse a me per far recapitare il messaggio a Lucky e Luke, anche se solo per finta. Era atroce che i suoi figli non avrebbero mai saputo da lui che il loro papà li amava. Ed era ancora peggio che non lo avrebbero visto tornare a casa insieme ai sopravvissuti. Avrebbero osservato l’orizzonte, cercato disperatamente un uomo-cavallo dal pelo scuro, e non lo avrebbero trovato.
Presi un respiro profondo e ricacciai indietro le lacrime. Non era il momento di piangere. Se avessi iniziato non avrei più finito.
«Come ti chiami?»
«D-Dalton,» mormorò, ormai allo stremo delle forze.
«D’accordo, Dalton.» Gli strinsi il polso irsuto. «Lo farò.»
«Grazie.» Sorrise, i grandi denti ormai tinti di rosso. Poi chiuse gli occhi, per non riaprirli più.
Scossi la testa. Non era giusto. Non era giusto. Non era giusto. Mi portai una mano al petto e me lo massaggiai, come se questo potesse diminuire il dolore che stavo provando. Era come avere un coltello conficcato nel cuore. Ero rimasta a guardarlo morire senza poter fare niente per lui. Non avevo nemmeno potuto alleviare il suo dolore con qualche farmaco, perché ero a corto di tutto. Il mio labbro inferiore tremò e dovetti ricorrere a tutta la mia forza di volontà per non scoppiare in lacrime. A quante scene come questa avrei dovuto assistere ancora? Il pensiero mi terrorizzava.
Un altro rantolo sofferente mi fece tornare alla realtà. Poco più in là c’era un samurai in fin di vita che si stava contorcendo dal dolore. Sospirai, mi alzai e mi diressi verso di lui, le gambe che nonostante il peso da sopportare si muovevano da sole. Kenji però mi precedette e si inginocchiò vicino a lui.
«Sono un alleato e un medico. Sono qui per aiutarti.»
«A-a... acqua...» L’uomo sollevò una mano tremolante verso il rosso, come a supplicarlo. Doveva essere grave, i samurai erano addestrati a non chiedere mai niente. Mi avvicinai e controllai la situazione: sarebbe morto di lì a breve. Aveva una brutta ferita all’addome; pelle, muscoli e tessuti adiposi erano lacerati, e un pezzo di intestino fuoriusciva dallo squarcio. Non avevo mai visto una cosa simile, se non in foto. Ma dal vivo era molto più terribile. Se non fossi stata un medico lo avrei perfino trovato rivoltante. Ad ogni respiro che faceva perdeva sempre più sangue. Non aveva alcuna speranza di farcela senza un accurato intervento medico, un intervento che io e Kenji non potevamo praticargli in quel contesto. Emisi un lamento addolorato che feci passare per un colpo di tosse. Un’altra persona sarebbe morta senza che io potessi fare niente. La cosa peggiore era che alcuni di loro si sarebbero potuti salvare se avessi avuto il giusto equipaggiamento a disposizione. La guerra era in grado di mietere vittime che non avrebbero dovuto essere vittime. Tutti noi avevamo preso coscienza di ciò a cui saremmo andati incontro nel momento in cui avevamo accettato di combattere, ma pensare che saremmo dovuti morire anche quando c’era una possibilità di cavarcela mi demoliva completamente.
La devastazione lasciò spazio alla frustrazione quando vidi che il mio compagno stava dando dell’acqua al samurai, che ne bevve un sorso generoso e spirò poco dopo.
«Kenji, le nostre scorte sono limitate, non possiamo permetterci di sprecare materiale medico con chi non ha speranze!» La frase suonava orribile, in circostanze normali non la avrei mai pronunciata. Mai. Ma la situazione era quella che era, e noi avevamo concordato che avremmo offerto il nostro aiuto solo a chi aveva una speranza di farcela. Non era etico, o corretto, o facile. Non era una cosa che io e Kenji volevamo o eravamo capaci di fare, però dovevamo farlo. Del resto non ci trovavamo al luna park, stavamo combattendo una guerra spietata. L’unico modo per poter aiutare quante più persone possibile era lasciare che chi era destinato a morire morisse.
Il rosso si girò verso di me, e solo allora vidi che stava singhiozzando. Fiumi di lacrime stavano scendendo dai suoi occhi, le iridi verdi piene di tormento, il viso contratto in una smorfia sofferente e il corpo ricurvo su se stesso. Mi bloccai e boccheggiai. Non sapevo che dire. Non sapevo che fare. Anche io volevo piangere, volevo rannicchiarmi in un angolino e lasciarmi andare alla stanchezza e al dolore, senza dovermi preoccupare di chi viveva e chi moriva, senza dovermi preoccupare di sopravvivere o di ciò che succedeva attorno a me. Però non potevo farlo. Non potevo arrendermi alla disperazione. Se fossi entrata in quella voragine, non ne sarei più uscita.
Mi inginocchiai e abbracciai Kenji. Il suo corpo che si agitava tra le mie braccia mi rendeva ancora più arduo non cedere alle lacrime. Ma era proprio per questo che dovevo resistere. Il mio compagno si trovava in difficoltà, io dovevo essere forte per lui, come lui lo era stato per me. Non potevamo permetterci di perdere entrambi la testa, se volevamo salvarci. Ora era il suo turno, stava a me tentare di tranquillizzarlo.
Aprii la bocca per dire qualcosa, eppure le parole non mi uscirono. Invece mi uscì un sospiro tremolante. La faccia di Kenji era sepolta nella mia spalla, la stoffa della mia divisa ormai bagnata per le sue lacrime.
«È terribile. È così ingiusto...» Il suo fu un sussurro, era una miracolo che fosse riuscito a parlare viste le condizioni in cui era, ma la sua voce era così rotta e così piena di tormento e tristezza e rabbia che prima che me ne accorgessi una lacrima scivolò lungo la mia guancia.
“Non piangere. Non piangere. Cami, ti prego, non cedere alle lacrime. Non te lo puoi permettere. Quando tutto sarà finito, se sopravvivrai, potrai singhiozzare per giorni interi, ma ora devi essere coraggiosa e non devi lasciarti andare alle emozioni. Devi restare concentrata. Per favore.”
«Forse... forse nel castello c’è un infermeria, o qualcosa del genere. Insomma, da qualche parte dovranno pur tenere i medicinali, no? Potremmo andare a cercarli e rubarli, e a quel punto saremmo in grado di aiutare tutti. Che ne pensi?» Lo dissi senza riflettere, ma funzionò, perché Kenji si staccò dalla mia spalla, smise di piangere e annuì flebilmente.
Sospirai sollevata e lo aiutai ad alzarsi. Chi poteva dirlo, la mia avrebbe potuto essere un’idea vincente. Nel momento in cui ci rimettemmo in piedi, però, qualcosa ci destabilizzò. Lui ricadde in ginocchio e io fui costretta ad appoggiare una mano per terra. Il mio corpo fu attraversato da una sensazione strana, un formicolio elettrico che mi rendeva debole e incapace di stare dritta. Non era come i terremoti, non era qualcosa di brutto, non era qualcosa di bello. Era... potente.
«Cosa succede?» Kenji tentò di rialzarsi.
Guardai in alto. Tra le crepe del soffitto e i due piani che ci separavano dal tetto, quasi mi parve di vederlo. Cercai di scacciare la paura e sorrisi. «È Rufy. Sono tutti loro. Lo scontro finale è cominciato. Le Supernove della Worst Generation contro due Imperatori.»
Si prospettava uno scontro tra Titani.
 
«Te l’avevo detto che Chopper avrebbe trovato una soluzione,» dissi, ansimando. Avevo le mani appoggiate alle ginocchia, il sudore mi colava dalla fronte e le gambe tremavano.
«E io ti avevo detto che mi fido di te,» rimarcò Kenji, che era nelle mie stesse condizioni.
Mi ero affacciata a una finestra e avevo guardato giù. Niente più Oni di ghiaccio, erano tutti liberi dal virus e alcuni sottoposti di Kaido, grazie allo scherzetto di Queen, erano passati dalla nostra parte. Ora Chopper stava combattendo contro il cyborg in Monster Point. Era sopraggiunto anche Perospero, il figlio di Big Mom, che stava lanciando frecce di caramello a cascata su tutti. Non era una situazione facile, ma avevo fiducia nella renna. Non potevo fare nulla in ogni caso per aiutarlo, non contro due avversari di quel calibro. E poi avevo altro a cui pensare.
«Credi che andrà per le lunghe?» mi chiese il mio compagno, a corto di fiato.
«Non lo so. Spero solo che tutti stiano bene.» Non avevo avuto notizie di nessuno e non avevo idea di dove si trovassero, ero un po’ preoccupata. Però la mia preoccupazione più grande rimaneva reperire del materiale medico.
Erano passate altre tre ore. Tre ore trascorse a combattere, curare i feriti e correre senza direzione in cerca di un’infermeria di cui non vi era traccia. Avevamo deciso di iniziare a perlustrare dal primo piano e risalire fino al quinto. Avevamo perlustrato tutti i piani – nemici permettendo – eppure non avevamo trovato un bel niente. Possibile che in quella ciurma di mostri nessuno si ferisse mai? Kaido era uno tosto, ma tutti gli altri? Forse non avevamo cercato bene. Era probabile che ci fosse sfuggito qualcosa, viste le dimensioni dell’edificio. Adesso ci trovavamo al quarto piano ed eravamo diretti al terzo: avevamo optato per ispezionare di nuovo il castello, stavolta dall’alto verso il basso. Il problema era che il caos aumentava e la pazienza diminuiva. I sottoposti dell’Imperatore iniziavano a tornare sobri, e questo stava incrementando la ferocia dei combattimenti e le vittime tra gli alleati. Avevo affrontato molti nemici e non avevo idea di quanti ne avessi uccisi. Ma ormai nemmeno mi importava più, non mi sentivo in colpa, stavo solo facendo il necessario per non soccombere.
Cominciavo a essere esausta. Ero piena di lividi e tagli. Sanguinavo. I miei piedi non ce la facevano più. Mi facevano male muscoli che non pensavo di avere. Le mie mani erano intrise di sangue, non sapevo più se fosse il mio o quello dei numerosi alleati che avevo soccorso. Avevo perso il conto di quante persone fossero morte mentre tentavo di aiutarle, di quanti occhi si fossero spenti davanti a me, di quanti ultimi respiri ero stata testimone. Era straziante. Non li conoscevo, ma soffrivo ad ogni vita che si spezzava. Era così ingiusto. C’era così tanto dolore. Le pareti di quel castello celavano un’immensa sofferenza, che non ero sicura di riuscire a sopportare. Sentivo il peso di ogni morte su di me. Tutte quelle persone stavano lasciando indietro qualcosa. Molti avevano una famiglia da cui ritornare, figli che non li avrebbero mai più rivisti, mogli con cui non avevano trascorso abbastanza tempo, genitori che avrebbero dovuto seppellirli. Alcuni avevano dei sogni che erano stati calpestati e infranti, tutto perché venti anni prima un maledetto pirata aveva deciso di insidiarsi lì per condurre i suoi sporchi affari, portando il Paese alla rovina con la complicità di uno Shogun che non sarebbe mai dovuto diventare Shogun. Era tutto sbagliato. Nessuno di noi doveva trovarsi lì. Né Kaido, né Orochi, né Rufy e tutti i suoi alleati, né io.
Appoggiai la testa alla parete in un raro momento di pausa e Kenji, che era rimasto sempre al mio fianco, fece lo stesso. Per il castello avevano iniziato a riecheggiare delle voci che ci aggiornavano sull’andamento della battaglia. Non sapevo da dove venissero, o come funzionassero, ma una cosa era certa: avevano il compito di destabilizzare gli avversari, cioè noi. E ci stavano riuscendo, per quanto mi riguardava. I numeri, che già non erano a nostro favore, stavano diminuendo drasticamente, come le mie speranze di vincere quella guerra. Ero spaventata, confusa, stanca e – letteralmente – persa. Continuavano ad esserci esplosioni, e polvere, e tremori, e corridoi che mi sembrava di non aver mai visto o attraversato prima. Mi trovavo in un labirinto, con il corpo e con la mente, e continuavo a girare in tondo. Ero troppo sopraffatta dalle circostanze e dai ritmi forsennati della battaglia per poter trovare una via d’uscita. Non facevo in tempo a rendermi conto di quello che stava succedendo che subito accadeva qualcos’altro e la situazione si capovolgeva per l’ennesima volta, lasciandomi spiazzata. Ogni volta che pensavo di essermi adattata agli avvenimenti, le carte in tavola cambiavano, e dovevo ricominciare da capo. Odiavo sentirmi così, odiavo non avere il controllo. Stavo cadendo in un precipizio alla velocità della luce e non sapevo come fermare la mia discesa verso gli Inferi. Era un peso che non potevo affidare a Kenji, lui si reggeva in piedi per miracolo e stava già facendo di tutto per tenermi al sicuro.
Attivai l’Ambizione della Percezione prima di svoltare l’angolo. Frenai e fermai il mio compagno con un braccio.
«Non possiamo proseguire per questo corridoio, ci sono una ventina di nemici.»
«D’accordo, allora torniamo indietro,» propose lui.
Annuii e lo assecondai, ma nel momento in cui tornai a concentrarmi sulla strada che dovevamo prendere sussultai.
«No, no, non possiamo tornare indietro. Ci sono...» Mi presi un attimo per contarli. «Tredici nemici in quella direzione, e nessun alleato. Siamo circondati.»
«Cosa facciamo?»
«Non lo so... Siamo circondati...» ripetei, la vista che si appannava, non sapevo se per la stanchezza o per la paura. «Siamo bloccati.»
«Possiamo trovare un’altra via,» suggerì Kenji con il suo solito ottimismo. Non capivo come facesse a restare così positivo quando stava andando tutto a rotoli.
Mi portai le mani a massaggiare le tempie. L’Haki mi faceva percepire la presenza delle persone, e questo mi era di grande aiuto, ma mi faceva anche captare le loro emozioni e i loro pensieri. Qualcuno pensava a far fuori quanti più nemici possibile, altri – come me – pensavano a sopravvivere, mentre alcuni pensavano ai loro cari. In ogni caso, avvertivo tanta sofferenza. Troppa. Mi dava la nausea.
«Annuncio a tutta Onigashima!» fece una voce cantilenante che riconobbi essere la stessa che ci avvisava delle perdite. «Rufy Cappello di Paglia, il nemico dalla taglia più alta in assoluto... è stato sconfitto!»
Ci fu scompiglio generale. Gli alleati trasalirono, i nemici fecero festa. A me si gelò il sangue nelle vene. Non era possibile.
«Kaido-sama ha spezzato la sua vita e ora sta affondando nei freddi e bui abissi dell’oceano!»
«No...» Scossi la testa, lo sguardo perso nel vuoto.
«I samurai dei Kozuki e il vostro Capitano sono stati sconfitti! Chi vuole essere il prossimo!? C’è qualcuno capace di vincere?»
No. No, non c’era nessuno capace di vincere, a quel punto. Se nemmeno Rufy ce l’aveva fatta, stava a significare che eravamo spacciati. Tutti.
«Kaido-sama ora discenderà personalmente per ripulire l’isola dagli ultimi ribelli. Tuttavia, è disposto a concedervi di arrendervi. Chiunque alzerà le mani per arrendersi, pronto a giurarci fedeltà, verrà risparmiato, e gli verrà concesso di unirsi a noi!»
Le mie braccia ebbero l’impulso di sollevarsi sopra la testa in segno di resa. Non sapevo quale forza invisibile mi avesse fermato dal farlo, ma qualcosa lo fece. Non la mia dignità, perché non mi importava più niente della dignità, o dell’orgoglio, o della lealtà. Avevamo perso, e l’unica possibilità che ci restava per sopravvivere era capitolare e sottomettersi.
«È tempo di gettare la spugna, Wanokuni! Questa battaglia ormai è perduta! Il vincitore è deciso! Rufy Cappello di Paglia ha perso!» La voce parlò di nuovo, e il mio mondo crollò per lasciare posto al vuoto.
Ero in iper-ventilazione, i pugni stretti in due morse d’acciaio e il cuore che minacciava di catapultarsi fuori dal petto. Crollai in ginocchio, il corpo scosso da potenti singhiozzi e le guance ormai fradice per le lacrime. Mi ero ripromessa di non piangere, ma che senso aveva continuare a resistere quando non c’era più speranza? E io lo sapevo, sapevo che non avrei dovuto darmi per vinta, perché Rufy era Rufy, e i miracoli, lo avevo visto con i miei occhi tante volte, potevano accadere. Se fossi stata lucida mi sarei data una botta in testa per aver dubitato del mio amico, del futuro Re dei Pirati. Ma leggere le sue vicende su un computer era ben diverso dal viverle. E partecipare a quella guerra mi aveva prosciugato. Mi aveva tolto la razionalità, le energie, la fiducia, l’umanità. Era tutto perduto.
Una mano si posò sulla mia spalla. «Facciamoci coraggio, Cami. È chiaro che vogliono destabilizzarci. Non sappiamo se sia vero! Magari Cappello di Paglia è vivo e vegeto e sta ancora combattendo contro Kaido.»
«Quanto cazzo sei stupido, Kenji!? È finita. È tutto finito! Abbiamo perso. Non usciremo mai vivi da qui. Moriremo tutti.» Non lo guardai neanche. Non mi dispiacqui per ciò che avevo detto. Niente aveva più importanza. C’era un ronzio nella mia testa che non voleva lasciarmi in pace. Percepivo tutta la sofferenza che mi circondava, l’incertezza, la crudeltà. Ero distrutta. Non ce la facevo più. Mi sdraiai a terra in posizione fetale, le lacrime che continuavano a sgorgare copiose dai miei occhi. Lo sguardo preoccupato di Kenji e la sua voce che mi urlava di fare attenzione ai nemici furono le ultime cose che vidi e udii prima di precipitare in uno stato catatonico.
 
«Cami, ti prego, rispondimi...» Kenji provò di nuovo a scuotermi per una spalla.
Girai la testa lentamente verso di lui. Osservai le sue iridi attraversate dall’angoscia e distolsi lo sguardo.
«Io non dovrei essere qui,» sussurrai, poi risi.
«Come?» Il mio compagno, che non aveva sentito, si avvicinò a me. Erano le prime parole che pronunciavo dopo essermi accasciata al suolo, perciò percepivo sollievo nella sua voce.
«Io non dovrei essere qui,» ripetei mentre un sapore amaro si diffondeva nella mia bocca. «Dovrei essere seduta su un banco, circondata dai miei coetanei, ad ascoltare la mia amica che si lamenta perché il ragazzo che le interessa non ha messo “mi piace” all’ultima foto che ha postato su Instagram. E a guardare fuori dalla finestra invece che la lavagna, perché è una bella giornata e non è giusto che io sia bloccata in una stanza con degli insegnanti che cercano di convincermi che saper risolvere un’equazione con le lettere o che conoscere tutte le opere di Pirandello in ordine cronologico mi sarà utile nella vita.»
«Che cosa stai...» Kenji tentò di chiedermi, tuttavia lo interruppi.
«Ma no, invece sono qui, a combattere una guerra che...» Scossi la testa, la voce rotta. «È persa in partenza.»
«Camilla, credo che tu sia in stato confusionale.» Mi accarezzò un braccio, la voce un misto tra afflizione e apprensione.
Scattai in piedi, d’un tratto furiosa.
«No! No! Io non sono in stato confusionale!» gridai. Non ero più catatonica, avevo recuperato un po’ della mia lucidità. Mi faceva così arrabbiare che lui non capisse quello che volevo dire. Non era colpa sua, nessuno in quel mondo poteva capirlo. Ero sola con la mia pazzia, sola con il mio dolore.
Il rosso si portò un dito alla bocca, preoccupato che qualcuno potesse sentirci e scoprire il nostro nascondiglio. Mi guardai intorno e solo allora mi resi conto che ci trovavamo in una specie di ripostiglio piccolo e buio, dove tenevano stracci e scope per pulire. Anche se ero sicura che Kenji avesse infilato la prima porta disponibile per salvarci dalla pioggia di sottoposti di Kaido che stava per abbattersi su di noi, era stata una bella trovata. Finché nessuno fosse entrato, saremmo stati al sicuro. A chi mai verrebbe in mente di mettersi a spazzare nel bel mezzo di una battaglia? In un’altra situazione mi sarei preoccupata che mi avesse trascinato in una stanza buia e vuota, ma in quel caso gliene ero grata. Mi aveva salvato la vita e mi aveva salvata da me stessa.
«So che per te non ha senso quello che sto dicendo, ma credimi, lo ha. Ha più senso di tutto questo.» Allargai le braccia per indicare Onigashima e la guerra che stavamo vivendo.
Scosse la testa e mi sorrise flebilmente. «Se dici che per te ha senso, mi fido. Non era mia intenzione offenderti, sono solo contento che tu ti sia ripresa.»
Avrei voluto rispondergli che per riprendermi mi sarebbero serviti ben più di cinque minuti, ma non feci in tempo, perché una voce riecheggiò di nuovo per tutto il castello, solo che questa non era la solita, ma quella di un bambino.
«Io sono Kozuki Momonosuke!»
Indietreggiai di un paio di passi e incespicai sul manico di una scopa. Per non fare altri danni mi rimisi seduta accanto a Kenji.
«Devo comunicarvi un messaggio di Rufy!» La voce era intervallata da dei singhiozzi. Il poverino stava piangendo. Come biasimarlo? «Rufy è ancora vivo! E mi ha detto che tornerà sicuramente in battaglia! Perciò continuate a combattere! Per quanto sia difficile, per quanto sia doloroso... Vi imploro, finché avete vita, continuate a combattere!»
Strinsi il braccio del mio compagno, le guance di nuovo bagnate dalle lacrime, stavolta però erano lacrime più dolci. Il messaggio era vero, lo sapevo. Rufy era ancora vivo. Niente era perduto. E Momonosuke aveva ragione: per quanto arduo e desolante fosse, dovevamo continuare a combattere. Io dovevo continuare a combattere. Avevo lasciato che la disperazione mi avvolgesse e mi facesse perdere la razionalità, ma non potevo arrendermi. Non così, non ora.
«Perché Rufy... vincerà!» esclamò infine il figlio di Oden.
Annuii, appoggiai la nuca alla parete e sospirai sollevata. «Perdonami per aver dubitato di te, Rufy. Non accadrà mai più. Adesso vai e prendi a calci in culo Kaido!»
«Contiamo su di te, Cappello di Paglia,» aggiunse Kenji, facendo un ampio sorriso. Con la coda dell’occhio vidi che anche lui era commosso. Poi notai qualcosa che mi lasciò senza fiato. C’era una piccola fessura sulla parete del ripostiglio, dalla quale proveniva una pallida luce, l’unica che illuminava quel luogo buio e mi permetteva di vedere quel poco che riuscivo a scorgere là dentro. Gattonai fino a lì, scostando secchi e stracci. L’unica cosa che si vedeva da quell’apertura era il buco che portava al tetto sul cranio dell’enorme creatura. Al centro di esso, limpida e fiera, splendeva la luna. Il cielo era terso, perciò si vedeva benissimo: ogni sua sfumatura, ogni suo cratere, ogni sua zona d’ombra. Quella notte era piena e, probabilmente a causa del fatto che Onigashima stava fluttuando a qualche migliaia di metri di altezza, appariva più grande che mai. Sembrava scacciare l’oscurità. Mi dava forza e mi infondeva coraggio. Appoggiai la mano e la fronte sul freddo muro di legno, come se questo potesse farmi sentire più vicina a lei. O meglio, a lui.
«Oh, Manny... Mi sei mancato.» Sorrisi, lasciando che un senso di calore si diffondesse in me e alimentasse la mia speranza. Mi asciugai la guancia con le dita. «Ti prometto che queste sono le ultime lacrime che verserò fino a che la guerra non si sarà conclusa.»
Ne ero certa: quello era il mio terzo segno.
 
Ad occhio e croce era passata un’altra mezz’ora. Io e Kenji eravamo ancora nel ripostiglio. Nel momento in cui saremmo dovuti uscire avevo attivato l’Ambizione e avevo percepito una quindicina di nemici per il corridoio. Mettersi a combattere era fuori discussione, perciò avevamo concordato che sarebbe stato meglio rimanere lì, per il momento. Poi il tempo era passato e, anche se i nemici erano diminuiti, nessuno dei due aveva espresso la volontà di andarsene da quella stanza. Non ci stavamo nascondendo, ci stavamo proteggendo. E non stavamo venendo meno ai nostri doveri da medici: se vi fossero stati dei feriti nelle vicinanze li avrei percepiti con l’Haki e saremmo usciti a curarli, sempre che avessimo potuto fare qualcosa per loro, visto che non avevamo ancora reperito altre garze. Era assurdo che avessimo trovato un minuscolo deposito per stracci e scope e non fossimo riusciti a trovare una dannata infermeria o qualcosa che vi somigliasse. Certo, non potevamo metterci ad aprire ogni porta e controllare stanza per stanza, ma mi aspettavo che ci fosse almeno un’indicazione dell’esistenza di quel luogo. Non era possibile che fosse sfuggita a entrambi.
«Prima hai detto che io sono il tuo segno. Che cosa intendevi?» chiese Kenji all’improvviso, rompendo il lungo silenzio che si era creato. La sua domanda mi spiazzò.
«Oh, ehm...» Temporeggiai per trovare una risposta soddisfacente ma che non mi esponesse troppo. La guerra mi aveva avvicinato molto di più a lui, gli stavo affidando la vita, perciò avevo deciso – in un momento che non sapevo dire se fosse di pazzia o lucidità – che gli avrei raccontato tutta la verità su di me, però solo quando fosse tutto finito. Non potevo fargli una rivelazione tanto grande nel bel mezzo di una feroce battaglia. Dovevamo restare concentrati.
«Se non vuoi dirmelo, non importa.» Mi sorrise, ma non riuscì a nascondere la delusione. Una volta mi aveva detto che ero come un enigma e che era anche questo che gli piaceva di me, perché ogni giorno aveva il privilegio di scoprire qualcosa di nuovo che mi riguardava, ma senza avvicinarsi mai alla verità.
«No, voglio dirtelo. Voglio raccontarti tutto di me, e lo farò, te lo prometto.» Appoggiai una mano sopra la sua e gli sorrisi materna. «Ma per ora dovrai accontentarti di sapere che c’è una stella molto speciale che veglia su di me. Stavo chiamando lei quando l’isola si è sollevata nel cielo, le stavo chiedendo di darmi un segno che rimanere e combattere fosse la cosa giusta.»
Il rosso aggrottò la fronte, sorpreso ma contento. «E io sarei il tuo segno?»
Annuii e scrollai le spalle. L’idea di poter condividere le mie origini, le mie tradizioni e la mia famiglia con qualcuno di quell’universo mi elettrizzava. Sapevo che con Kenji non avevo nulla da temere. Lui avrebbe capito e avrebbe accolto dolcemente la mia storia tra le sue braccia. Magari così avrei avuto modo di festeggiare il Natale, che mi mancava parecchio. Non vedevo l’ora di raccontargli di Peter Pan e della Stella e di come ero finita lì. Se io avevo un debole per Spugna, qualcosa mi diceva che a lui sarebbe piaciuto Michael.
All’improvviso cambiò espressione e si scostò da me.
«Cosa c’è che non va?»
«Cami, più mi dici queste cose, più ti comporti così... più è difficile per me starti lontano...»
Molto probabilmente era la stanchezza a farmi agire così. Gli poggiai una mano appena sopra il ginocchio.
«Forse non dobbiamo stare lontani.»
Ci guardammo, le sue iridi titubanti, le mie languide. Posai il palmo sulla sua guancia e lasciai scivolare il pollice sul suo zigomo. La sua pelle, a contatto con le mie dita, era calda. Mi avvicinai a lui e lasciai che le nostre labbra si toccassero. Inspirai il suo profumo di lavanda e mi rifugiai in esso. Non sapevo se quello fosse l’ultimo profumo che avrei sentito, se quella fosse l’ultima bocca che avrei assaporato. Speravo di no, ma quel bacio mi aiutava a non pensarci. Fu un bacio molto meno casto rispetto al primo che mi aveva dato, ma più delicato rispetto a quelli che ci scambiavamo io e Sabo. C’era amore, ma c’era anche disperazione, l’amore di chi ama senza riserve e la disperazione di chi non sa se arriverà al mattino dopo. C’era la stanchezza della battaglia che ci portavamo dietro e tutto il nostro desiderio di rimanere vivi.
Forse era un errore madornale, forse avevo peggiorato la nostra situazione, forse mi stavo di nuovo comportando da egoista. Però non mi importava. Ne avevo bisogno. Avevo bisogno che qualcuno mi facesse sentire al sicuro. E l’unico modo che Kenji aveva per farmi sentire al sicuro era amarmi.
E così, per quella notte mi lasciai amare.



Angolo autrice
È da parecchio tempo che non aggiorno, lo so, è che è stato un periodo piuttosto impegnativo e non sono stata neanche benissimo. Vi lascio con questo "allegro" capitolo, nella speranza che vi sia piaciuto, per augurarvi un felice Natale e delle buone Feste! <3
Tornerò presto, lo prometto!
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio! / Vai alla pagina dell'autore: WillofD_04