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Autore: blackjessamine    25/02/2023    7 recensioni
È una verità universalmente riconosciuta che i maghi non sappiano nulla di leggi economiche. Tuttavia, Gilderoy Allock una cosa la sa: in un mercato stagnante e chiuso come quello dell'editoria magica non c'è posto per due regine.
Per questo Queenie Royal, la misteriosa autrice capace di fare impazzire ogni strega con i suoi libri d'amore, rappresenta una minaccia pericolosissima per chiunque voglia indossare una corona d'inchiostro.
Una minaccia resa ancor più pericolosa dal suo essere invisibile, dal momento che nessuno, nemmeno gli editori più scaltri, sembrano aver mai posato lo sguardo su questa gallina dalle uova lilla.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Gilderoy Allock, Kingsley Shacklebolt, Rita Skeeter, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questioni di famiglia




 

Al contrario di quanto raccontava nei suoi libri, Gilderoy non aveva mai attraversato a nuoto un lago. Non era neanche particolarmente bravo a nuotare, a volerla dire tutta, ma in acque tranquille era in grado di restare a galla. Aveva sempre avuto però paura delle acque infide, i mulinelli lo terrorizzavano, eppure ora aveva la sensazione che ogni giorno, da quando aveva scoperto la vera identità di Queenie, fosse stato solo un susseguirsi di disperate bracciate per restare a galla in mezzo ai mulinelli.

Septimus lo aveva tenuto costantemente in tensione in tutti i modi possibili: aveva impostato scadenze stringenti e obiettivi precisi per il nuovo manuale, convocandolo a infinite riunioni e revisionando assieme a lui ogni nuova consegna. Non contento, lo aveva coinvolto in una girandola di eventi, interviste e apparizioni pubbliche, cene formali e aperitivi. Sembrava che volesse essere sicuro che Gilderoy non avesse nemmeno il tempo di pensare. E in effetti, quel tempo Gilderoy non ce lo aveva. La sera tornava a casa così stanco e con la testa così piena di tutti gli avvenimenti della giornata che non riusciva a fare altro che buttarsi sotto la doccia – non aveva le forze neanche per un bagno – e poi crollare a letto. E la mattina la sua sveglia non faceva nemmeno in tempo a suonare che la voce di Septimus appena uscito dalla Metropolvere del suo salotto lo esortava a fare in fretta, a lavarsi e a vestirsi e a mettersi qualcosa di particolarmente carino in vista degli eventi della giornata. 

Gilderoy poteva non essere intelligente come credevano i suoi lettori, ma non era nemmeno uno sciocco, e sapeva bene che la strategia di Septimus rispondeva a una logica molto precisa: tenerlo così impegnato che non avesse il tempo di pensare a Queenie Royal. 

O a Rita Skeeter, e a come tutto fosse ad un passo dal precipitare miseramente, nonostante Septimus sostenesse il contrario. Septimus, infatti, aveva stretto un accordo con la Skeeter: lei avrebbe tenuto la penna chiusa in borsetta, non rivelando per il momento a tutto il mondo la vera identità di Queenie Royal, e a tempo debito Gilderoy le avrebbe regalato lo scoop più ambito da qualsiasi giornalista, permettendole di unire in un solo articolo lo svelamento della sua identità e della storia d’amore che univa i due scrittori più amati dal pubblico inglese.

Gilderoy sospettava che consegnare fra gli artigli di Rita Skeeter un segreto così prezioso, confidarle che la sua storia con Queenie-Zara era solo una montatura, fosse una mossa pericolosissima. Significava regalarle una perenne arma di ricatto: per tutta la vita lei avrebbe potuto minacciare di rivelare al mondo quel piccolo inganno – e chissà quanti altri – e loro avrebbero dovuto sottostare a qualsiasi suo capriccio, a qualsiasi sua richiesta. E anche dopo aver assecondato ogni sua volontà, avrebbero comunque continuato a vivere nel timore che lei rivelasse comunque i loro segreti. 

Una pessima, pessima idea.

Ma Septimus era deciso a voler risultare sempre e comunque il più intelligente dei due, e Gilderoy si era ritrovato costretto a chinare il capo, a obbedire e a prendere parte alla sua folle danza di distrazioni.

 

C’era una cosa, però, da cui tutti gli impegni del mondo non sarebbero riusciti a distrarlo: Gilderoy non aveva avuto il tempo di pensare a Queenie, non aveva messo a punto un piano per trovare la tranquillità di spirito necessaria a preparare la recita con cui l’avrebbe sedotta. Non aveva pensato al loro futuro insieme né alla reazione del pubblico, non aveva pensato quasi a niente.

Ma a Kingsley ci aveva pensato, costantemente

Ci pensava ogni volta che si gettava sotto la doccia, perché Gilderoy era uno da vasca da bagno, la doccia era il regno di Kingsley. Ci pensava quando un gufo lasciava l’ennesimo invito sulla sua scrivania, e quel gufo non era mai Gatsby. Ci pensava quando si rendeva conto che se ci fosse stata una Queenie, non ci sarebbe stato spazio per un Kingsley.

La loro ultima discussione li aveva visti promettersi un incontro al rientro dalla missione di Kingsley, e una parte di Gilderoy sapeva che cosa avrebbe dovuto fare: non presentarsi a quell’incontro e poi recitare l’incantesimo per escludere l’Auror dalla propria abitazione, per scongiurare il rischio che lui lo andasse a cercare per avere un ultimo chiarimento – buffo che fosse stato proprio Kingsley a insegnargli come lanciare quell’incantesimo. Tagliare i ponti, dimenticarlo, fingere che quelle settimane non fossero mai esistite, che non avesse mai scalato una montagna solo per raggiungere un paradiso dove baciare l’uomo migliore che avesse mai avuto accanto. Fingere che Kingsley fosse solo l’ennesimo uomo da dimenticare in un battito di ciglia, fingere che quella separazione non avrebbe lasciato alcun segno su di lui. 

Sarebbe stata la cosa più semplice. Dolorosa, forse, ma l’unica priva di imprevisti e di complicazioni.

Ma Gilderoy, pur non avendo il tempo o la forza d’animo di riflettere anche sulla problematica più piccola, aveva una sola certezza: le cose tra di loro non potevano finire in questo modo. Non potevano finire senza che si rivedessero un’ultima volta. Doveva esserci un confronto, qualsiasi cosa. Prima di prendere qualsiasi altra decisione, prima di trovare il coraggio di buttarsi davvero all’inseguimento del cuore di Queenie Royal, Gilderoy aveva bisogno di rivedere Kingsley. Non aveva idea di che cosa si sarebbero detti. Forse Gilderoy lo avrebbe semplicemente lasciato. Forse sarebbe stato Kingsley a farlo. O forse Kingsley avrebbe saputo convincerlo a mandare al diavolo Septimus e a combattere per la loro relazione. O Gilderoy avrebbe continuato a mentire, e mentire, e mentire, e avrebbe trovato un modo per avere sia Queenie che Kingsley.

Forse.

L’unica cosa certa era che doveva, doveva rivederlo almeno una volta. 

 

***

 

Fu con mani tremanti che Gilderoy gettò una manciata di polvere scintillante nel camino, deciso a raggiungere l’appartamento di Kingsley. 

Era sabato sera, e loro avevano un appuntamento. Un appuntamento che per Kingsley significava un nuovo inizio, e per Gilderoy significava tutto, forse la fine di tutto, non significava niente, significava un dolore indicibile nel petto. 

Arrivare nell’appartamento di Kingsley fu come ritrovare le atmosfere di un sogno bellissimo, offuscate però dalla consapevolezza che un sogno sia ben distante dalla realtà. 

Tutto in quell’appartamento era silenzio, ma era un silenzio carico di familiarità: Gilderoy rimase per un po’ in piedi immobile davanti al caminetto, per poi lasciarsi cadere sul piccolo divano di fronte alla finestra con le tendine che lui tanto detestava. Sedette accarezzando distrattamente la stoffa della coperta a quadrotti di lana colorata che Kingsley aveva gettato sul divano, un oggetto che in casa di chiunque avrebbe subito fatto pensare all’odore di cavolo e allo stile di una nonna troppo anziana per essere affascinante, ma che nell’appartamento di Kingsley dava solo un tocco di calore familiare. 

Quell’appartamento non era bello: era piccolo, il mobilio era scombinato e chiaramente frutto di personalità diverse che avevano stratificato ondate di oggetti poco amalgamati, ma a tenere insieme tutto c’era la personalità di Kingsley. Coperte di lana a scaldare librerie di metallo, piante rigogliose che non avrebbero sfigurato su una rivista di interior design a bilanciare la bruttezza di un tavolino di plastica di un giallo malaticcio, stampe astratte su pareti di mattoni, libri antichi posati sul microonde e pile di vecchie Gazzette del Profeta accoccolate in un orribile portagiornali in ferro battuto a forma di gatto. 

Niente a che vedere con il lusso perfettamente studiato dell’appartamento di Gilderoy. Eppure, Gilderoy non riusciva a guardarsi attorno e a sentire il proprio senso estetico vacillare.

Amava quell’appartamento, amava il senso di sicurezza che vi provava. Amava l’idea di potersi sedere sul divano senza aver paura di rovinarlo, gli piaceva sapere di poter aprire il pensile in cucina e trovare tazze di qualsiasi misura, e gli piaceva guardare ogni scorcio e ripensare a che cosa lui e Kingsley si erano detti a quella finestra, a come si erano baciati su quel divano o a come era stato bello restare semplicemente per ore appollaiati al tavolo della cucina per chiacchierare ininterrottamente.

Un leggero frullo d’ali lo distrasse quando Gatsby lasciò il trespolo su cui di solito riposava nel corridoio che portava alla camera da letto per venire a posarsi con misurata eleganza sul basso tavolino del soggiorno.

“Eccoti, ma allora almeno tu ci sei a casa. Il tuo amico con due braccia e tanti muscoli non è ancora tornato?”
Gatsby piegò di lato il capo, fissandolo con i suoi occhietti intelligenti, poi emise un verso basso e quasi dolce.

“Tornerà presto, vedrai. Ha promesso che sarebbe stato a casa per l’ora di cena, e mi sembra uno che mantiene sempre le promesse, lui”.

Gatsby tubò di nuovo, e Gilderoy sorrise: alla fine si era quasi affezionato a quel pennuto così educato, se ne era affezionato al punto da sentirsi abbastanza a suo agio da allungare una mano e carezzare con la punta dell’indice la piega morbida del suo capo. 

Gatsby gli era simpatico, ma non era abbastanza di compagnia perché lui non si annoiasse. Dopo un istante di esitazione, Gilderoy tornò ad alzarsi e a passeggiare per il piccolo salottino, leggendo i titoli dei libri che gli capitavano sotto lo sguardo e cercando di cavare un senso dalle stampe appese alle pareti. 

Tutte cose estremamente noiose. Aprì la finestra per respirare un po’ di fresca aria di inizio estate, pentendosene immediatamente quando una specie di moscone munito di corazza iridescente si fiondò in casa, ronzando sonoramente. Per un po’ ne seguì il volo con lo sguardo, vagamente disgustato, poi l’insetto scomparve dalla sua vista, e Gilderoy tornò ad annoiarsi.

Vagando alla ricerca di una distrazione che non lo impegnasse quanto il Compendio storico sulla nascita degli incantesimi di magia difensiva, si avvicinò a una bacheca di sughero posata sopra un armadietto della cucina: accanto a una lista della spesa scarabocchiata nella grafia minuscola di Kingsley e vecchi promemoria di uno sbiadito magenta infilzati come tristi farfalle sottovetro, numerose fotografie magiche riempivano quell’angolo della cucina di colore e di movimento. 

Gilderoy non le aveva mai notate: o meglio, le aveva viste, ma era sempre stato troppo preso a osservare i movimenti del padrone di casa, per prestare attenzione alle fotografie. 

Si avvicinò con cautela, sentendosi vagamente un intruso: Kingsley gli aveva dato il permesso di entrare in casa sua, e quelle fotografie non erano certo nascoste in un diario in fondo a un cassetto, ma gli sembrava comunque di invadere uno spazio personale. I suoi scrupoli tuttavia non gli impedirono di sorridere come un bellissimo idiota in risposta al suo stesso sorriso: il suo ritratto in blu e oro ritagliato direttamente dalla prima pagina del numero di Fattucchiera 2000. Una fotografia che era stata scattata proprio la sera in cui lui e Kingsley si erano conosciuti, in effetti. Gilderoy non sospettava che Kingsley fosse il tipo di persona da ritagliare e appendersi in cucina il ritratto dell’uomo con cui usciva, ma la cosa non faceva altro che scaldargli il cuore.

Fu con una certa difficoltà che Gilderoy si decise a staccare gli occhi dal proprio – decisamente lusinghiero – ritratto, per concedere un po’ di attenzione al resto delle fotografie. 

C’era una foto piena di persone con la divisa blu pavone degli Auror: la squadra di Kingsley, probabilmente, tutti ritti in piedi con aria solenne. Tra tutti quei visi sconosciuti, Gilderoy riconobbe subito Kingsley, serissimo ed estremamente affascinante. Il più affascinante di tutti, senza ombra di dubbio. 

C’era poi una fotografia che, nonostante la sua avversione per gli esseri umani che non avessero ancora compiuto la maggiore età, strappò un sorriso a Gilderoy: Kingsley, un Kingsley che non poteva avere più di diciassette o diciotto anni e che aveva entrambe le braccia occupate da due bambini esagitati. O meglio, con il braccio sinistro si stringeva sul fianco una bimbetta dai lunghi riccioli scuri, che lo fissava con occhioni adoranti mentre dondolava placida un piedino calzato in scarpette di vernice che Gilderoy trovava di ottimo gusto. La mano destra era invece impegnata a stringere la caviglia di un demonietto che sembrava avere la stessa età della bimba. 

Mortimer, il nipotino spernacchiatore e piromane, assieme alla più pacata Marigold. Doveva essere una foto di famiglia.

Una foto scattata in una luminosa cucina con i muri  imbiancati a calce e una lunga serie di scintillanti padelle di rame appese in bell’ordine.

Crack.

Il suono della materializzazione di Kingsley non riuscì a distrarre Gilderoy dalla fotografia successiva. Un’altra foto di famiglia. Ancora una volta le pentole di rame, ancora una volta una Marigold di qualche anno più grande appesa al collo dello zio. Mortimer, invece, era ritto in piedi, con entrambe le spalle impegnate a far da trespolo a Gatsby e al clone di Gatsby. Il clone che Gilderoy, ora ne era certo, aveva già visto una volta sulla spalla della madre dei due bambini. La donna che se ne stava appena in disparte, un sorriso radioso in viso e lo sguardo perso sul resto della sua famiglia, era inconfondibile. Alta, con un portamento così elegante da farla sembrare una regina anche con indosso quell’orribile salopette di jeans e quel nastro di stoffa colorato a cercare di arginare la sua cascata di treccine, Zara Battenberg sembrava dominare l’intera stanza.

Gilderoy sentì i passi di Kingsley avvicinarsi alla cucina, ma non riuscì a muovere un muscolo. Vide il moscone che prima aveva perso di vista sfrecciare rapidissimo verso la finestra, ma non ci fece nemmeno caso.

Era come se tutto, compresa la sua capacità di pensare, si fosse immobilizzato, prigioniero di una sola consapevolezza: Kingsley era il fratello di Queenie Royal. Kingsley, l’Auror che non aveva alcun motivo di essere presente alla premiazione. Kingsley che non aveva alcun motivo di interessarsi a Gilderoy, ma che aveva comunque trovato una scusa per continuare a vederlo, ancora e ancora. Perché si era invaghito di lui, Gilderoy aveva voluto credere. 

Ma forse non era così. 

Forse Queenie Royal era riuscita a giocare ancora una volta d’anticipo, era arrivata prima di Gilderoy e gli aveva anche rubato il piano, giocando la carta del suo bellissimo fratello dai modi così saldi da sembrare incorruttibile per far crollare Gilderoy davanti al fascino della divisa da Auror

E ci era riuscita maledettamente bene. 





 

 


 

Note: 

Un nuovo capitolo pubblicato in tempi così rapidi? È forse un miraggio? No, è solo che questo doveva essere l’ultimo capitolo, e doveva quindi essere lungo il doppio e contenere anche il confronto finale tra Kingsley e Gilderoy, ma sono un’autrice malvagia e alla fine ho pensato che fosse più giusto far sedimentare meglio le rivelazioni di quest’ultimo capitolo. 

Però, insomma, il prossimo sarà davvero l’ultimo, poi ci aspetta solo l’epilogo (che è in parte già scritto), quindi in un rigurgito di ottimismo di cui mi pentirò prestissimo mi azzardo a dire che entro la primavera la storia potrebbe essere completa? Non lo so, ormai gli aggiornamenti di questa storia sono talmente poco logici che può succedere tutto e il contrario di tutto. 

 
   
 
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