In the still of the night
45.
Vedere
il mondo con occhi diversi.
Vedere
il mondo con colori diversi.
Ci
sono giorni interi in cui non faccio che pensare a questo, al suggerimento che
Peeta mi diede durante una serata invernale che sembra appartenere ad una vita
fa, una vita vissuta da una persona completamente diversa dalla me stessa di
oggi. La vecchia me pensava che questo suggerimento non dovesse essere poi così
sbagliato, e che avrebbe potuto provarci, a vedere il mondo con occhi e colori
diversi. Avrebbe potuto provarci, aiutata dal ragazzo che glielo aveva
suggerito con così tanto calore: il ragazzo che aveva basato la sua intera vita
sui colori, quelli sgargianti che usava per dipingere sulle tele e quelli più
tenui con cui glassava torte e biscotti. Il ragazzo il cui cruccio più grande
era quello di non riuscire mai ad immortalare dal vivo i colori dell’arcobaleno.
Svanisce troppo in fretta, l’arcobaleno: rimane nel cielo solo per pochi
minuti, e quei minuti diventano preziosi per un pittore. Basta un attimo per
perdere la magia.
La
me stessa di oggi ha cercato di fidarsi nuovamente. Ci sono stati dei giorni,
durante la mia rinascita, in cui ho basato e memorizzato interi momenti sulla
filosofia che mi ha suggerito Peeta. Ci sono ricordi interi basati sui colori.
I colori mi hanno aiutata ad andare avanti, ad affrontare quei giorni in particolare
in cui i ricordi tristi tornavano prepotentemente a soffocare il mio respiro. I
colori mi hanno aiutata ad accantonare il filtro in bianco e nero con cui ho
visto il mondo e la vita fino ad ora.
Il
filtro in bianco e nero mi impediva di vedere i veri colori della vita.
Il
mattino ha l’oro in bocca: questa massima si fissa nella mia
mente quando apro gli occhi, tirata via dal sonno dai movimenti di Peeta che
cerca di alzarsi senza disturbarmi, ma senza davvero riuscirci. Con un occhio
chiuso e uno aperto getto una rapida occhiata alla sveglia che ho sul comodino,
accanto ad un Ranuncolo addormentato. Sono da poco passate le sei. Deve
avere proprio fretta e voglia di cominciare la giornata, penso. Cos’ha da
fare alle sei del mattino?
-
Dove stai andando? – borbotto, richiudendo l’occhio.
-
Non volevo svegliarti – dice.
-
Non mi hai svegliato – sbadiglio.
Lo
sento ridere. Mi abbraccia, il suo petto che si appoggia con dolcezza alla mia
schiena, e posa le labbra sulla mia spalla nuda. La maglia del pigiama deve
essere scivolata un po' durante il sonno… o forse è stato Peeta ad abbassarla.
Non sarebbe poi così strano.
-
Continua a dormire. È ancora presto – sussurra sulla mia pelle.
-
E tu perché ti stai alzando se è ancora presto? – mi lamento.
-
Devo cuocere il pane! Altrimenti oggi non avremo nulla da mangiare.
-
Sì, come no – mugugno, sistemandomi meglio nel letto.
I
tempi del non avere nulla da mettere a tavola sono finiti da un pezzo, ormai.
Io e Peeta, essendo due vincitori degli Hunger Games e due dei pochi vincitori che
sono sopravvissuti alla guerra, abbiamo accumulato e continueremo ad accumulare
una fortuna in denaro di cui non sapremo mai che cosa farcene davvero. Abbiamo
le tasche piene di denaro, la dispensa piena di cibo, e doni che continuano e
continueranno ad arrivare ogni mese da Capitol City. Decisamente, siamo le
ultime persone che potrebbero preoccuparsi del cibo che scarseggia in casa.
Strano
che Peeta se ne esca con frasi del genere.
-
Dormi – dice, chiudendo la questione. Una carezza accennata sulla guancia, e
scivola via.
Apro
gli occhi quando va via, lanciando un’occhiata alla finestra aperta; la
lasciamo sempre aperta da quando le giornate e le serate iniziano ad essere più
calde, e poi Peeta ama dormire con la finestra aperta. La luce filtra appena,
rafforzando il fatto che è appena spuntato il mattino. Sbadiglio di nuovo, passo
una mano sul viso, mi giro e mi sdraio sulla schiena. Un miagolio sommesso
annuncia anche il risveglio di Ranuncolo. Lo osservo mentre si stira e
sbadiglia come per imitarmi, e poi balza sul materasso. Ha cominciato ad avere
questa strana abitudine di salire nella nostra camera, la sera, per poi
addormentarsi sul mio comodino. E ogni mattina, quando mi sveglio, lui balza
sul letto. Secondo Peeta lo fa per rimarcare una sorta di protezione nei miei
confronti. Io penso soltanto che sia un gatto strano e stupido, così come l’ho
pensato per anni e anni. Mi diverto, però, nel notare come abbia scelto senza
protestare più di tanto di affidarsi, totalmente e senza remore, alle mie cure.
Non sono la sua persona preferita, quella resta Prim. Io sono solo quella che
gli dà da mangiare, quella che non vorrebbe averlo sempre tra i piedi,
miagolante e bisognoso di attenzioni. Questo modo che ha di cercare attenzioni,
di strusciarsi attorno alle mie gambe in cerca di premi e di carezze alle volte
è fastidioso, ma rido quando mi accorgo che fa le fusa.
Il
vecchio gatto di Prim che inizia ad apprezzarmi.
-
Non mi piacerai mai – gli confesso. Gratto la sua testa e lui chiude gli occhi;
il borbottio delle sue fusa arriva subito alle mie orecchie.
Mi
addormento di nuovo, cullata dalle fusa di Ranuncolo che non accenna ad
allontanarsi dalle mie braccia. Se ne va solo quando Peeta torna in camera,
accompagnando il suo ritorno con una scia di gradevole odore di cibo. L’odore
mi fa aprire gli occhi completamente, ed anche lo stomaco si risveglia davanti
alla prospettiva di una buona colazione.
-
Quel gatto ti adora – commenta Peeta divertito.
-
No, per niente! Fa il ruffiano per avere il suo cibo – ribatto, mettendomi a
sedere sul letto.
-
Ti adora, ammettilo – ride. Peeta prende il vassoio che ha portato dalla cucina
e me lo posa sulle ginocchia: frittelle, biscotti, pane tostato, uova e
pancetta, tè, latte e succo di frutta lo riempiono, insieme al burro e alla
marmellata da spalmare sul pane.
-
Non avrai esagerato? – chiedo, afferrando un biscotto.
-
Per niente! Questa roba è anche per me – si affretta a dire mentre si alza. –
Manca ancora una cosa… aspetta qui.
-
Ma dove vai?
Non
ricevo risposta, talmente è rapido nel lasciare la camera.
Prendo
una strisciolina di pancetta e la porgo al supplicante Ranuncolo seduto in
attesa sul pavimento. Miagola, un po' stizzito, ma appena prende la carne si
azzitta. Scuoto la testa.
Sto
ancora osservando il gatto soddisfatto per ciò che ha ottenuto quando Peeta
torna a sedersi sul letto. – Visto? Non mi adora, vuole solo mangiare – dico,
girandomi.
E
sono sorpresa nel ritrovarmi davanti un Peeta sorridente, sorridente e
divertito per la sorpresa che è riuscito a scatenare in me. Divertito nel
porgermi la tortina glassata, decorata da fiori viola, su cui campeggia una
candelina accesa, viola anch’essa.
-
Buon diciottesimo compleanno! – esclama, la voce piena di emozione.
-
Peeta – ansimo. Scuoto piano la testa, incredula.
È
di nuovo l’otto maggio. È di nuovo il giorno del mio compleanno. Ed io l’ho
dimenticato di nuovo. Compio diciotto anni, oggi. Non avrei mai pensato che, un
giorno, avrei veramente compiuto diciotto anni.
L’età
è stata, sempre, l’ultima delle mie certezze: a sedici anni ho creduto che non
avrei più avuto l’opportunità di continuare a vivere, e lo stesso è accaduto
l’anno scorso. E anche all’inizio di quest’anno. Adesso, invece, mentre prendo
con mani tremanti la tortina con cui Peeta vuole festeggiare il mio diciottesimo
compleanno, capisco che l’età comincia ad essere effettivamente una certezza. È
un’altra delle certezze a cui posso aggrapparmi, su cui posso contare. Posso
iniziare a vedere i compleanni, l’età che avanza, come un bel traguardo da
raggiungere e non come la fine di qualcosa. Non sarà più una brutta data di
circostanza.
Sorrido,
spegnendo la candela. La tolgo per posarla su un tovagliolo e raccolgo col dito
la glassa bianca con cui Peeta ha decorato il tortino. La assaggio, sentendo il
formaggio dolce invadere le mie papille gustative.
-
Ti piace?
-
È fantastico – dico. Do un morso al dolcetto e scopro che è anche meglio:
cioccolato, arancia e formaggio si fondono insieme. Un verso estasiato esce
dalle mie labbra.
Labbra
che vengono coperte da quelle di Peeta in un istante. Mi blocco con la bocca
piena di dolce e rido, non aspettandomi questo agguato da parte sua. Socchiude
le labbra, raccoglie ciò che probabilmente è rimasto sulle mie, lecca via la
glassa. Scopro di volerne ancora.
-
Hai ragione, è fantastico – ammette quando si allontana.
Sorrido,
incantata. Lo guardo e vorrei non smettere mai di guardarlo. Vorrei trascorrere
altre mattine come questa, tante altre mattine piene di dolci, di baci, e di
candeline da spegnere insieme.
-
Fallo di nuovo.
-
Ancora?
-
Ancora.
Non
se lo fa ripetere due volte. Avvolgo le sue guance con le mani mentre le nostre
labbra tornano ad unirsi, ad accarezzarsi, a scoprirsi. Lascio che la sua barba
appena accennata mi graffi la pelle, lascio che le sue mani scivolino sotto la
maglia del pigiama, lascio che mi morda il mento e che mi inviti a scivolare
sotto di lui. La colazione viene dimenticata, il tortino finisce chissà dove
insieme al mio pigiama e al suo. La voglia che abbiamo di noi supera qualsiasi
altro tipo di fame.
Questa
fame, questa voglia, la sensazione di amore e di completezza che riesco a
provare grazie a Peeta: questa è un'altra certezza su cui posso contare.
Questa
certezza mi suggerisce che sono ancora in grado di provare qualcosa.
Sono
ancora capace di amare.
Azzurro,
blu, celeste. Scopro che la mia vita è piena di sfumature che posso associare
alle cose che più amo. L’azzurro del cielo sgombro dalle nuvole come quello che
sto osservando adesso, quello estivo, quello che il sole cocente del pomeriggio
rende quasi verde. Il sole si riflette sulle acque blu del lago, quello in cui
imparai a nuotare quando ero solo una bambina, aiutata e spronata dalla voce e
dalle mani del mio papà. È lo stesso lago in cui portai Gale a pescare, ed è lo
stesso lago in cui insegnai a Peeta a nuotare.
Il
celeste dei suoi occhi riflette il sole nel cielo e lo scintillio dell’acqua.
Adesso,
però, i suoi occhi sono chiusi.
Sta
dormendo con la testa poggiata sulla mia pancia. Gli zigomi, la maggior parte
del viso ed il resto della sua pelle chiara sono leggermente arrossati per via
del sole che abbiamo preso oggi. La mia pelle, al contrario, non è rossa: o
meglio, lo è un po' solo nelle zone che mesi fa avevano riportato le ustioni e
che, adesso, sono diventati i punti più sensibili. Tutto il resto della pelle
ha assunto una sfumatura dorata, abbronzata. Io e Peeta non potremmo essere più
diversi anche in questo: lui che diventa un pomodoro, al sole, ed io che mi
abbronzo.
Immagino
la faccia di Effie se ci vedesse adesso, lei che ha sempre avuto una
predilezione per la cura della pelle e per tutto ciò che è lontano dai raggi
del sole.
Venire
fino al lago è stata un’idea di Peeta: me l’ha proposto stamattina e, in
apparenza, l’ha fatta passare come una proposta nata all’ultimo momento, ma a
me non la dà a bere. Sono sicura che quella di scendere qui fosse un’idea che
gli frullava per la testa già da un po', e a rafforzare i miei sospetti ci si
sono aggiunti il grande paniere pieno di cibo che ha tirato fuori da chissà
dove e quello più piccolo in cui aveva sistemato alcune coperte. Organizzare un
pic-nic al lago nel giro di appena un’ora? No, assolutamente no. Molto più
probabile la seconda ipotesi.
Sono
contenta di aver assecondato la sua proposta e di essere venuta qui con Peeta:
mi è mancato questo posto ed è trascorso quasi un anno dall’ultima volta che ci
avevo messo piede. Tutto ciò che abbiamo fatto da quando siamo arrivati è stato
mangiare – mi rendo conto che non faccio altro che mangiare, ed è in parte
colpa di ciò che cucina sempre Peeta -, nuotare, prendere il sole, godere della
compagnia l’uno dell’altra ed ascoltare il silenzio che ci circonda, interrotto
ogni tanto dal canto degli uccelli, dal frinire dei grilli, dal soffio del
vento leggero tra le foglie. Solo i suoni della natura ci fanno compagnia, qui.
Non c’è nient’altro a disturbarci. Ho portato con me arco e frecce, ma da
quando sono qui non li ho ancora usati: li ho poggiati contro il tronco di un
albero e penso che resteranno lì fino a quando non arriverà l’ora di tornare a
casa. Avevo intenzione di cacciare, ma arrivata a questo punto credo di voler
rinunciare. I pesci nel lago dovrebbero essere tornati tranquilli, visto che
sono diverse ore che abbiamo smesso di nuotare… forse potrei iniziare a
pescare. Stasera avremo pesce per cena, penso. Per iniziare a pescare
dovrei prima far spostare Peeta, in modo da potermi alzare, ma scopro di non
volerlo fare. Dorme così bene… anche se dovrà svegliarsi lo stesso per poter
riprendere la strada verso il distretto.
È
una giornata così bella, quella che sta per scivolare nel tardo pomeriggio. È
una bella, calda e spensierata giornata estiva. È una giornata estiva come di
quelle che mai ti saresti aspettato di vedere. Non in questo periodo dell’anno,
almeno. Non durante la giornata del quattro luglio.
Oggi
è il quattro di luglio. Il primo quattro luglio senza la mietitura, senza i
tributi estratti. Questo è il primo anno che viviamo senza l’opprimente
scenario della nuova edizione degli Hunger Games che prende il via. Questo è il
primo anno in cui prendiamo davvero coscienza di ciò che è accaduto nei mesi
passati e che accadrà nei mesi futuri.
Un
mondo privo di Hunger Games.
Credo
che sia anche per questo motivo che Peeta abbia insistito così tanto a venire
quaggiù, oggi. Forse lo ha fatto per evitare che la mia mente si riempisse di
ricordi, data la circostanza. Forse voleva che fossimo lontani abbastanza dal
primo televisore che potesse trasmettere le immagini della cerimonia prevista
per oggi: una cerimonia fortemente voluta dalla presidente Paylor, fissata nel
primo pomeriggio a Capitol City, per commemorare le giovani vite che in
settantacinque anni sono state estratte alla mietitura. E sono tante, tantissime.
Questa cerimonia si ripeterà il quattro luglio di ogni anno, per non
dimenticare ciò che è accaduto e ciò che si è affrontato affinché a tutto
venisse finalmente scritta la parola fine.
So
che Peeta ha voluto portarmi qui per non farmi ricordare, ma io non posso
smettere di ricordare. Non posso smettere, e lo sto facendo anche adesso mentre
gli accarezzo i capelli e la fronte, mentre percorro con le dita la linea del
suo naso. Non posso smettere di ricordare, anche se fa male ricordare. Oggi,
però, vuoi per la giornata estiva, vuoi perché siamo da soli, e vuoi perché
questo posto riporta a galla centinaia di minuti felici trascorsi
spensieratamente, sto bene. Sto bene, e sto bene anche mentre penso a
Prim. Penso a Finnick, a Mags, a Rue, penso a papà e a tutti coloro che ho
conosciuti e che sono morti, e sto bene.
Per
la prima volta, ricordare non fa più così male.
Smetto
di ricordare quando un uccellino si posa a poca distanza da dove ci troviamo io
e Peeta. Appollaiato su un masso, si guarda attorno e cinguetta piano, in
attesa di una melodia qualsiasi da ripetere. Da brava ghiandaia imitatrice, non
può fare altro che questo.
Sorrido,
osservando l’uccellino bianco e nero. Mi domando se non sia lo stesso uccellino
che iniziò a ripetere il motivetto che gli fece sentire Pollux, quel giorno che
tornammo al 12 per girare i Pass Pro. È improbabile che sia lo stesso… ma
potrebbe anche esserlo. Le ghiandaie imitatrici sembrano tutte uguali. Sembrano
fatte con lo stampino.
Prima
ancora che me ne possa rendere conto sto fischiando, cercando di ricordare la
breve serie di note di Pollux. Quando la ritrovo, la piccola ghiandaia ha già
imparato la nuova melodia e ha iniziato a ripeterla, al punto che smetto di
ripeterla io per sentire quella prodotta dalle sue corde vocali. È di gran
lunga più carina della mia.
-
Nostalgia delle vecchie abitudini?
Sorrido,
incrociando il celeste degli occhi di Peeta. – Vecchie abitudini?
-
Quando venivi qui a cantare con le ghiandaie invece di cacciare… sai di cosa parlo,
no?
Rido.
- È la cosa più stupida che abbia mai sentito, Peeta!
-
Vuoi dire che non è per questo che ti chiamano Ghiandaia Imitatrice?
-
Temo di no…
Sbuffa.
– Sono stato preso in giro per tutto questo tempo… - si lamenta, scuotendo la
testa contro la mia pancia. I suoi capelli mi solleticano la pelle e mi fanno
ridere, tanto che Peeta solleva di nuovo la testa per guardarmi in malo modo. –
Stai ridendo di me?
-
No! – faccio, ma la sua espressione è talmente buffa da farmi ridere di nuovo.
-
Sbruffona – mi rimprovera, girandosi ed arpionando i miei fianchi con le
mani. Sono calde, e sento dell’altro solletico quando li accarezza con i
polpastrelli. – Non ti conviene prendermi in giro.
Alzo
un sopracciglio. – Ah no?
-
No. Non sei nella posizione migliore per farlo – mi spiega. Il senso di
solletico aumenta, ma aumenta anche qualcos’altro: le sue carezze cominciano a
non sembrare più tanto innocenti. Presto potrebbero diventare qualcos’altro. I
suoi polpastrelli, adesso, seguono la sorta di linea di confine che è
rappresentata dal bordo dei miei calzoncini.
Un
paio di calzoncini e una fascia senza spalline che mi copre il seno: è tutto
ciò che indosso, al momento. Ed un paio di calzoncini, leggermente più lunghi
dei miei, è tutto ciò che indossa Peeta. Il resto dei nostri vestiti giace in
un mucchio disordinato accanto al paniere del pranzo; li abbiamo tolti per fare
il bagno e ancora non li abbiamo rimessi. Fa caldo, e stare senza quasi nulla
addosso è stata una tentazione troppo forte per poterle resistere. Per Peeta
avremmo anche potuto restare nudi, dato che siamo le uniche persone presenti
qui, in riva al lago… ma mi sono opposta.
Sta
per caso cercando di raggiungere il risultato sperato?
Dal
modo in cui l’indice si è infilato sotto all’elastico dei calzoncini, direi di
sì.
-
Che stai facendo?
-
Non sto facendo niente! – risponde con tono innocente. Non me la dà a bere.
Bacia la punta del mio naso mentre aggiunge un altro dito.
-
Peeta…
-
Cosa? – la sua bocca si sposta, lentamente, sullo zigomo.
Sto
quasi per cedere al suo invito… ma non cederò. – Ho una richiesta da farti.
-
Tutto quello che vuoi, amore. Tutto quello che vuoi…
Sfioro
le sue labbra con fare seducente, azzardando quel tipo di comportamento che non
mi è mai riuscito bene. Non sono un’esperta nell’arte della seduzione: Peeta è
l’unico ragazzo con cui sono stata e con cui starò mai, e per conquistarlo non
è servito sedurlo. Era già innamorato di me quando ho capito di ricambiare i
suoi sentimenti. Ma posso giocare ad essere seducente per una volta… posso
scherzare a fare la femme fatale con mio marito.
-
Ti va di…
-
Di?
Bacio
il suo mento e scendo lungo il collo. - …pescare?
-
Che?
Il
modo in cui reagisce mi fa sbellicare dalle risate. Peeta, facendo forza sulle
braccia per restare sollevato, mi osserva ridere e sul momento capisce di
essere stato preso di nuovo in giro… e poi sorride. Non sorride, però, nel modo
in cui sorriderebbe una persona che ha accolto lo scherzo e sta al gioco:
sorride come sorriderebbe una persona che sta per mettere in atto uno scherzo
per vendicarsi della beffa.
-
Va bene, andiamo a pescare!
-
Peeta! – strillo, aggrappandomi alle sue spalle, ma nel giro di un
secondo mi ritrovo a testa in giù.
Lo
sento ridere mentre stringe le mani intorno ai miei fianchi ed inizia ad andare
verso il lago, reggendomi come se fossi un sacco di farina e non pesassi più di
venti chili. Ho i capelli davanti agli occhi ed il pranzo che minaccia di fare schifosamente
la sua comparsa. Picchio la parte inferiore della sua schiena nello stesso
istante in cui lui entra in acqua, avanzando fino ad arrivare nella parte più
alta.
-
Peeta! Non osare – lo minaccio.
-
Perché? Eri tu quella che voleva pescare – esclama, lanciandomi in acqua.
Due
ore dopo almeno, siamo di ritorno al Distretto 12 con i vestiti un po' umidi e
le provviste dimezzate. Torniamo a casa senza aver cacciato e senza aver
pescato nulla, ma di umore dieci volte migliore rispetto a quando siamo usciti
stamattina.
-
Ripetiamo? – chiedo a Peeta mentre attraversiamo la vecchia zona del distretto
in cui sorgeva la piazza. Dove prima sorgevano le botteghe, dove fino a tre
mesi fa c’erano le rovine causate dai bombardamenti, adesso campeggiano gli
scheletri delle nuove costruzioni. La maggior parte del Distretto 12 è caratterizzata
dalle nuove costruzioni, ed io non vedo l’ora di vederle ultimate.
-
Anche domani – Peeta accetta, gli occhi azzurri che la luce calante del sole
rende più scuri, quasi viola, accesi di entusiasmo. Passa un braccio attorno
alle mie spalle, urtando l’arco e la faretra che tengo sulla schiena.
Il
Villaggio dei Vincitori pullula di persone nonostante sia quasi arrivata l’ora
di cena: persone riunite in gruppetti, persone che chiacchierano allegramente
e, mi sembra, persone che alzano in aria dei bicchieri per poi bere.
Stanno
facendo dei brindisi?
Naturalmente,
tra le persone che brindano alla salute di chissà chi c’è Haymitch, che non
appena ci nota arrivare si avvicina tutto allegrotto, l’umore estatico ed il
sorriso di chi non si è concesso solo un bicchiere.
-
Eccoli che ritornano dopo aver fatto le cosacce! – se ne esce, allargando le
braccia. – Venite, c’è da bere per tutti! Stiamo festeggiando la lieta novella!
-
Festeggiate il primo anniversario senza mietitura? – avanza Peeta, osservando
Haymitch con sguardi divertiti.
-
Ma quale mietitura, ragazzo. Chi se ne frega della mietitura! Ma non
avete saputo? No, giusto, siete appena tornati…
-
Haymitch? – lo chiamo, non capendo il senso del suo discorso.
-
Oggi è una giornata meravigliosa! Al Distretto 4 è arrivato un nuovo abitante,
sapete? Si deve festeggiare la nascita di un nuovo abitante!
-
Nascita? – il viso di Peeta si accende di entusiasmo, riflesso dei suoi occhi,
e non trattiene una sorta di sospiro misto ad una risata davanti all’annuncio
del nostro ex mentore.
Ed
è così che prendiamo coscienza di ciò che è avvenuto a centinaia di chilometri
di distanza, in un posto che io e Peeta abbiamo visto solo una volta e che
ricordo essere un posto meraviglioso, circondato da una distesa di mare blu e
azzurro. Azzurro come il cielo, come l’acqua, come gli occhi dell’uomo che amo.
Come
l’azzurro degli occhi del bambino di Annie e Finnick.
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Alla fine della storia mancano
appena due capitoli.
Non so se è questo il vero motivo
che mi ha portata ad accumulare così tanta distanza dall’ultimo aggiornamento,
o se è stata la mancanza di voglia, o qualcos’altro… ma l’importante è essere
qui, giusto?
Grazie per essere arrivati fin
qui, e per avermi aspettata ♥
D.