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Autore: Signorina Granger    20/04/2023    9 recensioni
INTERATTIVA || Iscrizioni chiuse
L’Arconia è un elegante condominio dell’Upper West Side abitato da maghi e streghe di diverse età, nazionalità ed estrazione sociale. Dopo l’inaspettata scoperta di un cadavere alcuni di loro si uniranno per indagare sull’accaduto, finendo col riportare a galla i segreti di più di uno dei loro vicini. Del resto, quanti possono affermare di conoscere davvero chi gli abita accanto?
[Dal testo]
“C’è una cosa che non capisco: la gente che non vuole vivere nelle grandi città per colpa della criminalità. Qualsiasi appassionato di true crime sa che non è così. Ammettiamolo: nessuno ha mai trovato 19 cadaveri nel giardino di un palazzo di 15 piani. Magari giusto un paio.
Qui hai gli occhi di tutti puntati addosso, siamo tutti ammassati e accatastati uno sopra l’altro.
Come quelli che, come me, vivono all’Arconia.”
[La storia prende ispirazione dalla serie tv omonima]
Genere: Comico, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Maghi fanfiction interattive, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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“Orion, non puoi essere serio.”
“E invece sì. Ti dico che tornerà. Non manca molto ormai.”
Orion si strinse nelle spalle con tutta la naturalezza del mondo, gettandosi un’altra manciata di noccioline salate tra le labbra mentre faceva pigramente dondolare il piede destro e Jackson, che gli sedeva di fronte, lo guardava con i grandi occhi scuri spalancati e impregnati di terrore. Incapace di figurarsi lo scenario appena descrittogli dal vicino senza provare una copiosa dose di panico Jackson scosse lentamente il capo, costringendosi a deglutire meccanicamente un po’ di saliva mentre stringeva nervosamente i braccioli di metallo della sedia che aveva occupato poco prima, quando lui, Orion e Kei avevano preso posto attorno ad uno dei tavoli del cocktail bar.
“Come fai ad essere così tranquillo, se ne sei convinto?!”
“Beh, me ne sono fatto una ragione. Faresti meglio a farlo anche tu.”
Di nuovo Orion si strinse nelle spalle senza smettere di stringere tra le mani la ciotola di noccioline, raccogliendone un’altra manciata con le dita lunghe ed olivastre mentre Jackson perseverava nel guardarlo sgomento: non riusciva a capacitarsi di come il vicino fosse riuscito a condividere quell’informazione con tanta disinvoltura quando, ne era sicuro, molta gente avrebbe dormito più e più sonni tormentati dopo esserne venuta a conoscenza.
“Ma è una notizia orribile! Non penso che la civiltà sia pronta, dovremmo… Non lo so, diffondere per cercare di sventarla, o quantomeno preparare psicologicamente tutti!”
“Che succede? Orion, stai di nuovo predicendo il ritiro dalle scene di Lady Gaga? Evita, lo sai che la gente si spaventa.”
Kei, appena giunto davanti al tavolo dopo aver adempiuto al suo compito di ordinare da bere, gettò un’obliqua occhiata severa in direzione dell’amico mentre prendeva posto sulla sedia rimasta vuota tra l’astronomo e Jackson, che si voltò accigliato verso l’asiatico mentre Orion, ancora segretamente amareggiato per l’inesattezza della sua predizione risalente all’anno prima, sbuffava piano facendosi improvvisamente cupo:
“Ok, ammetto che con Lady Gaga mi ero sbagliato, ma un misero errorino è concesso a tutti. Questa volta ne sono sicuro, lei l’anno prossimo tornerà. È questione di tempo.”
“Ma di chi parla?”
Ormai vagamente esasperato Kei decise di farla breve e di rivolgersi direttamente a Jackson, voltandosi rassegnato verso il veterinario mentre Orion, lontano dal suo campo visivo, sfoggiava un’espressione profondamente offesa, ferito dalla scarsa considerazione che l’amico nutriva nei confronti delle sue abilità divinatorie. L’astronomo si mise improvvisamente a sedere dritto sulla sedia e incrociò le braccia al petto, sollevando il mento per assumere un’aria sostenuta prima di parlare:
La vita bassa.”
Orion scandì quelle misere quanto spaventose tre parole con estenuante lentezza condita da una punta di soddisfazione, lasciandosi rotolare quelle poche sillabe sulle lingua deciso a godersi la reazione che il loro suono avrebbe destato nell’amico di mala fede che gli sedeva accanto. Come nel caso di Jackson, che gemette lievemente solo all’idea, la risposta di Kei non si fece attendere: il ragazzo abbandonò immediatamente l’espressione scettica che aveva destato lo sdegno di Orion per lasciare subito posto ad una incredula e un tantino terrorizzata. Kei sgranò gli occhi a mandorla e sollevò entrambe le sopracciglia, sentendo venir meno se stesso e il suo curatissimo guardaroba contemporaneamente:
“Cosa?! Stai scherzando? Dimmi che stai scherzando.”
“È di questo che parlavo. Non siamo pronti!”
Jackson annuì con un lieve sbuffo mentre guardava Orion facendo cenno a Kei con la mano destra, deciso a rifiutare categoricamente di credere a quella tremenda prospettiva futura mentre l’astronomo faceva spallucce e Kei si sforzava di non pensare a scene dell’orrore gettate, anni prima, sui fondali della memoria ma che stavano rapidamente e malauguratamente riaffiorando:
“Non siamo pronti e mai lo saremo. Io no di certo, non ci tengo a vedere di nuovo le mutande di mezzo mondo.”
“Le mutande se ti va bene.”
Il cupo borbottio di Jackson contribuì ad acuire il fastidioso senso di vertigini provato da Kei, che mormorò di aver assolutamente bisogno di bere per assimilare la notizia mentre si passava nervosamente una mano tra i lisci capelli neri. Orion invece sembrava deciso a non perdere la sua vivacità neanche per un istante, e allargò le labbra in un sorriso allegro prima di iniziare a tamburellare ritmicamente le dita della mano destra sul tavolo:
“Beh, perfetto, siamo nel posto giusto! Forse ho fatto bene a tirare fuori l’argomento adesso dopotutto. Ah, dimenticavo…”
Il sorriso svanì all’improvviso e del tutto inaspettatamente dal bel viso di Orion, che si fece talmente serio da far temere il peggio ai due vicini: l’occasione più recente in cui Kei ricordava di averlo visto tanto serio risaliva all’ultima partita di scacchi che l’amico aveva perso, evento che si verificava circa ogni tre cicli lunari, tanto che lui e Jackson si scambiarono silenziosamente un’occhiata preoccupata, chiedendosi che cosa potesse esserci di peggio dell’imminente ritorno della vita bassa. Fortunatamente, quando avevano appena iniziato a sentire sudori freddi solcargli la schiena Orion mise fine al loro cruccio pronunciando la più impensabile delle assurdità:
“Non ne sono sicuro, ma penso che la Regina potrebbe lasciarci, l’anno prossimo.”
Ci fu un istante di silenzio in cui Orion ricambiò impassibile gli sguardi perplessi di Kei e Jackson, ma la suspence che si era andata a creare si trasformò presto in uno scoppio di risate da parte dei due vicini:
“Dai, ti prego, che stronzata! Credo più a Lady Gaga.”
“Figurati, è impossibile!”
Kei e Jackson stavano ancora ridendo quando finalmente i loro drink raggiunsero il tavolo, e Orion non tardò a stringere il suo bicchiere rumble e a portarsene il bordo alle labbra con aria incupita, mormorando qualcosa che si perse tra le risa dei due vicini:
“Un giorno verrete a chiedermi scusa.”
 

 
Capitolo 9
N o M?

 
 
 
Domenica 10 ottobre

 
 
 
“Quindi stai via per qualche giorno?”
“Solo un paio, torno martedì. Cercate di non far esplodere il palazzo mentre non ci sono.”
Mathieu, in piedi davanti a Carter circondato dalle mura del palazzo e con le mani nelle tasche della giacca, accennò un sorriso a metà tra il divertito e il rassegnato che destò un’espressione offesa sul bel viso dell’amico:
“Figurati, siamo tutte persone così quiete e tranquille da queste parti. Beh, a parte quella lì.”
Carter accennò distrattamente verso un punto che si trovava alle spalle di Mathieu, più precisamente nei pressi della Rolls Royce posteggiata sul viale d’ingresso per i veicoli del cortile, dove Niki si era fermata per salutare Prune, in partenza come il padrone e già sistemato all’interno dell’auto. Udite le sue parole la strega lo invitò caldamente a ficcarsi le sue opinioni in un certo punto, ma Carter non ci fece particolarmente caso e tornò presto a rivolgere la propria attenzione all’amico:
“Senti, ma perché vai in auto? Non è lungo come viaggio, per stare via solo due giorni?”
“Andare in auto è praticamente l’unico modo per portare Prune. Non volevo lasciarlo a casa e in aereo non lo metterò mai, neanche sotto tortura, quindi auto sia. Comunque per Ville de Québec sono più o meno sette ore, potrebbe andare peggio.”
In realtà a preoccupare Mathieu non era la traversata in sé, quanto più ciò che lo aspettava una volta arrivato a destinazione: le sue visite oltre il confine nazionale, in Canada, si erano fatte leggermente più sporadiche con il passare degli anni, e di certo dietro a quella tendenza decrescente un motivo doveva esserci, ma disgraziatamente l’indomani rappresentava un’occasione che Mathieu non avrebbe potuto saltare per nessuna scusa al mondo, il Thanksgiving(1).
“Comunque non avrei potuto non andare neanche volendo, e non solo perché a mia madre sarebbe venuto un esaurimento… Superare il confine dopo aver richiesto la cittadinanza è complicato, quindi potrebbe essere l’ultima volta in cui vedo la mia famiglia per un po’.”
Dopo aver pronunciato quelle parole Mathieu si chiese se dopotutto non sarebbe stato tenuto a provare una qualche forma di dispiacere a seguito di quella consapevolezza, ma visto che nessun sentimento negativo si fece sentire scrollò le spalle e accantonò l’idea. Carter invece, che ancora stentava a contemplare l’esistenza di un Thanksgiving diverso da quello statunitense, di gran lunga la sua festività preferita in assoluto, lo guardò dubbioso e cercando di celare la propria disapprovazione:
“Sorvolerò su quanto io trovi assurdo che esista un Thanksgiving che non sia quello che festeggiamo noi più o meno con un mese e mezzo di ritardo, l’unico Thanksgiving vero e inimitabile, per darti il mio sostegno: se dovessi saltarlo, mia nonna verrebbe a prendermi dall’Indiana anche a piedi, se necessario.”
In cuor suo Mathieu si disse che anche sua nonna sarebbe stata capacissima di farlo, sfrecciando verso New York in sella alla sua scopa, ma lo rincuorò la consapevolezza della presenza del confine da dover oltrepassare. Pronto ad affrontare il gelo che lo avrebbe accolto una volta in Canada,  si strinse nelle spalle esalando un lieve sospiro:
“Beh, sono solo due giorni, penso di potercela fare. Spero. Devo andare ad offrire sostegno a mia sorella e a mio cognato, o se lo mangeranno vivo.”
“Fammi sapere se sopravvivi. Ma non hai portato Ezdar, insieme a Prune?”
Lo sguardo cristallino di Carter scivolò perplesso sulla costosissima auto di Mathieu – e su Niki, che stava ancora salutando Prune attraverso il finestrino aperto – notando l’assenza della civetta dell’amico, che si diresse verso la macchina accennando un sorrisino colpevole con gli angoli delle labbra:
“La civetta col caratteraccio che guarda caso prende il nome del mio terribile nonno? Penso che di Ezdar me ne basterà uno, per i prossimi due giorni. Niki, mi spiace interrompere il vostro commovente addio, ma devo partire.”
E doveva proprio, o avrebbe tardato per cena. E chi l’avrebbe sentita, poi, sua madre in piena crisi isterica? Niki sembrò provare lo stesso entusiasmo del vicino, perché smise di accarezzare la testa dell’alano, comodamente sistemato sul retro dell’auto da bravo cagnolone viziato qual era, per salutarlo:
“Che palle. Ciao Prune, ci vediamo quando torni!”
Dopo aver rivolto un ultimo temporaneo addio a Prune la strega si rivolse a Mathieu, che l’aveva raggiunta accanto all’auto per partire, ma smise immediatamente di parlare con tono lacrimoso e si fece, come al solito, improvvisamente seria:
“Beh, ci si vede quando torni, Mike. Dov’è che vai?”
“Dalla mia famiglia.”
Quelle parole gli uscirono più tetre di quanto non avrebbe voluto, ma Niki non ci fece caso, troppo impegnata a far rimbalzare lo sguardo, accigliata, da lui alla sua auto e viceversa e a perdersi nelle proprie elucubrazioni mentali:
“Aspetta. Vai in auto, quindi non dev’essere eccessivamente distante… per la prima volta non sei vestito come un pazzo che non percepisce la temperatura…”
Ehy!”
“E hai un nome francese… Sei canadese!”
Un larghissimo sorriso distese le labbra di Niki, che guardò il vicino sentendosi esultare per quella scoperta, certa di essere nel giusto e cercando al tempo stesso di non chiedersi perché ci avesse messo tanto tempo a capirlo. Mathieu però non le diede alcuna soddisfazione, guardandola stralunato mentre Carter, sempre in piedi alle sue spalle, si premurava di far sapere alla strega di come lui, a differenza sua, lo sapesse già da tempo. Certo era stato Matheu stesso a dirglielo quando si erano conosciuti anni prima e non l’aveva capito autonomamente, ma quelli erano dettagli che Niki non era tenuta a conoscere.
“Certo che sono canadese. Lo hai scoperto ora?”
Il sincero stupore manifestato da Mathieu indispettì non poco la vicina, che strinse offesa le braccia al petto e sollevò il mento con aria sostenuta:
“Beh, scusa tanto se non ho la sfera di cristallo e se ho conosciuto battiscopa più loquaci di te.”
“E Carter non te l’ha detto?”
Mathieu stentava a credere che la sua nazionalità potesse aver rappresentato una sorta di mistero tra i suoi vicini e accennò in direzione di Carter levando pigramente la mano, ma Niki sbuffò e scosse la testa mentre tornava ad inforcare gli occhiali da sole dopo averli levati da una tasca dell’immancabile lunga giacca di pelle che indossava:
“Chi, quello utile come il caffè decaffeinato? Per favore. Senti, ma già che ci siamo, il tuo nome su Wizagram per cosa sta?”
Che cosa significassero le due misere, semplicissimi ma indecifrabili “B” che costituivano il nome di Mathieu su Wizagram i suoi vicini se lo stavano chiedendo già da parecchio, ma invece di rispondere il diretto interessato si limitò a sorridere mentre apriva la portiera dell’auto, salendo a bordo sotto lo sguardo amareggiato della vicina:
“Au revoir Niki.”
“Beh, prima o poi lo scoprirò.”
Mathieu ci tenne a farle notare come lui e gli altri neanche conoscessero il suo cognome, ma Niki non gli concesse una risposta mentre si allontanava dall’auto per farlo uscire senza finire investita, dirigendosi verso Carter con le mani infilate nelle tasche della giacca.
“Tu lo sai?”
“No, me lo ha detto ma è qualcosa in francese che non ricordo minimamente. Ciao Matt!”
Carter sorrise e levò una mano per agitarla in direzione dell’amico in segno di saluto, ignorando il cupo borbottio che si sollevò da Niki un istante dopo, mentre la Rolls Royce iniziava a procedere lungo il viale per uscire dal cortile:
“Ti pareva.”
 
Mathieu aveva appena varcato i cancelli d’ingresso dell’Arconia quando sollevò lo sguardo sul finestrino posteriore, accennando un sorriso in direzione del suo amatissimo cane:
“Allora Prune, lasciamo il covo dei pazzi, sei contento?”
Prune, che saliva in auto con lui molto di rado, agitò la coda nera e bianca mentre levava la testa con curiosità per studiare la strada affollata da auto e da un innumerevole numero di taxi gialli, consentendo al padrone di riflettere brevemente sulle sue parole. Una volta realizzato dove fossero diretti il sorriso sparì immediatamente dal bel viso di Mathieu, lasciando invece posto ad una lieve smorfia preoccupata:
“… Però ci stiamo andando ad infilare in uno ancora peggiore. Merde.”
Forse aveva esultato troppo presto.
 
 
*

 
All’interno dell’appartamento 9A la seconda domenica di ottobre stava procedendo come ogni altra domenica dell’anno: la cucina era un disastro, il tavolo ricoperto da contenitori di carta vuoti e il microonde lasciato aperto, apparentemente reduce da una sorta di esplosione di dubbia natura, e una scacchiera giaceva sul tavolino da caffè di vetro nel soggiorno, pronta ad accogliere un’ennesima partita. Fin da quando aveva conosciuto Orion Parrish Kei non era mai riuscito a capacitarsi di come il vicino riuscisse a devastare a tal punto la cucina pur non essendo assolutamente in grado di cucinare: doveva trattarsi di una sorta di talento innato che Orion non sembrava affatto intenzionato a cercare di debellare. L’unico angolo perennemente in ordine ed immacolato della cucina era, naturalmente, quello adibito al caffè: le tazze, ognuna dedicata ad una diversa costellazione, erano sempre perfettamente allineate accanto ai barattoli di metallo che custodivano le miscele predilette dal padrone di casa, e la macchina per l’Espresso tirata a lucido. Un occhio esterno avrebbe potuto chiedersi se l’appartamento non fosse abitato da due differenti individui diametralmente opposti, ma Kei aveva smesso già da tempo di porsi domande in merito.
Era proprio davanti alla sua amata coffee station che Orion si trovava dopo aver messo in pausa una partita a scacchi – giocata contro se stesso per allenarsi, visto che il suo ospite non aveva acconsentito ad unirsi a lui –, dedito al rituale della preparazione del caffè mentre Kei sedeva in silenzio sul suo divano, un libro aperto e momentaneamente dimenticato sulle ginocchia con un evidenziatore grigio pastello nel mezzo. Lo studente aveva brevemente abbandonato lo studio per digitare freneticamente qualcosa sullo schermo del proprio telefono, ascoltando solo distrattamente ciò che Orion stava dicendo dalla cucina, lamentandosi di un qualche collega inefficiente e delle sue supposizioni totalmente idiote ed irrealistiche.
Arthur il gufo sonnecchiava sul suo trespolo, la cucina era un macello e Orion preparava il caffè – l’ennesimo –: una domenica come tante altre che andava ripetendosi dentro le mura dell’appartamento, ma in fondo né lui né Kei avevano realmente l’impressione che le cose stessero così. Entrambi avevano ben altro per la testa.
“Sono abbastanza convinto che la prossima a morire sarà Kamala.”
Orion fece ritorno con le due tazze di caffè, una per sé e una per il suo ospite, attirando l’attenzione di Kei con una supposizione che l’astronomo andava ormai covando da qualche giorno a quella parte: bastarono quelle parole per far sì che Kei alzasse lo sguardo dallo schermo del telefono per gettargli un’occhiata incerta, indeciso se prenderlo totalmente sul serio o meno.
“Perché?”
“Beh, non la racconta giusta. E spesso chi non la racconta giusta ha vita breve in situazioni come questa. Zucchero?”
“No, grazie. Quindi non pensi che abbia ucciso, o cercato di uccidere, Monty?”
Kei inarcò un sopracciglio corvino mentre Orion gli sedeva di fronte, posizionandosi nuovamente dinanzi alla sua amata scacchiera armato di piattino e tazzina blu e bianca coordinati. L’ex Tuonoalato scosse la testa emettendo uno sbuffo simile ad una lieve risata, i profondi occhi scuri quasi luccicanti mentre accennava un sorriso con gli angoli delle labbra:
“Cazzo, no. Insomma, chiunque sia è una persona sveglia. Rifletti, ammazzi qualcuno e lasci l’arma del delitto praticamente in bella vista in casa tua? Se dovessi avvelenare qualcuno con del caffè non ne lascerei a casa mia, anche se sarebbe traumatico per me restare senza caffè anche solo per un giorno o due.”
“Magari non è così sveglia. Magari non l’ha ucciso lei, se davvero parliamo di due persone, forse lei ha solo cercato di avvelenarlo. E poi non dicono che gli assassini spesso, inconsciamente, vogliono essere scoperti perché sono quasi tutti megalomani? A volte lasciano tracce in giro.”
“Sì, ma se io fossi dichiaratamente avverso al caffè e lo usassi per uccidere qualcuno liberarmene sarebbe la prima cosa che farei. Non lo so, non penso sia stata lei. Ciò non toglie che non l’apprezzo per nulla, è chiaro.”
Per un breve istante il bel viso di Orion venne lievemente sfigurato da una smorfia pregna della più pura disapprovazione, ma tornò ben presto a rasserenarsi quando il mago assaporò un po’ di caffè, autocompiacendosi per quanto fosse bravo a sceglierlo e a prepararlo. Kei annuì prima di imitarlo, sorseggiando pensoso un po’ di caffè mentre l’amico, dopo aver gettato un’occhiata semi-adorante alla scurissima bevanda calda, tornava a rivolgerglisi appoggiando il piattino sul tavolo, accanto alla scacchiera:
“Che cosa scrivevi, comunque?”
“Niente, riflettevo. A volte è più facile farlo per iscritto. Deduco che i tuoi fornelli siano ancora rotti, comunque.”
Kei vuotò rapidamente la sua tazza prima di depositarla sul tavolino, esattamente di fronte a quella di Orion, e accennò in direzione della cucina con un lievissimo movimento del capo. Il gesto dell’amico destò un sorriso sul viso del padrone di casa, che annuì e si concesse una lieve stretta di spalle:
“E così resteranno.”
All’inizio lo aveva stranito non poco, il fatto che Orion non avesse mai fatto riparare i fornelli della sua cucina. Vivere senza fornelli gli era sembrata una scelta ridicola, ma col tempo Kei aveva iniziato a persuadersi del contrario: forse era un bene che i fornelli del 9A rimanessero inutilizzabili, sia per l’incolumità del palazzo intero che per quella di Orion, visto quanto poco andassero d’accordo l’astronomo e il fuoco. Il suo era forse l’unico camino del palazzo che non era mai stato acceso negli ultimi quattro anni, da quando si era trasferito all’Arconia.
“Vivrai di cibo d’asporto per sempre?”
“Forse non per sempre. Ma per ora sì. Sorvolando su quanto io tenga a stare alla larga da una fiamma di qualsiasi natura, hai idea di che disastri potrei combinare? Sarei un pericolo pubblico.”
“Tanta gente è un disastro in cucina, non è un dramma. Forse potresti… superarla, prima o poi.”
Di tanto in tanto Kei faceva un tentativo, il più delicatamente possibile, per suggerire all’amico di lasciar andare il solido guscio che si era costruito negli anni, ma disgraziatamente le fondamenta di quella specie di corazza erano state depositate ormai quasi vent’anni prima e Orion non sembrava ancora dell’idea di voler provare a lasciarla andare: Kei era abituato a vederlo irrigidirsi in maniera quasi impercettibile e infine scuotere la testa prima di sforzarsi di sorridere, come a cercare di ristabilire una parvenza di normalità.
“Non mi ci vedo.”
“Tanta gente lo fa, Orion.”
Quelle parole risuonarono più dure di quanto Kei non avrebbe voluto, ma a volte la testardaggine dell’amico finiva con l’innervosirlo: pochi sapevano meglio di lui quante fossero le possibili reazioni umane di fronte al dolore, gli era bastato vivere la perdita dei suoi genitori e assistere ai modi diversi in cui i suoi fratelli maggiori avevano cercato di superarla. Ma quello che faceva Orion, e ci aveva messo parecchio a capirlo, era un modo che di reagire che quasi escludeva di ammettere ciò che realmente era successo.
“Lo so, ma io non sono “tanta gente”, evidentemente. Vado a vedere se Trixie salta fuori.”
Orion si alzò abbandonando scacchiera e residui di caffè sul basso tavolo di vetro, raggirando Kei e il divano per dirigersi verso l’ingresso dell’appartamento e la fessura nel muro dove abitava il suo “coinquilino”, un minuscolo topolino bianco che Orion aveva trovato nell’appartamento il giorno in cui si era trasferito e verso cui aveva immancabilmente finito con il provare affetto: affezionarsi a quasi chiunque incontrasse sulla sua strada era una tendenza che aveva iniziato a sviluppare fin da piccolo, quando dopo la morte di sua madre era stato costretto a ricercare forme di affetto nel mondo che lo circondava.
Kei, ancora seduto sul divano, ruotò il busto per consentirsi di gettare un’occhiata di sbieco all’amico, guardandolo controllare l’apertura del muro – attorno alla quale, durante una domenica piovosa e poco stimolante di un paio d’anni prima, aveva ben pensato di dipingere un castello – senza trovare traccia del topolino. Nel rimettersi in piedi Orion gettò un’occhiata quasi per caso all’unica fotografia che aveva coccolato sulla consolle di legno nero accanto alla porta, accanto alla ciotola di ceramica che conteneva chiavi, e notando un sottile velo di polvere sul vetro subito la prese per pulirla con un tocco di magia. Quando i visi delle due persone raffigurate, un adolescente e una bambina che gli somigliavano paurosamente, furono liberati dallo strato di polvere Orion tornò a concedersi di sorridere: talvolta finiva col trovare bizzarra la fissazione che nutriva nei confronti di quella foto e sul tenerla pulita quando, invece, la sua cucina restava irrimediabilmente un macello, ma di solito Orion accantonava quei pensieri in fretta e furia, liquidandoli con ostinazione. Fu infatti molto rapidamente che rimise la foto di sua madre e di suo zio al suo posto prima di tornare a rivolgere la propria attenzione all’amico, stampandosi un sorriso allegro sulle labbra prima di riavvicinarsi al divano:
“Sai, oggi ho visto Leena ed Eileen. Mi sono offerto di aiutarle in vista della missione suicida che le aspetta.”
“Kamala? Ma scusa, se hai detto che non pensi che sia stata lei?”
Kei lo guardò sbattendo le palpebre, perplesso: lo conosceva bene, ma a volte stentava comunque a seguire il contorto filo dei ragionamenti di Orion Parrish. Orion che finalmente si decise a raggiungere il tavolo della cucina per rimettere in ordine scuotendo la testa, sbuffando piano come se la lentezza che Kei palesava nel stargli dietro lo infastidisse:
“Certo, infatti non penso che le voglia uccidere! No, parlo del caffè. Ovviamente.”
 
 
“Ragazze, so che vi aspetta un compito difficile, ma per fortuna io sono disposto ad aiutarvi.”
“Perché, sei esperto di yoga?”

Eileen lo aveva guardato, seduto di fronte a lei e a Leena ad un tavolo di Starbucks mentre le guardava con aria magnanima, inarcando perplessa un sopracciglio: non che potesse affermare di conoscerlo poi così bene, ma proprio non ce lo vedeva. Ben presto infatti sul viso di Orion si disegnò un’espressione schifata – anche se i pantaloni da yoga di certo gli sarebbero stati bene, si ritrovò a considerare –, e l’astronomo si affrettò a scuotere la testa per cancellare quell’immagine tragicomica dalle menti di tutti i presenti:
“No, pare che al mondo esista persino una specie di betulla più flessibile di me. No, parlo di ciò che dovrete bere se volete entrare nelle grazie di quella lì.”
“Ah, beh, certo, niente caffè. Beh, io e Leena abbiamo sangue british nelle vene, faremo affidamento sul tè.”
Eileen si strinse nelle spalle e accennò distrattamente a sé se stessa e all’amica, che stava in silenzio tenendo le lunghe braccia strette al petto: a loro rinunciare al caffè non sembrava poi così impossibile, ma a giudicare dall’espressione cupa e terribilmente seria impressa sul suo viso Orion non sembrava della stessa opinione.
“State dimenticando che entrambe, suppongo, siete solite aggiungere del latte al tè nero. Ovviamente non potete farlo, quella è la classica vegana rompipalle che fracassa i cosiddetti a chiunque ingurgiti derivati animali di fronte a lei. Quindi niente latticini, ragazze.”
“Non ci avevo pensato. Vorrà dire che lo berremo senza, io il tè verde lo detesto.”
Riconoscendo con una punta di amarezza di non aver affatto riflettuto a riguardo Leena si costrinse a stringersi nelle spalle, chiedendosi perché indagare dovesse richiedere così tanti sacrifici, come rinunciare al latte nel tè, ma Orion sorrise e di nuovo scosse la testa, come se avesse la soluzione a portata di mano e fosse pronto ad esporgliela:
“Oppure, ancora meglio, potreste bere qualcosa che sicuramente lei adora. Leccare il culo è sempre la chiave, la vita me l’ha insegnato. Insieme a tanto altro, è chiaro.”
“E cosa?”

Un tantino preoccupata, Eileen inarcò un sopracciglio pentendosi più che mai di essersi lasciata trascinare nel tentativo di scoprire qualcosa sul conto della loro vicina, finendo col sfoggiare una smorfia schifata quando Orion sollevò le braccia per posizionare sul tavolo due enormi bicchieri di plastica pieni di una sostanza verde pastello. Né lei né Leena capirono dove esattamente il vicino li avesse tenuti fino a quel momento, ma erano troppo occupate a preoccuparsi dei bicchieri che avevano davanti per pensarci:
“Ti prego, dimmi che non è Matcha Latte.”
“Con latte di soia. Ovviamente. Ora vi prego, non scappate via urlando, anche se è ciò che farei io. Domani mi ringrazierete.”
 
 
“Convincerle a berlo è stato molto difficile, non erano molto contente. Però un po’ le capisco, ho provato a sdrammatizzare assaggiandolo e mi sono quasi sentito male… Poverine, devono sopportare la compagnia di quella lì e in più bersi quella specie di melma!”
Orion scosse la testa, sinceramente dispiaciuto per la sorte verso cui le sventurate vicine stavano per andare incontro, ma Kei non sembrò condividere perché lo guardò inarcando un sopracciglio, perplesso:
“A me piace il latte di soia.”
Naturalmente Kei si pentì immediatamente di aver pronunciato quelle parole: come aveva potuto fare quell’errore dopo anni passati a nascondergliele?! Orion lo guardò immobile e in silenzio per qualche istante, bisognoso di tempo per elaborare la notizia, fino a sfoggiare un sorriso platico piuttosto bizzarro che destò un inizio di preoccupazione nell’amico:
“Fingerò che tu in casa mia questa cosa non l’abbia mai detta, Kei.”
“Perché sorridi così?”
“Sorrido sempre così.”
“Meglio se bevi altro caffè.”
 

 
*
 
 
Hard Rock Cafè
 
 
Era una verità universalmente riconosciuta – o almeno così si ostinava a ritenere il diretto interessato – che mai e poi mai James Carter Cross si sarebbe volontariamente e coscientemente seduto allo stesso tavolo della sua altissima e acidissima dirimpettaia. Certo a voler ben vedere quella situazione si era già concretizzata un mese prima, ma Carter ripeteva a se stesso che non aveva avuto scelta, quella sera. E in fondo non aveva avuto scelta neanche quel giorno, visto che mezza Manhattan sembrava aver deciso di pranzare all’Hard Rock. Carter si era quindi ritrovato a starsene seduto sul divanetto rivestito da un sottile strato di pelle color cremisi con i grandi ed enigmatici occhi verdi della sopracitata dirimpettaia puntati addosso, chiedendosi come e perché si fossero ritrovati, esattamente, in procinto di mangiare insieme. Niki sembrò pensare lo stesso, perché aprì il menù nero con un gesto secco e dando perentoriamente voce ai pensieri di entrambi:
“Beh, ovviamente è un caso. Volevamo solo entrambi pranzare fuori e tu mi hai seguito.”
“Non ti ho seguito, hai detto che saresti venuta qui e ho ritenuto che avessi avuto una buona idea, stranamente. Un caso isolato.”
“Isolatissimo.”
“E io che ho detto? Su, passami il menù, così ce la sbrighiamo in fretta, ho paura che stando a lungo nel tuo campo visivo i tuoi occhi finiscano col pietrificarmi.”
“Arrangiati, lo guardo prima io.”
Niki fece scivolare i grandi occhi chiari dal taglio allungato sulle pagine del menù, piuttosto affamata e felice di esserlo: non aveva mangiato quasi nulla durante tutta la settimana che andava concludendosi. Probabilmente il suo stomaco chiedeva pietà dovendosi sorbire la compagnia di Ken.
“Bene. Andrò a chiederne un altro usando tutto il mio fascino su un cameriere. O una cameriera, tanto mi considerano bello universalmente.”
Carter si alzò gettandole la più gelida delle sue occhiate prima di darle sdegnosamente le spalle e allontanarsi, ignorando l’eco della pacatissima voce di Niki che presto lo raggiunse:
“Cerca di non traumatizzare nessuno, mi raccomando.”

“Ehy, Niki. Sai che cos’è che traumatizza seriamente?”
Meno di cinque minuti dopo Carter si ripresentò al tavolo brandendo vittorioso un menù e anche un sorriso profondamente compiaciuto mentre Niki, al contrario, si guardava annoiata le unghie dopo aver già deciso cosa ordinare. Udendo la voce del vicino la strega sollevò pigramente lo sguardo, accennando un sorriso con gli angoli delle labbra prima di scuotere la testa con aria amabile:
“No, ma so che fremi dalla voglia di dirmelo.”
“Tu e i tuoi outfit di merda.”
Carter parlò con un sorriso, ma le sue parole non sortirono la reazione sperata nella vicina, che ricambiò il suo sguardo senza muovere un solo muscolo facciale o lasciare che il suo sorrisino beffardo si smorzasse di un millimetro:
“Oh, tesoro. che dolce, te la sei pensata mentre prendevi il menù?”
Il sorriso di Niki si allargò mentre guardava Carter sederle di fronte borbottando qualcosa di incomprensibile ma che suonò come una sorta di assenso, guardandolo compiaciuta mentre Carter apriva il menù per gettarci finalmente un’occhiata:
“Tu cosa prendi? Qualcosa di scaduto e pieno di panna acida andata a male, suppongo.”
“Il Tupelo Chicken(2) è delizioso.”
Carter esitò: Niki aveva ragione, era notoriamente delizioso. Ma non voleva certo ordinare la stessa cosa della vicina e riconoscerle, quindi, di avere gusti decenti! Per brevi, difficili minuti Carter visse un grande dilemma, ma alla fine decise che niente e nessuno avrebbe potuto distoglierlo dal grande amore della sua vita, ovvero il pollo fritto.
 
“La honey mustard è buonissima.”
“Ti trovo insopportabile, ma hai ragione.”
Sua nonna gli avrebbe malamente assestato un doloroso scappellotto se l’avesse sorpreso a parlare a bocca piena, specie se davanti ad una ragazza, ma per fortuna gli occhi della sua amata nonnina erano lontani miglia e Carter annuì, masticando con gioia un tender di delizioso e croccante pollo fritto mentre Niki affondava una manciata di patatine in una delle ciotoline di ceramica piene di salsa.
“Hai finito il libro di Capote? Mio fratello mi ha detto di non giocare a seguire le sue orme, l’altro giorno. Quel coglione.”
Carter parlò sbuffando piano, ma decise di addentare un altro pezzo di pollo per non pensare a suo fratello e alla sua bellissima faccia da schiaffi. Niki invece accennò un sorriso ma si astenne dal fare commenti, limitandosi a rispondere con calma alla sua domanda:
“Sì, stamattina. Ne ho iniziato un altro che parla di un gruppo di ottantenni che rivolve crimini in casa di riposo(3).”
“In pratica io e te tra qualche decennio.”
“Touché. Perché non ti piace tuo fratello? È come te?”
Le parole le rotolarono sulla lingua prima di darle il tempo di rigettarsele in gola, ma fortunatamente Carter non sembrò prendersela più del solito e si limitò a scoccare un’occhiata torva a lei e al suo sorriso colpevole prima di pulirsi le dita sul tovagliolo stringendosi nelle spalle:
“No, io sono quello simpatico. Lui è quello perfetto.”
“I fratelli perfetti sono un’illusione creata dai genitori. Suppongo sia più grande di te.”
“Sì. Mi ha detto di stare lontano da tutta la storia di Montgomery, ma ovviamente non gli darò retta. Si premura sempre di ricordarmi che non sono un detective e che questa roba non fa per me.”
Carter guardò tetro l’ultima patatina che gli rimaneva nel piatto, decidendo di aver assolutamente bisogno di una gigantesca porzione di dolce per riuscire a crogiolarsi nell’irritazione che suo fratello riusciva a destare in lui anche quando non era fisicamente presente. Niki invece smise di mangiare e appoggiò i gomiti ossuti sul tavolo tenendo lo sguardo ancorato al suo bel viso, osservandolo mentre intrecciava tra loro le dita lunghe e affusolate:
“Perché non lo sei?”
“Paura del sangue, ricordi? Non puoi non tollerarne la vista e avere a che fare con cadaveri e armi del delitto. Non ricordo nemmeno perché mi dia così fastidio, il che è ancora più frustrante.”
Carter si strinse nelle spalle mentre allungava una mano per prendere il tappo della bottiglia d’acqua che Niki aveva ordinato, iniziando a giocherellarci distrattamente mentre le bolle dei residui di schiuma della sua birra scoppiettavano silenziosamente nel bicchiere. Anche Niki si strinse nelle spalle, fissando pensosa un punto indistinto nel tavolo di legno prima di parlare:
“Le paure sono così, irrazionali, fastidiose, ci condizionano la vita. Forse lo hai rimosso. Può essere una benedizione, sai, non ricordare. Magari un giorno la supererai.”
“Non lo so. Tu ci sei riuscita?”
Il giornalista smise di guardare il tappo per posare lo sguardo su di lei, guardandola dubbioso scuotere la testa e accennare un sorriso amaro con gli angoli delle labbra:
“No. E ciò che non riesco a tollerare io è davvero frustrante, visto che viviamo in una società che impone di avere a che fare con il prossimo. La gente spesso non capisce.”
“Parli del fatto che non vuoi essere toccata?”
“Non è solo non volerlo, a volte diventa dolore vero e proprio. Ed è assurdo e irrazionale, ma per il mio cervello è così.”
“Cioè ti fa… male?”
Carter, per quanto nutrisse un’alta considerazione nei confronti del suo intelletto, guardò Niki aggrottando le sopracciglia e rendendosi conto di non essere in grado di capire il significato delle sue parole. Naturalmente ricordava tutte le volte in cui Niki lo aveva più o meno malamente invitato a non toccarla, ma non capiva come potesse averle arrecato una qualche sorta di dolore solo toccandole lievemente un braccio. Niki tuttavia annuì, appoggiando il mento sull’intreccio delle propria dita prima di parlare guardandolo di rimando:
“Pensiamola così. Il dolore fa parte della sopravvivenza: se tocchi il fuoco ti senti la pelle bruciare, e non è una risposta fisica, è una risposta cerebrale. Il tuo cervello ti sta dicendo allontanati, idiota, o questo ti ucciderà.”
“Il mio cervello non è come il tuo. Il tuo rifiuta la vista del sangue, giusto? E se lo vedi finisci col sentirti male. Forse senti nausea, o un capogiro. Magari svieni persino, nei casi più gravi. Il mio rifiuta così tanto il contatto fisico da farmi provare dolore, sento il tocco altrui intensificato almeno il triplo di quanto non sia. Razionalmente so che non è la realtà, ma è questo il punto. È davvero irrazionale avere paura di qualcosa.”
Non era una situazione che gli si presentava di frequente, ma all’improvviso Carter si rese conto di non avere idea di che cosa dirle. La guardò accigliato distogliere lo sguardo dal suo viso per gettare un’occhiata distratta al tavolo e ai loro piatti ormai praticamente vuoti, restando in silenzio per un paio di istanti prima di chiedergli l’ultima cosa che Carter si sarebbe sognato di sentirsi dire in quel momento:
“Dolce?”
Per un attimo quel repentino cambio di rotta nella loro conversazione lo destabilizzò, ma passata la sorpresa iniziale Carter si sentì sorridere, annuendo e decidendo di non insistere:
“Si vede che non mangiamo spesso nella stessa stanza, se mi fai questa domanda.”
 
Naturalmente finirono con il discutere, ma nessuno dei due si sorprese: avevano resistito anche troppo a lungo rispetto alle aspettative di entrambi. Carter non voleva che fosse lei a pagare, visto che già si sentiva in debito per la fatidica cena che avevano condiviso un mese prima, la sera in cui avevano rinvenuto il cadavere di Montgomery, ma Niki non voleva saperne di farsi offrire il pranzo.
“Non voglio essere in debito, non mi piace.”
“Beh, neanche a me, e io lo sono già nei tuoi confronti, quindi devo pagare io!”
“Non esiste.”
Carter avrebbe voluto alzarsi e sfrecciare verso la cassa al piano di sotto, ma temeva che lo sguardo di Niki avrebbe potuto incenerirlo o pietrificarlo. Il ragazzo stava ragionando sulla possibilità che la vicina lo inseguisse e lo raggiungesse, calcolando approssimativamente le velocità di entrambi – lui era ben allenato, ma la spilungona aveva gambe lunghissime e sfidarla avrebbe potuto rivelarsi un rischio – quando Niki, dopo un breve silenzio, di nuovo lo sorprese cambiando bruscamente argomento:
“Senti, prima che mi dimentichi. Ho qui il libro, l’ho finito mentre ero fuori. Prenditelo, te lo presto.”
La strega sollevò la borsa di tela nera e la piazzò senza tante cerimonie sul tavolo che era stato sgomberato da piatti e posate poco prima, invitandolo ad estrarne il volume con un lieve cenno del capo e tornando ad incrociare le lunghe braccia al petto.
Di nuovo Carter si ritrovò a guardarla perplesso di rimando, ma anche se con qualche titubanza allungò lentamente la mano verso l’apertura della borsa, preoccupato all’idea di trovarci un serpente a sonagli all’interno: non si poteva sapere che cosa si portasse appresso una tipa del genere. Carter aveva appena sollevato la parte superiore della borsa – appurando con gioia l’assenza di rettili velenosi – quando Niki si alzò e, con uno scatto fulmineo, si allontanò dal tavolo per andare a pagare.
Ehy! Così non vale! Ma quando cazzo l’ha tirato fuori il portafoglio…”
Carter avrebbe anche voluto inseguirla, ma Niki era già sparita dietro la curva delle scale e decise di lasciar perdere, pentendosi solo di non aver ordinato quattro o cinque dessert o una birra in più. Il giornalista tornò quindi a concentrarsi sbuffando amareggiato sulla borsa della vicina, infilandoci dentro una mano per cercare A sangue freddo, ma ben presto le sue dita si ritrovarono a stringere qualcosa di molto più piccolo di un libro, freddo e liscio. Un piccolo oggetto di metallo che istintivamente Carter chinò lo sguardo per poter osservare, ritrovandosi rapidamente a riconoscere come un costoso accendino d’argento. Carter aveva già visto quell’oggetto tra le mani di Niki, naturalmente, in particolare la sera in cui si erano, in un certo senso, conosciuti, ma il suo sguardo attento si ritrovò a scivolare rapidamente su un dettaglio che fino a quel momento era sempre sfuggito alla sua vista: l’incisione che stava alla base dell’accendino. Come al rallentatore gli sembrò di rivedere Niki accendersi una sigaretta, seduta al suo stesso tavolo all’interno di un ristorante proprio come quel giorno, e riuscì quasi a scorgere di nuovo l’incisione che un mese prima gli era sembrato di intravedere, senza però riuscire a metterla a fuoco. Un dettaglio che aveva finito col dimenticare, naturalmente, ma ora l’incisione stava lì, davanti a lui, e una parte di Carter non riuscì a crederci. Dimentico del libro e incredulo, rimase immobile con l’accendino stretto tra le dita della mano destra, la mente annebbiata e i pensieri improvvisamente messi a tacere.  
Si riscosse da quella specie di stato di trance solo quando sentì gli affrettati passi di Niki avvicinarsi sempre di più, affrettandosi quindi a rigettare l’accendino all’interno della borsa per prendere, invece, il libro di Capote. Quando Niki apparve davanti a lui, in piedi accanto al tavolo, e raccolse la giacca dal sedile del divanetto chiedendogli accigliata perché avesse quell’aria strana Carter si costrinse a scuotere la testa, asserendo di non avere un bel niente prima di alzarsi a sua volta senza osare ricambiare lo sguardo stranito della vicina.
 
 
*
 
 
Gabriel pedalava rapido verso l’Arconia reduce da una lunga visita al mercato, le borse appese ai manici del manubrio in modo da bilanciare il peso in più possibile. Il tatuatore sfrecciava lungo la West 86th Street percorrendo un tragitto che ormai era per lui diventato quasi automatico, consentendogli di poter staccare la mente e pensare ad altro mentre pedalava preoccupandosi solo e soltanto del traffico: aveva in programma di mettersi ai fornelli, attività che da sempre amava e alla quale dedicava sempre del tempo nel weekend, non appena arrivato a casa e magari di portare qualcosa a Naomi, che nei giorni precedenti gli era parsa particolarmente stanca e stressata, difficile dire se solo a causa del suo ingombrante lavoro o se la causa fosse anche legata ad altro. Il tatuatore stava riflettendo a proposito di cosa cucinare per cena e per tirare un po’ su di morale l’amica quando si sentì chiamare da una voce ormai familiare, voltandosi e accennando un sorriso quando incrociò lo sguardo di uno dei suoi vicini: Esteban, in sella ad una bici a sua volta, pedalava pochi metri dietro di lui, e Gabriel rallentò per consentirgli di raggiungerlo.
“Ehy! Pensavo di essere l’unico nel palazzo che ancora si ricorda di come si pedala.”
Esteban lo affiancò sfoggiando un largo sorriso, uno zaino nero leggermente malconcio sulle spalle e i capelli scuri raccolti sulla nuca per evitare di dargli fastidio lungo il tragitto. Gabriel, che in effetti ricordava vagamente di averlo visto portare dentro e fuori dall’Arconia una bici pieghevole di tanto in tanto, annuì mentre adeguava la propria pedalata a quella del vicino per continuare ad affiancarlo:
“Guidare in questa città è da folli, non ho mai tenuto a cimentarmici.”
“Nemmeno io, per carità. Sono stato a Central Park a sbattere la testa su un articolo, non ne potevo più di stare in casa, anche se il tempo oggi fa schifo… Ma domani arrivano i risultati delle analisi sul bicchiere, non vedo l’ora.” A dirla tutta Esteban era uscito anche per consegnare un po’ di erba fuori dal palazzo, ma tenne quell’informazione per sé mentre allargava le labbra carnose in un sorriso, sinceramente entusiasta all’idea di avere presto nuove informazioni sulla morte di Montgomery. Stava giusto riflettendo a proposito di quanto non vedesse l’ora di rimettersi all’opera per scriverne ancora insieme a Carter quando gli venne un’idea:
“Ehy, potremmo vederci con qualcuno degli altri, domani sera. Offro io, mio padre possiede dei locali fantastici in città.”
“Perché no, potremmo avere tutti bisogno di una dose di teorie assurde sulla morte di un nostro vicino per iniziare al meglio la settimana. Ma dubito che Naomi verrà, è lunedì. C’è The Bachelor.”
Esteban era scoppiato a ridere, forse certo che scherzasse. Inutile dire che Gabriel non scherzava affatto: pochi sapevano meglio di lui quanto i programmi trash rientrassero tra le poche cose considerate sacre da Naomi Leigh Broussard.
 
Due ore dopo Naomi aveva ciabattato fino alla porta con Sundance immancabilmente al seguito dopo aver sentito suonare il campanello e aver messo in pausa Love is Blind, una soffice copertina bianca pelosa abbandonata sul divano e le immagini del reality immobili sullo schermo della tv. La strega non amava ricevere visite inaspettate, non nel weekend, non quando indossava una tuta color crema e non era truccata, ma nel trovarsi di fronte uno dei suoi migliori amici aveva comunque sorriso: Gabriel e Moos naturalmente facevano eccezione.
“Ciao Gabri.”
“Ciao. Ti ho portato delle quesadillas, così finisci la settimana in bellezza.”
Quando le porse il piatto coperto dalla carta stagnola Gabriel scorse il viso dell’amica illuminarsi, finendo col sorridere soddisfatto mentre Sundance cercava attenzioni guardandolo scodinzolando.
“Grazie! Vuoi entrare? Sto guardando un reality trash di Netflix, ma per te posso fare una pausa.”
Lui, Moos e Naomi condividevano lo stesso account, e Gabriel provava molta gratitudine nei confronti dell’algoritmo e del suo non intaccare le preferenze tra profili diversi, o si sarebbe ritrovato la Home perennemente popolata da programmi trash: sarebbe stato difficile far desistere sua nipote se si fosse ficcata in testa di voler guardare roba come Too Hot to Handle.
“Non so come tu faccia a trovare interessante quella roba.”
Gabriel si chiuse la porta dell’appartamento alle spalle mentre Naomi andava e riporre le quesadillas in frigo, lontano da Sundance e dal suo perenne appetito, prima di ciabattare nuovamente verso il divano con il Golden Retriever al seguito. La strega era tornata a sedersi imbracciando un cuscino e scuotendo la testa con disapprovazione, ignorando al contempo quella che Gabriel manifestò chiaramente con la propria mimica facciale quando la vide riprendere in mano un sacchetto di tortillas al formaggio.
“Gabri, non deve essere interessante, deve essere trash ed intrattenere! E non dire nulla sulle tortillas, altrimenti ti costringo a vedere tutta la prima stagione di Love is Blind.”
Naomi puntò minacciosa il sacchetto contro l’amico mentre Sundance si accomodava accanto a lei sul divano per appoggiarle la testa sulle ginocchia e potersi godere le meritate coccole, facendo sì che un brivido di terrore percorresse la schiena del tatuatore: Naomi ci aveva già provato, ad iniziarlo ai programmi trash subito dopo la rottura con il suo ex fidanzato. Secondo Naomi il trash aiutava a superare i momenti difficili, ma per lui non aveva funzionato granché.
“Non parlerò, giuro. Allora, com’è andato il weekend? Hai visto tua zia?”
Gabriel sorrise mentre si metteva comodo sulla poltrona dell’amica, sperando che rivolgerle qualche domande l’avrebbe distolta dai programmi trash da lui tanto temuti. Fortunatamente Naomi annuì e ingollò un paio di tortillas prima di rispondere, mettendo da parte le sue terribili minacce:
“Sì, abbiamo pranzato al Plaza e fatto shopping ieri. O meglio, lei compra e io assisto e consiglio. La zia vive la vita dei sogni.”
Per un attimo la mente di Gabriel vagò fino alla prozia dell’amica, alla sua villa in Connecticut dove si era trasferita dopo aver lasciato la frenesia della città e l’appartamento dove ora viveva la nipote prediletta, al suo ingente patrimonio e alla sua vita adibita a viaggi in giro per il mondo. Il tatuatore annuì e accennò un sorriso con gli angoli delle labbra, trovandosi assolutamente d’accordo con lei:
“Sì, decisamente. Tua zia è fortunata.”
“Da piccola dicevo sempre che volevo essere come lei, e in realtà lo penso ancora.”
Naomi sprofondò nei cuscini e sollevò la testa per fissare pensosa il magnifico soffitto bianco stuccato – non aveva mai osato chiedere a sua zia quanto le fosse costato realizzarlo –, portandosi distrattamente una manciata di patatine alle labbra mentre ripensava alle lunghe conversazioni scambiate con la zia:
“Abbiamo parlato di Rory, prima che ci vedessimo è andata a trovarlo. È praticamente l’unica che lo fa, a parte me.”
Gabriel non disse nulla, limitandosi a guardarla e a lasciarla continuare mentre sedeva sulla poltrona bianca posizionata accanto al divano: quando Gregory entrava nel discorso Gabriel aveva imparato a lasciarlo passare senza interferenze.
“Sono felice che lo faccia, ovviamente, ma parlarne anche con lei mi ricorda quanto io sia la sorella peggiore del mondo.”
“Non lo sei.”
Gabriel scosse lievemente la testa accennando un sorriso gentile, guardandola con affetto e rassegnazione al tempo stesso, ma Naomi si mise a sedere più dritta sul divano e ricambiò il suo sguardo con un’occhiata torva, decisa a non essere contraddetta:
“Gabri, lo so che mi vuoi bene e lo apprezzo, ma sii realistico: l’unica sorella peggiore di me è Cercei Lannister.”
Come sempre Gabriel decise di armarsi di pazienza, scuotendo severamente la testa prima di alzare la mano destra mostrandole due dita:
“Primo, dimentichi la pazza sorella di Caitlin.”
“Ah, vero.”
“Secondo, non ho ancora superato l’ultima stagione, quindi meglio non parlarne. Non sei una sorella pessima, in un certo senso hai fatto la cosa giusta. Lui ha sbagliato, non tu.”
Gabriel aveva perso il conto delle volte in cui si era ritrovato a ripetere parole pressochè identiche a quelle. Eppure la sua amica, benchè fosse forse la persona più intelligente e brillante che conosceva, si ostinava a non volerle comprendere: Naomi appoggiò con un gesto brusco il sacchetto di tortillas sul tavolino rotondo di legno posizionato accanto al divano, fissando torva lo schermo della tv mentre serrava la mascella, a disagio e ancora incapace di perdonare se stessa.
“Potevo starmene zitta e in silenzio, però.”
“Ma sarebbe stato deontologicamente scorretto. È la tua essenza, Naomi, essere dedita alla giustizia. Non saresti più tu se voltassi le spalle a cose che non dovrebbero accadere e che ti capitano davanti agli occhi. Anche se si parla di tuo fratello. Non è in prigione per qualcosa che non ha fatto, ma per qualcosa che ha fatto.”
In fondo Naomi sapeva che Gabriel aveva ragione, naturalmente, ma c’erano momenti in cui il senso di colpa nei confronti di una persona che aveva fortemente amato per tutta la vita, qualcuno a cui era indissolubilmente legata, si faceva quasi soffocante. A volte si chiedeva se e quando avrebbe avuto il coraggio di sedersi di fronte a Gregory e dirgli la verità, ma ancora stentava a trovarlo e ad ogni visita sorrideva lasciandosi andare a conversazioni blande, facendo finta di nulla. Naomi scosse la testa e prese la copertina per gettarsela addosso e nascondersi sotto di essa, coprendosi il viso prima che la sua voce giungesse soffocata alle orecchie dell’amico:
“Sono orribile. Sono come quelle bambine odiose e rompipallle che andavano a fare la spia dalla maestra…”
A quel punto Gabriel si alzò in piedi, grato alla coperta che impedì all’amica di scorgere un accenno di risata soffocato nascere sul suo viso, e andò a sedersi sul bracciolo del divano, accanto a Naomi, per scostarle la coperta dal viso e circondarle le spalle con un braccio:
“Dai, consolati... Quelle peggiori, comunque, erano quelle che ricordavano i compiti quando se li scordavano.”
Anche se con riluttanza Naomi annuì, sforzandosi di lasciarsi convincere dalle parole dell’amico mentre con la mano sinistra accarezzava meccanicamente la morbidissima testa di Sundance e appoggiava la testa sulla spalla di Gabriel, che di fronte a tanta disperazione arrivò persino a recuperare il sacchetto di tortillas per porgerglielo.
“Hai ragione. Ma mi manca tanto così per essere al loro livello.”
“Non pensarci, mangia questi.”
Naomi prese il sacchetto dalle mani dell’amico sollevando attonita lo sguardo sul suo viso, gettandogli un’occhiata stranita prima di pronunciare parole che destarono una risata in Gabriel:
“Dio mio, devo farti proprio pena.”
 
*
 
 
Carter si era Materializzato nei pressi dell’Arconia non appena aveva visto Niki sparire tra la folla che popolava quotidianamente i marciapiedi di New York, dissolvendosi in uno svolazzo della sua lunga giacca nera e in un turbinio di passanti dopo avergli detto di essere in ritardo per un qualche appuntamento. Era rimasto in piedi davanti all’ingresso dell’Hard Rock Cafè per qualche secondo, intralciando il passaggio altrui senza preoccuparsene affatto, fissando pensoso il punto in cui l’esile sagoma della vicina era sparita dal suo campo visivo prima di percorrere qualche metro seguendo le orme di Niki, aspettando di essere lontano da sguardi indiscreti per potersi Smaterializzare a sua volta. Giunto nuovamente nell’Upper West Side e, più precisamente, nella lunga via dove viveva ormai da sette anni, Carter si era immediatamente diretto verso l’Arconia con le mani sprofondate nelle ampie tasche della giacca di pelle, lo sguardo cristallino indirizzato verso la distesa di cemento che ricopriva il marciapiede e la mente ferma ad un’immagine che continuava insistentemente a fargli visita: sentiva ancora il metallo liscio e freddo sotto le dita mentre cercava il libro, ritrovandosi invece ad impugnare senza volerlo l’accendino di Niki. Riusciva a rivedersi mentre chinava lo sguardo verso l’interno della borsa quasi meccanicamente, un semplice movimento che gli era risultato naturale ed istintivo, consentendo così ai suoi occhi di indugiare sull’incisione che decorava la base dello zippo.
Carter varcò l’ingresso del palazzo quasi senza rendersene conto, percorrendo con lunghe falcate il tunnel che separava il cancello di ferro battuto dal cortile interno, e in un attimo stava già marciando verso la facciata del palazzo e la schiera di appartamenti e di finestre schermate da tende più o meno simili tra loro. Si trovava ormai a soli pochi metri da Lester e dall’ingresso vero e proprio quando rivide, come al rallentatore, immagini che già erano balenate nella sua mente poco prima, quando ancora sedeva davanti al tavolo che aveva condiviso con Niki: aveva già visto quell’accendino, naturalmente. E aveva già scorto  l’incisione prima di quel giorno, ma senza vederla davvero.
Salutò Lester con un cenno distratto e si diresse immediatamente verso gli ascensori, deciso a fare una piccola deviazione prima di fare ritorno al suo appartamento: più ripensava all’accendino, più si convinceva di dover urgentemente porgere una domanda ad uno dei suoi vicini. Per questo motivo fu il settimo il pulsante che Carter premette quando si trovò finalmente all’interno della cabina di metallo, fissando in silenzio le porte dorate chiuderglisi davanti con estenuante lentezza mentre si chiedeva, infastidito, come avesse potuto essere tanto stupido. Un aggettivo che non era avvezzo ad inserire in una frase che lo riguardava.
Mentre l’ascensore saliva si lasciò ritrasportare ad una sera risalente ormai ad un mese prima, una sera che difficilmente avrebbe potuto dimenticare. Risentì l’allarme antincendio, si rivide lasciare l’appartamento con Sarge e Isla, rivide il cortile gremito di vicini e poi se stesso lasciare il palazzo, vagando fino alla soglia di un ristorante. In un attimo era seduto allo stesso tavolo di Niki, la solita acida e scontrosa Niki di sempre che, anche se quella sera non l’avrebbe mai immaginato, in breve avrebbe finito col conoscere un po’ meglio. La guardava, vedendola senza occhiali per la prima volta, e le chiedeva dubbioso se per caso non si fossero già conosciuti anni prima ad Ilvermorny incassando il primo di una lunga serie di dinieghi. Le porte dell’ascensore si aprirono e Carter lasciò l’abitacolo senza indugi, dirigendosi a passo di marcia verso l’unico appartamento abitato da qualcuno di sua conoscenza per suonare il campanello, sperando che fosse in casa.
Fu un sollievo sentire dei passi e infine il rumore della maniglia che veniva abbassata dall’altro lato della porta, consentendogli di trovarsi di fronte a Kei e alla sua espressione vagamente perplessa un istante dopo.
“Ciao. Ti serve qualcosa?”
Di recente Kei riceveva visite dai suoi eccentrici vicini più che altro per ricevere notizie più o meno deprimenti o destabilizzanti, e nel trovarsi di fronte Carter provò una sincera punta di allarmismo: non vedeva motivo che potesse spingerlo a bussare alla sua porta che non avesse a che fare con la recente morte di Montgomery. Certo Carter a differenza di Moos non portava una torta con sé, ma avrebbe trovato bizzarro il contrario.
“Devo chiederti una cosa. Riguarda Montgomery.”
Naturalmente Kei lo aveva supposto nel momento stesso in cui i suoi occhi avevano solcato i lineamenti del bellissimo viso del giornalista, ma l’espressione insolitamente del tutto seria di Carter, nella quale ebbe l’impressione di scorgere anche l’ombra di una traccia di collera, lo spinse a limitarsi ad annuire e a farsi da parte per farlo passare, chiudendogli la porta alle spalle senza dire una parola mentre un accenno di angoscia si animava istantaneamente in lui, quasi come l’avessero accesa con un interruttore. Ma ormai ci si stava abituando.
Carter gli era sembrato teso, forse persino un po’ arrabbiato, ma vedendolo percorrere il breve corridoio che collegava l’ingresso al soggiorno del suo appartamento fino a fermarsi nel bel mezzo della stanza senza sedersi Kei capì che c’era qualcos’altro: non si sedette, si gettò solo una rapidissima occhiata attorno prima di tornare a posare lo sguardo su di lui facendo dondolare la gamba destra e continuando a far cambiare posizione alle proprie braccia, incrociandole e abbandonandole lungo i fianchi a ripetizione. Carter era nervoso, e la cosa naturalmente innervosì anche lui.
“Montgomery fumava?”
“Sì. Tabacco ed erba, a volte.”
Kei annuì lentamente e aggrottando le sopracciglia, sinceramente sorpreso da quella domanda mentre studiava accigliato il vicino. Si chiese quale rilevanza potesse avere quell’informazione, ma Carter non gli diede il tempo di dar voce a quei pensieri ponendogli un’altra domanda:
“Lo hai mai visto usare un accendino d’argento? Pensaci bene.”
Era di nuovo l’assurda sera in cui avevano trovato il corpo di Montgomery infilato, vestito, nella vasca da bagno con lunghe scie di sangue ad imbrattare le costosissime piastrelle italiane delle pareti circostanti. Carter era di nuovo seduto allo stesso tavolo di Niki, ancora del tutto ignaro di quanto avvenuto a così poca distanza da lui, e la vedeva accendersi una sigaretta con tutta la nonchalance del mondo. Stupidamente di fronte al gesto della vicina si era chiesto, scettico, se all’interno del ristorante fosse consentito fumare. Stupidamente si era concentrato sull’elemento sbagliato di quell’immagine, sulla sigaretta e non sull’accendino, e aveva scorto l’incisione con un mese di ritardo solo un quarto d’ora prima, quando si era ritrovato accidentalmente quello stesso accendino tra le dita: una M e una D.
“No, non penso. Perché?”  Kei lo guardò stranito e incuriosito al tempo stesso, piuttosto sicuro di non aver mai visto l’amico usare un accendino che corrispondesse alla descrizione appena fornitagli da Carter. Carter che all’improvviso esitò, i pensieri in subbuglio e le sopracciglia color grano aggrottate, ma finì con il scuotere la testa e scegliere le parole con la maggior accuratezza possibile:
“Ne ho trovato uno con le sue iniziali, ma non so se fosse effettivamente suo.”
“Dove?”
Kei sgranò gli occhi, tradendo un fervore che servì solo a persuadere ancor di più Carter a non dirgli tutta la verità: se l’avesse fatto il vicino avrebbe subito tratto le conclusioni più ovvie, e anche se si sentiva profondamente infastidito dall’essersi fatto sfuggire per tanto tempo quell’oggetto e, allo stesso tempo, inquieto di fronte alla possibilità che le conclusioni più ovvie potessero rivelarsi quelle giuste, prima di parlare Carter voleva accertarsi di essere nel giusto. Verificare le fonti, insomma.
“… Magari è un caso. Te lo dirò quando l’avrò capito.”
Carter scosse la testa e si voltò per dirigersi verso l’ingresso dell’appartamento, lasciando Kei a dir poco di stucco: il più giovane scosse la testa, incredulo e leggermente infastidito, e subito lo seguì con lunghe falcate nel tentativo di estorcergli la verità:
“Carter, andiamo, non puoi lasciarmi così!”
Carter si fermò una volta giunto dinanzi alla porta, stringendo la maniglia per aprirla mentre si voltava verso di lui scuotendo leggermente il capo, deciso a parlarne con Niki prima che con chiunque altro.
“Non voglio che tu faccia cazzate, tutto qua. Senza offesa, perché sarebbe una reazione comprensibile, ma so che le farai, se dovessi dirtelo.”
 
 
*
 
 
M.A.C.U.S.A.
 
 
Dom aveva lasciato ufficio e palazzo approfittando della pausa per prendere una boccata d’aria, anche se aveva rapidamente finito con l’accendersi una sigaretta. Un controsenso bello e buono, ma non aveva alcuna voglia di pensarci, troppo impegnato a riflettere sugli avvenimenti più recenti legati alla morte di Montgomery Dawson. I risultati delle analisi sul bicchiere di carta apparentemente rinvenuto a casa della vittima – non da loro, ma “misteriosamente recapitato” al Dipartimento degli Auror qualche giorno prima – erano finalmente arrivati, e dopo aver appurato l’assenza di sostanze velenose nel cadavere si erano ritrovati di fronte ad un esito ancora più sconcertante: il bicchiere, che riportava indubbiamente più e più impronte digitali della vittima, sembrava aver contenuto tracce di un alcaloide fortemente tossico. Montgomery quindi non era morto ingerendo del veleno, ma qualcuno doveva aver fatto un tentativo affinché ciò accadesse.
“Ehy.”
Quando sentì la voce di Megan accanto a sé Dom ruotò solo leggermente la testa per rivolgere una breve occhiata alla collega, indirizzandole un distratto cenno del capo prima di tornare a concentrarsi pensoso sulle auto e sui taxi che sfrecciavano rapidi di fronte al Woolworth Building secondo la consueta frenesia che animava i quartieri centrali della città.
“Ehy.”
“Quindi possiamo definitivamente parlare di “vittima”, a quanto pare.”
Megan si fermò accanto al collega incrociando le braccia al petto con lieve nervosismo e fissando la strada a sua volta, astenendosi dal ricordargli ancora una volta quanto fumare fosse dannoso per la sua salute: dopo averci provato e riprovato in Accademia, aveva quasi del tutto gettato la spugna nei confronti di quel vizio.
“Direi proprio di sì.”
“Ho chiamato i suoi genitori, stanno venendo qui.”
Dom annuì senza spostare lo sguardo dalla strada trafficata, provando il solito atterrimento all’idea di dover parlare con i parenti di una vittima: l’intensità di quel fastidioso sentimento andava scemando con il passare degli anni, ma Dom era certo che non sarebbe mai potuto sparire del tutto. In qualche modo era sempre lì, pronto a fargli visita al presentarsi di ogni nuovo caso.  
“Non è strano tutto quello che sta succedendo attorno a questo caso? Cose che spuntano a destra e sinistra dal nulla?”
Megan gettò un’occhiata dubbiosa al collega, guardandolo annuire ed esalare una piccola nube di fumo mentre Dom chinava pensoso lo sguardo sulle proprie scarpe:
“Decisamente. Direi che qualcuno sta indagando per conto proprio. Probabilmente un amico. O qualche vicino. I vicini ficcano sempre il naso in affari che non li riguardano.”
“Ma non a New York, di solito.”
Di solito no. Tutta colpa di quella roba true crime che la gente adora… Credo proprio che dovremmo tornare a far visita ai vicini. Giusto per sapere dov’erano il giorno della morte.”


 
*
 
 
Era in ritardo e sapeva di esserlo, ma poiché l’ingresso dell’ospedale era costantemente molto affollato era stata costretta a Materializzarsi a mezzo isolato di distanza. Conscia di come i minuti che si stavano sempre più accumulando non sarebbero stati affatto ben graditi Niki aveva percorso il tragitto praticamente di corsa, ringraziando mentalmente le sue lunghe falcate mentre sfrecciava su una delle stradine di ciottoli che costituivano la biforcazione che dalla strada principale conduceva all’ingresso dell’altissimo ed asettico edificio bianco. Aveva superato l’ingresso del parcheggio sotterraneo e varcato la porta a vetri dell’ospedale più rapidamente che poteva prima di attraversare di corsa l’atrio segnato da un gran via vai di gente di ogni età ed etnia, diretta agli ascensori, e lì davanti aveva aspettato che le porte metalliche di uno degli abitacoli si aprissero per due lunghissimi minuti trascorsi a spostare nervosamente il peso da un piede all’altro e a controllare spasmodicamente l’ora sullo schermo del telefono.
Quando finalmente le porte di uno degli ascensori si aprirono, accompagnate dal consueto scampanellio metallico, Niki si costrinse ad attendere che tutti i passeggeri ne uscissero prima di infilarcisi in tutta fretta, premendo e ripremendo il pulsante che riportava il numero del piano verso cui era diretta:
“Ed dai…”
Mentre il piccolo gruppo di persone che aveva occupato l’ascensore prima di lei si disperdeva nel gigantesco atrio Niki trattenne una lunga serie di sonore imprecazioni tra i denti, le labbra nervosamente contratte mentre attendeva che le porte si decidessero a chiudersi. Quando finalmente lo fecero la strega levò la mano dal display numerico e si sentì pervadere da un’ondata di piacevole sollievo che, però, ebbe vita breve: era comunque considerevolmente in ritardo, e ben presto riprese a gettare occhiate nervose allo schermo del telefono mentre attendeva, inquieta, che l’ascensore giungesse al piano giusto.
Quando le porte si erano finalmente aperte per mostrarle l’atrio del reparto in cui era diretta Niki era letteralmente sfrecciata fuori dall’ascensore, ringraziando di conoscere la strada mentre correva verso l’ala giusta dell’edificio. Non si era fermata alla reception, limitandosi ad esclamare il suo cognome alla donna di mezza età con lisci capelli color ruggine raccolti sulla nuca che sedeva dietro al bancone con una divisa bianca e un paio di occhiali dalla montatura sottile leggermente scivolati sulla punta del naso. Era stato proprio al di sopra delle lenti degli occhiali che la donna le aveva gettato un’occhiata condiscendente e, Niki ne ebbe fermamente l’impressione mentre raggiungeva di corsa il bancone ignorando gli sguardi perplessi che stava racimolando, fortemente giudicante. Si sarebbe anche fermata a dirle che la colpa era tutta del suo vicino Carter e del pollo fritto, ma le mancava il tempo per fare persino quello.
“La davamo per dispersa. Solita stanza, il Dottore l’aspetta.”

Le piacerebbe che lo fossi. Stronza
 
Tra loro non c’era grande simpatia.  
Giunta davanti alla porta bianca e chiusa della stanza giusta Niki si era finalmente presa qualche attimo per respirare, aspettando giusto qualche istante affinché inspirazione ed espirazione tornassero ad un ritmo normale prima di stringere la gelida maniglia argentea e abbassarla per aprire la porta.
La stanza, come sempre, era deserta. Gli unici oggetti presenti erano delle poltrone –identiche e dello stesso color mattone – addossate in due file da quattro lungo le pareti verticali e in un’altra situata al centro della stanza quadrata, rivolte verso le ampie finestre che si affacciavano sulle strade e sugli edifici di Lenox Hill(1). Accanto ad alcune poltrone c’erano anche dei bassi tavolini di vetro quadrati, tutti ricoperti da libri e riviste, e Niki dopo essersi chiusa la porta alle spalle si diresse senza indugi verso il posto che occupava sempre, la seconda poltrona da sinistra della fila situata al centro della stanza. Si era appena seduta, sprofondando piacevolmente sul cuscino rosso, e stava appoggiando la borsa sulla poltrona accanto quando una voce maschile ormai familiare le giunse all’orecchio grazie all’interfono presente nella stanza, salutandola e chiedendole come stesse.
Niki rispose dicendo di sentirsi bene, come sempre, e dopo una breve esitazione la voce del medico le fece gentilmente notare il ritardo con cui si era presentata:
“Lo so. Scusi.”
Di certo pensava che avesse in qualche modo considerato di saltare la seduta, ma Niki non disse altro mentre si limitava ad accavallare la gamba destra su quella sinistra e ad appoggiare i gomiti sui braccioli della poltrona per congiungere le dita delle mani in grembo, gli occhi verdi puntati con insistenza sul pavimento beige ai suoi piedi. Si chiese, per un istante, se le avrebbe chiesto il motivo del suo ritardo, ma dopo una breve esitazione la voce tornò a parlarle con tono gentile senza più farvi menzione:
“Non fa niente. Se è pronta accendo le luci.”
Niki non disse nulla, limitandosi ad annuire prima di sciogliere l’intreccio in cui aveva unito le mani per infilare la destra all’interno della sua borsa, frugando alla ricerca del telefono e del libro che aveva portato con sé. Appoggiò il telefono sul bracciolo alla sua destra e si sistemò il libro in grembo, accarezzandone meccanicamente gli angoli in alto mentre sollevava la testa per gettare un’ultima occhiata ai grattacieli dell’Upper East Side: delle tapparelle grigie e automatiche si stavano lentamente abbassando fuori dalle finestre della stanza, gettandola in una oscurità crescente che in pochi istanti si fece totale. Il buio, tuttavia, durò solo un paio di secondi: le tapparelle si erano appena chiuse quando la lampada da soffitto di forma sferica si accese, illuminando la stanza con una fredda luce bianca che come sempre quasi accecò Niki. Benché ormai avrebbe dovuto esservi abituata la luce improvvisa fu talmente forte – il doppio di quella prodotta da una lampadina normale, da come ricordava – da portarla a chiudere istintivamente gli occhi per evitare di farli lacrimare. Li riaprì lentamente un paio di attimi dopo, senza non più accarezzare gli angoli del libro che teneva in mano ma stringendoli, e dopo essersi rapidamente abituata alla luce ruotò il capo per posare il proprio sguardo sul telefono rimasto abbandonato sul bracciolo della poltrona. Niki lo sbloccò inserendo rapidamente il codice di quattro cifre e fece partire il solito timer da 30 minuti, dopodiché aprì il libro e cercò di immergersi nella lettura.
Non si sentì, come sempre, magicamente bene. Ma tutto sommato neanche da schifo.
La prima volta in cui si era seduta su quella poltrona, animata da un forte scetticismo, la luce l’aveva colta talmente alla sprovvista da farle sfuggire una sonora imprecazione mentre cercava istintivamente di proteggersi gli occhi, chiarissimi e dunque ancora più sensibili alle fonti luminose, con la mano. Non era nemmeno riuscita ad impedirsi di osservare a voce alta come probabilmente, illuminata in quel modo, dovesse somigliare al soggetto femminile di un quadro medievale. Non aveva ottenuto risposta, e ne aveva mentalmente preso nota: i medici non amavano che si ironizzasse sui loro metodi.
 
 
*
 
 
Lunedì 11 ottobre
 
 
Mathieu aveva accumulato un leggero ritardo, ma non provò il benchè minimo dispiacere mentre imboccava in tutta calma il viale di ghiaia circondato da cipressi che conduceva all’ingresso della villa in cui era cresciuto. Procedendo con estenuante lentezza, tanto che se fosse sceso e partito di corsa sarebbe arrivato molto prima, Mathieu giunse infine sul piazzale sul quale si affacciava la villa bianca a tre piani larga abbastanza da ospitare al proprio interno qualche campo da tennis, posteggiando la sua amata Rolls Royce accanto alla fila di auto di lusso già presenti. Gli bastò un’occhiata, sceso dall’auto armato di cappotto blu notte e sciarpa, per appurare di essere l’ultimo arrivato, ma espresse tutta la sua preoccupazione con un pigro sbadiglio prima di dirigersi, sempre in tutta calma, verso i gradini che conducevano al porticato circondato da colonne e alla larga porta d’ingresso di legno della villa.
Suonò il campanello e attese pazientemente che qualcuno gli aprisse – non aveva poi tanta fretta –, stampandosi un sorriso sulle labbra quando una delle due ante venne aperta da un minuscolo Elfo visibilmente nervoso: il Thanksgiving, a casa della sua famiglia, rappresentava motivo di terribile stress per i poveri Elfi Domestici da che Mathieu aveva memoria.
“Salve Remi. Bel maglione.”
Il complimento di Mathieu, che si sfilò la sciarpa mentre Remi gli chiudeva la porta alle spalle, restituì un accenno di buonumore nella Creatura, che sorrise, lo ringraziò con voce acuta e si prodigò in un profondissimo inchino prima di cinguettare orgoglioso di averlo avuto in dono da Lalie, sua sorella. Quando lo vide sfilarsi il cappotto l’Elfo allungò le braccine esili fasciate dalle maniche del maglione arancione con un motivo di foglie e zucche per prenderlo, lasciando che il mago glielo depositasse tra le mani con quanta più gentilezza possibile per evitargli di finire seppellito sotto di esso mentre un discreto vociare giungeva nell’ingresso in direzione della sala da pranzo.
“Remi, mia madre ti paga di più per servire oggi, vero?”
Remi, cappotto e sciarpa tra le braccia, scosse la testa in cenno di diniego, e Mathieu lo stava giusto cercando di convincere a farsi dare una “mancia extra” da lui quando un rumore di tacchi a spillo sul pavimento di marmo costrinse entrambi a volgere i rispettivi sguardi in direzione della sala da pranzo. Mathieu si sentì pervadere da una piacevole ondata di sollievo quando i suoi occhi cristallini indugiarono non sulla figura di sua madre ma su quella della biondissima sorella, che li raggiunse tenendo ben due calici di champagne in mano e con un’espressione tesa che poco fece ben sperare al fratello minore.
“Mathieu, datti una mossa, siamo tutti di là e la mamma sta fumando la terza sigaretta perché siamo in ritardo rispetto al programma che aveva preparato! Remi, porta le cose di Mathieu nel guardaroba per favore.”
Di nuovo Remi si inchinò prima di trotterellare via rapido e silenzioso, lasciando i due fratelli soli. Lalie si fermò davanti al fratello con l’aria di essere reduce da un incontro di lotta libera tanto appariva esausta, guardandolo con aria grave mentre Mathieu, invece, distendeva le labbra fino a dar vita ad un sorriso ironico:
“La terza e deve ancora mangiare qualcosa? Quest’anno forse stabiliamo un nuovo record. Come vanno le cose di là?”
Lalie non rispose, limitandosi a sbuffare e a ficcargli uno dei due calici in mano prima di prenderlo sottobraccio e trascinarlo a forza verso la sala da pranzo, rendendo il vociare degli ospiti progressivamente più assordante man mano che si avvicinavano. Erano praticamente giunti dinanzi alla porta chiusa, unica barriera che ancora separava Mathieu dalla sua famiglia al completo, quando Lalie si permise di sussurrare qualcosa gettando un’occhiata tetra al minore e sistemandogli meccanicamente il colletto della camicia azzurra:
“Hai presente quando portasti a casa Stephane e, genio quale sei, lo presentasti come il tuo amant-ami?”
Non si poteva pretendere che le cose andassero bene quando c’era la sua famiglia di mezzo, ma Mathieu non si aspettava nemmeno un simile grado di catastroficità: quando, qualche anno prima, aveva avuto la brillante idea di presentare il sopracitato Stephane ai suoi genitori suo padre aveva dichiarato di essere sull’orlo di un infarto e sua madre si era precipitata in terrazzo a fumare un pacchetto intero di sigarette in piena crisi isterica. Sul momento Mathieu si era divertito da matti, ma ripensandoci non aveva poi molta voglia di ripetere l’esperienza e di rivivere un momento di dramma simile, pertanto guardò la sorella sgranando inorridito gli occhi chiari e comprendendo, all’improvviso, perché Lalie lo avesse accolto brandendo una bevanda alcolica.
“Così male? Mon Dieu, ecco perché mi hai portato lo Champagne.”
“Appunto, bevi. L’unico modo per sopravvivere è affogarci nell’alcol, a Richard ho già riempito il bicchiere due volte.”
Lalie gettò un’ultima occhiata distratta al colletto del fratello prima di stabilire di poterlo approvare, rivolgendogli un cenno prima di aprire la porta e tornare a stringergli il braccio stampandosi un sorriso plastico sulle labbra. La stretta si rivelò anche un po’ troppo ferrea, ma Mathieu decise di non lamentarsi e di lasciare che i suoi piedi andassero dietro alla sorella affrettandosi a bere un primo sorso di costosissimo Champagne, giusto per essere pronto a ciò che lo aspettava.
“Ho portato il forestiero.”
Lalie introdusse lei e il fratello minore nella stanza brandendo il più amabile dei sorrisi e levando un coro di saluti non particolarmente entusiasti dai parenti che già sedevano attorno al ungo tavolo rettangolare posizionato al centro della vasta stanza, con i loro genitori seduti uno di fronte all’altro ai capi opposti. La tavola era stata come sempre apparecchiata con la maggior opulenza possibile e con decorazioni nuove rispetto a quelle dell’anno precedente – i Levesque-Simard non conoscevano il riciclaggio – e come sempre Lalie prese posto accanto al marito lasciando Mathieu all’onere del giro di saluti, consentendogli di notare una sedia vuota di troppo: Mathieu era arrivato a salutare il cognato, che lo guardò come se non fosse mai stato tanto felice di vedere qualcuno in vita sua, quando si rese conto che entrambi i posti che affiancavano la sedia occupata da sua madre erano liberi. Gli bastò una rapida occhiata al resto del tavolo per comprendere a chi corrispondesse la sedia di troppo, ritrovandosi ad inarcare scettico – forse anche un filino preoccupato – un sopracciglio:
“La nonna deve ancora arrivare?”
“È dal parrucchiere, pare dovesse sistemarsi i capelli. Come al solito.”
Il cupo brontolio di suo nonno Ezdar non sorprese nessuno, sua madre in primis, giacché era noto in tutta Ville de Québec quanto l’uomo fosse acido e poco tollerante nei confronti di pressochè qualsiasi forma di vita, ma Mathieu si ritrovò comunque a sbattere più volte le palpebre, perplesso:
“Ma oggi è festa. Come ha fatto a trovare qualcuno che le facesse i capelli?”
Aveva appena parlato quando rammentò quanto benestante fosse la sua famiglia, nonché disposta a spendere cifre esorbitanti per accontentare i propri carissimi desideri. A volte, vivendo a tanti chilometri di distanza, quasi scordava l’opulenza a cui i suoi parenti erano abituati. Sua madre si stava visibilmente innervosendo – era forse la quarta sigaretta quella che teneva in mano, stretta da dita fresche di manicure? – e dopo aver incassato una gomitata da parte di Lalie Mathieu si affrettò a terminare il giro di saluti con le mogli dei fratelli maggiori di sua madre, entrambe di nome Annette. La cosa bizzarra era che quando gli capitava di alludere alla sua coppia di zii gemelli ,che avevano finito col sposare due donne omonime, la gente credeva che stesse raccontando una barzelletta.
Bonjour Maman.”
Mathieu rivolse alla madre il più candido dei suoi sorrisi mentre prendeva posto alla sua destra maledicendo la sorella maggiore per non avergli tenuto un posto accanto a lei, ma Jeannette non lo imitò, limitandosi a scoccargli una gelida occhiata mentre lo guardava appoggiare il calice di Champagne, che presto avrebbe necessitato di essere riempito, sul tavolo davanti a sé:
“Sei in ritardo.”
“Scusa, ma vedo Claus e Francis più o meno tre o quattro volte all’anno, avevamo parecchio da dirci.”
A dirla tutta non era una bugia, ma era anche vero che la cena della sera prima con i suoi genitori, quando era appena arrivato, era bastata a Mathieu per prolungare l’incontro con i suoi vecchi amici il più possibile. Aveva costretto Francis ad ordinare più o meno quattro caffè, ma si sarebbe sentito in colpa per averlo privato del sonno per un giorno intero in un altro momento, quando avrebbe potuto affermare di aver superato illeso il Thanksgiving.
Quei buoni a nulla!”
“Non sono buoni a nulla, Nonno, sono i miei amici della scuola.”
“Appunto, buoni a nulla.”
Nonno Ezdar si strinse nelle spalle gettandogli un’occhiataccia, e Mathieu si stava giusto costringendo a non replicare – nel frattempo Nonna Danielle si lamentava per l’attesa e per il ritardo che stavano accumulando, perché di quel passo avrebbe dovuto dare buca alle sue amiche per il poker serale – quando tutti i presenti trasalirono a causa di una sorta di schianto che echeggiò nella sala da pranzo, apparentemente proveniente dall’esterno dell’edificio. Sua madre aprì il pacchetto di sigarette per controllare quante gliene fossero rimaste e suo padre si era appena alzato per andare a vedere che cosa fosse successo quando Remi spalancò la porta, consentendo ad una donna minuta, anziana e con i capelli bianchi cotonati di trotterellare nella stanza stringendo a sé la borsetta, sorridendo ai presenti come se nulla di fuori dall’ordinario fosse appena successo:
“Scusate il ritardo cari, non ci sono più i parrucchieri di un tempo… E poi credo di aver sbagliato strada, ad un certo punto, stavo finendo nel giardino dei Bertrand. Ciao Donatien, caro.”  Nonna Suzy, ultimo pezzo mancante per completare il quadretto familiare, sorrise al genero e gli diede due baci sulle guance come se nulla fosse, ignorando – o forse non percependo affatto – lo stupore del padrone di casa prima di trotterellare verso il posto rimasto libero accanto alla figlia con ai piedi scarpe col tacco basso che, se vendute, avrebbero potuto soddisfare l’appetito di un intero villaggio del Sud-est asiatico.
“Mamma, che cosa è stato quello schianto? Ti sei di nuovo ricordata di frenare solo all’ultimo?”
Jeanette rivolse un’occhiata di mite rimprovero e rassegnazione all’anziana madre, che ammise di “essersi sbagliata” mentre Roland, uno degli zii di Mathieu, si rivolgeva esasperato al padre:
“Papà, te l’ho detto, bisogna levarle la patente aerea per guidare la scopa. È un pericolo pubblico e per se stessa.” Peccato solo che Ezdar non amasse che gli si dicesse cosa fare, e Mathieu vuotò il suo Champagne riuscendo a sentire la brusca risposta che il nonno materno diede al figlio echeggiargli nelle orecchie ancor prima di udirla:
“Tu fatti gli affari tuoi e pensa a quanto spende tua moglie per le scarpe firmate!”
Una delle Annette trasalì, offesa, Donatien tornò a sedersi ordinando a Remi di servire gli antipasti, Roland chiese al padre di essere più garbato con la nuora ma Ezdar lo mandò a quel paese, e per concludere Jeanette imprecò a bassa voce: l’accendino si era scaricato. Poco male, si accese la sigaretta con la magia, stando ben attenta a non far prendere fuoco ai capelli della madre freschi di laccatura. Per Mathieu invece fu una fortuna avere la nonna seduta di fronte: almeno poteva parlarle senza sgolarsi, dal momento che la donna era mezza sorda ormai da anni.
Lalie, invece, vuotò il bicchiere e versò altro vino per sé e per il sempre più nervoso Richard, che ad ogni riunione di famiglia si ritrovava a sudare sette camice per portata. Mentre Nonna Danielle teneva le mani in grembo per giocare di nascosto una partita di poker online sotto al tovagliolo – i Levesque e i Simard erano profondamente avversi alla diffusione della tecnologia tra i maghi, che aveva diminuito i loro introiti derivati dalla vendita di mangime per gufi e pergamene, ma l’anziana strega aveva messo da parte le riserve quando un’amica le aveva rivelato che con quegli aggeggi si poteva giocare a poker quando si voleva – Nonna Suzy si guardò attorno allegra fino a far scivolare il proprio sguardo sul bel viso del suo unico nipote maschio, sorridendogli benevola:
“Mathieu, caro! Anche quest’anno non hai portato una fidanzata?” L’anziana nonnina parve molto delusa, ma Mathieu sorrise e scosse la testa guardandola amabile e con gli occhi chiari pericolosamente luccicanti, incapace di resistere e pronto a rincuorarla, a modo suo:
“No Nonna, mi spiace, avrei voluto portare il mio fidanzato…”
A sua madre andò di traverso la sigaretta, Lalie sghignazzò guadagnandosi un’occhiata truce da parte di Nonno Ezdar e Donatien quasi cadde dalla sedia. Mathieu però fece finta di nulla, gli occhi sempre puntati sul viso della nonna materna e sui suoi curiosi occhi azzurri celati dalle spesse lenti degli occhiali dalla montatura dorata: Nonna Suzy fu l’unica commensale a non battere ciglio, ma Mathieu fu certo che avesse semplicemente mal interpretato le sue parole e udito “fidanzata” al posto di “fidanzato”. Poco male, continuò comunque:
“Ma purtroppo doveva lavorare.”
“Lavorare? Ma è festa!”
Nonna Suzy parve scandalizzata, e Mathieu dovette sforzarsi con tutto se stesso per non ammettere che, in effetti, il suo fantomatico fidanzato faceva il parrucchiere per le anziane signore viziate dell’alta società. Decise invece che poteva sempre fare di meglio:
“Purtroppo non c’è pace per chi lavora nel Cartello…”
“Cosa?! Lavora in un bordello?!”
Mentre Nonna Suzy si portava una mano rugosa davanti alla bocca, vicinissima a svenire, Lalie, incapace di resistere, scoppiò definitivamente a ridere facendosi quasi andare il vino di traverso mentre Richard, al suo fianco, si tratteneva: aveva paura che un solo accenno di risata avrebbe dato il permesso ad Ezdar di Avadakerizzarlo, cosa che sospettava l’uomo bramasse di fare da tempo per toglierlo di mezzo e far sposare la nipote ad un qualsiasi tizio pieno di quattrini.
Accidenti, stupida Scala Reale!”
Quando Nonna Danielle se ne uscì dal nulla imprecando tutti i presenti smisero di prestare attenzione al finto fidanzato di Mathieu, indirizzando invece occhiate perplesse all’anziana signora. Quella, dopo aver gettato un’occhiata malevola allo schermo del tuo telefono e alla partita appena perduta, si ridiede subito un contegno sollevando il mento con aria sostenuta, nascondendo abilmente il telefono sotto al tovagliolo:
“Parlavo tra me e me.”
Nonna Suzy invece ne approfittò per far vagare lo sguardo sul resto della tavolata e mettere ben a fuoco i volti dei commensali, sorridendo allegra quando i suoi occhi chiari indugiarono sul viso, ancora semi paonazzo dalle risa, di Lalie: naturalmente la scambiò per un’altra nipote, come al solito.
“Adeline! Ma ci sei anche tu!”
“Nonna, veramente io sono Lalie.”
Cosa?!”
Nonna Suzy sbattè le palpebre, perché non aveva ben capito che cosa la nipote avesse detto, e Lalie si sporse sul tavolo per farsi sentire meglio, alzando la voce tanto da rischiare di assordare anche il marito:
“Sono Lalie! La sorella di Mathieu!”
“E sei tu che lavori in un bordello?!”
“No!”

“Tanto peggio di così…”
Donatien parlò con le labbra ad un soffio dal bicchiere, deciso ad ubriacarsi, e gettando la più malevola delle occhiate in direzione del povero Richard, che deglutì chiedendosi che cosa avesse fatto di male per meritare come punizione una famiglia acquisita come quella. Mathieu invece sorrise mentre tornava a rivolgersi alla madre, sollevando il carissimo calice di cristallo che si era appena riempito da solo per portarselo alle labbra:
“Sempre bello tornare a casa, Maman. Che c’è per dolce?”
 
 
*
 
 
Seduta sulla poltrona girevole color crema del suo ufficio, Eileen aveva i grandi ed espressivi occhi eterocromi puntati sullo schermo del computer fisso bianco che aveva di fronte; la strega appariva talmente concentrata e dedita a ciò che la stava tenendo occupata, con tanto di ruga a solcarle lo spazio tra le sottili sopracciglia corvine, che nessuno, guardandola, avrebbe avuto dei sospetti su ciò che Eileen stava realmente facendo e sul suo starsi dedicando a qualcosa che esulava dalle sue consuete occupazioni all’interno dell’ufficio. In effetti Eileen stava lavorando sul sito di MagicMatching, ma di fronte a lei c’era il profilo di Montgomery Dawson, che la strega stava studiando per l’ennesima volta: aveva perso il conto delle occasioni in cui si era ritrovata ad aprire quella pagina da che il vicino era morto, chiedendosi se non ci fosse qualcosa da trovare che stava sfuggendo alla sua attenzione, ma ogni volta finiva con il non trovare nulla, almeno all’apparenza, di rilevante. Sembrava che di persone, uomini o donne che fossero, Montgomery sulla piattaforma ne avesse conosciute parecchie. La cosa non l’aveva affatto sorpresa, sia a causa dell’aspetto dell’ormai ex vicino, la cui bellezza difficilmente sarebbe potuta passare inosservata, sia a seguito di ciò che aveva appreso sul suo conto da altri vicini. Di appuntamenti ce ne dovevano essere stati diversi, di conversazioni più durature un po’ meno, ma Eileen le aveva lette senza mai trovarvi niente di particolarmente interessante. Negli ultimi cinque mesi di vita di Montgomery Eileen non aveva trovato nulla, e aveva supposto che fosse stato a causa della sua relazione con Samantha Wright. Non sapeva se al momento della morte Montgomery avesse ancora l’app sul suo telefono, ma da quel che le risultava non ne aveva fatto uso in ogni caso.
Sbuffando, Eileen sollevò il proprio telefono e scattò una foto allo schermo del computer con la massima discrezione possibile per inviarla a Kei, chiedendogli se per caso ci fosse un nome o un volto in grado di dirgli qualcosa. Nel frattempo i volti sorridenti dei suoi genitori, Penelope ed Andrew, e di sua sorella minore Daphne la guardavano evadere dai confini lavorativi dalla fotografia che teneva incorniciata sulla scrivania accanto ad un portadocumenti trasparente e ad una piantina e che la ritraeva insieme a loro nel corso di un’afosa giornata estiva a Madrid, sua città natia e dove la sua famiglia ancora risiedeva. Tutti e quattro si muovevano e sorridevano, sua sorella l’abbracciava, ma Eileen intimò alla sua famiglia di non giudicarla:
“So che non sembra, ma è per una giusta causa.”
Nel frattempo il suo telefono vibrò inviandole una notifica, e subito Eileen smise di concentrarsi sulla sua famiglia, che in effetti le mancava parecchio, ma cercò di non pensarci, per riprenderlo. Aveva sperato fosse un messaggio di Kei, ma si ritrovò a leggerne uno da parte di Leena:
 
Norma: Bundle, ma perché i vestiti per fare sport costano così tanto?! Perché la gente paga cifre assurde per torturarsi?!
 
 
Forse Leena non concepiva che qualcuno potesse nutrire una sincera passione per lo sport. O che non tutti possedessero i suoi bellissimi geni. Eileen le rispose subito, immaginandola chiaramente di fronte a dei vestiti sportivi – per essere più credibile nella loro missione, dedusse – piena di sdegno:

 
Tu: Alcuni di noi non sono alti e magri di natura e per piacersi di più si riducono così
Norma: Che vita grama. Peccato che leggere non faccia perdere calorie

 
 
Eileen non avrebbe potuto trovarsi più d’accordo di così, e in un’occasione diversa ne avrebbe approfittato per lamentarsi del suo lavorare per un’App di incontri quando lei come unica compagnia aveva un barbagianni – aveva perso il conto delle volte in cui si era sentita rivolgere una battuta del genere da un qualche parente – ma un’altra notifica catturò immediatamente la sua attenzione: Kei le aveva risposto, e di certo non nel modo che si era aspettata.
 
 
*
 
 
Più o meno tre ore dopo Leena ed Eileen varcarono la soglia del palazzo doloranti, anche se fortunatamente in misura minore rispetto alla volta precedente, e non poco amareggiate, soprattutto la prima, che salutò Lester con un cupo borbottio quando l’uomo le aprì la porta di vetro prima di tornare a rivolgersi all’amica stringendo un tappetino azzurro sottobraccio:
“Abbiamo sofferto, indossato roba sportiva, cosa che mai avrei creduto di ritrovarmi costretta a fare, abbiamo bevuto quella brodaglia…”
Però dopo qualche sorso inizi ad abituartici, al sapore…”
“… E praticamente per nulla! La prossima volta dobbiamo scoprire di più, doppiamo prepararci delle domande più mirate.”
Leena scosse la testa con disapprovazione mentre si dirigeva insieme ad Eileen verso gli ascensori, lo sguardo puntato con decisione dinanzi a sé mentre attraversava l’atrio con ampie falcate. L’amica invece non parve del tutto convinta, scoccandole un’occhiata dubbiosa mentre affrettava un poco il passo per riuscire a sostenere quello di Leena, che la superava in altezza di alcuni centimetri.
“Ma così non rischieremmo di sembrarle troppo curiose?”
“Beh, le donne che vanno a fare yoga spettegolano sempre nei film, saremo la realizzazione vivente di un cliché.”
“Però almeno sappiamo che si vede con qualcuno.”
Eileen si strinse nelle spalle mentre si fermavano in prossimità degli ascensori, armandosi di pazienza per attendere che le porte dorate di uno dei due si aprissero davanti a loro e ripensando alla conversazione che lei e Leena avevano scambiato con Kamala solo fino a poco prima, al termine di una lunghissima ed estenuante lezione. Se volevano scoprire qualcosa in più su di lei quell’informazione rappresentava pur sempre un inizio, ma Leena non ne sembrò comunque affatto entusiasta, e scosse il capo prima di parlare con mal celata delusione:
“Già. Si vede. Al presente. Avevo pensato potesse esserci stato qualcosa tra lei e Montgomery, ma a questo punto non lo so. Difficile dirlo, al momento.”
“Comunque se avesse una relazione con qualcuno di molto ricco spiegherebbe tutte quelle cose ultra costose che Gabriel e Naomi hanno trovato a casa sua. Magari è qualcuno del palazzo.”
Eileen, desiderosa di gettarsi sotto il getto d’acqua calda della sua amatissima doccia e di cambiarsi per indossare finalmente qualcosa di largo e comodo, prese a studiare il numero rosso che indicava il piano all’altezza del quale si trovava l’ascensore spostando lentamente il peso da un piede all’altro, guardandolo calare progressivamente mentre Leena, accanto a lei, studiava pensosa le porte dorate senza preoccuparsene minimamente, troppo presa dalle sue elucubrazioni mentali:
“Magari era davvero Montgomery. Magari parla al presente perché sa che viviamo qui e ha paura che possiamo collegarla a lui.”
Per Leena scorgere espressioni dubbiose sul viso dell’amica e sentirla definire “un tantino assurde” alcune delle sue teorie non rappresentava una novità, ragion per cui si ritrovò a sorridere con compiacimento quando Eileen assentì, ammettendo di trovarla una spiegazione plausibile. L’ascensore si trovava ormai al secondo piano ed era prossimo a consentire alle due streghe di salire al suo interno quando una terza persona le raggiunse, fermandosi dietro di loro prima di salutarle con il tipico tono di voce stanco e leggermente trascinato del lunedì sera. Eileen e Leena si voltarono, ritrovandosi a sorridere a Naomi e al gigantesco raccoglitore azzurro cosparso da etichette colorate per dividerlo in sezioni che la strega stava imbracciando.
“Ciao Naomi!”
“Ciao ragazze. Avete… emh… fatto yoga, vedo.”
Naomi parlò con un’inusuale lentezza, stando ben attenta alle parole da utilizzare essendo facilmente a portata d’orecchi di altri vicini mentre i suoi occhi chiari scivolavano rapidi sui tappetini delle due e sul loro abbigliamento. Eileen annuì, costringendosi a non fare alcun tipo di commento, mentre Leena non riuscì a trattenere una smorfia di disappunto.
Fortunatamente le tre salirono sul medesimo ascensore pochi attimi dopo, ed essendo prive della compagnia di un qualsiasi altro vicino Eileen e Leena ebbero modo di aggiornare Naomi sulla recente conversazione che avevano scambiato con Kamala – su ciò che concretamente avevano imparato a lezione, naturalmente, non fecero parola –. L’ex Serpecorno le ascoltò in silenzio e con attenzione, rigirandosi il pesante raccoglitore tra le braccia per evitare di farlo cadere e di restare al contempo in equilibrio sui tacchi, finendo con l’annuire mentre la sua mente tornava all’appartamento di Kamala. E, manco a dirlo, anche al suo frigo meraviglioso.
“Beh, da qualche parte quel frigo costosissimo che le invidierò fino alla fine dei tempi lo ha trovato, quindi è plausibile che abbia qualcuno che le fa regali costosi. Dovreste scoprire se viene da una famiglia molto ricca.”
“Ci proveremo, ma quella si scuce più facilmente sulle proprietà del tè verde.”
Leena sbuffò mentre si appoggiava mollemente alla parete dell’ascensore, talmente presa dalla conversazione da scordarsi di premere il pulsante del primo piano. Eileen invece si strinse nelle spalle, attendendo che l’ascensore raggiungesse il sesto piano:
“Comunque non penso che l’abbia ucciso lei. So che la faccenda del caffè è, beh, sospetta, ma magari non ha nulla a che fare con Montgomery. Non so, non ce la vedo.”
“Lo dicevano anche dell’infermiere che uccise centinaia di pazienti iniettando l’insulina nell’acqua(4). Magari anche chi ha avvelenato il caffè di Montgomery non ha proprio l’aria di uno che ti vedresti capace di farlo.”
Leena sbuffò piano mentre fissava assorta le porte chiuse dell’ascensore, sforzandosi di immaginare il presunto assassino di Montgomery fermo nello stesso punto in cui si trovava lei: in piedi dentro l’ascensore, diretto al quattordicesimo piano, un bicchiere di carta in mano. Un bicchiere di carta sul quale erano state trovate solo le impronte di Montgomery, si disse Leena, e allora il quadro nella sua mente mutò: qualcuno con le mani guantate e, molto probabilmente, due caffè in mano. Uno per sé e l’altro per la vittima, forse già avvelenato.
Ma quando era stato avvelenato, il caffè? Forse in ascensore, forse la persona misteriosa aveva avuto la fortuna di viaggiare sola. O forse davanti alla porta di Montgomery, rischiando che qualcuno aprisse all’improvviso la porta sul corridoio? No, Leena lo ritenne poco probabile. Probabilmente era successo proprio lì, all’interno dell’ascensore. Ma se il caffè era stato acquistato prima di far ritorno all’Arconia allora il veleno doveva aver viaggiato insieme all’assassino, che presumibilmente non si era fermato a casa propria, ma si era diretto immediatamente da Montgomery. Leena aggrottò le sopracciglia e sbattè le palpebre un paio di volte udendo solo indistintamente ciò che Naomi ed Eileen si stavano dicendo, le loro voci lontane, ridestandosi e parlando solo quando l’ascensore si fermò al sesto piano:
“L’assassino è andato da Montgomery con il caffè già avvelenato. Torna nel palazzo con il caffè, non torna nel suo appartamento o arriverebbe da Montgomery già freddo e lui avrebbe una scusa per non berlo. Esce con i granuli di stricnina con sé, sale in ascensore con il caffè, o forse due, uno per sé per rendere la situazione il più normale possibile, e ne avvelena uno dei due.”
Eileen stava per uscire dall’ascensore e salutare le vicine – rendendosi conto solo in quel momento di come Leena avesse accidentalmente saltato il suo piano –, ma udite le parole dell’amica, che aveva parlato dopo lunghi ed inusuali istanti di silenzio, si bloccò in mezzo alle porte dell’ascensore, dimenticando ogni traccia di stanchezza e fissando i propri occhi eterocromi in quelli grandi, scuri e improvvisamente accesi di Leena:
“Ma a casa di Montgomery c’era del veleno per topi, ricordi? Non potrebbe aver usato quello?”
Le porte fecero per chiudersi, ma Eileen le bloccò con la mano mentre Leena scuoteva la testa con decisione, in qualche modo sicura delle proprie supposizioni:
“Ma lui avrebbe potuto accorgersene. E perché avrebbe dovuto averne in casa, qui di topi non se ne vedranno da decenni, probabilmente. Se il veleno lo avesse messo lì l’assassino per far pensare, in caso di esame tossicologico, che Montgomery lo avesse ingerito volontariamente?”
“Perché solo un assassino idiota lascia l’arma del delitto in bella vista?”, azzardò Naomi facendo rimbalzare gli occhi verdi pieni di curiosità dal viso di Eileen fino a quello di Leena e viceversa, guardando quest’ultima scuotere la testa:
“Esatto.”
Leena uscì dall’ascensore con un paio di lunghe ed energiche falcate, superando Eileen e Naomi – che si scambiarono una rapida occhiata perplessa prima di affrettarsi a seguirla – prima di dirigersi a grandi passi davanti alla porta del 6B, lo stesso punto, solo molti piani più in basso, dove anche la persona che stavano cercando doveva aver indugiato un mese prima. La britannica studiò pensosa e concentrata la porta chiusa, mordicchiandosi il labbro inferiore, sforzandosi di cercare di ricostruire tutta la dinamica di quel giorno mentre Eileen le si fermava accanto senza accennare a volersi dirigere verso il proprio appartamento, lì accanto:
“Ma quando ce la lascia, da Montgomery, la scatola con il veleno? Dopo, o quando gli porta il caffè? Difficile che non se sia accorto se era in casa, no?”
Naomi moriva dalla voglia di tornare a casa, di mettersi comoda, di mollare il raccoglitore sull’isola della cucina e dedicare la serata a del gelato e a The Bachelor, ma all’improvviso riuscì a mettere da parte tutti i piani che aveva avuto fino a poco prima, studiando accigliata prima la porta chiusa, tra quella dell’appartamento di Moos e quello di Eileen, e poi i volti delle due vicine:
“Direi molto difficile. Montgomery non mi sembrava proprio un idiota.”
“Giusto, allora forse lo fa in un secondo momento. Forse aspetta che lui esca, entra in casa e lascia la scatola, perché sa che ci vorranno delle ore prima che Montgomery muoia. Naturalmente le cose non vanno come sperava, ma quello è un caso a parte. Ma se aveva il veleno con sé lo aveva messo da qualche parte, forse ne aveva anche in più. Esce dal 14B pensando di aver effettivamente avvelenato Montgomery, deve tornare a casa sua subito, per non rischiare che qualcuno possa dire di averlo o averla vista lì a poche ore dal decesso. Quindi ha poco tempo, ha fretta, ma se è intelligente deve liberarsi di una possibile prova. Che cosa ne fa del veleno residuo o del contenitore che lo trasportava? Quella roba è evaporata?”
Leena ruotò su se stessa per posare il proprio sguardo sui volti delle due vicine sentendo l’euforia data dalla convinzione di essere sulla strada giusta montare dentro di sé, ma né Eileen e nemmeno Naomi furono in grado di trovare una risposta del tutto plausibile a quella domanda: le due ricambiarono accigliate il suo sguardo prima che Eileen si stringesse nelle spalle, guardando dubbiosa prima la porta e poi l’amica.
“Lo butta via in un altro momento? Di certo non nell’immondizia di casa sua.”
“Ma se avessi appena avvelenato qualcuno, se lo avessi appena condannato a morte… Esci da casa sua, sei nervosa, hai paura che chiunque possa vederti, devi andartene il prima possibile… E vuoi anche liberarti di ciò che potrebbe incriminarti, ovviamente. Non vorresti farlo subito? Se lo tenessi con te a lungo aumenti il rischio di lasciarci del DNA sopra.”
“Questo è vero. Ma che ne ha fatto? Anche facendo Evanascere qualcosa con la magia prima o poi quell’oggetto riapparirà, non ha senso.”
Per lo meno aver studiato Trasfigurazione per sette lunghi anni della sua vita all’improvviso le tornò utile. Naomi solo dieci anni prima non l’avrebbe mai pensato.
“Se l’avesse Trasfigurato in qualcos’altro e lasciato in bella vista nel corridoio? Qualcosa a cui nessuno farebbe caso. Mathieu ci vive in quel piano, possiamo chiedergli se ricorda qualcosa di vagamente fuori posto.”
Ma Leena udì solo distrattamente le parole pronunciate da Eileen, perché la sua mente era di nuovo altrove: il suo sguardo aveva finito con l’indugiare sullo sportello bianco che consentiva di aprire e chiudere lo sbocco dello scivolo della spazzatura, presente in ogni piano tra gli appartamenti A e B. In pratica a meno di due metri dalla porta d’ingresso dell’appartamento di Montgomery Dawson.
Leena Madison Zabini non era abituata a sentirsi stupida, non era qualcosa che le era mai appartenuto, ma quella sera finì col capire che cosa si provasse nel crogiolarsi nella consapevolezza di essersi fatti sfuggire qualcosa rimasto costantemente in bella vista. E non le piacque affatto.
“Porco Hitchcock.”
 
Naturalmente mettere le mani su qualcosa che era stato gettato tra i rifiuti del palazzo un mese prima rappresentava una prospettiva del tutto irrealistica, e nemmeno la gran dose di gelato che Naomi offrì a lei e ad Eileen nel suo bellissimo appartamento all’undicesimo piano riuscì a dare un po’ di consolazione alla britannica. Le tre finirono col sedere una accanto all’altra sull’immacolato divano bianco di Naomi armate di gelato, con Sundance e godersi con gioia una tripla razione di coccole e con la consueta puntata settimanale di The Bachelor davanti, ma Leena non riuscì a godersi nulla di tutto questo:
“Sono un’idiota. Qualsiasi traccia lasciata da chiunque sia stato è persa solo perché ci ho messo così tanto a capire. È ovvio che l’abbia gettato tra i rifiuti, il condotto è attaccato all’appartamento di Montgomery e in quel modo qualsiasi cosa abbia usato per trasportare il veleno non sarebbe stata ricondotta alla spazzatura della vittima. Sono una stupida.”
Leena, profondamente delusa da se stessa e dalle sue capacità deduttive – di sicuro Sir Arthur Conan Doyle non avrebbe apprezzato per nulla quel fiasco clamoroso –, attaccò con rabbia il gelato alla crema nella ciotola a fiorellini che Naomi le aveva messo tra le mani, rifiutandosi di dare ascolto ad Eileen quando l’amica le consigliò gentilmente e con tono pacato di non prendersela con il gelato.
“O il gelato o vado a picchiare qualcuno con il tappetino da yoga. Primi tra tutti picchierei questo mentecatto che sceglierà la tizia che alla fine del programma lo cornificherà nel tempo di bere un bicchiere d’acqua, ma che razza di format è?!” Leena si agitò sul divano indicando stizzita il protagonista del programma – belloccio ma, giudicò lei, con il QI di un ammasso di muschio – con il suo cucchiaino, destando un distratto cenno d’assenso da parte di Naomi, rannicchiata contro il bracciolo, nel suo angolo preferito, mentre Eileen cercava di tenere il suo gelato lontano da Sundance:
“No, hai ragione, è trashissimo, terribile. È la mia linfa vitale.”
 
 
*
 
 
Jackson era in ritardo, situazione a cui non era particolarmente avvezzo e che non era solito gradire, ragion per cui dopo essersi Materializzato in un vicolo – non troppo isolato, come 27 anni vissuti a New York ed esperienze precedenti non proprio gradevoli gli avevano saggiamente insegnato – percorse il breve tratto di strada che lo separava dalla sua meta camminando più rapidamente che poteva sul marciapiede dopo aver disceso di corsa i cinque piani di scale che separavano casa sua dall’ingresso del palazzo. Amava il suo lavoro forse più di ogni altra cosa al mondo, su questo non nutriva alcun dubbio, ma volte sentiva di dover quasi rimproverare sua madre per aver sparso la voce nel palazzo: Marlene poteva anche averlo fatto perché era orgogliosa del suo unico figlio, ma a prescindere dalle ragioni della donna Jackie si ritrovava a dover tranquillizzare condomini disperati a proposito della salute dei propri animali domestici praticamente un giorno sì e l’altro pure. Se stava tardando all’appuntamento era, in effetti, solo ed esclusivamente a causa di un barboncino che si era rivelato scoppiare di salute e della sua padrona troppo ansiosa.
Fortunatamente Jackson oltre che un veterinario era anche un appassionato giocatore di basket, e riuscì a varcare, finalmente, la soglia del cocktail bar senza avere il fiatone. Subito i grandi occhi scuri di Jackie rimbalzarono sui vari angoli della sala alla ricerca di qualche faccia nota, concedendosi di rilassare le spalle quando scorse Esteban indirizzargli un sorriso e un cenno della mano per farsi notare.
“Eccomi. Scusate il ritardo, ho dovuto fare una visita lampo ad un cagnolino che, per inciso, stava benissimo.”
Dopo aver raggiunto il tavolo di metallo nero che i vicini avevano occupato Jackson sedette sull’ultima sedia rimasta libera, tra Gabriel e Kei, consentendo ad Esteban di allungargli il menù sorridendo sollevato:
“Meno male, sentire storie di cani che soffrono mi deprime più di qualsiasi altra cosa. Tieni, scegli cosa vuoi e te lo faccio portare.”
“Potremmo anche prenderci l’abitudine, a fare gli scrocconi.”
Orion parlò tra una nocciolina e l’altra, premurandosi subito dopo di far sapere ai presenti di non aver pronunciato seriamente: per ragioni a lui del tutto inconcepibili talvolta il suo umorismo non veniva affatto interpretato nel modo corretto, ma Orion aveva finito col dirsi che forse semplicemente le persone erano strane. Fortunatamente Esteban gli sorrise, affatto preoccupato e, anzi, decisamente abituato ad offrire a destra e a sinistra. Non aveva mai tratto vantaggi dalla professione di sua madre, tutt’altro, quella era forse l’unica parentesi della sua vita che davvero aveva voglia di nascondere il più in profondità possibile, almeno poteva concedersi di rifarsi con quella di suo padre. 
“Nessun problema. Allora, Moos ha saputo dal suo amico Auror che gli esami sul bicchiere sono risultati positivi e che c’erano impronte di Montgomery ovunque. Quindi è ufficiale, qualcuno voleva avvelenarlo.”
Esteban si costrinse con tutte le sue forze a non sorridere: non gli andava di sembrare troppo entusiasta nel fare quel tipo di conversazione. Se non altro sapeva di essere circondato da persone più o meno strambe tanto quanto lui. E infatti Orion smise di tamburellare le dita sul tavolo per schioccare le dita e indicarlo, come colto da un’improvvisa epifania:
“O magari lui voleva avvelenare qualcun altro e il caffè non era per lui, ma avvelenato da lui. Anche se essendo morto il giorno stesso non sembra una possibilità molto credibile.”
Disgraziatamente la sua teoria non sembrò filare poi così bene e ben presto Orion si incupì, amareggiato, ignorando l’occhiataccia che Kei gli scoccò dopo avergli sentito supporre che il suo defunto amico avesse cercato di uccidere qualcuno:
“Non ci sono stati altri decessi quel giorno, di sicuro non nel palazzo, quindi lo escluderei.”
“Farò qualche ricerca in merito, non si sa mai. Scusa.”
Esteban si strinse distrattamente nelle spalle facendosi un appunto mentale, abbozzando un tiepido sorriso di scuse in direzione di Kei, che alzò gli occhi al cielo, mentre Jackson richiudeva il menù, deciso cosa ordinare, per unirsi alla bizzarra conversazione in corso:
“Forse voleva liberarsi di qualcuno proprio perché sapeva che qualcuno aveva intenzione di farlo fuori!”
“Questo ha senso. Anche se le persone normali forse andrebbero dagli Auror invece di avvelenare caffè…”
Gabriel parlò grattandosi incerto il braccio fasciato dal maglione color cammello che indossava – regalo di Naomi, che l’anno prima si era fissata con la faccenda delle palette e aveva iniziato a regalargli solo vestiti di colori che, a detta sua, gli stavano meglio di altri – e subito Orion annuì, cogliendo la palla al balzo per sottolineare con acceso fervore le sue convinzioni:
“Certo, il caffè è sacro e usarlo per uccidere qualcuno è una cosa ignobile!”
Bastarono quelle parole per catalizzare su di sé gli sguardi dei presenti, tutti più o meno incerti, e Orion si stava giusto chiedendo che cosa avesse detto di poi tanto strano quando vide Kei, seduto con la sedia leggermente arretrata rispetto a quella di Jackson ed Esteban, scuotere la testa in cenno di diniego e agitare la propria mano all’altezza del collo. Colto il messaggio, Orion si schiarì la voce a si affrettò a rettificare:
“Beh, naturalmente uccidere è ignobile in generale. Insomma, capite cosa voglio dire!”
“Io ti capisco, tranquillo.”
Gabriel annuì, serissimo, e Orion lo guardò con occhi traboccanti di gratitudine:
“Grazie Gabriel, per fortuna tu mi capisci.”
“Ma se le cose sono più o meno andate così, e ovviamente parliamo per ipotesi perché abbiamo zero prove a sostegno… Allora bisogna escludere Kamala. Insomma, lei non beve caffè. Perché rifilarglielo?”
Jackson, che per quanto avesse avuto modo di conoscerlo solo molto superficialmente poco riusciva a figurarsi Montgomery nelle vesti di spietato avvelenatore, fece correre lo sguardo sui presenti inarcando un sopracciglio, studiando i volti pensosi dei vicini illuminati dalla calda luce soffusa emanata dalla lampada di metallo nera che pendeva sopra le loro teste finchè Gabriel non ruppe il silenzio stringendosi debolmente nelle spalle:
“Vorrei sottolineare che io e Naomi ne abbiamo trovato eccome, di caffè, a casa sua. Quindi forse lo beve.”
Oppure qualcuno che lo beve le fa visita. Se fosse stato proprio Montgomery? Li hanno sentiti litigare, è probabile che in qualche modo si conoscessero. Non ci si mette a discutere in corridoio con chi non si conosce, di solito.”
Esteban si pentì di non aver con sé nulla con cui prendere appunti: doveva pur metterle da qualche parte, tutte quelle idee! Prese il telefono e aprì le Note, appuntandosi mentalmente di cercare una mini lavagna magnetica online da portarsi in giro per simili evenienze. Jackson, che era rimasto a lungo in silenzio a fissare pensoso il tavolo premendosi l’indice destro contro le labbra carnose, si animò improvvisamente e sorrise compiaciuto nell’esporre a voce alta la teoria che aveva appena finito di formulare mentalmente:
“Monty se la faceva con Kamala, la sua ex lo scopre, si mollano e Samantha lo fa fuori. Se il caffè a casa di Kamala lo avesse messo lei, o chiunque l’abbia ucciso?”
Esteban stava già scrivendo, Gabriel e Orion assentirono dichiarando il quadro plausibile, ma Kei placò gli entusiasmi collettivi scuotendo la testa, dubbioso:
“Samantha non la conosco bene, ma dubito che lo avrebbe ucciso. Mi sembra una persona molto equilibrata.”
A differenza di molta altra gente che vive all’Arconia. Kei lo pensò, ma non lo disse a voce alta.
“Comunque, un paio d’ore fa è successa una cosa strana. Eileen mi ha mandato una foto del profilo di Monty di MagicMatching con i nomi delle persone con cui si è sentito negli ultimi mesi… Ma non è il profilo che ricordo di avergli visto usare poche settimane prima che morisse.”
I loro drink raggiunsero il tavolo fluttuando su un vassoio nero proprio nel bel mezzo del discorso di Kei, e Orion aveva già preso un sorso del suo scotch quando si ritrovò a tossicchiare, ringraziando Gabriel con voce rotta quando il tatuatore gli assestò qualche colpetto sulla schiena per farlo riprendere. Quando finalmente tornò a respirare normalmente Orion si schiarì dignitosamente la voce, mettendo brevemente da parte il suo scotch per tornare a rivolgersi a Kei con sguardo attonito, gli occhi scuri sgranati e increduli.
“Che cosa?! Che cazzo di profilo è quello che ha visto lei, allora?”
Esteban, Gabriel e Jackson rivolsero a loro volta tutta la propria attenzione sul ragazzo, che però si limitò a scuotere la testa, confuso tanto quanto loro:
“Non lo so, ma a lei risulta inutilizzato da mesi rispetto al giorno in cui è morto. E non ha alcun senso, perché io glie l’ho visto usare un paio di settimane prima che morisse. Mi ha persino chiesto di aiutarlo a scegliere tra due tizi con cui voleva uscire!”
“Ne aveva due? Uno ha smesso di usarlo quando si è messo con Samantha. E l’altro lo ha usato dopo la rottura. O durante, per quel che ne sappiamo noi.”
Jackson fece spallucce, e per quanto fosse poco piacevole Kei non se la sentì di contraddirlo. Dopo una breve riflessione il veterinario schioccò le dita, di nuovo colto da una teoria:
“Samantha scopre che le fa le corna e lo ammazza. Non è così impensabile, da queste parti succede di tutto, mia madre dice che una volta faceva le pulizie da una che venne condannata per aver ucciso il vicino per appropriarsi dell’immobile! Pare avesse una bella vista sul parco.”
Marlene aveva sempre storie straordinarie – per non dire assurde – da condividere con chiunque fosse disposto ad ascoltarla, e a Jackson ci era voluto qualche anno di vita per realizzare che ai suoi coetanei venivano rifilati racconti ben diversi prima di essere messi a letto. Mentre Orion ed Esteban riflettevano seriamente su quell’ipotesi e Kei fissava accigliato il suo bicchiere ancora intoccato, preso a rimuginare sul mistero del doppio profilo, Gabriel si guardò attorno, un tantino a disagio, finendo col schiarirsi la voce e rivolgersi ai vicini con un basso mormorio, le labbra ad un soffio dal bordo del suo bicchiere, dopo aver colto più di qualche occhiata stranita gettata verso di loro dai tavoli circostanti:
“Ok, dobbiamo iniziare a parlare in codice quando siamo in pubblico. Annotatelo.”
Esteban annuì, e subito prese nota.
 
 
*
 
 
Martedì 12 ottobre
 
 
Mathieu a volte dimenticava quanto nel corso degli ultimi sette anni avesse imparato ad amare New York, ma quando faceva ritorno nella metropoli dal Canada e dalle sue folli riunioni di famiglia finiva sempre col rendersene conto più intensamente che mai: era quasi un sollievo fare ritorno nella frenesia della città dopo aver passato anche solo pochi giorni a stretto contatto con i suoi familiari, che spesso avevano il potere di sottrargli più energia di una lunghissima sessione di corsa e di allenamento.
Dopo lunghe ore passate in auto insieme a Prune e numerose soste per non stressare eccessivamente il suo amatissimo cane Mathieu era finalmente in procinto di fare ritorno all’Arconia, e non avrebbe potuto esserne più felice: non vedeva l’ora di varcare la soglia del suo appartamento, ricevere la gelida accoglienza di Ezdar (la civetta, suo nonno era deciso a non vederlo per almeno un paio di mesi), farsi una lunghissima e rilassante doccia dopo ore passate in auto e mettersi qualcosa di più leggero – iniziava già a sentire quasi caldo a causa delle temperature, ben più alte a New York rispetto alla sua città natia –, ma prima doveva affrontare il breve tratto di strada trafficata che lo separava dal palazzo. Fu un sollievo giungere finalmente nella familiare e lunga via dove viveva ormai da anni, anche se fu costretto ad armarsi di pazienza a causa dell’estenuante lentezza con cui le auto e i taxi davanti a lui stavano procedendo incolonnate. Il gomito sinistro appoggiato mollemente sulla fiancata interna della portiera, Mathieu si stava guardando pigramente attorno tamburellando le dita sul volante della Rolls Royce quando gli parve di scorgere un paio di volti familiari. Ben presto e grazie ad un’occhiata un po’ più attenta poté appurare di non essersi sbagliato: due dei suoi vicini stavano percorrendo il marciapiede che passava davanti all’Arconia, e stavano parlando piuttosto animatamente. Mathieu non ricordava di aver mai visto Harrison Lee, che abitava sul suo stesso piano e che incrociava di frequente in ascensore, con Spencer Allen, che aveva la vaga impressione abitasse al dodicesimo piano. Non ci avrebbe prestato nemmeno particolare attenzione, non fosse stato piuttosto evidente che i due si trovavano sul punto di litigare. Naturalmente non erano affari suoi, ma forse la prolungata compagnia dei suoi vicini aveva iniettato in lui il gene della curiosità fuori misura, o forse era semplicemente dovuto alla foto di Lee che era stata attaccata alla famigerata lavagna magnetica settimane prima, ma Mathieu si ritrovò a prestare particolare alla discussione in corso, pur non avendo la possibilità di udire cosa i due si stessero dicendo. Guardò i vicini fermarsi nel bel mezzo del marciapiede senza smettere di discutere, Spencer gesticolando con un certo fervore, mentre la sua auto continuava a procedere praticamente a passo d’uomo sulla strada asfaltata, un poco amareggiato dall’impossibilità di udire che cosa si stessero dicendo. Mathieu e la sua auto li stavano lentamente superando proprio quando Harrison distolse lo sguardo dal viso di Spencer per puntarlo sulla strada che aveva di fronte, praticamente dritto sulla Rolls Royce. Mathieu s’irrigidì e subito distolse lo sguardo, imprecando in francese a mezza voce e ritrovandosi a maledire, per la prima volta in vita sua, il possesso di un auto che non avrebbe potuto passare inosservata neanche volendo. Mentre Prune sonnecchiava incurante dietro di lui Mathieu finse di raddrizzare lo specchietto retrovisore, sforzandosi in tutto e per tutto di non guardare in direzione dei due vicini simulando tutta la noncuranza possibile mentre annuiva meccanicamente, mormorando qualcosa tra sé e sé:
“Bene. Perfetto. Se uno dei due è l’assassino e succede qualcosa all’altro li ho visti litigare e sono morto. Fantastico.”
 

 
*

 
Mercoledì 13 ottobre
1.30 am
 
 
Leena non riusciva a dormire, e la ragione non aveva nulla a che fare con il caos che spesso regnava sovrano nel suo appartamento: l’1C era straordinariamente avvolto dal silenzio e dalla quiete più totale, ma la padrona di casa non faceva che rigirarsi nel letto da quasi un’ora buona, incapace di smettere di pensare al turbinio di idee che l’avevano assalita il giorno prima. Stanca di crogiolarsi in quel silenzio snervante e nella totale, fastidiosa assenza di sonno Leena si mise infine a sedere sul materasso, i lunghi ricci arruffati attorno alla testa e le gambe incrociate al di sotto del copriletto blu. Una rapida occhiata alla sveglia sistemata sul comodino alla sua destra le bastò per appurare l’impossibilità di telefonare al suo migliore amico, che di norma costituiva, insieme ad Eileen, la vittima designata delle sue elucubrazioni mentali: a Londra il Sole doveva ancora sorgere e Leena sapeva per certo che Jaden nelle migliore delle ipotesi non avrebbe risposto, mentre nella peggiore l’avrebbe presa a male parole per averlo svegliato. Di contro la strega non poteva nemmeno uscire dal suo appartamento e passare da Eileen, cinque piani più in alto, sempre per lo stesso motivo. Sembrava che tutti i suoi conoscenti stessero dormendo, e Leena si sporse verso il comodino per prendere il telefono chiedendosi che cosa fare: poteva continuare a perdere tempo fissando il soffitto, o almeno provare ad alzarsi e riflettere seriamente sulle sue supposizioni, magari mettendole per iscritto. Di solito l’aiutava a ragionare, scrivere le cose.
Stava per farlo, stava per alzarsi con l’intento di raccogliere una penna e uno dei suoi infiniti quadernini – Eileen diceva che doveva smettere di comprarne, ma era più forte di lei –, quando venne colpita da una consapevolezza improvvisa: forse, dopotutto, non tutti i suoi conoscenti erano caduti preda del sonno.
 
Il 13B era completamente al buio da ore ma quasi nessuno, al suo interno, stava dormendo: le uniche inquiline dell’appartamento che si erano assopite erano Lottie e Sam, che giacevano acciambellate una accanto all’altra su una copertina adagiata sull’enorme divano color cammello; Carrie e Mira trotterellavano da una parte all’altra dell’enorme open space inseguendo una pallina colorata dotata di sonaglietto, spezzando con il lieve tintinnio il silenzio che altrimenti si sarebbe del tutto impossessato dell’appartamento, e Niki sedeva sulla parte finale del bancone nero della cucina, davanti ad una finestra e con gli occhi che scrutavano il cielo notturno e le luci della città, in attesa.
Le sembrò di essere rimasta lì seduta per ore intere – anche se in realtà era passata solo una mezz’ora, come le bastò gettare un’occhiata al telefono per appurare – quando scorse una sagoma scura avvicinarsi, in volo, alla facciata dell’edificio. Un accenno di sorriso carico di sollievo sollevò leggermente gli angoli delle labbra di Niki quando scorse la sagoma alata farsi sempre più grande man mano che si avvicinava, aprendo la finestra giusto in tempo per consentire al gufo grigio di planare con grazia all’interno dell’appartamento, atterrando accanto a lei sul bancone.
Mentre Carrie e Mira smettevano improvvisamente di giocare, troppo prese ad osservare con occhi sgranati il nuovo arrivato e ad avvicinarsi furtive alla cucina, Niki slegò il carico dell’educato gufo postino dal suo artiglio destro, lasciandogli una leggera carezza sulla testa come ricompensa dopo aver appoggiato la tazza termica nera sigillata accanto a sé sul bancone.
“Molte grazie.”
La strega rivolse un lieve sorriso al gufo, esemplare dell’unica specie alata che si era ritrovata costretta a dover sopportare, negli anni, e gli diede una seconda carezza ruotando la testa per gettare un’occhiata dubbiosa in direzione delle sue gatte, che se ne stavano acquattate e seminascoste dietro l’isola della cucina con i grandi occhi chiari puntati sul gufo, le pupille dilatate al massimo.
“Sai, penso che tu debba andare adesso.”
Il gufo sembrò d’accordo, perché dopo un’ultima carezza e averle mordicchiato delicatamente l’indice destro distese le ampie ali piumate e planò fuori dalla finestra, consentendo alla strega di chiudergli la finestra alle spalle prima che una delle sue gatte potesse balzare sul bancone e cercare di darsi alla fuga per inseguirlo.
Di nuovo sola, fatta eccezione per Mira e Carrie, che dopo essersi assicurate che il gufo se ne fosse andato tornarono rapidamente alla loro pallina, Niki prese tra le mani ciò che le era stato recapitato, sfiorando con le dita il post-it giallo che era stato attaccato con la magia sulla tazza per evitare di andare perduto lungo il tragitto prima di staccarlo. Il foglietto quadrato riportava solo una parola, “L’ultima”, ma Niki non ci badò particolarmente e iniziò a svitare il tappo del contenitore con l’intenzione di assaggiarne il contenuto, bloccandosi d’istinto quando lo schermo del suo telefono la sorprese illuminandosi. Le bastò una rapida occhiata per scorgere la notifica e leggere il messaggio che le era appena arrivato, esitando con la tazza aperta a metà tra le mani prima di sorridere lievemente. Un attimo dopo l’aveva richiusa del tutto, abbandonata sul bancone accanto a sé e momentaneamente mentalmente accantonata, prendendo invece il telefono per rispondere al messaggio che le era appena arrivato: avrebbe potuto aspettare ancora prima di berlo, dopotutto.
 
 
Murder, She Wrote🖊: Sei sveglia?(5)
Tu: Sempre
 
 
Le sarebbe costato molto ammetterlo a voce alta, ma Leena provò una certa inquietudine nel doversi spostare all’interno del palazzo sola e, soprattutto, a quell’ora tarda. Chiusasi la porta del suo appartamento alle spalle la britannica si era diretta verso gli ascensori con le falcate più ampie possibili, tormentandosi il labbro inferiore e le dita dal nervosismo – ma resistendo alla tentazione di iniziare a mordicchiarsi le unghie, vittoria di cui andò piuttosto fiera – mentre si sforzava di non incespicare nei propri stessi passi. Non era una grande fan degli ascensori, ma Leena premette il pulsante per chiamarne uno al primo piano costringendosi a vincere la sua claustrofobia: dodici piani di scale non l’avrebbero allettata in ogni caso, figurarsi a quell’ora e con l’inquietudine data dall’omicidio di uno dei suoi vicini che ancora impregnava le pareti del palazzo. La strega salì nell’ascensore deserto e subito premette il tasto del tredicesimo piano, sperando di arrivare in fretta mentre spostava nervosamente il peso da un piede all’altro e, al tempo stesso, di non incontrare nessuno: considerando che fino a dieci minuti prima si trovava già sotto le coperte non aveva proprio il miglior aspetto possibile.
Fortunatamente la strega giunse a destinazione senza inciampare in spiacevoli incontri – l’assassino di Montgomery in primis, ovviamente, ma si sentì sollevata anche all’idea di non aver incrociato qualche attraente vicino – e quando le porte si aprirono sul tredicesimo piano Leena si affrettò ad addentrarsi nel lungo corridoio, grata ai rilevatori di movimento che consentirono alle luci di accendersi da sé. La strega si diresse a passo svelto verso l’appartamento giusto, trovando piuttosto surreale il silenzio e la quiete che si erano impossessati dell’edificio, e finì col bussare, finalmente, alla porta di Niki con un gesto impaziente della mano.
A Niki bastarono pochi istanti per aprire la porta, ma quando si trovarono faccia a faccia esitò prima di farla entrare, fissandola dubbiosa dalla soglia dell’appartamento buio:
“Ciao.”
Leena non la vedeva da ormai diversi giorni, e accennò un sorriso in segno di saluto trovandola persino più alta e magra di quanto non ricordasse. E per Leena, dai suoi quasi 175 cm, era abbastanza raro avere a che fare con una donna persino più alta di lei. Invece di farla entrare Niki la guardò arricciando leggermente le labbra, pensosa, riflettendo sul da farsi prima di parlare muovendo distrattamente in circolo il piede destro nudo sul parquet dell’ingresso:
“Ciao. Sai… Mi è appena venuto in mente che qualcuno potrebbe sempre aver preso le tue sembianze dopo averti tramortito, usato il tuo telefono per scrivermi e ora essere qui per farmi fuori, quindi… Penso che ti chiederò qualcosa.”
“Beh, è comprensibile.”
Leena annuì, comprensiva, e si strinse nelle spalle: in effetti lo avrebbe fatto anche lei, al posto suo. Non si poteva mai sapere!
“Di che colore erano i guanti che abbiamo usato da Montgomery?”
“Di un tremendo giallo canarino che fece quasi venire l’orticaria a Carter, stando a quanto disse.”
“E chi ci trovò mentre frugavamo a casa sua?”
“Mathieu con Prune al seguito.”
Niki esitò perseguendo nel guardarla, ma dopo una breve riflessione annuì e si fece da parte per farla passare, destando un sorriso compiaciuto sulle labbra carnose della vicina: probabilmente Leena non avrebbe dovuto, ma trovava tutta quella situazione infinitamente stimolante e divertente.
“Beh, se sei l’assassino complimenti, hai fatto bene i compiti. Prego, entra.”
“Grazie… Ciao ragazze! Scusa l’ora, ma proprio non riuscivo a dormire.”
Niki chiuse la porta alle spalle della vicina assicurandole di non doversi preoccupare, superando lei, Carrie e Mira, felici di avere una visitatrice pronta a coccolarle e a riempirle di complimenti, per dirigersi verso la cucina:
“Ti chiederei se vuoi del caffè, ma vista l’ora eviterei… Di che cosa vuoi parlarmi, esattamente?”
Leena si sforzò di seguirla cercando di non inciampare o di pestare le due abissine, che le si stavano strusciando addosso facendo le fusa, e finì con l’arrendersi – con gioia – prendendo in braccio Mira.
“Ho pensato a come chi ha cercato di avvelenare Montgomery potrebbe essersi liberato di… beh, qualsiasi cosa abbia usato. Eri al buio?”
Leena seguì Niki verso la cucina guardandosi attorno con perplessità nel realizzare improvvisamente la totale assenza di luci accese all’interno dell’appartamento, fermandosi davanti all’isola nera con il ripiano in legno mentre Niki, in piedi dall’altra parte del mobile, si fermava bruscamente prima di guardarsi attorno con le sopracciglia aggrottate, come se non fosse solita farci caso. Infine la strega annuì, dopo averle gettato una rapida occhiata, e accese le luci della cucina battendo le mani:
“Sì, scusa… Abitudine. Allora prendo la vodka.”
 
Meno di dieci minuti dopo Leena sedeva su uno degli alti sgabelli di metallo nero accostato all’isola quadrata, e Niki spinse verso di lei un bicchiere da Martini con tanto di oliva stringendo tra le dita lo stelo del proprio, pieno fin quasi all’orlo.
“Bene, dimmi.”
A differenza della vicina Niki rimase in piedi, appoggiandosi all’isola per sporgersi leggermente in avanti verso Leena mentre si portava il bordo del bicchiere alle labbra. Leena però non la imitò, limitandosi ad annuire e a rigirare lentamente il bicchiere davanti a sé:
“Ok. Allora, qualcuno, presumibilmente, si presenta a casa di Montgomery con un caffè in un bicchiere di carta. Entra in casa, glielo offre. Probabilmente ne ha anche uno per sé, così da rendere tutto il più normale e ordinario possibile, e indossa quasi sicuramente dei guanti, perché sul bicchiere non sono state trovate impronte. Ma Montgomery non lo beve, in qualche modo, perché nel suo corpo non c’erano tracce di veleno al momento del decesso.”
“Giusto.”
Niki annuì leccandosi le labbra per raccogliere i rimasugli di vodka e vermut, attendendo che la vicina assaggiasse a sua volta il drink prima di riprendere il discorso. Dopo essersi allontanata il bordo del bicchiere dalle labbra Leena però gettò un’occhiata sorpresa e ammirata al drink trasparente, distogliendosi brevemente dal suo resoconto per rivolgere un sorriso alla vicina:
“Ehy, è molto buono!”
“Lo so, a Parigi ho fatto la barista.”
Niki si strinse nelle spalle, bevendo un altro po’ di Martini invitandola a continuare con un cenno della mano. La vicina si appuntò di chiederle meravigliata e piena d’invidia come fosse stato vivere a Parigi in un altro momento, annuendo prima di riprendere le fila del suo discorso:
“Beh, insomma, Montgomery non lo beve, lo sappiamo per certo. Ma io ho pensato al veleno, a come e quando è stato messo nel caffè. Il nostro o la nostra avvelenatrice lo compra da qualche parte, perché era in un bicchiere di carta… Torna all’Arconia e sale quasi sicuramente direttamente al quattordicesimo piano, altrimenti il caffè si fredderebbe. Quindi aveva il veleno con sé quando lo ha comprato. Magari è solo o sola in ascensore e ne approfitta per versare la stricnina nel caffè, e quando arriva davanti dalla porta di Montgomery il gioco è fatto. Entra, glielo offre, lui non lo beve ma probabilmente non se ne rende conto, non sul momento.”
“Quindi esce da casa sua.”
Niki la guardò inclinando leggermente la testa di lato, del tutto concentrata su di lei per non perdere nemmeno un dettaglio di quanto la vicina stava dicendo, e Leena annuì prima di procedere con l’esposizione delle sue recenti riflessioni:
“Esce convinto o convinta di aver fatto quello che doveva… Ma ha con sé qualcosa di cui deve per forza liberarsi, magari dei granuli avanzati in un qualche contenitore, o comunque un contenitore vuoto che se analizzato rivelerebbe tracce di veleno. Quindi se ne deve liberare, e ovviamente non può andare a casa e gettarlo nell’immondizia. Io penso che se ne sia liberato prima.”
Leena guardò Niki inarcare un sopracciglio e chiederle dove poteva averlo fatto, ma Leena decise di fare di meglio che risponderle, invitandola a seguirla fuori dall’appartamento. Niki non era solita abbandonare un Martini a metà, ma decise che per quella sera avrebbe potuto fare un’eccezione e obbedì, piena di curiosità.
 
“Ammetto che fa un certo effetto stare qui a quest’ora.”
Lei e Niki erano salite al piano superiore usando le scale – senza incontrare, con gran sollievo di Leena, nessun pazzo armato di ascia acquattato dietro la porta – e ora si trovavano nel corridoio deserto e silenzioso ma, fortunatamente, illuminato del quattordicesimo piano. In piedi esattamente di fronte all’appartamento di Montgomery Niki si strinse con nonchalance nelle spalle, invitandola a rilassarsi con un pigro cenno della mano:
“Rilassati, finchè le luci del soffitto non sfarfallano come e non spuntano inquietanti gemelle in grembiulino siamo salve.”
“Speriamo. Allora, l’assassino o, insomma, quello che ci ha provato esce da casa di Montgomery… Vuole liberarsi di qualcosa, deve farlo subito. Dove farlo?”
Leena si sentì talmente piena di entusiasmo, mentre sorrideva con gli occhi scuri luccicanti, che per un istante la sfiorò persino l’idea di esserlo un po’ troppo, visto il contesto. Naturalmente la mandò subito a quel paese, concentrandosi su Niki e su come la vicina si stava guardando lentamente attorno, le sopracciglia aggrottate mentre cercava di capire dove volesse andare a parare. Senza occhiali da sole e sotto le forti e calde luci giallastre del corridoio le sue profonde e scure occhiaie erano più visibili che mai, e Leena fu tentata di chiederle quanto spesso le capitasse di non dormire quando gli occhi verdi di Niki indugiarono sull’imboccatura dello scivolo della spazzatura, che si trovava tra gli appartamenti A e B. La strega s’irrigidì per un istante, osservandolo: le parve un’idea assurda, ma in pochi attimi iniziò a rendersi conto di come forse non lo fosse affatto, voltandosi lentamente verso Leena per ricambiare lo sguardo della vicina con un sopracciglio inarcato:  
“Lo scivolo della spazzatura?”
Forse non era poi così impensabile come idea, si disse la strega mentre guardava Leena annuire con vivo entusiasmo e sfoggiare un largo sorriso, l’aria di chi si sta divertendo infinitamente. La britannica accantonò le sue riflessioni sulla brutta cera della vicina, tornando a concentrarsi sulle sue deduzioni:
“Sì! Pensaci, è perfetto! C’è la possibilità che non venga mai trovato, e magari è un oggetto talmente insignificante che nessuno, mai, ci presterebbe attenzione in ogni caso. E poi quello di Montgomery potrebbe sembrare un suicidio, quindi forse, pensa l’avvelenatore, nessuno nemmeno indagherà mai.”
Purtroppo l’entusiasmo di Leena, esattamente come il giorno prima, ebbe vita breve: ben presto la strega tornò a crogiolarsi nella consapevolezza di aver impiegato troppo tempo per scoprire un primo importante pezzo di quello strano puzzle, e sospirò scuotendo la testa senza più l’ombra di un sorriso ad incurvarle le labbra carnose:
“L’unico problema è che è impossibile mettere le mani sui rifiuti, è passato un mese e ormai sarà andato perso da un pezzo. Se fossi stata meno stupida ci avrei pensato prima, non ho idea di come poterlo trovare.”
Leena abbassò le spalle esili, amareggiata, ma Niki scosse lentamente la testa senza smettere di osservare lo scivolo della spazzatura, le sopracciglia aggrottate:
“Non sei stupida. E comunque, forse il problema non sussiste.”
Le parole di Niki ridiedero un barlume di speranza in Leena, che sollevò lo sguardo dal pavimento e raddrizzò le spalle per guardarla sorpresa e fiduciosa al tempo stesso: dopo una breve esitazione Niki distolse lo sguardo dallo scivolo per tornare a posarlo sul suo viso, le iridi color giada che sembravano ancora più chiare e penetranti del solito grazie al contrasto con le occhiaie.
“Sei l’assassino, o quello che è. Sai che c’è la possibilità che l’omicidio di Montgomery passi per suicidio o che l’esame tossicologico non venga svolto, ma non puoi averne la certezza, anche perché non sono molte le persone che si tolgono la vita in quel modo. Quindi puoi liberarti di ciò che hai usato per trasportare il veleno e fare in modo che non venga facilmente ricondotto a te, oppure fare in modo che non venga mai trovato affatto. Risolvi alla problema alla radice.”
“E come? Se non aveva molto tempo non penso che lo abbia sciolto nell’acido. E poi sei qui, in corridoio, può arrivare chiunque da un momento all’altro, devi fare in fretta.”
Quello dell’acido, si ritrovò a considerare Leena, sarebbe stato un risvolto interessantissimo, ma si astenne dal dirlo a voce alta mentre Niki annuiva dandole le spalle per avvicinarsi allo scivolo dei rifiuti, sollevando lo sportello per gettarvi un’occhiata all’interno:
“Il rivestimento è di metallo. Non sarebbe perfetto gettarlo senza che mai nessuno lo trovi, facendo in modo, magari, che resti qui dentro? Chi mai guarderebbe dentro uno scivolo per i rifiuti?”
“Ok, ma come…”
Leena non riusciva a capire, o almeno finchè un’assurda idea non le balenò in mente. La strega spalancò gli occhi scuri, incredula ma allo stesso tempo sperando di aver indovinato i pensieri della vicina mentre guardava Niki annuire e tornare a rivolgere lo sguardo su di lei:
“Se ci buttassi dentro un magnete non cadrebbe. Si attaccherebbe alle pareti. Nessuno lo troverebbe mai, o almeno non per un bel po’ di tempo, quando nessuno più penserebbe alla morte di Montgomery.”
“Quindi c’è… la possibilità che sia ancora lì?”
Leena era quasi commossa: forse, in fin dei conti, non poteva considerarsi proprio un fallimento. Niki annuì e si allontanò dal tunnel per avvicinarlesi nuovamente, già in procinto di pensare a come esaminare l’interno dello scivolo. Disgraziatamente dubitava che Carter ci sarebbe passato attraverso, quindi si ritrovò ad accantonare l’idea di calarcelo dentro.
“Era pomeriggio, probabilmente. Nessuno arriva e ti porta un caffè di sera, no? E probabilmente non era qualcuno che aveva confidenza con lui, non sapeva del suo astio per il caffè, quindi è ancora più difficile credere che sia successo di sera. Chi ti bussa alla porta di sera con un caffè senza neanche conoscerti poi così bene?”
“A parte Orion, intendi?”
“Sì, ma dubito fortemente che sia stato Orion. No, era pomeriggio o mattina. Io vivo proprio accanto a dove passa lo scivolo, e quel giorno ho sentito uno strano tonfo metallico, non ricordo l’ora, ma ricordo di aver pensato che qualcuno avesse gettato qualcosa nel tunnel con la grazia di un elefante. O forse era proprio il magnete che si incastrava.”
“Ok, e come ci infiliamo dentro il tunnel?”
Leena trattenne l’impulso di prendere ad iniziare a saltellare, emozionata in un modo assolutamente poco appropriato rispetto alla situazione corrente, e Niki si strinse nelle spalle mentre gettava un’ultima occhiata di sbieco verso lo sportello che apriva e richiudeva lo scivolo, dubbiosa:
“Se non funziona un Incantesimo di Appello direi che servirà qualcuno di leggero e molto magro. … Oddio, toccherà a me, vero?”
Niki aveva appena iniziato a maledire la sua stessa idea inclinando le labbra per dar vita ad una smorfia contrariata, ma prima che Leena potesse risponderle il suono metallico di una chiave che veniva fatta ruotare all’interno di una serratura le fece entrambe sobbalzare: la porta di uno degli appartamenti venne inaspettatamente aperta e le due si ritrovarono a ricambiare, sorprese, lo sguardo perplesso di uno dei loro vicini. Se una quarta persone fosse capitata nel bel mezzo del corridoio del quattordicesimo piano avrebbe stentato ad indicare chi fosse più sorpreso tra Leena, Niki e Mathieu, che si immobilizzò sulla soglia del suo appartamento completamente vestito e con il guinzaglio di Prune stretto tra le mani mentre i suoi occhi chiari rimbalzano perplessi prima sul viso di una poi su quello dell’altra. Bizzarro, si disse il canadese, come in quella città si potesse vivere in uno stesso posto per sette anni e ricevere comunque continue sorprese dai suoi vicini.
“… Avete organizzato una riunione di condominio notturna e siete venute a prendermi?”
“No, indaghiamo. Tu cosa fai in giro a quest’ora?”
Leena si strinse nelle spalle, come se la sua fosse giustificazione del tutto nella norma, e come Niki lo guardò in attesa di udire la motivazione che lo aveva spinto a lasciare il suo appartamento a quell’orario così fuori dall’ordinario.
“Porto fuori Prune e poi vado al lavoro.”
Mathieu si strinse debolmente nelle spalle mentre varcava definitivamente la soglia di casa insieme all’alano, che lo seguì obbedientemente fuori dalla porta e attese paziente che il padrone si chiudesse la porta alle spalle a chiave sotto agli sguardi attoniti delle due vicine: mentre Mathieu dava loro le spalle per armeggiare con la serratura Leena si ritrovò a sbattere più e più volte le palpebre, incerta se fidarsi dei suoi sensi o chiedersi se le scarse ore di sonno e il Martini di poco prima non le stessero giocando qualche scherzo.
“Alle 2 passate del mattino?!”
Dopo aver chiuso la porta a chiave Mathieu si diresse verso gli ascensori insieme a Prune – che naturalmente passando si guadagnò delle carezze lampo da Niki e Leena –, stringendosi nelle spalle mentre aspettava che le porte dorate si aprissero:
“Già. Buona giornata ragazze. E cercate di non entrare a casa mia, se vi riesce.”
Mathieu varcò la soglia dell’ascensore e premette il pulsante del pian terreno rivolgendo un accenno di sorriso non troppo ironico alle due vicine che ancora lo scrutavano perplesse, Leena in primis. Naturalmente era consapevole di quanto l’ora fosse bizzarra, ma non aveva particolarmente voglia di fermarsi a chiacchierare: era reduce da giorni popolati da conversazioni molto intense. Le porte dorate infine si chiusero iniziando la discesa di Mathieu e Prune verso i piani inferiori, lasciando Leena a chiedersi che razza di lavoro potesse fare il vicino mentre Niki incrociava le lunghe braccia al petto, esalando un debole sbuffo:
Bah, che egocentrico. Come se il suo fosse l’unico appartamento in cui introdursi, da queste parti.”
“Ma che razza di lavoro fa?!”
“Non ne ho idea, ma qualsiasi cosa faccia la fa nel Queens. L’ho incontrato lì qualche giorno fa.”
Niki si strine nelle spalle astenendosi dal far notare come il vicino si fosse recentemente recato in Canada, meta notoriamente favorita dei criminali che vivevano vicino al confine, e Leena rifletté per qualche breve istante, accigliata, prima di rammentare qualcosa che le era stato recentemente raccontato da Eileen a proposito di un bizzarro incontro in ascensore:
E se facesse, non lo soqualcosa con la droga?! O il gigolò!”  Di nuovo Leena parlò aprendo le labbra in un sorriso entusiastico, mostrando due perfette file di denti candidi e allineati. Sarebbe stato così divertente avere un criminale come vicino di casa!
“Come Richard Gere! Adoro quel film(6). Ma stiamo perdendo il focus, dobbiamo capire come recuperare qualsiasi cosa possa esserci nel tunnel.”
Niki, dopo essersi brevemente unita all’entusiasmo di Leena, scosse la testa e si costrinse a tornare seria, brandendo la sua consueta aria imperscrutabile mentre la britannica annuiva, sforzandosi con tutta se stessa di imitarla e di accantonare la tentazione di intavolare una discussione fatta di teorie in merito alla misteriosa vita condotta dal loro affascinante vicino.
“Giusto, hai ragione. Del film parliamo dopo.”            

Come ogni mattina, se a quell’ora di mattina si poteva parlare, Mathieu varcò i cancelli dell’Arconia insieme a Prune, che gli trotterellava obbediente al fianco, trattenendo a fatica uno sbadiglio. Prima di allontanarsi dal palazzo per il loro consueto breve giretto Mathieu sollevò la testa per gettare un’occhiata incerta alla facciata dell’edificio e più in particolare in direzione del quattordicesimo piano, sperando che le vicine non avessero in progetto di far implodere il palazzo. Si chiese che cosa stessero combinando, a quell’ora così insolita davanti alla sua porta, ma ben presto stabilì che forse ancora non desiderava saperlo. Era davvero troppo presto.
“E poi sono io quello strano...”
 
 
 
 
 
 
 
 
(1): Negli USA il Thanksgiving si celebra in occasione del quarto giovedì di novembre, prima del Black Friday, mentre in Canada un mese e poco più prima, il secondo lunedì di ottobre. I festeggiamenti sono più o meno gli stessi ma le radici storiche sono diverse, negli USA si festeggia dal 1941 mentre in Canada la festa è stata canonizzata più tardi, nel 1957.
(2): Ricetta per friggere il pollo originaria di Tupelo, città del Mississippi, che Hard Rock serve in quanto città natale di Elvis Presley
(3): Il libro a cui fa riferimento Niki è Il club dei delitti del giovedì di Richard Osman
(4): Charles Cullen, serial killer arrestato nel 2003
(5): Nome originario della serie La signora in giallo
(6): American gigolò, film del 1980
 
 
 
 
 
 
 
 
 
……………………………………………………………………………………………..
Angolo Autrice:
Buonasera!
Questa volta non sono in mostruoso ritardo e ne sono davvero felice. Penso che ormai sia più rilevante scoprire che cosa combina Mathieu nella vita rispetto a capire chi ha ben pensato di far fuori Monty, per ora la teoria di Phoebe in merito alla spia che si finge membro della setta adescando adepti grazie al suo fascino e spacciando droga resta la mia prediletta, nonchè molto gettonata, ma si vedrà.
Detto ciò grazie per le recensioni come sempre, ci sentiamo presto su altri lidi. A chi la sta aspettando assicuro che non mi sono dimenticata della OS per Anjali e Alphard, spero arrivi presto insieme ad un piccolo contenutino extra sul Camp e a seguire qualcosa anche per Joël e Sabrina.
A presto,
Signorina Granger
 
   
 
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