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Autore: Zyadad_Kalonharysh    01/07/2023    0 recensioni
[KilluGon]
Gon Freecss è quasi morto. Ed è ormai prossimo ai quindici. La sua avventura con il suo inseparabile gruppo di amici è finita ormai da un anno e mezzo. Non ha contatti con Killua dalla separazione mentre Kurapika e Leorio non ci sono quasi mai. Ha assimilato la solitudine e si è concentrato su altro, ma sa di non stare bene. Il ragazzino esuberante che parlava troppo e agiva in modo impulsivo con il suo volto puro e sorridente sembra ormai un lontano ricordo. Oggi fa più fatica a parlare, balbetta, tende ad essere riflessivo, si chiude a riccio e non esce mai di casa. Ogni notte ha un incubo, si sveglia piangendo e passa la giornata a studiare. Questo è ormai un ciclo continuo, le sue giornate sono tutte così. La vita monotona di Gon continua finché delle vecchie insolite conoscenze non interverranno per invertire questo trend.
In questa dramedy avremo a che fare con le sfide personali di Gon prossimo alla vita adulta, sfide quotidiane molto meno avvincenti di quelle di un tempo. Molte di queste riguarderanno il suo rapporto con Killua post-separazione.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gon Freecss, Jin Freecss, Killua Zaoldyeck, Kurapika, Leorio
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 17

Gon, ancora ai ferri corti con Kurapika, va a Baltimora per la prima tappa del tour del libro. Tra i dubbi sulla sua relazione con Sebastian e l’onnipresente fantasma di Killua, Gon va in terapia e discute con la sua analista diversi aspetti della sua vita.

Dove lo metto?

Si avvicina l’eventualità che Kurapika se ne vada senza che possiamo chiarire. Non sono abbastanza orgoglioso per permettere una cosa del genere, mi prendo una pausa da quell’inferno di cena al country club e, nel giardino deserto, mi metto su un dondolo di legno per telefonare Leorio.
«Non sai quanto mi sento in imbarazzo.» Gli dico.
«Effettivamente, stavolta l’hai fatta grossa.» Anche Leorio sembra piccato. Ma ce l’hanno tutti con me? «Però, per quanto tu abbia sbagliato, eccome se l’hai fatto, non ti meritavi che lui ti dicesse una cosa simile.»
«Come sta adesso? Posso parlargli?» gli domando, preoccupato.
«Si è calmato, ma è meglio non parlarne al telefono. Dove sei? Ti raggiunge lui.» Leorio sembra essersi trasformato nel suo segretario o qualcosa di simile. In ogni caso, mi va più che bene incontrarlo qui. Il giardino è deserto.
«Sono al country club a cena con la famiglia di Sebastian.» Gli dico. «Rimanderei a domattina se non avessimo poco tempo. Tra un quarto d’ora i suoi genitori andranno a prendere l’amaro al bancone e noi giovani staremo in giardino.»
«Se non è un problema, si sta vestendo ora.»
«Digli di mettersi qualcosa di elegante!»
Rientro subito nel ristorante. Anche se sono stato via per pochi minuti, il caffè è già a tavola.
«Mio padre ti trova forte e Ivanka ti adora. È fatta!» mi sussurra Sebastian. Vorrei dargli un bacio seduta stante ma non so quanto sia appropriato.
«Stupendo!» Gli dico, dandogli almeno un abbraccio. Zoe si gira subito dall’altra parte. «Sta arrivando una persona.»
«Chi?»
«Quel mio amico, quello biondo. Parte domani e dovevamo parlare di una cosa, per questo gli ho detto di venire qui. Non ci metteremo molto, ti dà fastidio?» Lo guardo già con occhi imploranti. Effettivamente, nulla di ciò che sto facendo ha senso.
«Niente di te mi può dare fastidio.» Mi bacia la fronte. «Ho totale fiducia in te. Anche se sei un po’ matto.»
La cosa peggiore di Sebastian è che è fottutamente perfetto in tutto.
 
Kurapika entra da solo, io sono rimasto per tutto il tempo a fissare il cancello in attesa del suo ingresso. I genitori di Sebastian e di Zoe sono andati con gli altri soci del club a fare un giro di grappa. Non riesco a non pensare al mio quasi-ragazzo con la faina rosa rimasti da soli. Ma, va detto, a un certo punto le priorità cambiano. E poi voglio fidarmi di Sebastian.
«Gran bel posto…» mormora il biondo, con un sorriso di circostanza.
«Non scherzare, io detesto questo club. Ci sono venuto solo per Sebastian.» Faccio accomodare Kurapika vicino a me sul dondolo.
«Mi dispiace per averti detto quella frase.» esordisce lui. Tiro un sospiro di sollievo, iniziamo bene.
«Anche a me dispiace di averti chiamato con quegli aggettivi! Ero sotto stress, non ero in me!» Piango a fontanella.
«Un momento.» Kurapika ferma la sceneggiata. «Ho ammesso di aver esagerato, ma non ritiro la mia critica ai tuoi atteggiamenti. Tu sei egocentrico.»
«Questo lo so. Ma cosa ci posso fare?» Gli rispondo sinceramente, perché questa è una cosa su cui sto lavorando da quasi due anni. «Io faccio il possibile per pensare agli altri. Io oggi ho parlato di me, ma voi avete cercato di introdurre qualche argomento diverso?»
Kurapika è silenzioso.
«Ti posso assicurare che se tu mi avessi raccontato qualcosa, non mi sarei messo a parlare del mio libro e sicuramente avrei evitato di ficcare il naso. Ma tu non parli mai di te stesso, una persona cosa può fare?» continuo.
«Hai ragione. Ma non mi riferisco solo a quando ci ritroviamo a parlare. Mi riferisco anche a quando hai preteso che io incontrassi Espedito nonostante fossi già stato chiaro su quanto mi metta a disagio vederlo.»
«E quando avrei preteso una cosa del genere?»
Mi domando se uno di noi due abbia una percezione distorta della realtà negli ultimi giorni.
«Mi avevi detto che sarebbe stato brutto partire senza vederlo e cose così.» Non ho mai visto Kurapika così a corto di argomenti.
«E?» Faccio io, perplesso. «Il mio era un suggerimento, non un’imposizione. Consentimi l’ardire, se senti un conflitto in merito a questa cosa, affrontalo e non sfogarti su di me.» A quel punto, si gira sorpreso e mi guarda negli occhi. «Puoi sfogarti con me tutte le volte che vuoi. Ma non su di me, quello mi fa stare male.»
«Io non provo nulla per Espedito.» decreta lui, con tono fermo.
«Infatti, nessuno parla di lui.» Mi scappa una risata. «Kurapika, ho capito persino io il gioco che sta facendo. È strano che tu non mi abbia preceduto.»
«Cosa intendi?»
«Espedito ha rinunciato a te perché ha capito quasi subito di non avere speranze. Ma, evidentemente, gli piacevi tanto.» Inizio a spiegargli. Lui mi guarda con fare interrogativo, non capendo dove voglia andare a parare. «E perciò possiamo dire che ha tirato su questo casino perché vuole sentirsi in qualunque caso protagonista. Non importa che tu abbia scelto Leorio, l’importante è che lui abbia avuto il ruolo principale. Credo sia la sua consolazione.»
«Ma perché siete convinti tutti che io abbia scelto…» sbotta lui, in preda all’imbarazzo. E adesso basta, questo teatrino è andato fin troppo.
«Stavo pensando, diversi giorni fa, a cosa definisca una relazione.» Lo interrompo. «Non è sempre necessaria una promessa esplicita. Il modo in cui ci siete l’uno per l’altro, in cui vi guardate sapendo che non vorreste nessun altro… è in qualche modo una scelta che avete fatto, magari senza saperlo. Le cose sono andate così, in maniera spontanea e naturale.»
Kurapika si volta dall’altra parte, rosso come un peperone. Sono passati anni dall’ultima volta che l’ho visto così.
«Mi dispiace ma io sono qui e ti parlo anche!» Lo tiro per la spalla, facendolo tornare a guardarmi. «Voi due siete degli adulti, non siamo più ai tempi dell’Esame dove eravamo tutti troppo piccoli e ingenui per capire le cose. I tira e molla, il brutto tempismo e tutta quella sequenza di cose non dette e fraintendimenti… sono cose noiose! La vita reale è semplice, serve solo il coraggio di affrontare il tutto.»
Kurapika resta per un attimo lì, congelato e inerme. Non so esattamente cosa stia provando, lo capisco solo dopo quando inizia a sorridere involontariamente. Sì, conosco quello sguardo, quella spensieratezza negli occhi che molto raramente vedo in lui.
«È che io non mi sono mai preoccupato di queste cose.» mormora. «Sento una sensazione strana che per la prima volta non so spiegare bene.»
«Lo zsa zsa zsu.» Devo ammettere che ripeto spesso quest’espressione perché la trovo buffa oltre al fatto che identifica qualcosa che prima non riuscivo nemmeno a menzionare. «La botta allo stomaco.»
«Che strana espressione.» Ridacchia. «Forse è come dici tu.»
 
Quando Kurapika torna in albergo, io raggiungo Sebastian al bar. Noto con enorme sorpresa che Zoe se ne è andata e che lui se ne stia lì da solo. Mi aspettavo, come minimo, che gli stesse appiccicato come una cozza.
«Stai bene?» mi domanda. «Prima eri un po’ turbato. Riguarda il tuo passato?»
«Sì…» dico, sorridendo per la sua perspicacia. «Ma ora è tutto a posto. Avevo avuto un litigio con Kurapika e ci sono rimasto davvero male.»
Adoro il fatto che non sia pressante nel voler sapere ogni cosa riguardante il mio passato da hunter e che non si arrabbi quando scelgo di non dirgli qualcosa. Riesce a percepire il mio disagio e non prende sul personale i miei “no”.
«Come dicevo, ti adorano.» Cambia discorso, mentre mi mette davanti un Gin Lemon.
«Non sono male neanche loro!» Gli dico, e lo penso davvero.
«C’è qualcuno che non ti adora in questo mondo?» Ha deciso di farmi diventare viola.
Frank e Killua, ma certo non posso fare i loro nomi. «Zoe Sinclair?»
«Chi disprezza compra.»
Effettivamente io e lei abbiamo fatto sesso in passato. Ha perfettamente senso.
«Mi vuoi portare a casa?» Gli domando con quella voce, cercando di convincerlo a trasportarmi in un luogo qualsiasi fuorché questo.
 
 
Questa mattina mi sveglio nell’enorme letto di Sebastian, ma lui non c’è. Mi guardo intorno alla ricerca di una figura familiare ma c’è solo la sua camera da letto enorme con le enormi finestre che illuminano di luce naturale le mie occhiaie. Sul suo cuscino c’è un bigliettino.
Ti aspetto in cucina.
👨‍❤️‍💋‍👨
Indosso una delle sue vestaglie con il monogramma che mi ha lasciato sul comodino e corro in cucina nella speranza che non ci sia nessun altro in casa, visto che sono senza biancheria. Fortunatamente, c’è solo lui.
«Questo è un assalto?» mi domanda ridendo, notando il fatto che io sono coperto solo dalla vestaglia di raso con il suo cognome serigrafato sopra.
«Non sapevo che mettermi!» Sono serio, lo so che la situazione può sembrare fraintendibile.
«A me vai benissimo così!» ridacchia lui.
Decidiamo di portarci la colazione per consumarla insieme nel letto. E poi consumiamo qualcos’altro.
«Stavo pensando di farti un regalo che potrebbe esserti utile.» mormora, mentre io sono ancora accoccolato a lui. «In realtà mi ha aiutato Ivanka.»
«Che cos’è?» gli chiedo, incuriosito, mentre appoggio il mento alla sua scapola.
Senza dire nulla, Sebastian mi dà una busta che contiene un biglietto da visita e un buono da trecento dollari.
Mi ha regalato una seduta di terapia.
 
Una volta Kurapika mi disse: “Se vuoi cancellare la rabbia che provi, diventa un hunter”.
Anche Espedito ha detto una cosa simile: “Se vuoi cancellare la rabbia che provi, va’ da un analista.”
Avendo già seguito il primo consiglio, decido che il secondo è la mia prossima strada. Ivanka mi ha dato uno stimolo importante per proseguire nel mio cammino: il biglietto da visita della dottoressa Hobbes, anche conosciuta come l’analista dei VIP di Manhattan.
 
«Buongiorno, Gon.» La voce calma della dottoressa mi fa già sentire al sicuro. «Mi dica cosa la porta qui.»
La dottoressa si igienizza le mani con il dispenser sul tavolino che si frappone tra noi e mi guarda con aria pacifica, mentre io sto per addormentarmi sprofondando nella comodissima poltrona in pelle.
«I miei amici non mi sopportano più.» Parto con una dose di autoironia. «E un mio nuovo amico mi ha consigliato questa sorta di amicizia costosa e potenziata.»
«Ottimo consiglio.» Ride lei, mentre la vedo subito aprire un fascicolo. «E cos’è che infastidisce così tanto i suoi amici?»
«Dicono che sono egocentrico.» Confesso, guardando fisso il pavimento. «Vengo fuori da una situazione molto forte. Io… uhm… ho combattuto contro le formichimere. Sono così stressato che non mi accorgo di alcune cose.»
«Ho presente la situazione. Ricordo l’allerta governativa e il discorso del presidente Trump in merito.»
«Ecco… io credo che la mia rabbia abbia finito per cancellare tutto. Sono stato preso da non so cosa e…» Mi chiedo come raccontargli di Neferpitou e della perdita del Nen, ammesso che lei sappia cosa sia il Nen. «Ho vinto una battaglia guadagnando potere attraverso un giuramento.»
«Che tipo di giuramento?»
«Ho detto “non mi importa se questa è la fine”. Un’ondata di rabbia mi ha attraversato e… per un momento il mio corpo è cambiato. Non ricordo molto, ma quella sera io ho sacrificato la mia vita per vincere quell’ultimo scontro. Sono ancora vivo perché il mio migliore amico mi ha salvato la vita, ma non ho più i miei poteri e per questo ho lasciato l’attività di hunter.»
«Questa è… una cosa forte.» Sebbene sia sicuro che nessuno degli altri pazienti della dottoressa Hobbes abbia una storia anche solo lontanamente simile, lei sembra aver compreso ed è intenzionata a lavorare con me. «Mi parli di questo suo amico.»
Ovviamente.
«Prima che io “morissi”, non sono stato un buon amico con lui.» Su questo sono molto preparato. «Avevamo quel tipo di rapporto in cui uno dà e l’altro prende, cose così. Io non me ne sono mai accorto prima che lui mi salvasse la vita.»
«Ascolti, Gon.» La dottoressa distoglie lo sguardo e tira fuori dal ripiano sotto al tavolino il mio libro. «Io ho letto il suo libro. Intendo scollegare ciò che c’è scritto qui dalla realtà perché immagino ci sia un editing di mezzo. In ogni caso, i fatti li conosco e mi baso su quelli.» Spiega, sorridendomi. «Lei ha un problema, ma non è quello che credono lei e i suoi amici.»
«Può spiegarsi meglio?»
«Il suo non è egocentrismo. Non è la definizione esatta del suo comportamento, è un’analisi superficiale.» Dice, mandandomi in tilt per quell’informazione imprevista. «Una persona che entra in un covo di assassini per recuperare il suo migliore amico le sembra una persona egocentrica? O una persona che si fa prendere volontariamente come ostaggio da una banda di criminali per aiutare un altro amico? E se contassimo che tutto, ma proprio tutto, è nato dal suo desiderio di incontrare suo padre?»
«Quindi… non sono egocentrico?» Questa è forte. Finora ero convinto che il problema fosse quello, ma evidentemente c’è un motivo se il mio lavoro su me stesso continua a non funzionare.
«No.» Il sorriso della dottoressa non mi convince. «La situazione è più disperata.» Perdo un battito a quella parola. «Lei vive nella convinzione di dover svolgere una funzione nel mondo. Vive sempre in funzione di qualcuno, come ad esempio suo padre. La sua missione viene sempre messa davanti a tutto, persino davanti ai suoi affetti, per questo le hanno detto che è un egocentrico: non hanno considerato questo livello. Ma lei mette la sua missione davanti soprattutto a sé stesso, davanti alla sua salute fisica e mentale. Ha idea di quante volte – tra quelle riportate nel suo libro e dalla stampa – lei si è fatto del male da solo, per non dire mutilarsi fisicamente, con lo scopo di svolgere un compito?»
«No. Ma so che è capitato, questo basta.» Voglio buttarla sul ridere.
«Trentuno volte nel giro di soli due anni.» La dottoressa non ride con me e mi fissa con uno sguardo severo che mi incenerisce. Questa è una cosa a cui non ho mai pensato. «E se arriva a trattare il suo corpo in questo modo, immagina cosa abbia passato la sua mente. Si rende conto di quanto entrambi hanno dovuto sopportare?»
Per un momento mi passa davanti la battaglia contro Hanzo durante l’ultima fase dell’esame. E la battaglia all’Arena Celeste contro Gido. E la prova di Razor – dove anche Killua è stato ovviamente trascinato. E la battaglia contro Genthru. E poi tutto il periodo a NGL.
Io non avevo mica idea di quante volte avessi praticato autolesionismo e tentativi di suicidio. Aiuto!
 «Io non so esattamente cosa dire.» proferisco con zero convinzione.
«Non deve essere facile. Lei legge i manga?» Mi chiede. Annuisco per rispondere. «Ecco, lei è stato lanciato in tenera età in un mondo spietato dove ha dovuto dare prova ogni giorno delle sue qualità per dimostrare di essere all’altezza della sua personale missione di incontrare suo padre.»
«Eh?»
«Sembra un eroe manga in tutto e per tutto.» Dice, riponendo il mio libro nel ripiano da dove l’ha preso. «Indole buona, animo semplice, testardo, atteggiamento ottimista e positivo nei confronti della realtà, orgoglioso e che non si tira indietro davanti a nulla. Sembra proprio uno di quei protagonisti che mio figlio legge o guarda alla TV. Ma sa qual è la differenza?»
«Quale?» Sento che la conversazione sta varando verso un’angolazione pericolosa.
«Lei è un essere umano e si trova nel mondo reale. Quel tipo di rappresentazione mi ha sempre lasciata un po’ scettica, personalmente. Questo perché ci sono questi eroi giapponesi che affrontano la qualunque senza mai riportare alcun tipo di segno psicologico. E, soprattutto, questi fumetti non ci dicono mai cosa succede dopo aver raggiunto i propri traguardi. No, si passa al traguardo successivo.» La dottoressa Hobbes ci ha preso gusto nel farmi destabilizzare. «Se lei ha vissuto tutte queste cose è solo logico che ora stia affrontando una crisi a trecentosessanta gradi in ogni sfera della sua vita. Ci sono tante cose con cui non ha fatto i conti. In primis il trauma dell’abbandono da parte di suo padre.»
«Addirittura un trauma?» Salto dalla sedia nel sentire quella parola orrenda.
«Suvvia, ragioni.» Mi sorride cercando di mettermi di nuovo a mio agio. «Lei ha passato la sua infanzia in isolamento su un’isola senza altri bambini, nella consapevolezza che suo padre l’ha abbandonato perché preso da qualcosa di più importante. Così, un meccanismo di adattamento ha cercato di proteggerla dal dolore dell’abbandono trasformandola in una sfida. E da lì, tutto è iniziato.»
Non ce la faccio, questo è troppo. Sta mentendo. Non può essere iniziato tutto a causa di un mio delirio.
«Mi scusi, ma ha idea di quanto sia pesante tutto questo?» Non posso evitare di piangere aggressivamente.
«Io sono una professionista. Questo significa che, se ho davanti una persona convinta che tutto il male che si è fatta da sola sia stato dovuto a chissà quale disegno divino, non posso assecondare le sue convinzioni pericolose.»
 
Non sono sicuro di voler tornare dalla dottoressa Hobbes.
«Pronto?» Espedito risponde dopo pochi squilli.
«Ho fatto bene ad andare da una strizzacervelli?»
«Che cosa? Avrei voluto suggerirtelo io, pensavo che ti saresti offeso. Ma, scusa, da chi sei andato?»
«Theresa Hobbes. La conosci?»
«Certo che la conosco!» Domanda stupida, Espedito conosce chiunque. «Mi ha seguito per anni, è una vera professionista.»
«Non lo so, ne sono uscito molto turbato. Sei a casa?»
Nel frattempo, chiudo la chiamata mentre arrivo a casa di Espedito per continuare la conversazione. Sono ancora molto agitato dopo quella seduta così particolare. Io non me lo immaginavo mica che la terapia fosse una cosa così drenante.
«Ma sei andato in terapia senza sapere come funzioni?» Mi prende in giro lui, mentre apre la scatola con i cappuccini e le ciambelle che ha ordinato da Starbucks poco fa. «Ti consiglio di non mollare lei, è davvero brava. I casi che tratta sono abbastanza complessi.»
«Perché dici così?»
«La dottoressa Hobbes è nota perché a lei si rivolgono i soggetti più disperati dei piani alti di Manhattan. Hai visto il modo in cui è capace di leggerti dentro? Immagino che abbia subito identificato il problema.»
«Già.»
«Io ci sono andato perché quando sono tornato dalla missione ho cercato di suicidarmi.» Confessa, facendomi impallidire. «Ogni notte sentivo… sai… i tonfi e mi sembrava che la missione non fosse mai finita.»
«Capisco, sento anche io dei battiti nella notte.» gli dico, guardando il pavimento.
«Ma quindi? Cosa ti ha detto?»
«Ha detto che ho un trauma.» decido di vuotare il sacco, sperando che lui possa farmi capire meglio.
«Uno solo?» ride. Il problema sono io che continuo a dargli materiale per le sue uscite inopportune. «E come hai scoperto la dottoressa Hobbes?»
«Sebastian mi ha regalato una seduta.» Dico, godendomi l’espressione scioccata di Espedito. «Il regalo è in realtà della compagna del padre.»
«Oddio, Ivanka! Povera donna… avrei bisogno anche io della Hobbes se dovessi sposarmi quell’uomo.» commenta lui, tra l’acido e il dispiaciuto. «Però dai, hai una brava suocera.»
Dopo qualche minuto di silenzio dovuta alla mia assenza di risposta, Espedito mi mette una ciambella sotto al naso.
«Scusa, non ho fame.»
«A cosa stai pensando?»
Mi dà fastidio quando questa domanda compare sulla barra per scrivere uno stato sui social, figuriamoci quando mi viene chiesto di persona.
«Non è troppo?» gli chiedo. «Ho passato l’ultimo anno a pensare e a parlare solo di me. Avrei dovuto…»
«Se stai per dire ciò che penso io esco da questa casa.» Fa per alzarsi, guardandomi male. «Ognuno in questa situazione ha pensato a sé. Non sentirti in colpa perché lo stai facendo tu per una volta!»
«Ma non è come se volessi dare la colpa agli altri? In fondo, questa è solo la mia versione!»
«E quindi?» mi spiazza Espedito con la sua risposta. «Tu sei nostro amico, non devi dimostrarci che hai ragione perché ti aiutiamo. Hai visto Killua, no? Ha i suoi alleati, non sono tenuto ad aiutare lui anche perché non siamo mai stati amici. Io ti supporterei in qualsiasi caso. E poi mi sembra che tu le tue colpe le abbia più che ampiamente riconosciute.»
 «Ma…»
«Oh, santo cielo, hai rotto il cazzo.» Mi ride in faccia. «Perché non ti rilassi e la finisci una buona volta di dannarti per cose che non puoi controllare?»
 
Alla fine, ho deciso di prendere un altro appuntamento dalla dottoressa Hobbes.
 
//
 
Mercoledì mattina, sono riuscito a dare il test di diritto. La parte più difficile del corso di scienze sociali è quella dove si studia l’ordinamento giuridico americano. Spero di aver fatto un test decente. Mentre aspetto i miei amici in corridoio, sento in lontananza le Faine Rosa che confabulano tra loro.
«Se non miglioro in francese dovrò passare l’autunno qui per i corsi extra. Dovrò dire addio al Ringraziamento a Santa Barbara.» sbuffa Amalita, mentre Zoe Sinclair sta segnando su un taccuino i nuovi orari dei corsi per tutte e tre.
«Seguite un piano di studi, sono due anni che ve lo dico.» Zoe, acida come suo solito, rimprovera le altre.
«A me non piace il college.» Donna ha un improvviso momento di realizzazione.
«Madonna non ci è andata.» le dà manforte Amalita.
«Per l’amor di Dio», Zoe ha appena finito di trascrivere il tutto e si volta seccata verso di loro. «Trovatevi un tipo ricco. Io al Ringraziamento sarò ad Aspen a sciare, col cavolo che rimango qui.»
«Ciao Gon!» Mi saluta Amalita. «Ci sei al cordon bleu dopo, vero?»
«Non potrei mancare!» le rispondo. «Anche voi frequenterete i corsi extra?»
Zoe, per qualche ragione, finge che io non esista.
«Prepareremo insieme una mousse pralinata al caffè.» Continua Amalita, mentre io cerco con tutte le mie forze di ricordare che cosa sia una mousse.
«Domani iniziano i preparativi per lo spettacolo di beneficenza. Fa credito sul curriculum. Sai, avere buoni voti non basta, devi avere un buon curriculum se vuoi accedere a un prestigioso college. Io andrò ad Harvard, ovviamente.» Ci interrompe Zoe, fissandomi con un sorrisetto accennato.
Essere stato un hunter e aver rischiato la vita non fa abbastanza crediti sul curriculum?
«Sono ancora aperte le iscrizioni?» le domando, giusto per provocarla.
«Se ne occupa Mackenzie Phillips. L’anno scorso lo faceva Zoe ma, visto che quest’anno partecipa allo spettacolo, non ha potuto per conflitto di interessi.» Mi spiega Donna, beccandosi un’occhiataccia dalla capogruppo per aver parlato troppo.
«Ovviamente mi va più che bene. Non ho bisogno di favoritismi, io ho talento.» Fa per andarsene, mantenendo un intenso contatto visivo con me. «Le audizioni sono venerdì prossimo, tra quindici giorni. Muoviti se vuoi starmi dietro.» Sussurra poi.
 
In mensa incontro Danielle e Tameka, oggi Thomas non è venuto a scuola. Le ragazze stanno sfogliando qualche rivista, a quanto pare c’è una nuova faida tra Taylor Swift e Katy Perry. Mi sporgo per leggere il nome della rivista ed è, come sempre, HELLO! Magazine. Per la prima volta, non ci sono io in copertina. Ma quindi parlano anche di altre persone, assurdo!
«Sei a pagina trenta», specifica Danielle. Come non detto.
«Sono solo paparazzate alla mostra di Dior, Kylie ti ha rubato la scena», mi tranquillizza Tameka, mostrandomi le foto con la famiglia Kardashian al completo.
«Voi partecipate allo spettacolo?» domando, tanto per cambiare argomento.
«Io farò la costumista!» dice Danielle, fiera di essersi aggiudicata quel ruolo. E, sapendo quanto ci tiene, sono felice per lei.
«Io canterò nello spezzone jazz», dice, invece, Tameka. «Tu che cosa farai?»
«Alla fine canterò anche io», dico sorprendendo tutti, me incluso. «Ho saputo che Sebastian ha intenzione di cantare in coppia un pezzo di Grease e devo bloccare l’altro posto prima che Zoe Sinclair gli si getti addosso.»
«Butterai così la tua occasione?» borbotta Danielle, con Tameka che scuote la testa per darle manforte. «Non ti limiterai a fare una canzoncina in coppia! Portane altre, alla festa eri bravo.»
Mi è stata appena messa una pulce nell’orecchio che mi accompagnerà sicuramente per le ore successive.
Quando esco da scuola, non posso fare a meno di pensare a ciò che ha detto Danielle. Come da rituale, aspetto Sebastian ai cancelli. Lo vedo arrivare, oggi un po’ più cupo del solito, anche mentre mi saluta sembra sofferente.
«Tutto bene?» gli domando, mentre gli do un bacetto sulla guancia.
«Sono molto stanco, ieri non ho chiuso occhio. E ho l’umore a terra», mi spiega, accarezzandomi i capelli. «Ti porto a casa?»
«In verità, vado dalla dottoressa Hobbes.»
«Ma non ci sei andato due giorni fa?» mi domanda.
«Le ho telefonato prima perché vorrei davvero schiarirmi le idee su alcune cose», dico, mentre mi allaccio la cintura.
«La terapia ti fa bene. Sono fiero di te», mi accarezza la gamba e mi guarda con degli occhi che mi fanno sciogliere. Prima di partire, restiamo per almeno trenta secondi a baciarci.
 
Quando entro nello studio della dottoressa Hobbes, stranamente mi sembra di essere solo. Evidentemente, il primo pomeriggio, quando sono tutti a lavoro o a pranzo, è il suo orario migliore. E non penso abbia molti altri pazienti che vadano ancora a scuola.
«Buongiorno Gon! A cosa devo quest’anticipazione?» mi saluta, mentre prendo posto sulla canonica poltroncina.
«Sono molto spaventato dalla mia vita», oggi riesco a parlare senza filtri. Lo dico con il sorriso, con sarcasmo e ironia da vendere, ma sto dicendo la verità. È una notte intera che penso a quando la mia vita sia diventata una tragedia infernale dalla quale non riesco a uscire. «Ho ripensato a tutto ciò che ci siamo detti l’ultima volta e vorrei riprendere da dove ci siamo interrotti.»
«Mi sembra molto giusto. Da quale parte vuole ripartire?»
«Quella in cui abbiamo detto che l’inizio di tutto è dovuto a un mio delirio psicologico», cerco di non trasparire emozioni mentre lo dico. «Il fatto che se non fossi stato matto col botto non sarei diventato un hunter e nulla sarebbe successo.»
«In psicologia clinica non usiamo termini come “matto col botto”» ride lei, mentre apre il fascicolo per ripercorrere velocemente gli appunti. «E anche “delirio” in questo caso lo eviterei, è un termine un po’ stigmatizzante e decisamente poco neutro.»
«Ovviamente, mi perdoni.»
«Non si preoccupi. Vuole che mi spieghi meglio, quindi? Tutto inizia dal momento specifico in cui conosce Kite» dice, prima di richiudere il fascicolo. Iniziamo benissimo. «Questo incontro che ha fatto quando aveva non più di nove anni ha aperto una voragine dentro di lei. Quello è il primo momento chiave, quello in cui scopre che suo padre ha messo altre cose al di sopra di lei. Molte altre cose. Direi qualunque altra cosa», non riesce a risparmiarsi quell’ultima specificazione, ma non mi ferisce. Anzi, la trovo divertente. «Si ricorda come ciò l’ha fatta sentire?»
«Io non ricordo di aver pianto in merito a questo», le rispondo con sincerità.
«E lo sa perché?» Quando introduce una risposta così, so che devo prepararmi al peggio. «Inconsciamente lei si protegge attraverso delle strategie adattive. Per questo, spesso non è neanche consapevole di ciò che prova! Quando arriva una forte sollecitazione dall’esterno, si ingegna per mascherare il dolore con altro. Provi a sforzarsi e mi dica cosa pensava davvero.»
Questa è una bella domanda.
Ricordo una volta di aver sognato che il pavimento mi si aprisse sotto mentre cercavo di raggiungere Ging. Ho sempre pensato di dovermi meritare di incontrarlo e cose del genere. Ogni volta che la distanza tra noi si palesava, sentivo di dover fare qualcosa per meritarmelo. Provo maldestramente a mettere il tutto in parole.
«Esattamente», mi risponde lei con area di piena soddisfazione. «Ha vissuto nella convinzione che la compagnia e il rispetto di suo padre fossero un premio da conquistare con la fatica. Gli adulti che ha incontrato nella sua vita, a cominciare proprio da Kite, non hanno fatto altro che rinforzare questo standard e permetterle di andare avanti. Ovviamente, il povero Kite non poteva sapere di aver acceso un meccanismo malsano, ma possiamo partire da lì.» Ogni volta è un cazzotto nello stomaco, ma ho sopportato di peggio. «Si ricorda cosa ha detto in merito a Killua, quando è andato a riprenderlo a casa sua?»
«Eh?» Non capisco cosa c’entri proprio ora.
«”Killua non deve guadagnarsi la mia amicizia”. Lo disse a suo fratello, appena superato l’esame», mi ricorda, facendomi rivivere quel preciso momento. Un brivido mi percorre tutto il corpo. «Perché ha detto questo in merito a lui, quando invece applica sulla sua persona degli schemi completamente diversi?»
«Ecco…» non so cosa dire.
«Perché lei è un ipocrita!» il suo tono di voce si fa aspro e mi punta il dito contro, facendomi balzare dalla poltrona. Subito dopo, scoppia in una risatina. «Mi scusi, mi sono fatta prendere dalla parte. Lei non è un’ipocrita.»
«Oh…» tiro un mezzo sospiro di sollievo, ancora confuso da tutto il discorso. A quanto pare le modalità di Samantha sono molto popolari.
«La mia teoria è che con i suoi amici ha cercato di instaurare, per la prima volta, un meccanismo affettivo sano, nulla a che vedere con suo padre. E devo dire che ci è riuscito.»
«Ma allora perché non ha funzionato?» mi viene naturale domandarle. Se avesse funzionato, certo non sarei qui.
«Perché altri suoi complessi si sono messi in mezzo», mi spiega. Certo, era troppo bello per essere vero. «Non è facile voler bene a qualcuno che non dà valore alla propria vita. Il problema con Killua era proprio questo, non poteva più sopportare questo suo complesso.»
Direi che questa parte, invece, la so fin troppo bene. Sono arrivato preparato questa volta, ho studiato.
«Trovo che prendere tutto il tempo per rimuginare e pensare agli errori del passato sia un cattivo uso dello spazio terapeutico, non crede? Perciò, ora che abbiamo disposto dei blocchi di partenza, possiamo lavorare per costruire nuovi schemi che miglioreranno la qualità della sua vita», spiega la dottoressa Hobbes, con un sorriso che mi carica di speranze. «Mi parli della sua routine.»
«Beh, ultimamente con la scuola e il libro sono molto impegnato. I pensieri brutti mi prendono solo la sera, quando vado a letto.»
«Comprensibile, gli impegni la aiutano a non pensare e così viene rimandato tutto a quando ha del tempo libero. Le capita di crollare durante le pause?»
Questa donna mi fa davvero paura.
«S-sì…»
«Quali pensieri ricorrono maggiormente?»
«Ogni tanto rivivo ciò che è successo nel Gorteau dell’Est. La mia mente si blocca spesso su Killua, mi viene da immaginare scenari alternativi dove io non gli dico cose brutte e tutto finisce bene», parlarne mi fa sentire uno schifo. Se penso a quante cose ho buttato via quella sera, sento il cuore tremare e una botta allo stomaco fortissima. «Avrei voluto essere un amico migliore.»
«Potevo, volevo, dovevo!» mi canzona.
«Giorni fa ci siamo rivisti e… sto peggio di prima. Mi manca, ecco», non so perché ma ammetterlo è diventato più difficile. Forse perché, dopo tutto questo tempo, mi aspettavo che tutto il lavoro fatto su me stesso portasse più risultati di così.
«Si sente in colpa?»
«Costantemente», le vibrazioni che partono dall’addome e si concentrano nel cuore, adesso mi stanno facendo lacrimare gli occhi. Questo non è zsa zsa zsu, questo è un fendente dritto allo stomaco. «Non so cosa fare.»
«Non è come nei film, non c’è nessun “segui il tuo cuore”. Nella vita reale bisogna essere pratici», mi spiega mantenendo sempre il sorriso. Se non altro, ora so che anche Espedito copia qualche battuta ogni tanto. «Lavoreremo per farla andare avanti con la sua vita. Questo spazio mira alla rimozione progressiva di tutte le cariche emotive che fanno “schizzare” il suo umore in determinate circostanze. Costruiremo, giorno dopo giorno, passo dopo passo, una nuova strada sicura sulla quale lei potrà camminare e sostenere meglio le innumerevoli sfide della vita.»
«Crede che io possa farcela?»
«Certo! Ma le servirà un aiuto. Le consiglio di andare dal dottor Todd,» mi porge un biglietto da visita con scritto: “Howard Todd, Psichiatra”. «Si tratta di un collega che rispetto molto, nonché un mio caro amico. Ho già discusso con lui del suo caso e credo che una terapia farmacologica suppletiva alla psicoterapia possa esserle utile. Lei prende altri farmaci?»
«Saltuariamente ho assunto Prozac su consiglio di un’amica e qualche volta ho preso l’Adderall», confesso imbarazzato. So già che mi aspetta una lavata di capo per questo.
«Non lo faccia mai più», dice con sguardo severo. Immaginavo. «Proveremo per qualche settimana la terapia farmacologica. Quanto a noi, ci vedremo una volta a settimana. Con il dottor Todd ho già discusso vari scenari, valuteremo tra due o tre sedute l’ipotesi di un ricovero in clinica.»
Sentire “ricovero in clinica” mi fa saltare dalla sedia per lo spavento.
«Serve davvero?» le domando.
«Lo scopriremo vivendo», ridacchia lei, scrivendo cose sul suo fascicolo. «Il suo caso è frutto di un’intera vita di schemi sbagliati e pericolosi, la rieducazione sarà parecchio complessa. Lo dico con onestà. Cercherò di non compromettere il suo tour del libro, le prometto solo questo. A proposito, buona fortuna per quello!»
Saluto la dottoressa Hobbes e lascio lo studio sentendomi svuotato dentro. Sicuramente c’è del liberatorio, ma sento anche un profondo smarrimento interiore.

Quando torno a casa l’unica cosa che voglio fare è mettermi a letto, magari dopo un bicchiere di vino, ma al mio ingresso trovo Shuk sul divano. Cavolo, me ne ero completamente scordato.
«Tutto bene?» mi domanda, notando che ho una strana cera. «Ti eri dimenticato del nostro appuntamento?» mi squadra dalla testa ai piedi mentre regge il laptop sulle gambe.
«Quanto mi hai aspettato?» le chiedo, strizzando gli occhi per la vergogna.
«Solo mezz’ora, ho trovato traffico sulla Madison. Considerati fortunato», mi sorride, battendo la mano sul cuscino di fianco indicandomi di sedermi accanto a lei. «Sei sicuro di stare bene?»
«Ho appena visto la mia psicologa, ogni volta che torno dalla terapia mi sento così», le spiego, versandomi un calice di Chardonnay preso dal tavolino di fronte.
«Le prime volte è sempre così. Anche io vado dalla psicologa», chiacchiera mentre continua ad armeggiare con il computer.
«Da quanto tempo ci vai?»
«Otto anni!» dice con fierezza. A me non sembra una cosa di cui vantarsi, ma può essere che sono io. La cosa non mi fa estrema paura, di più. «Ti ho sistemato l’agenda. Parti sabato sera per Baltimora, ovviamente tutto prenotato dalla casa editrice. La presentazione la fai da Barnes & Noble in centro, hanno dovuto mettere la lista d’attesa perché sono arrivate più di cinquemila prenotazioni.»
«Wow… sono davvero tante», la mascella per poco non mi cade a terra dallo stupore.
«Ho dato una sbirciatina all’albergo, è divino! C’è anche la piscina aperta di notte, la spa, ristorante stellato… tutto incluso e pagato dalla Harper & Collins», inizia a fantasticare guardando il soffitto con occhi sognanti. Giusto, lei viene con me a farmi da manager. Poi, si ricorda una cosa e tira fuori dalla sua borsa il New York Times, aprendolo all’inserto della classifica dei bestseller.
Che il mio libro fosse arrivato primo in classifica il giorno dopo la sua pubblicazione – cosa che io ancora stento a credere – lo sapevo già. Ma il numero di copie vendute mi ha davvero mandato in tilt.
«Settantamila copie?!» urlo.
«Sono settecento mila, Gon…» mi corregge. E meno male che la mia media in matematica è alta.
«Ma com’è possibile?»
«Sai quanto le persone si sono interessate a te. Non è mai arrivato nulla di simile, qui. E poi hai avuto dietro un team coi controfiocchi, modestamente», dice, posando il giornale nella borsa. «A Baltimora dovrai sfondare tutto. Ma io sono qui per aiutarti. Ora mi dici che cosa ti prende?»
Esito ripetutamente prima di darle una risposta concisa.
«Ho ripensato alle solite cose. Killua, Kite, NGL, tutto questo mondo qua», differisco sbrigativo. «E ho pensato a quanto lui sia felice con Frank.»
«Ma per favore, non dirlo nemmeno per scherzo!» mi ride in faccia. «Frank lo comanda a bacchetta, te l’ho detto!»
«Lo so, ma ho deciso di non invischiarmi», le rispondo. Gli occhi di Shuk diventano due biglie, quasi come se avessi bestemmiato. «Questo», dico indicando il mio libro, «è il mio nuovo obbiettivo. E il dramma di Killua è un intralcio. Lui non è Mr. Big e io non sono Carrie.»
«Anche io adoro Sex and The City! Peccato, avrei giurato che tu fossi una Carrie», dice ridacchiando mentre ci rimettiamo a lavorare.
   
 
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