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Autore: Felixia    13/07/2023    0 recensioni
Il cielo limpido e blu di Novyi Zem, il sole caldo che illuminava i campi di jurda e un ragazzo Zemeni dal sorriso spavaldo che si divertiva a scolorirne i petali con il solo tocco delle sue dita. Se si concentrava abbastanza poteva ancora riportare alla mente l'esatta gradazione di grigio dei suoi occhi. Wylan non potè fare a meno di sorridere a sua volta ricordando quel ghigno soddisfatto che gli vedeva stampato in faccia ogni volta che lo stupiva con i suoi poteri. Aveva pensato spesso a lui, a come quel ragazzo, sempre in movimento, sempre sorridente, fosse un po’ come la jurda con cui giocava: dall’aspetto splendido, come il suo fiore arancione, e dall’incontenibile energia, come la sostanza eccitante che nei fatti la jurda era.
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Jan Van Eck, quando si rende conto che suo figlio non sa leggere, lo allontana da Ketterdam per non far scoprire a nessuno la sua incapacità. Wylan cresce quindi a Novyi Zem dove diventa amico di Jesper, almeno finché i due non vengono separati dal destino per poi ritrovarsi, 10 anni dopo, di nuovo insieme, tra i Corvi.
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Avvertimento: storia Wesper centrica.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Inej Ghafa, Jesper Fahey, Kaz Brekker, Wylan Van Eck
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Wylan non credeva che si sarebbe abituato così in fretta alle sveglie improvvise nel cuore della notte. Anzi, era convinto che sarebbe stata una tortura doversi alzare dalla comodità del suo letto e sgattaiolare in gran segreto fuori dalla villa per correre tra le strade fredde di Ketterdam. Eppure, ogni volta che usciva dalla porta di servizio cercando di non fare il minimo rumore, ogni volta che il vento gelido gli si insinuava sotto il cappotto, ogni volta che accelerava il passo per evitare le zone più pericolose del Barile, ogni volta che era fuori di casa ad insaputa di suo padre, si sentiva di nuovo vivo.
Così, anche quella notte, non fu affatto difficile affrontare la sveglia che reclamava la sua attenzione. Erano appena le due di notte quando la luce lampeggiò sul suo viso destandolo dal sonno con un enorme sbadiglio. Aveva ancora la sensazione del sogno che stava facendo calda sulla pelle. Non gli capitava spesso di sognare cose piacevoli, così cercò di rimanere ancorato a quell’immagine che gli baluginava nella mente mentre si apprestava a spegnere il congegno che lui stesso aveva assemblato.
Gli impegni notturni di Wylan dovevano rimanere nascosti e una sveglia rumorosa avrebbe annunciato a tutta la residenza Van Eck che il signorino stava facendo chissà cosa ad un’ora così tarda. Qualche mese prima una tra i professori dell’università di Ketterdam, la professoressa Levi, gli aveva regalato una novità tecnologica opera dei migliori Fabrikator di Ravka. Era uno strano bulbo di vetro sottilissimo con all’interno un filo metallico in tungsteno che, una volta portato all’incandescenza, produceva luce. La chiamavano “lampadina”.
Wylan non sapeva esattamente perché la professoressa gli avesse ceduto quel bene così prezioso, doveva costare una fortuna. Ma supponeva che la professoressa Levi non fosse granché interessata al valore economico delle cose. Gli sorrideva sempre, con quelle sue labbra sottili increspate dai segni della vecchiaia, quando lo invitava a trattenersi oltre l’orario di lavoro per mostrargli le nuove scoperte, per leggergli le ultime pubblicazioni o anche solo per chiedergli come stava.

Tutto era iniziato perché voleva contraddire suo padre. Quando suo figlio compì sedici anni, Jan Van Eck decise che avrebbe smesso di pagare i suoi insegnanti privati, dato che sarebbe stato uno spreco di tempo per loro e di denaro lui. Inizialmente per Wylan fu un duro colpo. Passò i primi mesi a suonare e piangere dalla frustrazione. Andava a dormire tutte le notti con gli occhi gonfi e le dita piene di calli. Si sentiva privato della sua dignità e sapeva di non avere una voce per difendersi dal giudizio di suo padre perché ogni argomentazione sarebbe stata inutile, non sarebbe stata presa in considerazione.
Finché un giorno Alys non si fermò ad ascoltare la canzone che stava scrivendo. Le parole della giovane matrigna e l’espressione orgogliosa con cui lo guardò sarebbero sempre state scolpite nella sua memoria: «Wylan, sei davvero un piccolo genio».
In quel momento Wylan capì: non aveva nessun bisogno di dimostrare a suo padre di essere intelligente, perché Jan Van Eck non lo avrebbe mai capito. Era un concetto troppo difficile per lui. Era sufficiente che una sola persona credesse in lui: se stesso.
Così prese la sua vita in mano; convinse Gerta, la domestica più anziana e permissiva, la stessa che da bambino gli dava la cioccolata quando nessuno li vedeva, a farlo uscire di nascosto una mattina. Direzione: quartiere universitario. Obiettivo: passare la mattina a imbucarsi a una lezione dopo l’altra per scoprire se era davvero così scemo come suo padre amava ripetergli.
E in questo modo aveva scoperto che suo padre aveva davvero torto. Non solo lui non era senza speranza, ma, anzi, tutto quello che ascoltava in classe gli sembrava quasi semplice: la chimica, la fisica, l’algebra, la biologia, tutto era logico ed ordinato davanti ai suoi occhi, non scappava dalla sua vista come le parole scritte.
Wylan però era stato ingordo, non si era accontentato di seguire una lezione o due e di vivere il resto della sua vita recluso e felice di aver dato torto a suo padre, voleva sapere, ancora e ancora. Aveva continuato a frequentare ogni lezione che poteva, trovando un sotterfugio dopo l’altro per uscire di casa.
Poi un giorno, alla conclusione di una lezione di chimica organica, la professoressa Levi lo aveva fermato prima che potesse uscire dall’aula: «Mi perdoni, giovanotto. Posso rubarle un minuto? Avrei una domanda da porle». Wylan ricordava ancora il terrore che lo aveva immobilizzato davanti all’anziana docente.
«Sarei davvero curiosa di sapere perché il mio miglior studente non è, nei fatti, un mio studente». La pausa che aveva seguito le parole della donna era stata una tortura. «Lei non è iscritto a questa università».
«No», confermò lui con un filo di voce. La sua mente aveva iniziato a immaginare la reazione di suo padre ora che era stato smascherato, l’ansia lo stava divorando.
«Mi chiedevo perché un giovane ragazzo, che non è uno studente presso la nostra istituzione, dovrebbe passare tutte le sue giornate ad eccellere nella mia materia. Come si chiama?»
«Wylan… Hendriks», mentì istintivamente. «Io… Mi dispiace, io… Volevo solo imparare. Mi dispiace di essermi introdotto illegalmente nella sua aula».
«Accetto le sue scuse, ma perché? Signor Hendriks, perdoni l’insolenza, ma non può permettersi la retta?» Wylan rispose scuotendo leggermente la testa. «Questa non è comunque una giustificazione. Abbiamo borse di studio che offriamo volentieri a studenti capaci come lei».
«Lo so, ma io… Non sono in condizione di fornire le mie generalità». Almeno questa non era una bugia: era vero che non poteva dare il suo vero nome e sicuramente non avrebbe potuto dare quello falso, si sarebbero accorti che non esisteva nessun Wylan Hendriks.
«Capisco», si era limitata a concludere la professoressa. Wylan era pronto a dire addio ai suoi giorni universitari, pensò che se l’era goduta finché era durata.
«Con permesso», fece per congedarsi con le lacrime che già gli inumidivano gli occhi per l'umiliazione.
«Aspetti, signor Hendriks», la professoressa lo chiamò un’ultima volta. «Sarebbe interessato a un lavoro?»
Ed era così che Wylan aveva firmato un contratto come inserviente nell’università di Ketterdam, un lavoro per cui i docenti, consapevoli della raccomandazione della professoressa Levi di cui godeva quello strano ragazzo, chiudevano un occhio ogni volta che lo trovavano con la scopa in mano in un angolo della classe più intento ad ascoltare la lezione piuttosto che a spazzare il pavimento.
Non c’erano molte persone gentili a Ketterdam, ma la professoressa Levi lo era stata con lui e Wylan non lo avrebbe mai dimenticato. Aveva accettato tutta la sua bontà: aveva imparato molto da lei e aveva messo a frutto i suoi doni. Con la lampadina aveva costruito quel suo congegno di sveglia silenzioso per non avvertire nessuno in casa delle sue sveglie notturne, mentre con il prototipo del fonografo che gli aveva mostrato era riuscito a creare un piccolo registratore automatizzato su cui aveva inciso se stesso che suonava il flauto, così da far credere che fosse in casa. Grazie alla combinazione di queste due cose poteva sgattaiolare fuori di casa ad ogni ora del giorno e della notte, così da andare a vendere le sue bombe artigianali nel Barile, la zona più pericolosa della città.
Spaventosa, certo. Ma la paga non è affatto male. E tu hai troppo bisogno di soldi per farti lo scrupolo di chiedere a cosa diavolo gli possano servire tutti quegli esplosivi. Si ripeteva Wylan anche quella notte.

L’umidità dei canali entrava fin dentro le ossa e il cielo di Ketterdam riusciva a mantenere un aspetto grigiastro anche nel buio. Wylan si strinse nel cappotto e cercò di scaldarsi con il ricordo del sogno di quella notte. Il cielo limpido e blu di Novyi Zem, il sole caldo che illuminava i campi di jurda e il ragazzo Zemeni dal sorriso spavaldo del suo passato che si divertiva a scolorirne i petali con il solo tocco delle sue dita. Se si concentrava abbastanza poteva ancora riportare alla mente l'esatta gradazione di grigio dei suoi occhi. Wylan non potè fare a meno di sorridere a sua volta ricordando quel ghigno soddisfatto che gli vedeva stampato in faccia ogni volta che si esibiva in qualche prodezza con i suoi poteri. Aveva pensato spesso a lui, a come quel ragazzo, sempre in movimento, sempre sorridente, fosse un po’ come la jurda con cui giocava: dall’aspetto splendido, come il suo fiore arancione, e dall’incontenibile energia, come la sostanza eccitante che, effettivamente, la jurda era.
Wylan sapeva che avrebbe avuto impresso per sempre nella memoria il momento in cui lo vide per la prima volta. Aveva appena otto anni, suo padre lo aveva da poco portato a Novyi Zem dicendo che l’aria buona gli avrebbe fatto bene ai polmoni, ma non ci volle molto perché Wylan capisse che era solo una scusa per toglierselo dai piedi. Erano passati pochi giorni dal trasferimento e Wylan stava esplorando il giardino della villa. Non aveva mai visto delle farfalle così colorate, a Ketterdam non c'era una natura così rigogliosa da attirarle, così aveva iniziato a seguirle incuriosito, tracciando con gli occhi i movimenti delle ali frenetici e delicati allo stesso momento. Una delle più belle si era appena posata su un fiore non troppo distante e Wylan si era avvicinato silenziosamente per non spaventarla, quando una voce dall’alto lo chiamò: «ehi!»
Sui rami di un albero abbastanza alto da superare la siepe che separava la proprietà dei Van Eck dall’esterno c’era appollaiato un bambino Zemeni. Disse qualcosa in una lingua che Wylan non conosceva.
«Scusa, non ti capisco», tentò comunque di rispondere.
«Parli Kerch?» Gli chiese il bambino con un sorriso smagliante e Wylan annuì. «Anche io! A casa parliamo Kerch e Zemeni, e poi so anche un po’ di Kaelish».
«Sono tante lingue», constatò Wylan mentre osservava il bambino dondolare su quel ramo come se cadere da lì non fosse un tuffo nel vuoto da circa tre metri di altezza.
«Mia ma’ dice che imparo in fretta. Mio pa’ invece non è tanto bravo, ha un accento strano quando parla Zemeni con ma’, però io lo capisco comunque quello che dice. Ma’ è Zemeni e pa’ è Kaelish. Io sono tutte e due».
Wylan non sapeva come rispondere. Non solo era sbalordito dallo stare conversando con un bambino in cima ad un albero, ma non era neanche mai stato abituato a parlare con altri bambini. Era sempre stato in mezzo agli adulti, dove l’unica cosa che poteva fare era tacere e le uniche parole ammesse erano “per favore” e “grazie”. Per fortuna sembrava che l’altro bambino avesse abbastanza energia per entrambi, passava da una frase all’altra senza riprendere fiato un attimo.
«Come ti chiami? Io mi chiamo Jesper. Jesper Fahey. Si scrive J-E-S-P-E-R F-A-H-E-Y. Però il secondo nome non te lo dico perché sennò mi prendi in giro».
«Io sono Wylan Van Eck».
«E come si scrive?»
«Non lo so», ammise Wylan vergognandosi un po’.
«Okay. Vuoi venire a giocare? Ti faccio vedere un posto dove trovo sempre i gusci delle cicale. Fanno super schifo». Wylan si sorprese della velocità con cui Jesper avesse sorvolato sulla sua confessione e fosse già passato al prossimo argomento, ma ne fu anche grato.
«I gusci? Intendi l’esoscheletro?»
«L’esoche? No, no. La cosa che fa schifo, quella che rimane attaccata agli alberi. Mio pa’ dice che se lo tolgono perché hanno caldo».
«Non credo che sia quello il motivo. Diventano troppo grandi per la corazza e fanno la muta».
«Ma che ti importa? Vieni o no?»
«Non posso uscire».
«Perché?»
«Mio padre non vuole che esca di casa».
«Perché?»
«Non lo so, non me l’ha detto».
«Quindi non puoi uscire?»
«No».
«Okay, allora vengo io». Non aveva dato un attimo a Wylan per reagire, Jesper si era immediatamente lanciato dal ramo cadendo a un metro da lui.
«Ti sei fatto male?» Gli era subito corso incontro.
«Solo una sbucciatura», rispose Jesper mostrando il ginocchio scorticato con ancora qualche frammento di sassolini nella pelle. «Ma lo rimetto a posto in un attimo», e con un gesto veloce della mano tutti i detriti erano spariti dalla ferita lasciandola pulita, anche se ancora sanguinante.
«Come hai fatto?» Wylan non riusciva a smettere un attimo di rimanere allibito davanti a qualsiasi cosa Jesper facesse.
«Sono zowa. Anche ma’ è zowa e sa fare un sacco di cose pazzesche. Però dice che mi insegnerà a fare tutto quello che fa lei».
«Che significa zowa?»
«Mi sa che in Kerch significa “benedetto”. Ma’ dice che negli altri paesi ci chiamano “grisha”. Vuoi vedere che cosa so fare con i legnetti? Ma’ mi ha fatto vedere come appiccicarli assieme. Andiamo a raccogliere tutti i legnetti che troviamo e ti faccio vedere». Poi lo aveva preso per mano e lo aveva trascinato per tutto il giardino alla ricerca di bastoncini e rametti con cui giocare. Wylan si era dimenticato completamente delle farfalle.

Wylan si concesse un sospiro nostalgico immaginando di avere dentro al naso il profumo dell’estate a Novyi Zem e non l’odore di alcol e fumo che impestava il Barile. Poi bussò su una porticina nascosta sul retro del Club dei Corvi: tre battiti veloci, una piccola pausa, altri due battiti veloci. Aspettò un altro secondo prima di spalancare la porta e infilarsi velocemente nella stanza buia.
«Sei in ritardo, Hendriks», Kaz Brekker non alzò nemmeno gli occhi dai fogli che stava leggendo. Non aveva neanche bisogno di fare il suo solito sguardo truce per risultare intimidatorio.
«Mi dispiace», bisbigliò Wylan avvicinandosi alla scrivania e piazzandoci in fretta tutto il materiale che aveva portato con sé. Esplosivi di ogni genere, fumogeni vari, anche qualche bomba luce ancora da testare sul campo.
«Non ci faccio niente con il tuo dispiacere. Arriva in orario la prossima volta». Kaz fece scorrere sul tavolo una busta da lettere. Wylan sapeva che all’interno ci avrebbe trovato il suo compenso e non una sola riga scritta, come tutte le altre volte che era stato lì. Eppure continuava a trovarlo ancora crudele. Manisporche, anche se inconsapevolmente, riusciva a puntare dritto alla sua debolezza.
«A quando la prossima partita?» Wylan non vedeva l’ora di andarsene.
«Avrai notizie dal mio Spettro», rispose lui facendo un cenno alla ragazza Suli seduta con grazia sul davanzale della finestra alle sue spalle. Wylan si accorse di lei solo in quel momento. Non era la prima volta che si sorprendeva della sua capacità di non dare nell’occhio, ma l’abilità dello spettro continuava a stupirlo.
«Grazie», afferrò velocemente la busta che lo attendeva sul tavolo e si voltò per andarsene. «Buonanotte», rivolse il saluto ad entrambi, ma solo la ragazza gli rispose con un lieve sorriso, Brekker era già tornato a prestare tutta la sua attenzione ai suoi affari.

La strada per tornare a Geldstraat sembrava sempre più lunga di quella che percorreva per andare al Barile. Eppure era la stessa, Wylan ne era consapevole. Sotto il cappotto stringeva forte la busta con i soldi. Appena tornato a casa li avrebbe nascosti al solito posto, sotto un’asse del pavimento che era riuscito ad alzare quanto bastava per nasconderci tutto quello che possedeva: il che non era molto.
Però sarebbe diventata una somma decisamente più cospicua una volta comprate le azioni di quella compagnia navale Shu che importava té di cui aveva tanto sentito discutere, mesi prima, suo padre e alcuni suoi colleghi del Consiglio dei mercanti. I signori in giacca e cravatta avevano passato la serata a fumare sigari e bere brandy questionando sul come e sul perché quella piccola compagnia fosse ancora viva in un mercato già saturo come quello del tè di Shu Han. I più avevano concluso la conversazione affermando che sarebbe stato un investimento inutile e che non avrebbe sostenuto ancora per molto la concorrenza delle ben più note compagnie. Quello che Wylan però sapeva e che tutti quei ricchi mercanti non sospettavano minimamente era che quella compagnia non si limitava al trasporto di tè, ma era specializzata nel rifornire il Barile di oppiacei e sostanze allucinogene che erano molto in voga nella parte malfamata della città.
Mentalmente ripassò tutte le cose che avrebbe dovuto fare l’indomani mattina: svegliarsi alle cinque; andare silenziosamente nella camera della musica e impostare il contaminuti collegato al fonografo, perché alle nove esatte si azionasse la registrazione di se stesso che suonava il suo flauto; correre al quartiere universitario e passare le successive quattro ore a pulire le aule e i bagni della facoltà di medicina e chimica farmaceutica, origliare quanto gli fosse possibile; chiedere alla professoressa Levi qualche consiglio su come migliorare la formula della sua bomba luce senza farle capire che stava realizzando e vendendo armi illegali; rifornirsi di tutti i materiali necessari per la prossima consegna da preparare per gli Scarti; passare in banca per investire circa un terzo dei suoi risparmi; infine, tornare a casa per mezzogiorno in punto per presenziare al quotidiano pranzo con suo padre in cui si sarebbe sentito ripetere che non sarebbe mai riuscito a fare niente nella vita se non soffiare nel suo stupido piffero.
Wylan fece un respiro profondo e imboccò l’ultima curva per arrivare alla residenza Van Eck. Era davvero stanco, ma non poteva assolutamente riposarsi. Anzi, doveva muoversi in fretta, non aveva molto tempo. Nel giro di tre settimane suo padre gli avrebbe annunciato che sarebbe andato a studiare musica a Belendt, lui avrebbe accettato entusiasticamente la notizia e poi avrebbe corrotto chiunque suo padre avesse assunto per ucciderlo con quel pretesto così prevedibile.
Per tutta la sua vita Wylan aveva disperatamente desiderato che suo padre smettesse di sottovalutarlo, che si rendesse conto che non era un idiota. Ma poi aveva lo aveva origliato organizzare il piano del suo assassinio e si era detto che, in fondo, non era una cosa così sconveniente che suo padre fosse così cieco davanti alle sue capacità cognitive. Sarebbe stato molto più semplice sopravvivere se Jan Van Eck avesse continuato a credere di avere un figlio troppo stupido per difendersi.

  
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