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Autore: Nina Ninetta    17/07/2023    4 recensioni
Anita è una studentessa di 16 anni che vive un profondo disagio sociale e se ne sta fin troppo spesso per conto proprio. Completamente sola, all’inizio del terzo anno, si trasforma nella vittima perfetta di un gruppetto di bulli che la vessa con dispetti e insulti di ogni genere. Il peggiore fra tutti, secondo Anita, è Stefano: un ragazzo scaltro e intelligente che sa usare fin troppo bene le parole, cosa in cui anche lei è brava! Qualsiasi altra persona, al posto di Anita, si sarebbe lasciata avvilire da questa situazione, ma non lei, poiché non si sente affatto sola, c’è il suo migliore amico a darle man forte: ȾhunderWhite! Un ragazzo con cui chatta ormai da tempo e che ha conosciuto in rete, su un sito per giovani scrittori come lo sono loro! Sebbene vivano nella stessa città, Torino, non si sono mai incontrati di persona, fin quando ȾhunderWhite non sente il desiderio di vederla dal vivo...
Questa storia partecipava alla challenge “Gruppo di scrittura!” indetta da Severa Crouch sul forum “Writing Games - Ferisce più la penna” - aggiornamenti ogni 15 giorni.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ȼapitolo Ǫuattro
Ⱥ Ȼappella
 

 
Anita attese di sentire la porta d’ingresso chiudersi, segno che suo padre era uscito per andare al lavoro, e la casa tornò nel silenzio immobile del mattino. Prima che sua madre si alzasse sarebbe trascorsa mezz’ora almeno, perciò doveva sbrigarsi. Si levò dal letto e accese il computer, muovendo la gamba destra su e giù in un moto di nervosismo, mentre nella penombra della sua camera bisbigliava:
«Muoviti. Muoviti. Muoviti.» Simile a un mantra. Quel pc era sempre più lento nell’accensione, ormai aveva qualche annetto e lei lo aveva usato e rimpinzato di file come un tacchino il giorno del ringraziamento.
Voleva solo controllare se ȾhunderWhite le avesse lasciato un messaggio o aggiornato la sua storia. A volte lo faceva, si trovava messaggi che le aveva inviato di notte, mentre lei dormiva, e li leggeva solo di pomeriggio. Ma iniziare la giornata con un pensiero che Ⱦhunder aveva avuto per lei era ciò che di meglio poteva augurarsi. Considerando le lunghissime ore che l’attendevano in quella giungla di scuola.
Tuttavia, non c’era niente. Né un messaggio su Messenger, né un nuovo capitolo, ovviamente. La sera precedente le aveva detto che sarebbe uscito con gli amici (e delle amiche), perché mai avrebbe dovuto pensare a lei?!
Spense il computer, prima che sua madre la beccasse lì davanti: era contraria alla tecnologia, sosteneva che bruciasse il cervello e facesse diventare stupidi. Anita era riuscita a convincerla di comprargliene uno solo perché l’aveva persuasa che era ormai indispensabile per la scuola e lo studio. Che non era una bugia vera e propria. L’utilizzo interpersonale, con i forum e le chat, era arrivato dopo.
Sentì sua madre muoversi in cucina, riconobbe il rumore di acciaio della macchinetta del caffè e del pentolino per scaldare il latte, poi la voce del meteorologo che annunciava sole su tutta la penisola. Anita sospirò, fissando lo schermo scuro del monitor: un’altra giornata – di merda! – era appena cominciata!

 
*
 
Quella mattina Alessia aveva indossato dei pantaloni attillati strappati in più punti, mentre la parte superiore del corpo era coperta da un top fucsia che lasciava scoperta la pancia piatta e una giacchetta di jeans corta in vita. I capelli schiariti dal sole primaverile erano lisci e setosi, sembravano muoversi a ritmo con la camminata sinuosa della padrona. Anita, al suo fianco, pareva letteralmente surclassata dallo charme naturale della sorella minore. Aveva indossato la stessa felpa del giorno precedente e un jeans informe e troppo largo sulle gambe. Come al solito, ascoltava musica dalle cuffie per evitare di sentire le chiacchiere puerili di Alessia, ma notando il capannello di ragazzi proprio davanti ai cancelli della scuola si tolse le auricolari e spense il lettore mp3, riponendolo al sicuro nella tasca anteriore della maglia. D’istinto le spalle s’ingobbirono e il passò accelerò, sperando vivamente che Fabio Morini e Stefano Parisi non cominciassero già a infastidirla. E, in un certo senso, non lo fecero, semplicemente tacquero al suo passaggio, ma non a quello della bella Alessia. Fabio fischiò di apprezzamento squadrando quest’ultima da capo a piedi:
«Ehi, Lentini, non mi presenti questo angelo caduto dal cielo?!»
Alcune risatine si levarono dall’allegro gruppetto di compagni. Alessia rallentò, voltandosi indietro e sorridendo:
«Attento! Non sono un angelo» lo provocò.
«Ah, no? Allora sei un diavoletto?» Continuò Fabio.
«Chissà…» fece ancora Alessia, quando si sentì afferrare per un braccio e strattonare in avanti in maniera non proprio delicata.
«Ma sei scema?!» Anita le parlò all’orecchio con toni bassi e perentori, trascinandola con sé all’interno dell’istituto Ferraris.
«Ma che vuoi?!» Alessia si liberò dalla presa, infastidita. «Sei pesante! Non erano amici tuoi quelli?»
«Non ho amici io!»
«E ci credo!» Esclamò ancora la più piccola delle due, poi la campanella trillò, invitando gli studenti a raggiungere la propria sezione.
Anita sospirò, dividendosi dalla sorella e osservando la rampa di scale che la separavano dalla sua classe. Gli altri alunni scemavano intorno a lei, in risate chiassose e saluti gridati. Avrebbe voluto trovarsi ovunque, tranne che lì. Aveva una brutta sensazione, come se qualcosa stesse per succedere, ma non le diede peso: in fondo cose sgradevoli le capitavano tutti i giorni da quando era diventata la preda preferita di quel gruppo di iene. Perciò inforcò le auricolari e prese a salire i gradini lentamente, rasentando il muro, la testa china.
La prima anomalia che registrò entrando in classe, fu vedere Stefano Parisi che chiacchierava con Barbara Scala amichevolmente. Troppo amichevolmente. E Barbara era completamente in estasi. Le stava passando in sordina un foglietto bianco, ripiegato, attento a non farsi notare dagli altri, poi lo vide chinarsi in avanti per sussurrarle qualcosa all’orecchio, senza tuttavia lasciare la presa sul pezzo di carta. Lo fece solo quando lei annuì più volte a qualcosa che lui le stava chiedendo. Era arrossita la splendida Barbara, dall’attaccatura dei riccioli biondi alla scollatura della t-shirt che indossava.
Che le stesse dando il suo numero di cellulare? O era un invito galante?
Anita intercettò lo sguardo di Giulia Mazza seduta al banco con Barbie, ma non riuscì a decifrarlo, soprattutto perché non erano in confidenza (d’altronde non lo era con nessuno). Poi il professore di religione entrò, ordinando a tutti di prendere posto. Solo allora Stefano si voltò per tornare al proprio banco e, nel farlo, la guardò – Anita era ancora ferma sulla soglia della porta – strizzandole l’occhio come faceva spesso, in un gesto di sfottò, e lei intuì che aveva architettato qualcosa.
«Signorina Lentini, vuole rimanere sull’uscio quest’oggi?»
Anita si scusò con il docente e si accomodò al proprio posto, con tutti i sensi in allerta. Pensò di svuotare la borraccia dell’acqua in bagno prima che lo facessero gli altri nella sua borsa; soppesò anche l’idea di mangiare i suoi cracker per evitare che Fabio li sgretolasse con un piede. Stava pensando a questo, e a tante altre cose, quando il professore si sistemò alla cattedra e, dopo aver fatto l’appello e recitato un Padre Nostro – il docente era anche un sagrestano della parrocchia della Santissima Addolorata –, disse loro di aprire il libro a pagina 56.
Anita pescò il libro di religione senza voltarsi indietro, ma torcendo il braccio e infilando la mano nello zaino. Lo riconobbe a tentoni, essendo il più sottile di tutti, così lo tirò fuori e un foglio volò ai piedi della scrivania dell’uomo di chiesa.
Un silenzio tombale calò nella classe, mentre il professore si alzava in piedi e si accostava al pezzo di carta caduto dalle pagine del libro. Anita scattò dalla sedia e si affacciò oltre il banco, sbiancando. Il resto della classe la imitò, troppo incuriositi da ciò che ritraeva l’immagine sul foglio.
«No!» Disse solo la ragazza, provando ad arrivare al foglietto prima del docente, però, nel tentativo goffo dettato dalla fretta, fece per inciampare, riuscendo a sorreggersi allo schienale della sedia un attimo prima di ruzzolare sul pavimento. Intanto, le risate e gli sfottò non si contavano più. Era scoppiato il finimondo!
Gli occhi verdastri e spauriti di Anita incontrarono quelli irridenti di Stefano Parisi, che sghignazzava sotto i baffi, con la sua solita aria soddisfatta, mentre Fabio era rosso in viso a causa delle risa trattenute e poi esplose. Solo Stefano non rideva, ma lui non lo faceva mai. Sghignazzava, sorrideva sornione, sembrava sfidarla con lo sguardo, ma non rideva mai di gusto agli scherzi idioti che progettava.
Allora Anita capì: il foglietto che Parisi aveva passato a Barbara non era il suo numero di telefono o un invito formale a uscire con lui. Era qualcosa che le doveva mettere nello zaino. Voltò l’attenzione sulla ragazza bionda, che ora pareva dispiaciuta e desolata. La vide formulare un “mi dispiace” con le labbra imbrattate di rossetto rosa e Anita la detestò.
«Signorina Lentini!» Tuonò il professore. «Che cosa ha in testa?» Il sagrestano appallottolò il foglio, rosso in viso, urlando a tutti di fare silenzio! Di stare zitti!
«Professore, non so come quel foglio sia finito nel mio libro» cercò di discolparsi Anita, tornando a sedersi.
Che vergogna, intanto pensava. Che vergogna! E se il professore non l’avesse creduta e avesse telefonato ai suoi genitori? Che vergogna!
«Io non lo so se è davvero suo o di qualcun altro! Ma il libro, certo, è il suo!»
«Professore, forse la Lentini voleva solo approfondire lo studio della cappella» intervenne Stefano, sollevando un’altra ondata di ilarità fra i compagni e di nuovo il professore fu costretto ad alzare la voce.
Anita strinse i pugni sotto al banco, con la testa bassa, piena di imbarazzo e di timore che sarebbero stati avvertiti i suoi. Le avrebbero creduto? Suo padre sicuramente, ma sua madre? E se le avesse tolto il computer credendo che avesse preso quella foto volgare dalla rete? Come avrebbe fatto poi a chattare con Ⱦhunder? A scrivere e pubblicare la sua storia? Doveva difendersi, non poteva permettere a Stefano di influenzare anche la sua vita privata, oltre a quella scolastica. Non gli avrebbe permesso di mettere a rischio la sua amicizia con Ⱦhunder, seppur involontariamente.
«Forse l’approfondimento della cappella interessa più a te, visto che il foglio è il tuo» bisbigliò lei, stringendo i pugni così forte da far sbiancare tutte le dita.
«Come?» Stefano sollevò una mano per zittire le risate sguaiate di Fabio e degli altri, cosa che neanche il docente era riuscito a fare.
«Ho-ho detto che forse l’approfondimento della cappella interessa te, visto che il foglio è tuo e non mio» ripeté Anita e poiché non sentì alcun insulto arrivare dal gruppetto di bulli, si azzardò a sbirciare nella loro direzione, incrociando lo sguardo divertito di Stefano che le indirizzò subito un bacetto con le labbra, accompagnato da un occhiolino.
«Signorina Lentini, sono costretto a metterle una nota e far presente la situazione al preside. Sarà lui a decidere se avvertire i suoi genitori» aggiunse il docente, tornando a sedersi alla scrivania.
«No, professore, per piacere! Quella cosa non è mia, non sono stata io a…»
«Lentini!» L’uomo di chiesa batté un palmo sulla superficie della cattedra e la guardò fissa negli occhi. «Cosa ci insegna Gesù?» Anita chinò il capo e non rispose, sull’orlo delle lacrime. Perché finiva sempre così? Perché doveva passare lei per la cattiva?
«Cosa ci insegna Gesù?» Questa volta il professore di religione si rivolse al resto della classe.
«A porgere l’altra guancia» rispose Stefano, prendendosi un bravo dal docente e una pacca sulla schiena da Fabio.
Barbara Scala si sentiva tremendamente in colpa, dunque si sporse in avanti e allungò una mano per sfiorare la spalla di Anita, la quale si scostò con rabbia, mentre l’altra le chiedeva scusa.


 
*
 
Quando Giovanna Dell’Arco entrò nella sala professori, vide che alcuni di loro erano chini su un angolo del lungo tavolo a parlottare, ridacchiare e fare battutine inappropriate. Perfino il preside, un uomo sulla sessantina, era tra questi. Incuriosita, lasciò le sue cose su una sedia e si avvicinò, sbirciando al di sopra della spalla del professore di matematica e di quello di religione, l’unico seduto alla scrivania. Solo allora notò un pezzo di giornale strappato, evidentemente preso da uno di quei giornaletti hot da quattro soldi, che ritraeva una donna di spalle nell’atto di praticare del sesso orale a un uomo accomodato su di un divano, di cui non si vedeva la faccia poiché la foto si concentrava dall’addome (scolpito e oliato) in giù.
«Ma che cos’è?» Chiese, afferrando il foglio e osservando nel dettaglio la scena.
«Te lo dobbiamo spiegare?» Scherzò il professore di matematica, beccandosi un’occhiataccia dalla docente di italiano. Nessuno rise.
«L’ho sequestrato alla Lentini. Ci crederesti mai?» Fece il sagrestano, chiedendo poi al preside se fosse il caso di avvertire la famiglia.
«No» intervenne prontamente la Dell’Arco. «Signor preside, la studentessa in questione è un’alunna modello, ma sta attraversando un periodo difficile. Alcuni compagni l’hanno presa di mira e molto probabilmente questo foglio non è veramente suo. Sarà stato un altro stupido scherzo dei ragazzi della classe.»
«La Lentini deve imparare a difendersi da sola. Se vogliamo aiutare tutti gli studenti in difficoltà, andiamo al manicomio» fece il professore di matematica, con superficialità.
Giovanna Dell’Arco non diede peso alle sue parole, sapeva di non potersi aspettare nulla da lui: un uomo poco empatico che si era ritrovato a fare l’insegnante per una serie di ragioni che non aveva scelto.
«Quindi, professoressa, lei cosa propone?»
«Ho carta bianca, signor preside?»
«I ragazzi di oggi non hanno regole! Vanno indottrinati!» Esclamò il docente di religione.  Ma di nuovo Giovanna non badò alle parole di un collega, tenendo gli occhi fissi sul preside e il foglietto stretto nelle mani.
«Faccia che vuole, ma non mi crei problemi!» furono le ultime famose parole del massimo dirigente dell’istituto Ferraris.
 
La professoressa di italiano Giovanna Dell’Arco si recò a grandi falcate nella classe di Anita Lentini, bussò con le nocche sulla porta per annunciarsi ed entrò. Elia Morales, l’insegnante di spagnolo, era adagiato con il bacino al bordo della cattedra e stava leggendo un testo con i suoi alunni. La guardò con aria perplessa e ammirata. Giovanna aveva un’aura solenne che le donava una compostezza di rara bellezza. Indossava una corazza impenetrabile, forse per proteggersi dagli altri o dai colleghi che alle sue spalle tendevano a prenderla in giro.  
«Giovanna» Elia Morales tornò in posizione eretta. «È successo qualcosa?»
«Sì» disse la donna, acconciandosi un ricciolo color rame che era sfuggito alle forcine, quindi si mosse in direzione della lavagna e con una puntina attaccò il pezzo di giornale alla cornice di legno, in modo che fosse ben visibile a tutti. Elia si allarmò, arrossendo come un ragazzino:
«Giova… professoressa Dell’Arco, ma che cosa-»
Giovanna lo fermò mostrandogli un palmo, poi si rivolse alla classe.
«Lo riconoscete?»
Calò il silenzio. Anita Lentini, da sola al primo banco, chinò il capo. Barbara, alle sue spalle, tentò di nascondervisi dietro, mentre Giulia Mazza sbadigliava. Anche Stefano Parisi provò a scomparire, lasciandosi scivolare sulla sedia. Fabio, seduto accanto a lui, divenne improvvisamente serio, imprecando in un sibilo.
Giovanna Dell’Arco non era l’inetto di religione, né il professore di matematica che teneva la sua lezione e arrivederci e grazie. Né tantomeno il docente di spagnolo, fin troppo amichevole con i suoi alunni. Giovanna Dell’Arco era una professoressa vecchio stampo, tutta d’un pezzo, che li ammorbava da anni con i valori morali degli autori che spiegava, dei diritti dell’essere umano che non andavano mai violati, delle guerre tutte ingiuste e dei tanti uomini e donne che erano morti per un ideale. Li avrebbe sfiniti con domande stile interrogatorio fino a carpire come quel foglio fosse finito in quella classe e nello zaino della Lentini. Inoltre, Barbara Scala avrebbe confessato in lacrime, Stefano ne era sicuro.
«Allora?» Li incalzò l’insegnante, battendo la punta di una penna sull’immagine. Ancora silenzio assoluto e imbarazzato. «Niente? Nessuno sa dirmi come si chiama questo atto?» I presenti non ebbero il coraggio di alzare lo sguardo o rispondere. «Bene, allora per domani mi farete una ricerca sull’argomento» concluse la docente, pronta a riprendersi il foglio, quando Giulia Mazza sbottò:
«Io ‘ste schifezze non le faccio!»
Giovanna si voltò a guardarla:
«Prego?»
«Diglielo, Barbie! Di’ la verità!»
Barbara Scala avvampò, fissando male la sua compagna di banco e scuotendo il capo con veemenza.
«È stata lei, professorè!» Continuò Giulia, indicando la bella ragazza bionda alla sua destra. «È stata lei a mettere il foglio nel libro della Lentini, costretta da Parisi!»
«Ehi!» Stefano batté un palmo sul banco.
«Ma che stai dicendo! Stai zitta, scema!» Fabio Morini balzò in piedi, facendo cadere la sedia sul pavimento e urlando in direzione di Giulia Mazza, con un braccio proteso in avanti.
«Forse non vi è chiaro» fece la professoressa di italiano, il tono calmo e austero. «Io non vi ho chiesto di chi è questo foglio o chi l’ha messo nel libro di chi. Io vi ho chiesto di fare una ricerca inerente al gesto ritratto qui» così dicendo sventolò il foglietto. «Sarete stupiti di scoprire la storia che può esserci dietro a un atto tanto antico.» S’incamminò verso la porta, poi si fermò e aggiunse: «Ah, ricordatevi che questo compito farà media coi voti.»
Dalla classe si levò un no contrariato, sbuffato.
«Professoressa, posso parlarle un momento» Elia Morales abbandonò il libro di letteratura spagnola sulla scrivania e si mosse nella direzione della donna, la quale tuttavia scosse la testa.
«No, mi dispiace, per oggi ho finito e ho degli impegni. Buona lezione!» Uscì, lasciando il giovane professore di stucco e con l’ingrato compito di placare gli animi degli alunni.


 
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