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Autore: aurora giacomini    19/07/2023    1 recensioni
La scomparsa di una persona cara, l'incontro con una ragazza misteriosa: piccoli e grandi misteri si mescolano al dedalo di emozioni, di rapporti interpersonali e intrapersonali nel tentativo di capire cosa sia vero e cosa no, cosa reale e cosa no.
A narrare il ricordo è Andrea, ora adulta, che ricostruisce e prova a ricordare cosa significhi essere nell'età più confusa e magica dell'esistenza.
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11 Capitoli per 42,7oo parole circa
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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      Due

 

 

Per far prima usai direttamente il torrente, tanto l'acqua si faceva man mano più bassa: il letto si allargava. E me ne fregai di passare proprio davanti al Luigi, seduto nella veranda sul retro. Credo mi abbia urlato qualcosa che comprendeva le parole ''genitori'' e ''Carabinieri''; ma in quel momento non me ne importò proprio: ero super preoccupata per la Lilla.

Lilla era una rompiballe come poche, ma le volevo bene e avrei fatto di tutto per lei, anche se non gliel'avrei mai detto; non negli anni della cosiddetta innocenza. Era piccola e fragile, e io sentivo l'innato desiderio di proteggerla; tanto per cominciare, nessuno poteva azzardarsi a trattarla male, solo io e solo a parole - che poi sono quelle robe che fanno più male: non lasciano il segno fuori, ma dentro ci mettono tanto a guarire, quando ci riescono. Il solo pensiero di andare da lei e dirle: “Lilla, ti voglio bene”, mi mandava in crisi. La crisi dell'imbarazzo più totale e catastrofico! Per lo stesso motivo, due o tre anni prima, avevo smesso di dirlo al papà e alla mamma.

Quando il papà mi aveva presentato la Patrizia, la Lilla era già dentro di lei: sapevo già, al tempo, cosa significasse quel pancione e come si fosse gonfiato. Mamma mi aveva fatto il discorso in quarta elementare, poco prima che iniziasse la separazione col papà; era stata una cosa come: “Quando un maschietto e una femminuccia diventano curiosi...” e poi era scesa abbastanza nei dettagli, usando comunque termini pseudoscientifici. Pensandoci, le ero grata per avermi fatto quella lezione quando ancora guardarla negli occhi, mentre mi diceva cose importanti e profonde, non mi metteva a disagio. Al tempo pensavo ancora che i genitori sapessero tutto, che fossero perfetti e infallibili, di conseguenza i loro discorsi erano preziose lezioni di vita. 

Ricordo ancora con quanta spudorata disinvoltura aveva usato la parola “sesso”, spiegandomi che non c'era assolutamente nulla di male e che, con la morte, è la roba più naturale della vita. Papà la vedeva diversamente: quando il termine era piombato nella stanza, lui si era improvvisamente ricordato di aver finito le sigarette... e lui non ha mai fumato in vita sua.

Comunque, io quelle robe non le avevo mai fatte e, man mano che passava il tempo, mi convincevo che non le avrei fatte con un ''maschietto curioso''.

 

Ero nei pressi del mulino, ormai, e lì rallentai un po'; non perché la sorte della mia sorellina mi fosse improvvisamente indifferente, proprio il contrario: magari era arrivata fin lì.

Le calze e le scarpe zuppe mi facevano slittare di continuo i piedi: ormai avevo le dita massacrate, a suon di sbatterle contro la punta, e il ginocchio mi mandava fitte bianco-gialle. Quel senso di disagio incrementò quello che avevo dentro, quello del palloncino argentato che stava schiacciando il mostriciattolo d'un lato.

Aguzzai la vista, per vedere se scorgevo la bicicletta lillà: in quel mare giallo e verde avrebbe dovuto essere facile, no?

E se un furgone avesse preso su lei e la bici? E se l'ultima cosa che ha sentito da me è ''sorellastra''? Oddio, che roba orribile... che persona orribile, sono!

Ingollai le lacrime - anche se una mi scivolò comunque sulla guancia - e il groppo in gola, rimettendomi a correre. Puntai direttamente al vecchio mulino, nel vicino orizzonte: magari si era rifugiata lì, in attesa che la trovassi.

Rivivendo quei momenti ora - quindici anni dopo - continuo a chiedermi quale meccanismo mi abbia impedito di chiamarla, quale forza abbia impedito alla mia gola di emettere mezzo suono. 

Non sarebbe cambiato molto, comunque: solo l'inizio di una determinata interazione.

 

Ricordando per miracolo di piegarmi, feci irruzione.

«Te la lì, mea!», esclamò Federico, sfoggiando le sue origini genovesi. «Belin, fino a Gemona, ancora un po', per vedere di trovarti!» 

In quel momento, nonostante tutto, mi passò per la testa che la Liguria confinasse con la Francia.

«Avete visto la Lilla?», chiesi, ricordando le mie priorità e dimenticando di essere incazzata come una vipera.

Fede e Mario, che erano seduti sulla macina ed erano intenti a giocarsi una Briscola a lume di candela, si scambiarono uno sguardo.

«La Lilla è a casa: l'abbiamo vista prima», mormorò Mario. «Mi dispiace per tua madre, Andrea», aggiunse, con lo stesso colore.

Il palloncino aumentò improvvisamente di dimensioni, come se qualcuno avesse avuto uno scatto d'ira e avesse soffiato forte, fortissimo: mi schiacciò mostriciattolo e diaframma, facendomi venire voglia di rimettere.

«Madre...?», gli feci eco. Fu un suono incerto e strozzato, carico, no, grondante di terrore e disagio. «Che c'entra mia madre?!»

«Eeeh...» fece Fede, alzando le spalle.

«Forse è meglio se torni a casa, sai?», mi consigliò Mario, che era in assoluto quello più dolce e pacato del trio. «Ti ho rimesso su la catena...» aggiunse, indicando il muro dove la mia bici rossa era stata appoggiata; mentre lo faceva, vidi del grasso marrone scuro sul suo avambraccio. 

Quella striscia scura fu l'ultima cosa. 

Poi è tutto nero: non ricordo di aver preso la bici, non ricordo di essere uscita e non ricordo neppure come fossi arrivata alla Collina dei Salti, dove la memoria riappare.

 

Il ginocchio mi bestemmiava dietro, perché a pedalare mi faceva due volte più male che a correre, ma non avrei rallentato!

Volevo prendere il cellulare - che nel frattempo aveva suonato due volte - ma ogni volta che partivo con l'intento, una colonna squadrata, forse d'acciaio, mi passava dalla sommità del capo allo stomaco. Non potevo reggere in contemporanea il palloncino e la colonna, o avrei perso i sensi.

La testa scoppiava di pensieri, immagini e forme aguzze; per non impazzirci dietro, o forse perché era una sensazione forte, mi concentrai sulla fronte e la sella del naso, che mi formicolavano come se delle efelidi si fossero trasformate in formiche esagitate e mi fossero penetrate fin dentro: dovevo aver pianto, una roba violenta, perché quella cosa la sperimentavo - a volte la sperimento ancora - quando le emozioni mi travolgono, il pianto si fa dannato e la respirazione collassa nel caos.

Avevo pianto, sì, ma non sapevo esattamente perché: “Mi dispiace per tua madre” è così generico. “Mi dispiace che tua madre stia male”, “Mi dispiace che tua madre abbia avuto un incidente”, “Mi dispiace che tua madre sia-”

No, neanche da provare a concludere quella frase!

Mi sentivo... Come definire la cosa? Diversa da come mi ero sentita fino a quando pensavo che fosse Lilla il problema, perché era un'ipotesi che avevo decorato con paure e quant'altro; avevo fatto tutto da sola. Più spaventata, ecco. Mentre per mia madre - qualunque cosa fosse successa - era... tangibile? Perché uscita dalla labbra di qualcuno esterno a me? Credo di sì.

Non avevo neppure avuto il tempo di provare sollievo per Lilla, pensandoci, che... bam!, mia madre. Mia madre cosa? Lo ignoravo e, come per Lilla, la cosa lasciava spazio a immagini e pensieri. Tante immagini, tanti pensieri. Tanta paura. E ora avevo un motivo per avere davvero paura, perché le ipotesi avevano ceduto il passo alle parole: cose che hanno un loro suono e colore, una loro forma, un loro odore... sono concrete, perché al tatto mi danno una sensazione, cosa che i pensieri non fanno.

 

Mi fermai sulla collinetta: un'altura con un dislivello di cinque, forse sei metri, non di più, cui sotto c'era la mia casa, sola e circondata dal verde: un tempo era un agriturismo, ma il papà e la Patrizia l'avevano riconvertita a dimora quando avevano capito di fare sul serio, ovvero quando mio padre era ancora sposato con mia madre...

Nel vasto cortile davanti casa c'erano la Peugeot 2o6 ramata di papà, la Panda verde chiaro di Pietro e la bicicletta nera della Patrizia. La Panda mi allarmò, perché era sabato pomeriggio e il Pietro doveva essere a lavoro; la bicicletta mi calmò, perché, per un momento, considerai che la Patrizia non andava da nessuna parte senza quella bici - non valutai che a uno le cose possono succedere anche in casa, mi rendo conto. Ma poi mi ricordai che lei non era mia madre; nessuno aveva mai provato a definirla così: lei era uno dei miei tutori, la moglie di mio padre, un'adulta calma e responsabile. Era la Patrizia. Ma non era mia madre.

Ci volle tempo e volontà per alzare il piede e rimetterlo sul pedale, per lasciare che discesa e alluminio mi portassero alla verità.

 

Mollai la bici vicino quella della Patrizia con una certa delicatezza: in quel momento, un rumore forte mi avrebbe rotto qualcosa dentro. Quel qualcosa che forse mi spingeva a indagare, invece di scappare via, fingere che fosse solo un sogno, magari tornare da Nevrè. Mi consolò pensare a lei; mi fece addirittura venir voglia di sorridere e sentii un formicolio allo stomaco, appena sopra il palloncino. Durò poco: fu ucciso dal senso di colpa e inadeguatezza.

Scrollai braccia e mani, che mi formicolavano come fossero addormentate, e, a piccoli passi, avanzai verso la porta d'ingresso.

 

Nonostante l'ora, Peppa Pig non mi trapanò i timpani con le sue urla e il suo grufolare enfatico; mi arrivò appena, nel silenzio irreale di quella casa che improvvisamente mi pareva estranea e minacciosa, come se le avessero strappato via l'anima, o ci fosse ancora, ma non riconoscesse la mia. Mi sentii un'intrusa e la voglia di fare dietro front si fece quasi imperativa.

Non lo feci.

Attraversai il piccolo atrio e, ignorate a malincuore le scale che conducevano alla sicurezza della mia cameretta, mi voltai a destra, verso il salotto.

Erano tutti lì.

Lilla fu la prima che guardai: se ne stava seduta sul tappeto, a un metro o meno dalla TV, dove la maialina faceva cose con un albero, forse un melo, forse un ciliegio. Aveva gli occhi rossi, il naso e il labbro superiore umidi di muco. Accanto a lei c'era anche Leonardo, che era impegnato a leccarsi l'asterisco.

Al tavolo c'erano seduti il papà e la Patrizia. 

Mio padre si era tolto gli occhiali - cosa che mi diede fastidio, perché era un ulteriore dettaglio fuori posto - e una vena verdastra gli partiva da sopra l'orecchio, gli attraversava la tempia e gli svaniva nell'attaccatura dei capelli biondastri, ormai ingrigiti. La Patrizia, accanto a lui, si limitava a strofinargli l'avambraccio e lo guardava come fosse un uccellino ferito.

Sul divano, dietro la Lilla, c'erano il Pietro e la Francesca. 

Fu con quest'ultima che incrociai lo sguardo, dato che si voltò, forse cogliendo un movimento con la coda dell'occhio. Nonostante il momento, Masini ci tenne a sussurrarmi: “Bella stronza, che hai distrutto tutti i sogni della donna che ho tradito...” Sì, era bella pure con la ricrescita nera, sotto il rosa shock.

«Eccola», annunciò, senza smettere di guardarmi, come se perdermi di vista avesse potuto comportare il farmi svanire o trasformarmi in qualcosa di piccolo e strano, che sarebbe potuto scappare o infilarsi in una crepa. O forse voleva solo la gloria di avermi scovata e catturata. Come una regina cattiva, mi teneva ferma con il potere del suo charm.

Tutti gli occhi furono d'improvviso su di me; perfino quelli giallo-verde di Leonardo, che di solito mi cagava solo quando aveva fame. L'annuncio di Francesca aveva interrotto la sua toilette, forse troppo bruscamente, dal momento che rimase storto e con un buon mezzo centimetro di lingua di fuori.

Avrei voluto gridare loro di non guardarmi, di disperdersi, di non fare così, di non essere così radunati e statici: mi dava contro, mi allarmava, mi soffocava!

«Andrea!», esclamò Lilla, che mi corse incontro e mi abbracciò la gamba. Quella reazione, quel gesto mi diede una strizzata al cuore: l'avevo trattata male e l'avevo scaricata come spazzatura; ma lei si comportò esattamente come un cane: non importa quanto gli dai giù, quello continuerà ad amarti e venerarti. Mi fece male, mi fecero male entrambe le cose: Lilla e l'immagine di un cane maltrattato. Mi venne voglia di piangere e le formiche sulla sella del naso mi ostruirono la via respiratoria. Mi trattenni e le posi una mano sulla sommità del capo.

«Andrea», mormorò mio padre, che aveva ora la voce marrone e mi ricordò un vecchio giradischi. «Vieni qui, dai.»

«Sto bene qua», replicai, sentendo il palloncino muoversi o gonfiarsi. 

Dovevo aver emanato qualcosa di nero o verde estremante scuro; era sceso dalla mia testa come una specie di nebbia - tipo quella che si manifesta quando apri il freezer - ed era finito su Lilla, che si staccò da me per correre da lui e farsi prendere in braccio. I bambini, proprio come i cani, le sentono certe cose, secondo me.

«Purtroppo, la mamma»

Boom! 

Il palloncino era tuonato: un'esplosione di coriandoli bianco-argentati che si sparsero per tutto il petto, fino alla gola e poi dietro, scivolando lungo la spina dorsale, gelidi e aguzzi. Le tempie bruciarono acide e roventi mentre il resto del cranio si faceva gelido. Mi mancò il respiro e il cuore dimenticò di battere per un istante, per poi accelerare bruscamente. Ebbi la sensazione di cadere su me stessa, come se non avessi più le ossa delle gambe.

Tutto questo avvenne nella frazione di secondo che impiegò a concludere la frase:

«è nei guai.»

Tre parole con un effetto micidiale prima, tre parole con effetto opposto poi.

Nei guai, non morta... nei guai, non morta... mi ripetei mentre assaporavo il sollievo, che era un vapore arancione, tiepido; quasi mi tolse le forze, come quando ti immergi nell'acqua calda. Ebbi la tentazione di abbandonarmici, ma se l'avessi fatto probabilmente sarei svenuta.

«Hanno trovato la sua automobile sulla statale, vicino la Conad, ma non trovano lei», continuò mio padre, guardandomi senza vedermi davvero; seriamente, ebbi la sensazione che mi guardasse attraverso e che la credenza dietro di me, comunque, non gli interessasse davvero.

Non ebbi problemi a visualizzare la Punto nera di mia madre nel piccolo spazio di sosta creato da un camion, che era uscito di strada, ribaltandosi, e aveva rancato via tutti gli alberelli, una decina d’anni prima. In quella piazzola, quand'ero piccola, mia madre accostava per farmi fare pipì. Mio padre non mi aveva detto fosse quello il punto; ma lo sapevo, e più avanti avrei avuto conferma di ciò. 

Come dicevo, visualizzai tutto, nitidamente, come se stessi osservando la scena. Ma lo stesso non capii.

«E dov'è?», fu quello che mi venne da chiedere. Poi mi accorsi, e allora partii con le ipotesi: «Forse le è di nuovo cascata la frizione, no? Sarà a casa! Lo zio andrà a prendere la macchina domani o dopo; tanto gli basta trainarla, come l'anno scorso.»

«Andrea...» esalò mio padre.

«Cosa?!», esplosi, un po' per la brutta sensazione che mi aveva dato il suo tono, e un po' perché sembrava avesse ignorato tutto quello che avevo detto.

«Ha lasciato tutto in macchina», si sentì in dovere di intervenire la Francesca, come se le sue parole fossero risolutive e geniali.

Feci per voltarmi verso di lei e dirle qualcosa di poco carino, ma mio padre parlò ancora:

«I Carabinieri mi hanno detto di essere stati allertati da alcune persone, che hanno visto lì la macchina per giorni e giorni... una settimana, più o meno.»

«E bon?», sbottai. «Si sarà dimenticata di dirlo a zio! Sarà andata dalla zia, come fa quando non combina con la testa! Non l'Alberta, ovviamente... La Lucia. Sarà dalla zia Lucia!»

Lilla cominciò a singhiozzare, spaventata dalle mie urla, e la cosa mi diede sui nervi. Grazie a quel fastidio, comunque, seppi che il mostriciattolo non era morto nell'esplosione, come avevo invece temuto.

«Non la trovano, Andrea. Non la trovano», ribadì mio padre, e la vena verde si gonfiò, facendogli strano il contorno dell'occhio destro.

Lilla si ruppe definitivamente in pianto e il mostriciattolo, che aveva fatto sollevamento pesi, nel caso avesse dovuto affrontare un'altra calamità nella sua grotta, ruggì.

«Che ti frigni, te?!», le urlai, preda dell'ira più acida. «Non è tua madre e non è morta!», scoppiai. Mi sentii debole per aver usato quel termine ad alta voce.

«Ma io voglio bene alla zia Lucrezia!», strillò, e il viso si fece quasi viola.

«Non è manco tua zia, stupida!»

«Andrea!», mi sgridò papà. «Le parole!»

«Cosa vuoi, te?!», gli urlai, così forte da farmi diventare la gola color della cenere. «L'hai tradita e ora fai come se t'importasse?! Se è sparita, la colpa è solo tua!» Era la prima volta che mi rivolgevo così a mio padre: la cosa mi fece sentire potente e perduta, tutto insieme.

«Ou!», irruppe Francesca, sentendosi di nuovo in dovere di fare sentire la sua voce color pesca. «Figa, calmati un po'!» E di sfoggiare quel suo finto, ridicolo accento milanese; fossi stata della Lombardia, mi sarei sentita scimmiottata.

Avevo tutti gli occhi addosso; solo quelli di Pietro e Patrizia non mi accusavano, come invece sembravano fare pure quelli di Leonardo.

Non potevo vincere, non riuscivo a ribellarmi e non avevo la maturità per perseverare nel confronto.

«Andate in mona, tutti quanti!», strillai e corsi verso la porta.

Potevo solo scappare.

 

Corsi a perdifiato nel campo dietro casa. Lì c'era un piccolo trattore arancione, abbandonato e arrugginito da quando ne avevo memoria. Sulla fiancata a protezione del motore, seppur mezza scrostata, si leggeva ancora ''Fiat 1'' e poi c'era forse un otto o qualcosa del genere. Quella scritta era sicura, era fisica e non c'entrava nulla con le mie emozioni: la fissai per un po'.

Salii su, sedendomi sul sediletto a conchiglia di cui ormai rimaneva solo il metallo, dato che l'imbottitura di spugna era andata a farsi benedire anni prima.

Sentii partire qualcosa da sotto il diaframma: per un momento pensai che avrei rimesso, ma invece mi uscì un lamento e poi le lacrime.

Piansi per paura e piansi per vergogna. Piansi tanto e violentemente. 

A tratti mi fermavo e mi consolavo: ''Niente corpo, niente omicidio'', mi sussurrava il detective di turno; poi però diceva, lui o un altro: ''In caso di rapimento, le prime quarantotto ore sono decisive''. Però il sospetto era che mia madre si fosse tolta la vita, ed era passata una settimana, come minimo; quindi il detective poteva andarsene in mona e io ricominciare a piangere. 

E poi mi consolavo di nuovo, perché di colpi di testa mia madre ne aveva avuti a vonde! Tipo quella volta che siamo diventati matti a cercarla, e poi era andata dalla zia Alberta - prima che la ricoverassero - e le aveva proibito di dire a chiunque che era da lei. Ma la cosa era durata una giornata, poco meno, non una settimana. E quindi turna giù lacrime.

Un loop infinito. Un limbo.

A quell'età è tutto così drammatico e confuso. Un sussurro diventa un'eco amplificata; è come mettersi in centro a una navata, lo spazio è tanto e vuoto: manca l'esperienza.

La depressione di mia madre mi metteva a disagio e mi faceva paura: era un gigantesco mostro nerastro che gravava sempre sulla sua figura. E poi c'erano le due gemelle pallide, quasi senza colori, identiche a mia madre, che ruotavano intorno a lei e il mostro nero; quell'immagine si era creata due o tre anni prima, quando avevo sentito mio padre parlare con la Patrizia e dire: ''Bipolare. Lucrezia è bipolare''.

La sinestesia è capace di mostrarmi incredibili scorci sul mondo, ma le creature che lo popolano sono quasi sempre sinistre e raccapriccianti.

Pensavo che mia madre fosse depressa e bipolare, sì, ma probabilmente era anche pazza, ai livelli della zia Alberta. Per quel motivo non ero rimasta con lei e avevo invece scelto papà, Patrizia e Lilla: mi davano l'idea della famiglia che desideravo. Solide certezze, niente mostri e niente malefiche sorelle omozigote.

Cercai di calmarmi e tirai fuori il sacchetto della farmacia, dove ancora risiedevano il cellulare e le sigarette. Volevo fumare. Una volta, in una storia, ho letto che fumare ci rimanda alla poppata, di conseguenza ci ricorda il contatto con la madre e ci calma. Mi sembrò una scusa sufficiente, per mettermi in bocca la seconda cicca di quella giornata che, contrariamente a quello che avevo pensato prima, poteva e si stava storcendo ancora; e, dal momento che avevo quel mal di pancia ed ero più isterica del solito... quella giornata avrebbe continuato a storcersi. Quant'è scomodo essere una donna! Non dico sia così per tutte, però: c'era la madre di un mio amico che con le sue cose diventava super amichevole e zen, stile Patrizia. Misteri. Io comunque non ero e non sono fra quelle: sono fra quelle che si contorcono e imprecano per il male e per quella brutta sensazione di umido, di sporco.

Provai e riprovai a far funzionare l'accendino nero, ma ottenni solo scintille, fumo maleodorante e dolore al pollice, a suon di grattarlo contro la rotellina.

«Se me ne dai una, te l'accendo.»

Ebbi un micro scatto e mi uscì un lamento: qualcosa di piccolissimo, che si trasformò in un suono differente verso la fine; della serie: mi avete beccata a fumare? Bon? Non m'interessa: la mamma è scomparsa e questa è una situazione di crisi, fuori dall'ordinario, dunque le regole di ieri, e fino almeno a domani, non valgono.

Pietro si era avvicinato, silenzioso come un gatto, e ora mi guardava come fossi un topo pronto a schizzare via.

Ci guardammo per una manciata di secondi, immobili e silenziosi; poi si mosse: usò la piccola ruota anteriore per darsi la spinta e salire agilmente sul cofano, accanto al piccolo comignolo di ferro. Aveva proprio le movenze di un giovane uomo: qualcosa di sinuoso eppure rigido; qualcosa che mi faceva pensare ai nervi, più che ai muscoli.

«Quando hai deciso di dichiarare guerra ai polmoni, sorellina?», mi chiese e intanto frugò prima nella tasca destra dei jeans, poi in quella sinistra, da cui estrasse un accendino uguale al mio, ma senza ruggine.

«L'anno scorso», gli rivelai e aggiunsi, quasi aggiustasse tutto: «Una al giorno... oggi però due.»

Quel pomeriggio, più che mai, mi ricordò quello Youtuber che parla di cinema e recensisce film, a volte ciofeche a volte roba bella: si era rasato i capelli e aveva solo baffi e barba scuri a incorniciargli le labbra sottili. Non era né grasso né magro; come diceva la Francesca ''né carne né pesce''. Era poco più alto di me e forse sarebbe rimasto così, dato che aveva ormai ventidue, quasi ventitré anni.

«Ho capito», si limitò a dire, senza provare a farmi la lezione o sfoggiare qualche stupidissima frase tipo: ''Senti qua, piccola sapientona: io sono un genio e tu sei scema, io sono grande e tu sei piccola, io ho ragione e tu hai torto!'' - Matilda 6 Mitica: che bel film! Aveva smesso di fare il ''grandone'' attorno ai diciassette o diciott'anni, sostituendo il tutto con un vero atteggiamento da adulto. Mi chiedevo spesso se anch'io sarei maturata, se mi sarei calmata così, di colpo, da un anno all'altro. Spoiler: sì. Dopo quell'estate cominciarono dei profondi cambiamenti in me, ma questa è un'altra storia.

«Come ti senti?», mi chiese dopo avermi acceso la cicca e averne presa una per sé.

Replicai con una domanda: «Da quand'è che fumi, te?»

Aspirò e, tossendo un po', mi rispose: «Da ora, pare. Ma, stando con la Francy, è come se fumassi da un paio d'anni: tutto il fumo passivo che mi son respirato!»

Provai una stilettata d'ira e fastidio e il mostriciattolo si dimenò. Mi contenni e decisi di usare la sua stessa frase: 

«Ho capito.» 

Presi anch'io una boccata, poi una seconda, infine mi decisi a dirgli: «Ho paura che non rivedrò più la mamma...» 

A tradimento, il pianto mi mozzò il respiro.

Pietro non provò a toccarmi e non parlò neppure, limitandosi a fumare un po' a bocca e un po' a petto: sapeva che in quei momenti avevo bisogno dell'immobilità e del silenzio, perché ogni cosa mi agitava il doppio, dandomi l'impressione di perdere totalmente il controllo. E la perdita di controllo mi mandava - e manda - ai matti.

«Pensi», singhiozzai, «che sia morta?» Mi era costata una fatica immane porre quella domanda, ma ne avevo bisogno.

«No, Andrea, non lo penso», mi rispose, usando un tono pacato anche se velato d'angoscia. «Credo lo sentiremmo, dentro, se mamma non ci fosse più.»

Avrei voluto saltargli al collo e ringraziarlo per averlo detto, perché il mio corpo rilasciò qualcosa di simile al vapore arancione di prima. Rimasi però ferma e mi limitai a concordare con un cenno del capo: sì, se la mamma fosse morta, io l'avrei sentito. Mi aggrappai disperatamente alla cosa, decidendo di crederci con tutta me stessa.

Stavo per chiedergli cosa pensasse fosse successo, ma arrivò la voce color pesca:

«Cumò viodi! Allore?!» Questa volta aveva deciso andasse bene il friulano. «Andrea, fumi?! E tu, Pietro, glielo permetti?!» E l'italiano e un atteggiamento da mammina che le stava malissimo.

Mi voltai verso di lei, che era sopraggiunta alle spalle del vecchio trattore arancione proprio come aveva fatto mio fratello; stavo per dirle di farsi gli affaracci suoi, ma intervenne Pietro:

«Non ora, Francy.»

«Di' bon che vi ho visti io!», continuò, come se il Pietro non avesse fiatato. «E' una bambina!»

«Ha tosto sedic'anni: sa che il fumo uccide», replicò mentre lei si spostava sotto di noi, di fianco al biroc. «Lassâ fâ, che avrà tempo di pentirsi, come tutti noi, di tutte le scelte.» Forse fu una frecciatina, non lo capii mai. «Aspettami in macchina, 'rivo subito.»

Lei gli rivolse un ghigno che forse voleva essere un sorriso. 

«Bon bon...» ringhiò. 

E Masini, nella mia testa, partì con: “Bella stronza che sorridi di rancoreeeh... Ma se Dio ti ha fatto bella come il cielo e come il mare, ma a che cosa ti ribelli, di chi ti vuoi vendicare?!”. Bella domanda, Marco, davvero! Quella lì aveva tutto: bellezza, ricchezza e perfino un bravo ragazzo, premuroso e gentile.

Pietro era andato a vivere con lei l'anno prima, così era a un tiro di schioppo dalla fabbrica dove suo padre lo aveva messo a lavorare. Lei aveva un appartamento tutto suo - ''un regalo del babbo per aver preso il diploma'' - che aveva arredato come immaginavo fosse la stanza di Lady Gaga da adolescente. Seria.

Mentre lei si allontanava, io provai un misto d'orgoglio e rispetto per mio fratello: aveva rimesso a posto la Francesca senza arrabbiarsi e senza trattarla male: così doveva fare un uomo - o una donna - secondo me.

«Ti giuro che le voglio bene», mi assicurò Pietro, saltando giù, «ma è una tipa impegnativa!»

«Le femmine sono quella roba con cui non puoi stare, ma che non puoi manco stare senza, giusto?»

«Preciso! Sta' lontana dalle donne, Andrea. Almeno per qualche altro anno», mi sorrise, complice.

Istintivamente pensai a Nevrè e mi venne voglia di raccontare a Pietro dello strano incontro, ma lui aveva già aperto le braccia, in attesa che lo salutassi.

Mi strinse forte mentre mi piegavo su di lui. Il suo odore naturale di muschio - o sottobosco - e ferro si mischiò a quello del dopobarba, che era di un verde-azzurrognolo.

«Se c'è qualcosa, mi chiami, va bene?», mi disse, staccandosi da me per guardarmi in faccia. «Qualsiasi cosa, a qualsiasi ora!»

Glielo promisi e lo guardai allontanarsi, sentendomi di nuovo sola e vulnerabile.

  
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