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Autore: drisinil    21/07/2023    4 recensioni
Questa è una raccolta di oneshot dedicate alle ship UshiOi/IwaOi che seguono il mio personale headcanon. L'ordine delle storie non è cronologico, sono tutte indipendenti e autoconclusive, ma anche legate fra loro, come i tre protagonisti. Il finale per me è uno solo, ma è molto più interessante il percorso per arrivarci.
***
Il primo capitolo di questa storia è stato scritto in forma di one shot epistolare per il Concorso San Valentino 2022 WattpadFanficionIT.
Il secondo capitolo è in qualche modo un seguito e nasce come omaggio per il compleanno di Oikawa 2022.
Il terzo capitolo nasce con la challenge "comeasyouarenot2023" del gruppo fb "Non solo Sherlock"
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Ogni tanto, gli capita.

Così, all’improvviso, apre gli occhi e scopre che la coscienza è rimasta indietro, arenata a ricordi talmente lontani e assurdi che forse non sono nemmeno i suoi.

Succede al mattino, quando si sveglia intorpidito da ore e ore di sogni turbolenti, che scompaiono all’alba e di cui non ricorda nulla. 

Mentre corre sulla battigia, coperto di sudore, dopo aver abbassato le palpebre per riposarsi un attimo da tutta quella luce abbagliante e salata, che piove senza tregua dal cielo e dal mare e rende le cose sempre troppo reali; vere e squallide, proprio come sono.

Gli capita anche quando è a letto con uno dei suoi amanti occasionali, o con quello che ultimamente sta vedendo (troppo) spesso, perché è generoso e divertente, e ha le mani grandi. Gli piace sentirle sulla schiena o aggrappate forte ai fianchi, gli piace più di quanto non gli piaccia guardarlo in viso, per questo si rifugia spesso nel buio delle palpebre serrate. Non pensa a nulla. Non pensa a nessuno.

Poi le riapre e, a tradimento, tutto si fa chiaro e tenero, morbido, soffuso, la custodia di un segreto. E il segreto è lì, con gli occhi finalmente chiusi, addormentati, che non pretendono e non chiedono,placati, arresi al sonno, al piacere, alla stanchezza. 

E a lui è permesso, in un tempo che forse non esiste, sorridere e innamorarsi.

E’ già innamorato, perché agli stupidi succede, ma è bravissimo a negarlo e a fingere con se stesso. E’ innamorato, ma ha diciott’anni e l’effetto è quello di un frullatore, un gorgo oceanico, uno spaventoso pozzo senza fondo. 

E’ innamorato della persona sbagliata, o forse di due persone insieme, o forse anche quelle sono bugie che si racconta e la verità è nitida e fredda come la neve che c’è fuori, e altrettanto umida e sporca, come la paura che si porta stretta addosso.

E’ innamorato, ma non vuole affatto esserlo e quindi smetterà, perché Oikawa Tooru è uno che pensa che la volontà smuova i continenti (e quando non si smuovono loro, forse è proprio il caso di prendere un aereo e attraversarli).

Ma sì, è innamorato e il suo amore lo chiama rivalità, perché è una definizione più facile, e più giusta. E’ innamorato e ha solo mezzo minuto per fantasticare, prima che arrivi l’alba e, battendo un martello di luce, assegni un nome a tutte le cose, visibili e invisibili, rendendole giuste o sbagliate. 

Quella lì di fronte è sbagliata, Tooru lo sa.

Ma possiede ancora il lusso di mezzo minuto, in cui non è giorno e non è notte, e in quel mezzo minuto il futuro si condensa fra le sue dita, mentre percorrono la curva di una spalla nuda e squadrata, il rilievo solido di un bicipite su cui spicca un graffio scarlatto, un mano grande tesa verso di lui anche nel sonno. 

Per trenta secondi la paura svanisce, la confusione si scioglie e cola via. E loro due indossano la stessa maglia, spartiscono lo stesso talento, la stessa smania di vincere, la stessa violenta ostinazione manifestata in opposti caratteri. Hanno lo stesso scopo nella vita, lo stesso anello al dito, lo stesso tetto sulla testa, un corpo solo che si tende da un cuore all’altro a ogni respiro condiviso, pelle contro pelle, come stanotte. Cose impossibili e proibite, anche un po’ crudeli; vere solo per una manciata di secondi, una mattina d’inverno. Fuori ci sono i pettirossi.

E’ successo davvero?

E’ successo, tanto tempo fa.

 

******

La palestra è vuota, perché, a stagione finita, un sabato al mese è libero e c’è solo un giocatore del San Juan che considera i sabati liberi come momenti buoni per allenarsi. 

La palla ormai gli obbedisce; ogni muscolo del corpo gli obbedisce e quelli più riottosi sono stati domati uno a uno, rimodellati, asserviti a una volontà implacabile e spaventosa. A un'irrequietezza divorante.

Lanciare, correre, saltare, colpire. Ripetere un milione di volte, cercando la minuziosa perfezione di ogni gesto, la ripetibilità assoluta, l’estetica più sottile. L’idea che l’atto di raggiungere qualsiasi tameni sia una forma d’arte è talmente giapponese da fargli venire male al cuore. 

Ormai hai firmato, Tooru. 

E' scritto a lettere grandi e nere. Nazionalità: argentina.

La palla, addomesticata, ruota veloce fra le sue dita e Tooru pensa ai paralleli e ai meridiani, alle tratte oceaniche, al mondo che imperterrito ruota intorno al sole, che a sua volta ruota intorno al centro della galassia, che intanto corre a folle velocità, e con lieta inconsapevolezza, verso il bordo dell’universo e verso la morte, che poi è dove tutti andiamo. Con lieta inconsapevolezza, appunto. 

Tooru lo odia il tempo che passa: è la somma tangibile delle occasioni mancate, di tutto ciò che non ha fatto, non ha vinto, non ha voluto con abbastanza forza. Quello che si è lasciato sfuggire, quello che gli è scivolato fra le dita. Quello che gli manca.

Che ore saranno in Giappone? 

Lo sa, ma finge con se stesso di doverlo calcolare ogni volta: il fuso è di dodici ore, esattamente agli antipodi, quindi sono le undici di sera passate e al suo compleanno manca meno di mezzora.

Quando il telefono squilla, sa che non è Iwa-chan.

Iwa-chan chiamerà stasera, perché gli fa gli auguri sempre alle otto del mattino (ora di Tokyo), come quando erano bambini e quella era l’ora più antelucana che la signora Iwaizumi considerava accettabile per andare a bussare ai vicini.

La mamma ha già chiamato, perché l’orologio del suo cuore batte il tempo del figlio, dovunque si trovi, e nelle sue parole affettuose la nostalgia è una lama che non perde mai il suo filo diabolico.

Quindi… 

«Ciao Tooru.»

Tooru chiude gli occhi, li riapre e, maledizione, succede di nuovo: il cielo è bianco, la notte e il giorno si sfiorano, Toshi è addormentato nel candore delle lenzuola, i pettirossi cinguettano sul davanzale e Tooru ha diciott’anni e per trenta secondi è innamorato.

«Tooru? Ci sei?»

«Ci sono.»

«Dobbiamo parlare.»

«E hai scelto un giorno a caso? Il venti di luglio?»

«Veramente è il diciannove.»

«La gente normale in questi casi dice cose tipo: “auguri”. E poi, se è educata, quando capisce di non essere gradita, riattacca.»

«La gente normale non sa mai assegnare correttamente le priorità alle cose.»

«Quale sarebbe la priorità?»

«Tu.» Lo dice perplesso, come se fosse ovvio, una domanda che non ammette alcuna altra opzione.

«E quindi?»

«E quindi ho delle cose importanti da dirti. Ho preso un biglietto.»

«Del cinema? Della metro? Di un club di spogliarello?» Ushiwaka è incapace sia di mentire che di esprimersi, una combinazione letale e a volte comica.

«Un biglietto aereo.»

Tooru inspira e trattiene il fiato, per quattro secondi,  poi lo lascia andare dal naso, lentamente e silenziosamente, fino a svuotarsi i polmoni: lo yoga è l’ultima spiaggia dei disperati.

«Buon viaggio, Ushiwaka. Dove vai di bello?»

«A Varsavia.»

«Dove?» Tooru batte le palpebre. Che cavolo significa Varsavia? Doveva essere Buenos Aires la risposta. Come possa una persona priva di fantasia come Ushijima risultare sempre, immancabilmente, spiazzante è un mistero destinato a restare irrisolto.

«A Varsavia» ripete Waka, a voce più alta, come se fosse un problema di linea.

Tooru si rende conto di non sapere esattamente dove si trovi Varsavia. E di non sapere cosa dire, cosa pensare, né chi sia davvero Ushijima Wakatoshi.

«Ho capito che hai ragione» prosegue Ushiwaka. «Hai ragione su tutta la linea, Tooru.» 

La sua voce non trema mai, ma questa volta sì, un tremito sottilissimo, che però si infila come una spina fra le giunture dell’indifferenza di Tooru. «Io ho ragione - cosa che a dire il vero non mi sorprende  - e tu te ne vai a Varsavia? Ci vedi un nesso?»

«Certo. Ho lasciato gli Adlers.»

«Cosa hai fatto?»

«Ho lasciato gli Adlers e ho firmato con Orzel Warszawa» conferma Wakatoshi tranquillo. «La stagione è finita, abbiamo vinto il campionato e i miei obblighi contrattuali…»

«Sembrerai itterico.»

«Come?»

«La divisa deli Orzel. E’ gialla, no? Un giallo tipo mal di fegato.»

«Il mio fegato è in condizioni eccellenti e la divisa mi è sembrata piuttosto comoda. Non stringe sulle cosce, odio quando stringono sulle cosce.»

«Forse sono le tue cosce il problema. Che numero di maglia hai preso?»

«Undici. Il solito.»

Tooru si ritrova a fissare il diciassette della propria maglia riflesso nel vetro.

 

Posso sedermi?

E’ una spiaggia libera.

Lo sai che quel budino è pieno di grassi e di conservanti? Dovresti mangiare uno yogurt con il miele, se ti piacciono così tanto i dolci.

Sei qui per farmi la predica?

No, volevo chiederti una cosa.

Chiedimela e smettila di guardare quello che mangio.

Okay. Volevo sapere, Oikawa-kun, tu sulla maglia che numero vorresti?

Che domanda stupida: voglio l’ Uno, la maglia del capitano.

Ma io intendevo da grande. Che numero vorresti, quando sarai professionista?

Sempre Uno, anche in nazionale.

Non si può mica passare al professionismo e fare subito il capitano. Prima di diventare capitano, che numero vorresti?

Undici: due volte uno. E tu?

Tredici o Diciassette.

Ma portano sfiga! 

Voglio farlo capire a tutti che la sfortuna nello sport non esiste. Esistono quelli che non hanno talento, che non hanno disciplina o che non prendono gli allenamenti sul serio. E io non voglio essere uno di loro.





«C’è altro, Ushiwaka? Mi pareva di averti detto mesi fa di infilarti il mio numero di telefono dove non batte il sole.»

«Preferisco tenerlo in rubrica, è più pratico.»

«L’idea era che non mi chiamassi più.»

«Non credevo che mi avresti risposto. Comunque, sì, c’è un’altra cosa molto importante. Volevo dirti che hai fatto bene, Tooru. A firmare. Volevo congratularmi.»

C’è sempre stato qualcosa, nella voce uniforme e seria di Toshi, qualcosa di fluido che scivola dentro Tooru e smussa tutti gli angoli che incontra, riempie le crepe, arrotonda i bordi. E in questo caso ha l’immediato effetto calmante, quasi anestetico, di un'infiltrazione al cortisone sparata dentro l’anima.

Hai fatto bene, Tooru.

Gliel’hanno detto in tanti. Lui stesso ne è convinto, ma fino a un attimo fa bruciava dappertutto.

«Quindi l’hai saputo. Te l’ha detto Iwa-chan?»

«Iwaizumi e io non parliamo mai di te. Quasi mai. E poi, lui non tradirebbe la tua confidenza, dovresti saperlo.»

«Chi è stato?»

«Kuroo-san.»

«Che impiccione del cazzo.»

«Già. E’ l’unica cosa che sa fare. Credo che la federazione lo abbia assunto per questo.»

«Lascia perdere Kuroo e dimmi la verità, Ushiwaka, ti ho fatto infuriare?»

«All’inizio sì, ero furioso. Mi sentivo tradito. Ma poi ci ho pensato bene e ho capito. Te l’ho detto prima: ho capito che avevi ragione, e che hai fatto bene. Che sbagliavo io.»

«Puoi ripeterlo?»

«Cosa?»

«Oikawa-san, sono grosso e stupido: tu hai ragione e io avevo torto. Aspetta un attimo che premo REC.»

Ride. Ushijima Wakatoshi ride al telefono e fuori non sta neanche grandinando. Tooru guarda verso l’alto: la luce che filtra dalle vetrate non affatica più e non ferisce, è leggera e bianca, amichevole, benevola.

«Sai, avevo pensato di arrivare a Varsavia per la tratta pacifica.»

«Una brillante scorciatoia.»

«La strada più ragionevole, per uno scalo a Buenos Aires.»

Tooru insipira, trattiene, rilascia, ma stavolta neanche lo yoga può funzionare.

«E quindi?»

Dillo, Toshi. Di’ che vieni. Di’ che sei già qui, che è un regalo di compleanno. Fammi fare un po’ di scena, due insulti, due minacce a vuoto e poi mi precipito all’aeroporto. E ti porto a casa e… 

«Ho cambiato idea.»

«Fottiti.»

«No, ascoltami: quando ci vedremo, voglio che sia diverso. Voglio essere io diverso, voglio essere pronto. Ho un sacco di cose su cui lavorare. E anche tu. Ti amo, ma…»

«Ho detto: fottiti.»

«Io invece ho detto che ti amo.»

Hai detto ma… 

«Fottiti Ushiwaka. Alle olimpiadi ti faccio a pezzi.»

«Non vedo l’ora.»

«Manca solo un anno. Inizia a tremare.»

Anziché tremare Toshi sorride. I suoi rari sorrisi hanno un suono discreto ma inconfondibile, anche a mezzo mondo di distanza. Un suono alieno e ostile, invece, è il trillo digitale di un allarme.

«Che c’è? Si è fatta l’ora di mangiare dodici uova e un frullato antiossidante all’alga spirulina?»

«Le uova sono piene di colesterolo, nessuno sano di mente ne mangerebbe dodici.»

«Sei sempre l’uomo più noioso del mondo, Toshi.»

«Dici? Ma sai, non ero per niente sicuro di riuscire a tenerti al telefono fino all’ora giusta, quindi se non sono diventato interessante io, vuol dire che perdi colpi tu.»

«Fottiti.»

«Buon compleanno, Tooru.»


***
Buon compleanno, Tooru, anche da parte mia. Ti si ama sempre, qui.

 
   
 
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