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Autore: FiloRosso    12/08/2023    0 recensioni
Cosa si prova ad essere perseguitati da qualcosa che non si conosce, che non si può vedere, di cui non si ha neppure la certezza che esista?
Senti quella presenza che vagabonda dentro casa tua e quel posto che dovrebbe essere il tuo rifugio si trasforma in una trappola.
E' così che Jules ha vissuto per un intero anno: barricata in casa, in preda ai deliri, sicura di non essere sola.
Adesso però deve tornare alla sua vita da liceale, le visioni sono sparite e le giornate sono tornate ad essere quiete, almeno finché non incontrerà Kael. In breve tempo, Jules si ritrova preda del suo nuovo misterioso compagno. Cosa nasconde e perché è così ossessionato da lei?
Genere: Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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2.


I miei genitori ed io vivevamo nella periferia di Coldwater, in una fattoria del diciottesimo secolo piena di spifferi. Era l’unica abitazione sulla Hawthorne Lane e l’abitazione più vicina si trovava ad un chilometro di distanza.

A volte mi chiedevo se chi aveva costruito quella casa si fosse reso conto che, fra tutti gli appezzamenti di terra disponibili, era andato a scegliersi l’unico piazzato al centro di una misteriosa condizione atmosferica che sembrava risucchiare tutta la nebbia della costa del Maine per risputarla nel nostro giardino.

Mia madre odiava quella casa. Ricordo ancora quando mio padre decise che quel posto sarebbe stato perfetto per noi tre, lei non era affatto entusiasta all’idea di dover lasciare la sua amata città ma, per amore di mio padre, accettò di vivere lì.

Ora che entrambi i miei genitori non c’erano più, l’unica persona a vivere lì, oltre a me, era mia nonna.

«Com’è stato il rientro a scuola?» chiese, china sul lavello alle prese con le pirofile da sgrassare.

«Normale…»

«Ti hanno inserita nella stessa aula dell’anno scorso?».

«Si e ho un nuovo compagno di banco.»

«E’ una cosa bella, no?», mia nonna si accanì sulla pirofila e la parte superiore del braccio le prese a penzolare.

«Dipende dai punti di vista.»

Madleen restò in silenzio per un istante.

«Dimmi di più su questo compagno, che tipo è?»

«Alto, bruno…Irritante, molto irritante.» E impenetrabile in un modo che mette i brividi. Gli occhi di Kael assorbivano tutto e non rivelavano nulla. Due sfere scure che riuscivano per qualche strano motivo a mettermi a disagio in una maniera che non avevo mai provato prima. Ciononostante, in qualche modo erano anche magnetici. Possedevano quel tipo di magnetismo in grado di suscitare interesse.

Non che io fossi interessata a lui sul serio, facciamoci a capire. Quello che avevo visto in quell’ora passata in aula non mi era piaciuto affatto, quindi dubitavo potesse piacermi ciò che si celava in profondità.

Peccato che non fosse del tutto vero. In effetti, se lui non avesse aperto bocca, molto di quello che avevo visto mi era piaciuto. Il fisico asciutto e massiccio al contempo, le spalle larghe, il suo sorriso.

Seduta con le gambe penzoloni sullo sgabello della cucina mi accorsi di essere in conflitto con me stessa perché cercavo di ignorare qualcosa che in realtà trovavo irresistibile.

«Jules?», la voce di mia nonna mi fece sussultare.

«Allora? Vuoi che ti cucini altro?»

«No, no. Grazie nonna.»

Dopo aver terminato lo spezzatino di pollo del Lunedì, decisi di rintanarmi in camera mia.

Non ero stanca. In realtà, stavo pensando a cosa fare durante le ore successive. Indecisa se leggere un libro o guardare qualche programma in tv, mi buttai sul letto.

Afferrai il cellulare ed aprii l’homepage di Instagram.

La moltitudine infinita di foto incominciò a scorrere sotto il tocco del mio pollice.

Facce allegre, video di ragazzi che mostravano quanto bravi fossero a imitare i vari trend del momento e un’altra quantità di video inutili ma apparentemente simpatici.

Era passata una buona mezz’ora e fuori di casa il cielo terso si era fatto scuro.

Sbadigliai e senza pensarci mi strofinai il viso con la mano destra. Nel farlo, mi ritrovai davanti agli occhi le sette cifre di un numero di telefono.

Restai a guardare il palmo della mia mano per un lasso di tempo indefinito.

«Dammi modo di sapere la verità.», mormorai. Perché voleva sapere la verità? Che diavolo poteva interessargli? 

Rotolai sulla pancia, il telefono stretto fra le dita della mano sinistra e il palmo della destra ben aperto.

Avevo giurato a me stessa, nel frangente di un attimo, che non avrei mai chiamato Kael. Avrei preferito avere un brutto voto in biologia piuttosto che cedere e cercare quel disgraziato.

Questo, almeno, fino a cinque secondi prima di quel momento.

Pigiai sul display l’icona della tastiera telefonica.

In cuor mio speravo che non rispondesse. Fiduciosa composi il numero.

Kael rispose dopo un paio di squilli: «Credevo non avresti chiamato. Davvero.» Odiavo quella punta di sicurezza nella sua voce.

In tono asciutto dissi: «Hai detto che vuoi sapere la verità,  l’unica cosa che voglio io, invece, è prendere un bel voto in biologia, perciò facciamo un accordo.»

«Un accordo?» 

«Esattamente.»

«Che genere di accordo?»

«Decidiamo insieme cosa scrivere sul compito, magari possiamo vederci per parlarne».

«Jules», sentirgli pronunciare il mio nome mi fece ruzzolare un brivido giù per la schiena. «Sono impegnato in questo momento.»

«Il compito è da consegnare domani mattina, Kael. Quindi? Possiamo vederci, sì o no?»

Mi sembrò di sentirgli soffocare una risatina. 

«Non posso questa sera.»

«Non puoi o non vuoi?»

Ci fu un momento di silenzio. Silenzio che interruppi io bruscamente.

«Dove sei?»

«In centro.»

«Il posto.»

«Sembri mia madre.» ridacchiò e l'impatto con quella affermazione mi fece arrossire.

«Comunque sono all’ Inferno. Non è il tuo genere di locale.»

«Allora mettiamoci d’accordo adesso, ci facciamo un paio di domande e…»

Sentii uno sciabordio gracchiare dal microfono del mio cellulare e poi la linea si interruppe di colpo.

«Mi ha riattaccato!»

Sbigottita restai a fissare lo schermo vuoto.

L’orologio del cellulare segnava le dieci di sera. A quel punto capii che avevo due possibilità. Potevo inventare di sana pianta l’intervista con Kael oppure prendere la macchina e andare all’Inferno.

La prima opzione avrebbe potuto essere allettante, se solo fossi riuscita a mettere a tacere la voce di McHanzie che continuava a ripetere  che avrebbe controllato la veridicità di tutte le risposte.

E comunque quel poco che sapevo di Kael non sarebbe bastato per scrivere un’ intera intervista, nemmeno fasulla. E la seconda opzione?

Arrivare in centro a chilometri da casa mia, in piena notte. Neanche per sogno.

«Ah! Maledizione!», imprecai e nel farlo urtai con la mano il comodino accanto al letto.

Un paio di cornici e qualcos'altro si rovesciò rumorosamente. Fu allora che vidi un quarto di dollaro brillare colpito dalla luce arancio della abat-jour.

Lo afferrai rigirandolo tra le dita.  Meglio lasciare le decisioni complicate al fato.

«Testa, vado.» dissi al profilo di George Washington «Croce, resto.»

Lanciai in aria la moneta, l’afferrai e la misi sul dorso della mano. I battiti del mio cuore accelerarono, ma feci finta di ignorarli. Poi presi coraggio e diedi una sbirciatina.

«La responsabilità non è più mia.»

Mi sollevai dal letto. George mi guardava appoggiato sul materasso. Decisa a chiudere la questione, incanalai il corridoio e scesi silenziosamente le scale. La stanza da letto di mia nonna era accanto alla porta della cucina, l’ingresso di casa poco distante dal piccolo pezzo di parquet che divideva i due ambienti. Ricordavo di aver lasciato le chiavi nello zaino e di aver posato quest’ultimo in cucina, perciò, in punta di piedi raggiunsi il bancone di marmo e con la poca luce a disposizione - quella dello schermo del mio telefonino - ficcai una mano nella tasca anteriore del mio Eastpak.

«Jules?».

La voce di mia nonna, arrochita dal sonno, mi fece trasalire.

«Va tutto bene, nonna. Avevo solo sete.»

«Torna a dormire.»

«Vado subito.»

Trattenni il fiato e poi espirai pesantemente.

C’era una seconda porta d’uscita ed era esattamente accanto ai banconi della cucina. L’uscita posteriore di casa mia dava sul niente. Una lunga distesa d’erba si estendeva a perdita d’occhio nel nulla.

Nessuno la usava mai ma, in quel momento, mi sembrò la via di fuga più vicina.

Girai la maniglia tonda e sgattaiolai fuori.

Feci mezzo giro della casa, raggiunsi la  vecchia Fiat Spider e uscii in retromarcia dal cortile. In un lampo, la porta dell’ingresso principale si spalancò e la sagoma in camicia da notte e bigodini di mia nonna si posizionò esattamente al centro di essa.

«Jules!», strillò, «Sei impazzita? E’ notte fonda! Dove stai andando?»

Il venticello gelido le scompigliò qualche ciuffo bianco di capelli.  Si strinse le braccia attorno.

«In centro», le dissi «Torno presto, te lo prometto.»

«In centro? Misericordia, Jules! E’ pericoloso, è notte.»

Tirai un po’ di più la testa fuori dal finestrino e le sorrisi : «Raggiungo un'amica. Il dottor Lewis ha detto che devo socializzare, ricordi?».

Mia nonna aggrottò la fronte «In piena notte?»

Il mio sorriso si fece più marcato, desideravo dargliela a bere tanto quanto desideravo farla tranquillizzare. «Dai, non preoccuparti nonna.»

Feci per rimettermi in marcia.

«Jules, dico sul serio, torna in casa.»

Non l’ascoltai.

«Jules!»

Ero mortificata ma qualcosa in me mi spingeva verso la strada, verso quell’obiettivo e non potevo fermarmi.


L’Inferno si rivelò più lontano del previsto: il locale si trovava a quasi mezz’ora di viaggio, rintanato dalle parti della costa. Con il navigatore ancora acceso, accostai e mi fermai nel parcheggio di un grande edificio di mattoni con l’insegna al neon: Inferno. I muri erano sporchi, ricoperti di graffiti e la strada davanti all’entrata era colma di mozziconi di sigaretta. Cercai di mantenere un’aria disinvolta e sicura, in realtà ero nervosa.

Attraversai il marciapiede e mi misi in coda per entrare.

Quando toccò a me, mi infilai dentro, verso il labirinto di luci lampeggianti e suoni assordanti.

«Dove pensi di andare?». All’improvviso, un braccio muscoloso e peloso mi si piazzò davanti.

L’uomo dalla voce arrochita dal fumo e la barba incolta mi scrutava con un grugno per niente rassicurante.

«Sto cercando una persona.», esitai.

«Vuoi entrare? Paga.»

Attaccata alla sua sinistra la tabella con il prezzario.

Non avevo dodici dollari per l’ingresso e anche se li avessi avuti non li avrei spesi per entrare in quel postaccio.

«Certo…I soldi.»

Feci un passo indietro e infilai una mano nella tasca del giubbotto. Poi feci qualcosa di inaspettato, non da me.

Con uno slancio felino, mi abbassai sorpassando il suo braccio teso, lanciandomi in una corsa disperata verso l’ignoto di quel locale.

Non contenta, diedi persino qualche spintone per passare tra la folla, attirandomi diverse parolacce e qualche imprecazione. Nulla mi avrebbe fermata.

In quel momento, il giudizio su me stessa stava cambiando: mi divertiva scappare dalla security di un locale? Da quando? Non ero mai stata quel genere di persona che vive al di sopra delle regole, né tanto meno una persona sprezzante del pericolo o a cui piace commettere ingiustizie.

Ad ogni modo, di Kael non c’era nemmeno l’ombra. Eppure, quel posto non sembrava così grande, forse  c’era solamente molta più gente di quella che poteva ospitare.

Il cassiere mi seguì urlando.

«Stronzetta, fermati immediatamente!».

Non ne avevo alcuna intenzione, ovviamente.

La prima stanza era illuminata da neon azzurri. C’era un lungo bancone nero e tante, tantissime, bottiglie colorate stipate su una parete illuminata a giorno. Vari brani riempivano la stanza e tante persone sorseggiavano drink fra una chiacchiera e l’altra. Notai con la coda dell’occhio un secondo ingresso. 

Da dietro una tenda scura proveniva una luce rossa e capii perché quel locale si chiamava Inferno.

La seconda stanza era un emisfero a parte. Se non avessi calpestato lo stesso pavimento, avrei potuto giurare che si trattasse di due locali ben distinti.

Il bagliore rosso spalancava la vista su una distesa di teste danzanti. Due gabbie sospese per l’aria permettevano a tre ragazze seminude di cimentarsi in acrobazie, sospese nel vuoto. Un dj, cuffia alla mano, pizzicava i pulsanti di una tastiera enorme. Ai lati, divanetti occupati e tavolini colmi di bicchieri e bottiglie vuote.

La stanza rossa era il cuore dell’Inferno. Una discoteca nascosta in piena costa che dall’esterno sembrava quasi non esistere.

Non c’erano finestre e l’aria era satura di mille odori diversi. Quello che spiccava di più, oltre al pungente tanfo di alcool, era quello nauseante di zolfo.

Stavo per gettare la spugna quando, seduto su uno dei tanti divanetti, con le braccia spalancate lungo lo schienale, vidi Kael.

«Kael!», gridai.

Intanto il cassiere mi aveva raggiunta e afferrata per una spalla. «All’uscita, subito.».

Le labbra di Kael si piegarono in mezzo sorriso, difficile dire se beffardo o amichevole.

«Juges, lei è con me.»

Kael ci aveva raggiunti e quel lei è con me sembrò aver funzionato perché Juges allentò la presa.

Prima che cambiasse idea, mi tolsi la sua mano di dosso e avanzai verso l’unico volto famigliare in quel posto.

All’inizio decisa, ma poi, mano a mano che mi avvicinavo a lui, la mia sicurezza iniziò a vacillare. Mi ero accorta che in lui c’era qualcosa di diverso. Non avrei saputo dire cosa, ma lo avvertivo come una scossa elettrica. In quel momento Kael mi sembrava più ostile e più sicuro di sé.

Più libero di essere se stesso. E quegli occhi scuri, quasi neri, mi stavano addosso, come due calamite attirate da ogni mio movimento. Deglutii, cercando di ignorare la strana sensazione di pericolo nel mio stomaco.

Non avevo idea di cosa non andasse in lui, ma qualcosa c’era. Qualcosa di sbagliato…Di poco sicuro.

«Non posso crederci…Fin qui?»

Spalancò le labbra divertito, scandendo parola per parola la frase.

«Se la montagna non viene a Maometto…»

Non mi accorsi subito che lo stavo fissando come inebetita.

Il sorriso divertito stampato sulle labbra di Kael non accennava a sparire.

«Be’ adesso sei mia ospite, avanti…»

Gli si formò una fossetta sulla guancia. Incominciava a darmi sui nervi quell’espressione. Anzi, no, ero io a darmi sui nervi perché trovavo irresistibile quell’espressione. Kael mi tese la mano facendola scivolare lungo il mio braccio, poi, agganciando le dita alle sue, mi condusse verso i divanetti.

«Che posto è questo?»

Non avevo mai visto quella gente. Ragazzi e ragazze, donne e uomini che si scatenavano a ritmo di musica, vestiti in abiti succinti e pieni di brillantini o paillettes. 

«Secondo te?»

Kael si accomodò a sedere aspettando una risposta con lo sguardo fisso su di me.

«Sembra un club per scambisti.» Mi accomodai accanto a lui.

Sospirò un sorriso «Potrebbe esserlo, si.»

«Lo è?»

Adesso rideva più forte «No, non lo è.»

Afferrò una bottiglia scura e me la porse.

Allungai d’istinto il mento cercando di capire dall’odore del contenuto cosa fosse.

«E’ birra, Jules.»

«So riconoscere la birra.»

Non riuscivo a sostenere il suo sguardo per più di qualche attimo, il ché mi sembrava assurdo.

I suoi occhi continuavano a restarmi incollati. Mi sentivo studiata, osservata, spiata, in un modo che per qualche ragione malata incominciava a piacermi e allo stesso tempo a terrorizzarmi.

Agganciai con le dita il vetro della bottiglia.

Speravo che facendo qualche sorso di alcool, i nervi si sarebbero allentati.

«Stai mandando all’aria la mia serata.» disse Kael, senza smettere di accennare un sorrisetto.

Dall’altra parte del divanetto, un paio di ragazze mi lanciarono un’occhiataccia.

«Direi che siamo pari, no? Tu stai mandando all’aria i miei voti in biologia.», mandai giù un altro sorso di birra. 

I suoi occhi catturarono i miei e non potei far a meno di ricambiare il sorriso, ma solo per un istante.

«Dunque? Sei arrivata fin qui per farmi delle domande, no?».

«Certo e facciamo alla svelta, incomincio a sentire caldo qui dentro. Il tuo sogno più grande?».

Ero orgogliosa della velocità con cui avevo posto quella domanda a bruciapelo. Non si poteva rispondere sovrappensiero.

Kael si sporse verso di me, gli occhi alla sala da ballo: «Baciarti.»

«Non è divertente.»

«No,» spostò lo sguardo a me e sentii bruciarmi una guancia «ma ti ha fatto arrossire.»

Impassibile, almeno in apparenza, mi feci dritta con la schiena e accavallai le gambe «Lavori?»

«Faccio il barman quando non c’è lezione.»

«Sei credente?».

Non sembrò sorpreso dalla domanda, ma nemmeno felicissimo di dover rispondere «Sì e no.»

«Religione?».

«Più che religione, una setta.»

«Appartieni ad una setta?»

«Si e avevo giusto pensato ad un sacrificio femminile, attirando la ragazza in questione in questo posto…»

«Guarda che non mi impressioni.»

Dalla mia faccia sparì ogni traccia di sorriso.

«Non ho nemmeno iniziato a provarci.»

«Ho sentito dire che sei stato bocciato diverse volte e che hai qualche anno più di noi.».

«Chiunque te l’abbia detto non è il mio portavoce.» In realtà lo avevo sentito dire da un paio di ragazze durante la pausa pranzo, ma lì per lì non ci avevo dato molto peso.

Era tornato ad osservare la sala distratto dallo sculettare di qualche ragazza che si faceva largo fra i tavolini davanti a noi.

«Stai negando di essere un ripetente?»

«Sto dicendo di non essere andato a scuola l’anno scorso.»

Kael mosse l’indice per far si che mi avvicinassi di più a lui «Vuoi sapere un segreto?».

Annuii.

«L’anno scorso ho fatto qualcosa di molto più interessante che andare a scuola».

«Tipo?»

I suoi occhi rimbalzarono, neri come la pece, sul mio viso.

«Ho osservato.»

Nell'esatto momento in cui Kael aveva pronunciato quella frase, un capogiro mi fece salire la nausea. Avevo caldo, così caldo, che pensai di trovarmi dentro un forno impostato a duecento gradi.

Strinsi con i polpastrelli entrambe le estremità della seduta. 

«Va tutto bene?».

«Deve essere stata la birra, non bevo mai.»

Mi sollevai dal divanetto. Le gambe estremamente molli. La musica sembrava più alta e rimbombava nella mia testa come un martello pneumatico.

«Sei pallida.» La voce di Kael mi sembrava un eco lontano. Chiusi le palpebre per un paio di volte. La sua espressione mutò da preoccupata a divertita e poi ancora, malvagia. Quando spalancai le palpebre per l'ultima volta, Kael era semplicemente Kael ed io mi sentivo come quando la mente mi giocava brutti scherzi, facendomi credere di vedere cose che non erano mai esistite.

«Sto bene. Sto bene.»

Si mosse verso di me.

Allarmata non tanto dal fatto che mi sentissi male quanto dalla sua affermazione, arretrai.

Kael adesso era in piedi davanti a me e mi fissava.

Ero certa volesse dirmi qualcosa, potevo quasi leggerglielo dentro.

«E’ meglio che vada.» Un altro passo indietro.

«Ti accompagno fuori, se vuoi.»

Sollevai i palmi delle mani e li scossi «No, non ce n’è bisogno, davvero.». Inavvertitamente, urtai il tavolino e alcune bottiglie si rovesciarono disastrosamente. Adesso avevo il jeans zuppo di liquore alla menta e chissà quale altro intruglio dolciastro.

«Merda…».

Ignorando i capogiri e le ondate di nausea che, francamente, adesso erano più panico che altro, strappai un po’ di carta dal portatovaglioli e mi tamponai la gamba bagnata.

«Sei veramente goffa.», commentò ad un certo punto lui.

Il mio sguardo schizzò per aria. Kael era ad un passo da me. La velocità di quel movimento non mi permise nemmeno di avere il tempo per sussultare.

Inarcò un sopracciglio. Di nuovo quell’espressione goliardica stampata in faccia. «Quindi? Tutto qui?».

Abbandonai l’idea di asciugare la stoffa, era troppo zuppa. Lanciai il pezzo di carta sul tavolino e raddrizzai la schiena.

«Hai fatto tutta quella strada solo per chiedermi a quale credo appartengo?».

Sentivo il bisogno di aggiungere qualcos'altro. Passai al vaglio i pensieri che mi agitavano la mente, cercando di capire che cosa dirgli.

Perché si prendeva gioco di me in quel modo? Cosa avevo fatto per meritarmelo?

«Sembra che tu sappia molto di me, anche più di quello che dovresti sapere.» dichiarai infine «Sai perfettamente come mettermi a disagio».

«E’ sin troppo facile.».

Fui assalita da diverse emozioni, la più dirompente era la rabbia.

«Allora ammetti di farlo apposta?».

«Cosa?».

«Provocarmi.»

«Dillo di nuovo. Provocarmi. Quando lo dici la tua bocca diventa provocante.»

«Abbiamo finito. Davvero.»

Stavo per voltarmi quando decisi di dirgli quello che realmente pensavo.

«Non mi piace stare qui con te.» dissi «Non mi piace studiare con te e odio l’idea di dover condividere un intero semestre con te.» Avevo la mascella contratta, il che mi succedeva spesso quando mi sforzavo a dire cose che non pensavo davvero. «Non mi piaci.» conclusi cercando di essere il più convincente possibile.

«Sono felice che il coach ci abbia messo di banco insieme.» replicò lui.

Notai una leggera nota d’ironia nel pronunciare la parola coach, ma non riuscii a trovare nessun significato recondito. 

«Farò in modo di cambiare le cose.»

A giudicare dal sorriso che sfoderò, doveva trovare la cosa molto divertente.

Stavo per mandarlo al diavolo, quando allungò una mano verso di me e, prima che riuscissi a spostarmi, mi sfilò qualcosa dai capelli.

«Un filo di stoffa.» con un movimento elegante lo lasciò cadere a terra. Fu allora che notai un segno sulla parte interna del polso. All’inizio pensai fosse la parte terminale di un tatuaggio, guardandolo meglio, mi accorsi che era una cicatrice rossiccia leggermente in rilievo, simile ad una macchia di vernice. Molto più simile…Ad una bruciatura.

I nostri occhi si incrociarono all’istante. 

Chi era quel ragazzo e perché aveva la stessa identica bruciatura sul polso che mi ero inferta io?

 

   
 
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