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Autore: Signorina Granger    26/09/2023    9 recensioni
INTERATTIVA || Iscrizioni chiuse
L’Arconia è un elegante condominio dell’Upper West Side abitato da maghi e streghe di diverse età, nazionalità ed estrazione sociale. Dopo l’inaspettata scoperta di un cadavere alcuni di loro si uniranno per indagare sull’accaduto, finendo col riportare a galla i segreti di più di uno dei loro vicini. Del resto, quanti possono affermare di conoscere davvero chi gli abita accanto?
[Dal testo]
“C’è una cosa che non capisco: la gente che non vuole vivere nelle grandi città per colpa della criminalità. Qualsiasi appassionato di true crime sa che non è così. Ammettiamolo: nessuno ha mai trovato 19 cadaveri nel giardino di un palazzo di 15 piani. Magari giusto un paio.
Qui hai gli occhi di tutti puntati addosso, siamo tutti ammassati e accatastati uno sopra l’altro.
Come quelli che, come me, vivono all’Arconia.”
[La storia prende ispirazione dalla serie tv omonima]
Genere: Comico, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Maghi fanfiction interattive, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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Una tragedia. Una tragedia che se si fosse ritrovato ad assistere Sofocle avrebbe gettato penna e calamaio nel fuoco e si sarebbe dato all’apicoltura. O in alternativa avrebbe potuto prendere esempio, perché no?”
Naomi si lasciò cadere sulla poltrona foderata da un caldo velluto a coste color mattone senza la solita grazia e compostezza che le appartenevano fin dall’infanzia, per una volta del tutto incurante di poter apparire delicata quanto un rinoceronte in visita in una boutique Tiffany. Una volta racchiusa dal confortevole abbraccio del velluto e dei braccioli della poltrona la strega lasciò cadere con un lieve sbuffo la borsa color crema piena di raccoglitori etichettati accuratamente rimpiccioliti con la magia sul pavimento accanto a sé, gli occhi verdi puntati torvi sul basso tavolino di legno cosparso da sottobicchieri di sughero e deliziose boccette piene di zucchero, miele e sciroppi ai diversi aromi che le stava davanti. Eileen, seduta su una poltrona a conchiglia color cipria e china verso il medesimo tavolino in procinto di versare del latte nella tazza di tè nero bollente che aveva ordinato precedentemente parlò aggrottando le folte sopracciglia corvine per chiedere alla vicina cosa mai le fosse capitato di tanto penoso senza smettere di studiare la sua tazza, conscia di poter del tutto rovinare il sapore della sua bevanda con una misera quantità di latte di troppo.
“Ieri sera ho avuto un’idea orribile: ho dato ascolto a qualcun altro e non al mio buon senso.” Nel pronunciare quelle parole lo sguardo carico di disappunto di Naomi saettò rapido su un altro volto noto che si trovava nei paraggi, destando un sorriso nervoso sulle labbra carnose del suo migliore amico prima che Moos, forse deciso a non rendersi reperibile per qualche manciata di secondi, si alzasse dal divanetto beige a due posti che aveva occupato proponendosi di andarle a prendere una tazza di caffè.
No!”, esclamò invece sgomenta Eileen dando una lieve mescolata al suo tè nero e puntando finalmente i grandi occhi chiari sul bel viso della vicina, che annuì con aria grave sprofondando ulteriormente tra i soffici cuscini della poltrona, quasi desiderosa di farsi inghiottire da essa:
Già, di tanto in tanto anche le persone più intelligenti fanno scelte discutibili… Pare capiti una volta ogni dieci anni, ma ciò non toglie che ogni tanto capiti. Ad ogni modo, ho avuto la brillante idea di dare ascolto a quella gran pettegola di mia zia e ai miei amici ancor più pettegoli e sono uscita con un tizio. Esci Naomi, che male ti potrà fare?! Già. Che male mi potrà fare? E indovina? Era un fissato con la palestra.”
Naomi pronunciò quelle parole deglutendo a fatica e sollevando la mano destra per sostenersi il capo, quasi quell’insieme di suoni destasse in lei della sofferenza, mentre Eileen si portava la tazza verso le labbra annuendo, piena di compassione:
Mi dispiace moltissimo. Nessuno sa meglio di me cosa si annida nei meandri di quell’app.”
“Vero, tu ci lavori… Non c’è un modo per tenere il mio algoritmo lontano miglia da esaltati del genere, per caso? Perché se dovesse ricapitarmi non ne uscirei bene. Nel senso che ci uscirei in manette, perché stavo per ucciderlo. Che so, rifilandogli del cianuro… sarebbe stato semplice, mi sarebbe bastato distrarlo indicandogli un’insalata scondita.”
“Il cianuro in una miscela di acqua e farina sarebbe ottimo.”, suggerì Niki con tono neutro dopo aver sorseggiato un po’ di Espresso dal bordo di un bicchiere di carta che nessuno nella stanza sarebbe stato certo di averle visto ordinare. E dato che Naomi non si era minimamente accorta della sua presenza fino a quel momento l’avvocato dimenticò momentaneamente il troglodita della sera prima per far saettare lo sguardo su di lei, più accigliata che mai mentre la guardava starsene seduta sull’estremità dello stesso divano solo poco prima aveva scorto il suo migliore amico:
“Tu quando sei arrivata?!”
“Poco fa.” Niki non si sprecò in ulteriori spiegazioni, limitandosi ad una scrollata di spalle noncurante mentre agitava mollemente il bicchiere fissando pensosa la bevanda calda e scura: “È molto importante ricordare quanto tutti gli uomini siano creature orribili. Ma alcuni lo sono più di altri e i fissati con la palestra sono tra questi.”
Dato che Eileen era troppo occupata ad addentare un biscottino al burro per parlare Naomi fece per suggerire alla vicina di essere meno brutalmente drastica nelle proprie considerazioni, ma l’apparizione di Moos accanto alla sua poltrona e la tazza di caffè che l’amico le allungò la interruppe sul nascere:
“Naomi, ecco il tuo cappuccino al caramello… Niki, ti ho visto e ti ho preso una ciambella.”
Dopo aver consegnato il caffè all’amica l’ex Serpecorno donò un sorriso caloroso alla vicina distendendo le labbra e mostrando due file di denti candidi e perfettamente allineati, ma invece di ricambiare Niki alzò la testa e scoccò un’occhiata dubbiosa prima alla ciambella glassata al caramello salato adagiata sul piattino che il mago le stava porgendo e poi direttamente al suo viso, parlando piccata:
“Per l’amor del cielo Bartimeus, sono qui che cerco di sostenere una tesi contro tutti gli uomini del mondo e che fai? Te ne spunti come Nonna Papera brandendo ciambelle glassate e smontando le mie argomentazioni.”
Nonostante l’aria infastidita Niki non si astenne dal prendere il piattino dalle mani del vicino, che sedette accanto a lei sul divano senza offendersi minimamente e premurandosi invece il più possibile verso il bracciolo per evitare che potessero toccarsi anche solo per sbaglio. La strega aveva appena addentato la ciambella, mentre Naomi sorseggiava pensosa il suo caffè chiedendosi perché non le fosse venuto in mente, la sera prima, di usare un caloricissimo dessert pieno di zucchero per allontanare il troglodita palestrato e darsi alla fuga, quando Niki rimise la ciambella sul piattino strofinandosi le dita e scuotendo la testa guardando torva il dolce senza smettere di masticare:
Mpf, e ovviamente è anche buonissima… Grazie.” Il ringraziamento – seppur quasi amareggiato – della vicina destò un sorriso compiaciuto sul volto di Moos, che si arrotolò distrattamente le maniche del maglione beige che indossava sugli avambracci prima di sollevare il piede destro per appoggiare la caviglia sul ginocchio opposto, consentendo ad una porzione di un vistoso calzino coperto da minuscoli avocado sorridenti di fare capolino dall’orlo dei pantaloni:
“Prego. Anche se quelle che preparo io, modestamente, sono più buone.”
“Tu prepari ciambelle glassate?!”, ripeté Niki guardandolo accigliata prima di realizzare chi stesse fronteggiando e darsi della stupida: in fondo era piuttosto ovvio. A stupirla era che Moos non si fosse ancora rivelato una specie di fata madrina sotto mentite spoglie.
“Vedi, non sono tutti orribili. Moos è l’essere umano più buono e altruista dell’universo… Quanto invece al tizio di ieri, non avrei potuto farlo fuori con un impasto di farina e acqua neanche volendo, non sarei riuscita a fargli mangiare un carboidrato neanche minacciandolo.” Dopo aver rivolto un sorriso pregno di sincero affetto a Moos Naomi inclinò gli angoli delle labbra in una smorfia risentita, decisa a non usare il suo account di MagicMatching per i successivi sessant’anni mentre Eileen, alla sua sinistra, annuiva con fervore:
“Io non capisco, perché mai dovremmo vivere rinunciando ai carboidrati? La vita è già piena di atroci sofferenze, voglio dire, come il lunedì mattina, la ceretta e alzarsi per prendere il telecomando quando hai scordato la bacchetta in cucina ma vuoi cambiare serie su Netflix… almeno fatemi mangiare la paella e non assillatemi!”
“Avete ragione, quelli sono i peggiori. Peggio degli arci fissati con la palestra ci sono solo quelli con quattro divorzi, quelli che hanno votato Trump e i serial killer. E ovviamente, in fondo alla lista, quelli che non mangiano carboidrati.”
“Come fa uno che non mangia carboidrati ad essere meno peggio di un serial killer?”, domandò Eileen alla vicina fissandola accigliata, non del tutto certa di poter comprendere appieno il suo discorso mentre Niki, sorseggiato un altro po’ di caffè, si stringeva nelle spalle esili con noncuranza:
“Primo, il serial killer avrebbe cose interessanti da raccontare, quello che non mangia carboidrati conterebbe le calorie e basta, sempre che gli siano rimasti abbastanza neuroni per fare la sinapsi. In più le cose sono strettamente collegate, perché l’astinenza da carboidrati ti può ovviamente indurre a diventarlo, un serial killer.”
Niki terminò di esplicare il suo breve elenco addentando quel che restava della sua ciambella glassata al caramello, certa che senza dolci come quello ad allietare le sue giornate la vita le sarebbe apparsa ancor più grigia di quanto già non fosse. Moos invece, incerto se dar credito o no alle sue parole, esitò prima di parlare spostando lo sguardo su di lei, le sopracciglia aggrottate:
“Ma sono stati fatti studi a riguardo o…”
“Immaginatevi se l’assassino di Montgomery fosse un tizio che in questo momento sta sollevando pesi, mentre noi stiamo qui ad abbuffarci ci zuccheri.”
Naomi si sporse in avanti verso il tavolo di legno per liberarsi momentaneamente dall’impiccio di dover stringere la tazza tra le mani, un sorriso ad allargarle le labbra e donare una luce divertita ai suoi espressivi occhi verdi. Eppure l’ironia che aveva accompagnato le sue parole si disperse nell’aria mentre lei tanto quanto i tre vicini si prendevano qualche istante di silenzio per riflettere su di esse, finchè Eileen non disse qualcosa spostando lentamente lo sguardo su ciascuno dei loro volti pensosi:
“Ci sono fissati con la palestra nel nostro palazzo? Dovremmo dare una controllata.”
Naomi dichiarò che avrebbe chiesto a sua zia Margaret, che sembrava essere a conoscenza persino del numero di macchie che uno sguardo attento avrebbe potuto scorgere sulla moquette degli ascensori, e Niki si disse d’accordo annuendo con un lieve cenno del capo:
“Lo credo bene. Io non ci voglio avere nulla a che fare con gente così, tantomeno condividere l’indirizzo... A stento sopporto di condividerlo con Carter.”
Moos fu l’unico a non dire nulla, troppo occupato a chiedersi perché qualsiasi discorso intavolassero lui e i suoi vicini finissero sempre a parlare di morti e potenziali assassini. Ora che ci pensava, non era nemmeno sicuro di ricordare cosa li avesse condotti lì a partire da un semplice donut al caramello.


 

 
Capitolo 10
Verso l’ora zero

 

 
Orion Parrish battè tre volte le dita unite della mano destra contro il gelido bordo della sedia di metallo dallo schienale rigido, un lieve quanto nervoso imperativo volto a ricordarsi di mantenere la respirazione controllata e di restare lucido che risuonò più rumorosamente di quanto non si sarebbe aspettato nel silenzio della stanza quadrata e semi buia.
Non fosse stato ancora troppo scosso da quanto accaduto Orion si sarebbe voltato verso lo specchio rettangolare che occupava gran parte della parete a cui stava dando le spalle per “salutare” coloro che di certo lo stavano studiando in quel momento, cosa che aveva immaginato di fare ogni qualvolta in cui si era ritrovato a studiare una stanza come quella in un qualsivoglia prodotto televisivo, ma era troppo preso a rivivere e a valutare con quel poco di lucidità che gli era rimasta quel che era successo per anche solo pensarci.
“Signor Parrish, so che può essere difficile, ma deve aiutarci a ricostruire cosa è successo questa sera. Deve dirci di preciso con chi era e a fare cosa quando l’allarme ha iniziato a suonare.”
Orion era rimasto momentaneamente intrappolato nel suo vortice di pensieri confusi talmente a fondo da aver quasi dimenticato di non essere solo in quella stanza vuota, occupata solo da un semplice tavolo di metallo e le tre sedie che lo circondavano: fredda, asettica e illuminata fiocamente da delle lampadine che emanavano una gelida luce bianca l’atmosfera era tutto fuorché rassicurante e accogliente, e anche se Orion sapeva di non avere niente da nascondere non poté fare a meno di sentirsi un tantino intimidito da quelle pareti buie, vuote e soprattutto dagli sguardi seri puntati su di lui. L’astronomo, che avrebbe dato qualsiasi cosa per trovarsi molto lontano da lì, magari racchiuso dalle sue rassicuranti mura domestiche e in piedi davanti al suo telescopio, annuì meccanicamente e allungò la mano destra verso il bicchiere di carta che gli era stato messo davanti, conscio di aver bisogno di assumere anche l’ultima goccia di caffè rimasta per affrontare quella conversazione: la prima cosa che Orion aveva chiesto quando aveva messo piede lì dentro ed era stato travolto dalla minacciosità che vigeva nella stanza degli interrogatori era stato del caffè e subito era stato accontentato. Orion si sentì profondamente grato nei confronti di quella gentilezza mentre si portava il bicchiere alle labbra per vuotarlo sollevandolo dal tavolo che lo divideva dalle altre due persone presenti nella stanza, ma nell’osservare l’astronomo e il modo in cui gamba e piede destri gli si muovevano tremando lievemente Dom si domandò, accigliato, se assecondarne la richiesta fosse stata una scelta saggia: l’Auror guardò l’ennesimo inquilino dell’Arconia che si trovava a fronteggiare nell’arco di pochissime ore pronto ad udire la sua personale versione dei fatti appena accaduti non senza una piccola dose di scetticismo abituato com’era a sentirsi raccontare le cose più assurde e strampalate, spesso frutto del più o meno lieve stato di shock in cui potevano versare coloro che occupavano la sedia davanti alla sua. Eppure, nonostante anni di esperienza ciò che Orion Parrish mormorò senza guardarlo e scuotendo debolmente la testa destò in lui uno stupore che non avrebbe immaginato di provare:
“Non ha senso.”
Pur sembrando destabilizzato dai recenti avvenimenti che avevano colpito il palazzo in cui viveva Orion pronunciò quelle tre parole con una sicurezza che Dom non aveva riscontrato in nessun’altra delle persone con cui aveva già avuto modo di parlare, cosa che lo indusse a guardarlo con maggior attenzione ed interesse di prima mentre sedeva immobile sul bordo della sedia, gli occhi puntati sul viso teso dell’astronomo che sembrava pallidissimo posto al di sotto della luce biancastra che illuminava parzialmente la stanza degli interrogatori.
“Che cosa non ha senso, Signor Parrish?”
Orion rispose mormorando qualcosa a mezza voce e mangiandosi le parole, sempre senza guardare lui o Megan e fissando invece con insistenza il bordo del tavolo, ombre spettrali disegnate sul viso e i profondi occhi scuri annebbiati dalla confusione. Paziente e il più garbato possibile Dom gli chiese di ripetersi senza riuscire a celare fino in fondo ogni traccia della smania di sapere che provava, gli occhi verdi pronti a cogliere ogni minima tensione muscolare ed emozionale sul viso di Orion. Orion che un istante dopo si decise finalmente a sollevare il capo quel tanto che consentì ai loro sguardi di incrociarsi, costringendosi a ripetersi dando voce al proprio turbinio di pensieri alzando lievemente la voce e scandendo più lentamente le parole:
“La seconda vittima è il primo sospettato. Non ha senso.”
Non era certo la prima volta in cui a Dom capitava di udire una supposizione del genere, parole che lo portavano puntualmente a dedurre di avere di fronte uno di quei soliti appassionati di gialli e di podcast true crime che soventemente gli facevano alzare gli occhi al cielo. Quella sera, tuttavia, quelle parole lo colpirono più di quanto non facessero di norma, e Dom si voltò lentamente per scambiarsi una rapida occhiata perplessa con Megan, che gli sedeva accanto, prima di schiarirsi la voce e parlare sporgendosi leggermente in avanti sul tavolo, verso Orion, che ancora stentava a guardarli e dopo aver parlato aveva puntato con insistenza il proprio sguardo sulla punta dello stivale Chelsea nero che indossava:

“Chiedo scusa, Signor Parrish… Quindi chi sarebbe dovuto morire, secondo lei?”
 
 
*

 
Due settimane prima
Giovedì 14 ottobre
 
 
A Jackson bastò aprire la porta e mettere piede fuori dal bagno, lavato, vestito e rasato, per ritenersi grato di essere sul punto di uscire di casa: anni prima aveva avuto l’illuminazione, isolare acusticamente la sua camera e il bagno per far sì che almeno un paio di stanze restassero lontane dalle scaramucce e dalle frequenti discussioni che intercorrevano tra i suoi genitori. Dubitava che Marlene e Walter ne avessero idea, e anche se così fosse stato nessuno dei due aveva mai aperto bocca a riguardo, segno che forse si sarebbero trovati d’accordo con il figlio in ogni caso. Mentre si preparava per uscire Jackson era dunque rimasto all’oscuro della litigata in pieno svolgimento, ma aprire la porta del bagno ebbe lo stesso effetto di un gigantesco amplificatore acceso all’improvviso e le grida gli piombarono improvvisamente addosso quasi come dei proiettili.
Una smorfia increspò immediatamente le labbra carnose del veterinario mentre cercava di fare mente locale, immobile nel corridoio deserto, e chiedersi se ci fosse modo di svignarsela evitando i genitori e la possibilità che lo tirassero in mezzo – possibilità affatto remota, trattandosi di sua madre –. Disgraziatamente per lui le discussioni, in casa Salmon, avvenivano sempre nell’enorme soggiorno che si apriva dinanzi all’ingresso, pressochè l’unica stanza dell’appartamento in cui lui e i genitori convivevano a tutti gli effetti. Era proprio l’incontro a generare le diatribe, ma a Jackson quel mattino non interessò apprendere cosa ne avesse scatenata una e si mosse silenzioso lungo il corridoio per dirigersi verso la porta gettando occhiate amaramente divertite alle cornici che, appese su entrambe le pareti, contenevano le loro foto di famiglia: a volte aveva l’impressione che il se stesso del passato o i suoi genitori, in quasi tutti i ritratti più giovani di alcuni anni, ridessero divertiti di loro e di quanto fosse ironico che un appartamento carico di tensioni brulicasse di foto di famiglia dove tutti sorridevano e davano l’impressione di essere sereni. E ad essere del tutto onesti Jackson non era più sicuro di poter affermare se quei sorrisi fossero sinceri o solo frutto delle apparenze.
Da quel poco che le sue orecchie riuscirono ad estrapolare dalle voci alterate dei genitori che spesso si sovrapponevano – entrambi avevano sempre avuto il vizio di parlarsi sopra a vicenda – a Jackson parve di capire che sua madre stesse rimproverano Walt per il suo trascorrere tutto il tempo in bagno e nella sua stanza. Jackson dovette ammettere che da quando suo padre ci aveva infilato anche una tv e un microonde ne usciva di rado, ma di mettersi in mezzo e schierarsi da una parte o dall’altra non se lo sognava neanche e sgattaiolò rapido e silenzioso come un felino verso la porta, deciso ad attivare la sordità selettiva che ogni figlio di divorziati o di coppie troppo inclini a litigare sviluppa precocemente.  Chip scelse come sempre il momento peggiore per mettersi ad abbaiare dando la perfetta scusa a Walter di prendersela anche col cagnolino con l’affettuoso appellativo di “topo di merda”, insulto che diede modo a Marlene di incazzarsi ulteriormente e di prenderlo ancora di più a male parole prima di accorgersi della presenza del figlio, vista che la portò a zittirsi immediatamente e ad inarcare un sopracciglio prima di rivolgersi a Jackson e chiedergli dove stesse andando.
Quando la informò della sua intenzione di fare colazione fuori casa Jackie aveva già praticamente un piede fuori dalla porta, e se la filò prima di dare il tempo a Marlene di avere qualcosa da ridire – riusciva quasi a sentirla, rincarare la dose asserendo che entrambi gli ingrati a cui stava dietro da trent’anni non le davano la giusta riconoscenza svignandosela come ladri –, chiudendosi la porta alle spalle per lasciarsi indietro anche la loro lite: non aveva voglia di sentire suo padre far notare a Marlene come anche il figlio cercasse di tenersi alla larga, elemento che, nella mente di Walt, non poteva che dargli ragione. Il silenzio che tornò ad avvolgerlo un istante dopo fu piacevole in modo indescrivibile e finalmente Jackson si concesse di sorridere, rilassato, mentre si avviava verso le scale per dirigersi al pian terreno. Mentre scendeva i gradini due alla volta le solite domande gli si insinuarono nella mente, ovvero perché non se ne andasse da quel manicomio e perché i suoi genitori si ostinassero a restare formalmente insieme: da piccolo l’idea che Marlene e Walt si lasciassero l’avrebbe gettato nel panico e nella disperazione, ma aveva superato quella fase molto tempo prima. C’erano giorni, quando restava seduto sul divano premendosi il cuscino sulla faccia per sentire solo l’eco della discussione di turno, in cui quasi non desiderava altro, anche se non aveva mai avuto il coraggio di esprimere quel pensiero a voce alta con nessuno dei suoi amici, giorni in cui li sentiva litigare sperando che uno dei due prendesse e se ne andasse, visto che lui non aveva il coraggio di farlo. Una parte di Jackie sapeva per certo che nel momento stesso in cui avrebbe lasciato l’Arconia il matrimonio dei suoi genitori sarebbe crollato come un castello di carte mosso da un rivolo d’aria, e anche se sapeva che sarebbe stata la cosa migliore per tutti, incluso lui, non aveva ancora trovato il coraggio di assistere a quel crollo.
 
Esteban lo aspettava in piedi nel cortile fumando con disinvoltura una sigaretta rollata a mano mentre studiava pensoso la facciata del palazzo che dava sulla strada ignorando le occhiate che i vicini impegnati a fare avanti e indietro gli lanciavano, difficile dire se a causa del suo bell’aspetto o del suo abbigliamento trasandato. Scorgendo il vicino Jackson affrettò istintivamente il passo per raggiungerlo sentendosi scuotere da un leggero brivido, insultandosi immediatamente per essere stato così stupido e smanioso di lasciare la gabbia di follia che talvolta poteva diventare casa sua da scordarsi di prendere la giacca. Non gli restò che stringere i denti, per niente intenzioni a fare dietro front e a tornare nella gabbia di matti, mentre si avvicinava al vicino con aria ben poco allegra.
Hola. Perché quella faccia?” Domandò Esteban esalando del fumo quando vide lui e la sua faccia scura, la mano libera sprofondata nella tasca di una giacca di pelle sgualcita in più punti e i capelli scuri coperti quasi del tutto dal cappuccio largo della felpa.
“I miei genitori. Sono insopportabili.”
“Litigano tra di loro o scassano a te?” Esteban si riportò la sigaretta tra le labbra per un’altra boccata tornando a volgere lo sguardo sul resto del cortile, sempre più deserto man mano che il freddo iniziava ad impossessarsi sempre più della città. Jackson si strinse nelle spalle, i grandi occhi scuri puntati sulla ghiaia ai suoi piedi mentre riviveva un turbinio di discussioni pressochè sempre tutte uguali, tutte ugualmente sterili e potenzialmente evitabili facilmente.
“Più che altro tra di loro. A volte li guardo e non riesco a credere che si siano sposati.”
“Io i miei quasi non me li ricordo, insieme. Si sono lasciati quando ero molto piccolo… Un po’ mi è mancato, credo, ma senza dubbio a volte la gente si sposa per i motivi sbagliati.”  Esteban si strinse nelle spalle mentre studiava distrattamente quel che restava della sua sigaretta, forse chiedendosi se sarebbe riuscito a finirla prima di andare a bere il mezzo litro di caffè che quella giornata avrebbe richiesto.
“Credo che il giorno in cui si lasceranno saranno molto più felici entrambi.”
Jackson si sentiva, per qualche assurdo ed inspiegabile motivo, quasi in colpa per pensarla in quel modo e non era sicuro di aver mai pronunciato quelle parole ad alta voce, ma fu piacevole lasciare che si liberassero dall’angolo del suo cervello in cui erano rimaste annidate forse per anni. Esteban inizialmente non rispose, limitandosi ad osservarlo accigliato, prima di stringersi nelle spalle e dargli il consiglio più ovvio, corretto e allo stesso tempo difficile da mettere in pratica:
“Dovresti dirglielo, se lo pensi davvero.”
Jackson annuì, borbottando che lo sapeva. E forse avrebbe trovato il coraggio di farlo prima che venisse fuori chi aveva avuto la brillante idea di far fuori un ragazzo che, come lui, aveva mosso i suoi primi passi dentro quelle mura.
Orion e Kei li raggiunsero un paio di minuti dopo, il primo trafelato come se avesse appena completato un intenso allenamento e il secondo visibilmente esasperato:
“Scusate il ritardo, ma qualcuno non è capace di controllare il suo animale domestico.” Kei si fermò dinanzi ai due vicini, i lisci capelli neri in disordine come se si fosse appena rotolato su un pavimento e il colletto della camicia bianca che spuntava da un maglione blu polvere stropicciato. Orion, che stava cercando di appiattirsi senza tanto successo la sua zazzera di capelli castani, gettò all’amico un’occhiata scandalizzata:
“Arthur non è un animale domestico, è un parente. E comunque nessuno potrebbe controllarlo, è impossibile!”
Kei alzò gli occhi al cielo, astenendosi accuratamente dal rendere noto ad Esteban e a Jackson di come poco prima Arthur, intuito che il padrone avesse intenzione di uscire e lasciarlo solo per una volta di troppo nell’arco di pochi giorni, non avesse voluto saperne di lasciare la presa sui poveri capelli di Orion, costringendolo a cercare di afferrare il gufo per scollarlo dalla testa dell’amico.
“Andiamo?”, propose invece il ragazzo accennando con un lieve movimento del capo verso l’uscita del cortile “Muoio di fame.”
“Oggi sono persino riuscito a presentarmi in orario,” commentò Esteban avviandosi insieme ai vicini lungo il viale intendo a finire la sua sigaretta “questa giornata deve avere dell’incredibile. Non credo fosse mai successo che io arrivassi per primo.”
“Tutto talmente assurdo che mi aspetto quasi che gli Auror vengano a dirci che non abbiamo capito un cazzo e che Montgomery è morto scivolando su una saponetta.”  Arresosi all’idea di somigliare ad uno spaventapasseri Orion smise di cercare di aggiustarsi i capelli e si ficcò le mani in tasca, seguendo i vicini mentre Kei gli scoccava un’occhiataccia. Naturalmente black humor a parte Orion sperò vivamente di sbagliarsi: sarebbe stato tutto immensamente meno emozionante se fosse venuto fuori che niente era andato come loro avevano supposto.
 
“Spero che non ci trattengano troppo a lungo, dopo. Ne ho già perse parecchie di lezioni, ultimamente.”
Kei parlò giocherellando distrattamente con le sue uova con la punta dei denti della forchetta, non particolarmente affamato come troppo spesso gli capitava da un mese a quella parte. Orion invece, seduto accanto a lui, aveva già ripulito il suo piatto e stava sorseggiando la seconda tazzina di caffè, determinato a prenderne una terza prima di e tornare nel palazzo.
“Sì, nemmeno da me erano molto felici quando ho chiesto di spostarmi il turno… Immaginate dire al vostro capo di non poter andare al lavoro perché devono venire gli Auror a casa tua per l’ennesima volta nel giro di poche settimane.” Jackson, poco affamato tanto quanto Kei, forse anche per colpa dei suoi genitori, si mosse nervosamente sulla sedia stringendo le braccia al petto mentre Esteban, rilassatissimo, asseriva con un sorriso di essere di certo il più fortunato tra loro essendo l’unico che poteva lavorare e gestirsi i tempi come meglio gli aggradava.
“Sei fortunato eccome. Da me sono sempre tutti più curiosi, non fanno che chiedermi le novità, se hanno scoperto qualcos’altro su come è morto, se secondo me è stato un suicidio o meno… all’inizio era ok, ma dopo un mese e ancora nessun colpevole sta diventando snervante. Non dovrebbero sgonfiarsi le notizie? Ci saranno non so quanti omicidi in tutta l’isola ogni settimana.” Jackson era abituato ai pettegolezzi, del resto era cresciuto in mezzo a donne delle pulizie che si incontravano spesso e volentieri più per spettegolare dei vari inquilini del palazzo a cui rassettavano casa che per organizzarsi i turni di lavoro e le mansioni – se c’era qualcosa di cui Jackie era totalmente certo era che mai avrebbe voluto che un’estranea gli sistemasse le mensole, non dopo tutto ciò che aveva sentito da che aveva iniziato ad andare all’asilo –, ma una cosa era sorbirsi le chiacchiere delle colleghe e dipendenti di sua madre che parlavano di relazioni extraconiugali e di sex toys nei comodini, un altro erano i suoi colleghi che, allo zoo, parlavano della morte del suo vicino di casa.
“Per i no-mag sì, ma noi siamo una società molto più piccola persino qui… Credo che i pettegolezzi nei quali sguazzare siano un po’ meno, quindi la gente si deve accontentare.” Esteban si strinse nelle spalle mentre si spolverava con calma le briciole di bagel al formaggio che gli erano rimase sulla giacca di pelle logora mentre Kei, di fronte a lui, sbuffava piano:
“Io sto pregando che non si sparga la voce che fossimo amici in facoltà... Di essere oggetto di pettegolezzi idioti non ne ho nessuna voglia. Che cosa dite che vorranno sapere oggi?”
“Magari chiedere a tutti dove eravamo e a fare cosa il giorno in cui hanno cercato di rifilargli una tazza di caffè avvelenata. Può anche non averlo ucciso quello, ma qualcuno ci deve pur aver provato. Qualcuno vuole altro caffè?” Orion si alzò senza manifestare nemmeno un briciolo di preoccupazione all’idea di dover rispondere a delle domande in merito a cosa avesse fatto il giorno in cui qualcuno aveva tentato – per poi riuscirci – di far fuori uno dei suoi vicini di casa, asserendo di aver bisogno di altra caffeina senza stupire nessuno dei presenti. Esteban fu l’unico ad assentire con un cenno del capo mentre si massaggiava la nuca e la zazzera di capelli scuri lunghi fino alle spalle, preoccupato all’idea di mettersi a sbadigliare dinanzi agli Auror:
“Per me sì, mi sono preso tardi e sono stato sveglio fino alle 2 per finire un pezzo.”
“Voi che avete fatto quel giorno? Io ho lavorato fino a dopo pranzo e sono rimasto fuori più o meno fino a poco prima di cena per non sentire mia madre lagnarsi perché io e mio padre non l’aiutiamo abbastanza con le faccende e perché non è la serva di casa.”  Jackson ricordava quel giorno: a colazione, prima che lui e suo padre uscissero, Marlene aveva sollevato la solfa che andava avanti ormai da un decennio e Walt aveva avuto la malaugurata idea di fare una battuta a proposito del lavoro della moglie e di come, in effetti, la donna pulisse case da praticamente tutta la sua vita. Jackson era impallidito all’udire quelle parole, e ricordava chiaramente di essere fuggito di casa il più rapidamente possibile insieme al padre quando Marlene era, prevedibilmente, scoppiata come una bomba ad orologeria.
 
“Devi proprio essere così coglione, a volte?” Aveva chiesto seccato Jackie al padre mentre entrambi scendevano i gradini due alla volta, senza neanche chiedersi perché Walt avesse scelto la via più lunga e scomoda invece di usare l’ascensore. Probabilmente, si era detto il ragazzo quando si era ritrovato allo zoo e aveva avuto il tempo per rifletterci su, suo padre aveva temuto che Marlene lo inseguisse brandendo un mocio fiammeggiante e aveva ritenuto di poter usare il figlio come scudo umano per far desistere la moglie dai suoi istinti omicidi.
“Stavo scherzando, se la prende anche se apro bocca! Il suo dannato cane sporca molto più di noi e non gli dice niente, chissà perché.”
 
Jackson non aveva idea di cosa fosse successo all’Arconia il giorno in cui Montgomery era morto, era rimasto tutto il pomeriggio a godersi il sole giocando a basket e quando era tornato nel palazzo, ore dopo, sua madre si era calmata e nessuno aveva la benchè minima idea di cosa avrebbe scosso l’edificio e i suoi abitanti di lì a poche ore. Esteban invece lo guardò scuotendo il capo, come stupito dalla precisione dei suoi ricordi:
“Come fai a ricordartelo così bene? È passato un mese, sinceramente non saprei dire di preciso… Dovrei controllare il lavoro di quel periodo, magari sono rimasto a marcire alla scrivania scrivendo, o al massimo mi sono spostato a Central Park visto che faceva ancora caldo. Quel che è quasi certo è che fossi solo, perché durante la settimana è raro che veda gente… Dubito fortemente che qualcuno, a parte Mocio, potrebbe confermare la mia presenza da nessuna parte.”
“Io ho l’orario delle lezioni, ma ci saranno decine di persone che potrebbero avermi visto studiare in biblioteca nel pomeriggio… Beh, di certo non penseranno che sia stato qualcuno di noi, voi quasi neanche lo conoscevate!” Kei posò finalmente la forchetta accanto al piatto e liquidò il discorso con un gesto della mano, deciso ad escludere la questione anche se una parte di lui pregava che Orion si comportasse bene e che non se ne uscisse con qualche idiozia capace di metterlo sotto ad una luce strana: voleva bene ad Orion, ma proprio per questo sapeva quanto a dir poco bizzarro potesse risultare agli occhi degli altri, e la possibilità che si mettesse a fare elucubrazioni su una possibile seconda vittima davanti agli Auror non era assolutamente da escludere. Jackson non rispose, limitandosi a sperare che avesse ragione, mentre Esteban aggrottò la fronte con aria pensosa, riflettendo brevemente prima di stringersi nelle spalle:
“Io gli vendevo l’erba. Ma a dire il vero credo che questo dovrebbe scagionarmi definitivamente: chi mai gioirebbe nel perdere un cliente?”
“Quindi glielo dirai?”
“A questo punto perché no? Nello stato è legale, anche se nel palazzo non lo sbandiero ai quattro venti perché non è proprio l’ambiente più adatto non significa che sia un problema che la gente venga a saperlo. Meglio essere io a dirlo prima che lo scoprano in qualche altro modo, poi sì che sembrerebbe sospetto. Orion, bello, tu che facevi il giorno in cui hanno cercato di avvelenare Monty?”  Esteban sorrise al vicino quando Orion fece ritorno al tavolo, allungandosi verso il vicino per prendere la tazza che l’astronomo gli stava porgendo. Quest’ultimo, perfettamente preparato all’eventualità di udire quella domanda, tornò a sedersi senza scomporsi affatto, lo sguardo stabile e il mento sollevato:
“Ci ho pensato tutta ieri sera, perché ero certo che ci avrebbero chiesto questo. Sono giunto alla conclusione di aver fatto la spola tra casa e lavoro, poi verso sera Kei è venuto da me e l’ho aiutato a preparare una ricerca. Comunque non troverebbero uno straccio di collegamento tra me e Montgomery anche cercando per un decennio… Come se io potessi mai sembrare un tipo poco raccomandabile, mi faccio quasi bullizzare persino dal mio gufo!” 
Esteban rise, ma Kei e Jackie non lo imitarono: il primo perché era spesso protagonista delle scaramucce tra Orione e Arthur, il secondo perché sapeva meglio di chiunque cosa volesse dire farsi bullizzare da un animale domestico, ovvero quell’odiosamente viziato chihuahua che sua madre trattava spesso con più affetto rispetto a quello che riservava a lui.
“Era quel giorno? Bene, buono a sapersi. Anche se Arthur ha fatto scenate anche quella volta, ora che ci penso… il tuo gufo è una regina del dramma.”  Kei scosse il capo parlando con amarezza mentre i suoi pensieri si rivolgevano con affetto al suo adorato gatto, infinitamente più mansueto del gufo di Orion, ma quest’ultimo non si scompose, anzi sorrise divertito mentre sollevava la tazza facendo roteare l’espresso molto forte contenuto al suo interno:
“Ha preso da me.”


 
*
 
 
Se si fosse chiesto a Bartimeus Thomas per quale motivo avesse poco prima lasciato il suo appartamento con in mano una casserole di ceramica piena di cinnamon rolls profumati per salire in ascensore e ritrovarsi in un piano che non era il suo probabilmente non avrebbe saputo rispondere con certezza. Men che meno il patologo forense avrebbe saputo dire per quale motivo non avesse subito suonato il campanello, ritrovandosi invece a fissare la porta chiusa che aveva davanti in un modo che chiunque – meno che lui, essendo Bartimeus notoriamente molto garbato – avrebbe definito “da perfetto idiota”: qualcosa lo aveva spinto a recarsi fin lì e qualcos’altro lo stava portando ad indugiare. Invece di decidersi a sollevare la mano destra per suonare il campanello Moos chinò lo sguardo per gettare un’occhiata dubbiosa a ciò che si trovava ai suoi piedi, un curioso zerbino che era piuttosto certo di non aver mai notato fino a quel momento. Sarebbe stato uno zerbino innocuo e normalissimo se solo non avesse presentato la scritta “You shall not pass”, e Moos si domandò se quelle parole poco accoglienti non stessero contribuendo a tenerlo lontano dal campanello finchè, spinto dalla volontà di non far freddare i deliziosi dolcetti alla cannella che portava con sé, non si costrinse a compiere quel gesto semplicissimo ma che aveva per diversi minuti rimandato.
 
Niki sedeva sull’unica sedia presente nel suo appartamento troppo grande e troppo vuoto, un’enorme poltrona papasan di vimini coperta da uno spesso cuscino bianco imbottito e addossata davanti alla finestra che si trovava accanto all’enorme libreria stracolma che conteneva tutta la sua collezione di volumi. La strega sedeva tenendo le lunghe gambe raccolte contro il petto e il computer, aperto, appoggiato sulle ginocchia esili, i grandi occhi verdi puntati sullo schermo mentre due delle sue gatte dormivano insieme su una cuccia e le altre due si contendevano una delle decine di palline di cui disponevano, rincorrendola e facendola rotolare avanti e indietro per tutto l’open space.
Il diario della terapia era stato gettato malamente sul basso tavolino di vimini che si trovava accanto alla poltrona, sopra ad un’alta pila di libri e accanto ad una lampada nera spenta, e Niki sapeva per certo che se lo avesse aperto per scriverci dentro – cosa che, in effetti, stava accuratamente rimandando – vi ci avrebbe sicuramente riversato tutta la frustrazione che stava provando da che aveva aperto gli occhi la notte precedente, quando qualcosa l’aveva svegliata prima dell’alba e che non aveva voluto saperne di concederle qualche altro sporadico minuti di sonno:
“Possibile che quella fottuta sedia sia introvabile? Da dove cazzo l’ha tirata fuori quella vecchiaccia inglese…”
Da ormai un paio d’ore si stava destreggiando alla ricerca della Sedia-Ryan, senza però cavarne un bel niente: la tentazione di irrompere nell’appartamento della sua amata vicina, prendere in ostaggio un pennuto e chiedere la sedia in riscatto era tanta, ma Niki si stava forzando di ripetersi che quella sarebbe stata inequivocabilmente un’azione sbagliata e, dunque, da escludere in modo assoluto dai suoi piani futuri: secondo i consigli della doc comportarsi da brava persona le avrebbe restituito solo cose positive e anche se non ci credeva neanche un po’ provarci non le costava nulla. L’allegro scampanellio della porta la fece quasi sobbalzare, distogliendola da un silenzio che ormai perdurava da ore e che l’aveva quasi portata a perdere il contatto con un mondo che fuori da quell’appartamento andava avanti con o senza di lei, inducendola a gettare un’occhiata stranita in direzione dell’ingresso da sopra il bordo dello schermo che aveva davanti: possibile che la gente non leggesse più le scritte impresse sugli zerbini altrui? E pensare che lo aveva cercato a lungo, su Etsy, un articolo simile.
“Arrivo.”, borbottò la strega mentre rimpiccioliva le innumerevoli pagine di ricerca che aveva aperto in quelle due ore e tutte le sue gatte si allineavano puntualmente davanti alla porta, nasi e vibrisse per aria, per attendere l’arrivo del visitatore e la loro possibilità di fuggire dall’appartamento per una gitarella nel palazzo. Il campanello si fece sentire una seconda volta e questa volta la strega, iniziando ad infastidirsi, sbottò chiedendosi perché oltre che analfabeta e non in brado di leggere la gente fosse diventata anche sorda:
“Arrivo!” Niki chiuse di scatto il computer e lo appoggiò sul pavimento sbuffando amareggiata prima di ricordarsi di aver insonorizzato lei stessa le pareti dell’appartamento e che, dunque, il suo visitatore non poteva averla udita. Dovette quindi decidersi ad alzarsi e a trascinare i piedi verso la porta, finendo col faticare non poco a sollevarsi dalla poltrona e a liberarsi dall’abbraccio avviluppante del cuscino candido:
Perché ho preso questa stronzata… Via voi, non è città per andare a spasso questa.”
Dopo essere finalmente riuscita a mettersi in piedi Niki si affrettò in direzione della porta, gettando la prima pallina colorata che la capitò a tiro verso l’angolo opposto della stanza per liberarsi delle sue gatte giusto il tempo necessario ad aprire la porta e assicurarsi che nessuna di loro fuggisse. Prima di aprire la porta Niki si premurò di assecondare la sua ormai consolidatissima abitudine di controllare attraverso lo spioncino, provando un’ondata di sollievo nel constatare di avere davanti qualcuno di tollerabile.
“Ciao Bartimeus. Come mai qui?”
Niki aprì la porta avvolta dal suo pigiama nero coperto da fette di pizze e hamburger di almeno due taglie troppo largo sforzandosi di sorridere – appurando, a fronte del forte fastidio che provò, di come la Doc avesse ragione, ogni tanto doveva proprio far fare ginnastica ai muscoli facciali – al vicino, guardandolo ricambiare il gesto con una facilità per lei difficile da emulare mentre le porgeva una casserole coperta da un sottile strato di pellicola:
“Ciao. Ti ho portato questi.”
Il sorriso svanì rapido dal viso della strega mentre chinava lo sguardo su ciò che il vicino le stava porgendo, ovvero quelli che avevano tutta l’aria di essere dei farcitissimi ed invitanti cinnamon rolls. Niki allungò lentamente le mani per prendere la casserole coperta da minuscoli girasoli da quelle di Moos, fissando accigliata i dolci per qualche breve istante prima di dar voce alle sue perplessità con tono incerto:
“… Perché?”
“Perché una volta hai detto che ti piace la cannella.” Moos, improvvisamente a disagio, prese a spostare nervosamente il peso da un piede all’altro mentre guardava la vicina smettere di fissare i dolci per posare lo sguardo su di lui deglutendo a fatica, temendo di aver fatto qualcosa di sbagliato mentre il sopracciglio destro di Niki si avvicinava sempre più all’attaccatura dei lisci capelli scuri, guardandolo come se stentasse a comprendere il motivo di quel gesto.
“Sì ma… perché?”
“Per essere gentile.”
Quella rivelazione per lui semplicemente ovvia sembrò stranire un tantino Niki, che tornò a guardare perplessa i dolci riflettendo sulle sue parole prima di annuire lentamente, elaborando il significato di quel gesto per lei poco usuale e dicendosi al contempo come forse la Doc avesse ragione a proposito del comportarsi bene, visti i dolci non previsti che le erano appena piombati fuori dalla porta di casa.
“Oh. Beh, grazie. Ma perché non sei al lavoro? Non apri nessun morto oggi?”
“Beh… Nessuno è al lavoro, oggi.”
Di nuovo Niki non parve capire, e lo guardò limitandosi a sbattere le palpebre, i muscoli facciali immobili: questa volta il turno di inarcare un sopracciglio fu di Moos, che esitò prima di parlare scandendo le parole più lentamente del normale.
“Gli Auror. Verranno qui a parlare con noi.” Come potesse la strega non esserne a conoscenza Moos non seppe proprio spiegarselo, ma dovette convincersene suo malgrado quando il volto di Niki riprese improvvisamente vita e i suoi occhi verdi si fecero ancor più grandi del normale:
“Ah sì?! È morto qualcuno? Avete chiesto a Mathieu dove si trovava?”
Il tono quasi febbricitante con cui Niki parlò lasciò Moos ancora più confuso, e il patologo annuì senza smettere di guardarla incerto prima di affrettarsi a correggersi:
“Sì. Cioè no, non è morto nessun altro e… perché dovrebbero chiederlo a Mathieu, in caso?”
“Bah, ma è ovvio!”, asserì Niki con tono sbrigativo prima di agitare la mano destra quasi volesse scacciare una mosca sotto lo sguardo sempre più perplesso di Moos, che annuì lentamente senza smettere di scrutarla corrucciato:
Se lo dici tu… Comunque vengono per chiederci del giorno in cui Monty… Lo ha scritto la Hastings ieri.”
Mentre Moos continuava a guardarla chiedendosi come potesse non esserne al corrente Niki, delusa, smise di sgranare gli occhi e abbassò visibilmente le spalle troppo esili, annuendo prima di liquidare il discorso con un pigro gesto della mano mentre usava l’altra per reggere la casserole:
“Ah, certo. Ma vedi, ho una brutta allergia alle chat di gruppo, specie quelle condominiali e che prevedono 150 persone. Beh, almeno succede qualcosa di interessante. A che ora è?”
“Tra venti minuti, a dire il vero. Se vuoi scendiamo insieme.”
Immagino di non avere scelta. Vieni, non voglio far uscire le gatte.”
Niki si spostò di lato per farlo passare e Moos si affrettò ad ubbidire, aprendo le labbra carnose in un sorriso candido quando scorse Mira correre verso lui e la padrona tenendo un topolino di pezza tra i denti.
“Ciao piccole! Oh, grazie.”
Moos prese il topolino che Mira lasciò ai suoi piedi e lo lanciò lontano usando il piede sinistro mentre Niki, chiusagli la porta alle spalle, lo superava con ampie falcate per dirigersi verso la cucina e appoggiare la casserole sul bancone. Quando gli chiese se gradisse o meno una tazza di caffè Moos smise di guardare adorante le gatte della vicina e si affrettò ad annuire, accettando con un timido sorriso.
“Grazie. Porca miseria!”
Niki aveva aperto uno degli sportelli neri della cucina, quello che si trovava esattamente al di sopra di una delle macchine per il caffè più costose che Moos avesse mai visto in vita sua, rivelando file perfettamente e inaspettatamente ordinate ed allineate di tazze e, soprattutto, innumerevoli barattoli di metallo pieni di diverse miscele. Immobilizzatasi a causa della reazione sorpresa del vicino Niki esitò prima di ruotare lentamente il capo per poterlo guardare, accennando un lieve sorriso colpevole mentre Moos studiava attonito l’esagerata quantità di caffè che la vicina custodiva nella sua cucina.
“Mi… piace molto il caffè.”
“Mi sembra evidente. Per caso hai lo sciroppo alla vaniglia?” Moos parlò inarcando un sopracciglio, speranzoso, e a Niki bastò un istante per allargare il proprio sorriso, guardandolo divertita mentre scuoteva leggermente il capo:
Tesoro. Se si parla di caffè io ho qualsiasi cosa.”
A conferma delle sue parole Niki aveva spalancato un secondo sportello mostrando file di bottiglie di vetro contenenti sciroppi di ogni tipo, e mentre la vicina si adoperava per preparare il caffè a Moos non era rimasto che avvicinarsi all’enorme libreria senza spalle, studiando con interesse i titoli allineati sulle mensole di legno scuro e metallo nero tenendo le mani allacciate dietro la schiena. I grandi e profondi occhi scuri di Moos accarezzarono i dorsi delle copertine leggendone i titoli e i nomi degli autori trovandosi di fronte ad un numero impressionante di thriller, con un intero scaffale dedicato ad Agatha Christie e uno a Stephen King. Fu solo chinando lo sguardo che Moos incontrò alcuni volumi dai titoli inequivocabilmente in francese, cosa che lo spinse a voltarsi in direzione della vicina e gettarle un’occhiata pregna di curiosità:
“Ti piacciono proprio tanto i gialli. Parli francese?”
“Ho vissuto a Parigi per un po’, e sai come sono i francesi… o parli la loro lingua o non parli affatto. Ecco, tutto tuo.”
Niki aveva spinto una tazza nera piena di cappuccino verso l’estremità del lato lungo dell’isola della cucina facendo cenno al vicino di sedersi su uno degli sgabelli mentre toglieva la pellicola dalla casserole per servirsi un rotolo alla cannella. Moos si allontanò dalla libreria per raggiungerla, sedendosi di fronte a lei per assaggiare il suo caffè alla vaniglia mentre la strega, rimasta in piedi al di là del mobile, agitava debolmente la schiuma contenuta nella sua tazza fissandola pensosa. Moos aveva sempre preferito rigorosamente il tè al caffè, ma difficilmente avrebbe racimolato il coraggio di confessarlo in presenza di Niki e non tardò a sollevare la tazza per assaggiare quello che lei gli aveva preparato, ritrovandosi a gustare piacevolmente la calda miscela aromatizzata alla vaniglia prima di sorriderle e annuire:
“Molto buono.”
“Certo che lo è. In un’altra vita preparavo caffè per pagare le bollette. E questi sono buonissimi!”
Dopo aver addentato un rotolo alla cannella Niki guardò prima il dolce e poi lui con i grandi occhi verdi spalancati, pieni di meraviglia, cedendo al vicino il turno di sorridere e annuire con aria soddisfatta: modestia a parte, Moos sapeva di preparare i migliori dolci alla cannella di tutto il quartiere.
“Lo so. Grazie.”
“Ora che ci penso mi sono dimenticata di mangiare stamattina, quindi grazie molte.”
“Perché non hai mangiato?”
Improvvisamente entrato in un mood simile in tutto e per tutto a quello di sua nonna, Moos smise di bere il caffè per gettare un’occhiata di vivo rimprovero alla vicina troppo magra, guardandola fare spallucce e accennare un sorriso prima di agitare debolmente la mano destra, mostrandogli una fasciatura bianca che avvolgeva buona parte del palmo e del dorso:
“Immagino che contribuisca la mia totale avversione nei confronti della cucina. Ecco cosa succede quando ci provo… Non siamo tutti portati. Io so camminare e ancheggiare sui tacchi egregiamente, per il resto non so fare granché.”  Niki chinò lo sguardo sulla sua tazza ancora intatta prima di immergere quel che restava del cinnamon roll che teneva in mano nella schiuma, addentando il dolce destando gioia nelle sue papille gustative mentre Moos, messo rapidamente da parte lo sguardo severo, la osservava accennando un sorriso gentile con gli angoli delle labbra carnose:
“Non è vero. Sai fare il caffè. Siamo negli States, è un gran traguardo.”
Niki esitò, ma dopo una breve riflessione annuì e tornò a posare lo sguardo su di lui accennando un sorriso, chiedendosi quale motivo lo spingesse ad essere gentile con lei. Non trovando motivazioni validi o qualsiasi forma di profitto che Bartimeus avrebbe potuto ricavare da quella gentilezza dovette constatare di trovarsi semplicemente di fronte ad una persona fondamentalmente buona, anche se aveva fortemente dubitato a proposito dell’esistenza di tali creature per praticamente tutto il corso della sua vita. levando la tazza per farla scontrare brevemente contro quella del vicino:
“Vero. Merito dell’Europa.”
 
Dieci minuti dopo Moos e Niki, che aveva provveduto a trasfigurarsi i vestiti per sfoggiare la solita felpa nera con cappuccio troppo larga e gli anfibi con i lacci rossi, aspettavano l’arrivo dell’ascensore stando in piedi uno accanto all’altra e in silenzio, entrambi con gli occhi puntati sulle porte dorate. Quando queste finalmente si aprirono, precedute dall’ormai familiare scampanellio metallico, Moos lasciò che la vicina lo precedesse all’interno dell’abitacolo, guardandola premere il pulsante che li avrebbe portati al pian terreno senza riuscire a distogliersi da un pensiero insistente. Dopo averla seguita dentro l’ascensore Moos guardò pensoso le porte chiudersi lentamente davanti a lui e a Niki, che era tornata ad indossare gli occhiali da sole dalla montatura rotonda e che ora teneva le mani sprofondate nelle tasche della felpa. Stavano ormai scendendo rapidi verso il pian terreno, sospesi tra l’undicesimo e il decimo, quando Moos si decise finalmente a spezzare il silenzio facendo prendere voce ai suoi pensieri:
“Niki, quando hai detto che hai incontrato Monty in ascensore poco prima che morisse… era vero?”
Moos parlò ruotando il capo per porter guardare la vicina, studiando quel poco del suo viso che non fosse coperto dagli occhiali da sole. Forse si aspettava un qualche accenno di mimica facciale che potesse tradirla, eppure Niki restò impassibile e annuì, esibendosi in una lieve stretta di spalle senza far trapelare alcunché:
“Mh-mh.”
“… E hai escluso che potesse essersi ucciso perché lo hai sentito parlare al telefono con qualcuno?”
Questa volta, mentre superavano rapidi il quarto piano, Niki esitò prima di rispondere e ruotò il capo per posare a sua volta lo sguardo su di lui attraverso le lenti scure, accennando un sorriso colpevole che anticipò al vicino la sua risposta:
“Quello potrei averlo inventato. Sapevo che non avrebbe mai potuto togliersi la vita… mi serviva solo un’argomentazione valida per convincere anche gli altri senza dovermi dilungare in spiegazioni.”
“Perché non vuoi che si sappia che vi conoscevate?”
Di tanto in tanto Moos viveva l’impressione di riuscire a comprendere un tantino meglio la sua vicina, ma le cose che gli sfuggivano erano ancora tante, in primis la sua reticenza ad ammettere di aver, in qualche modo, aver avuto a che fare con il suo ex migliore amico. La natura di quel rapporto gli era ancora ignota, ma Moos aveva l’impressione che le cose non fossero andate poi così diversamente rispetto all’amicizia che aveva chiuso molto tempo prima e che il comportamento del suo ex amico non si sarebbe potuto definire esemplare. Niki smise di guardarlo prima di rispondere, chinando lo sguardo sulle punte lucidissime dei suoi anfibi per poi stringersi debolmente nelle spalle:
“Non raccontiamoci favolette Bartimeus, la verità può essere orribilmente fraintendibile. Non sarebbe semplicissimo pensare che l’abbia ucciso io? La strana tizia di cui nessuno sa niente e che con nessuno parla… la perfetta sospettata numero uno.”
Moos udì una rassegnazione nella voce della vicina che lo indusse a guardarla con ritrovata premura; avrebbe anche sollevato una mano per mettergliela sulla spalla per consolarla se solo non avesse saputo che non avrebbe gradito affatto, e si costrinse e restare immobile e ad esprimersi solo a parole e con un accenno di sorriso mentre l’ascensore si fermava e le porte si aprivano davanti a loro:
“Io non ho mai pensato che tu potessi averlo ucciso, se ti consola. E non sei così strana, secondo me… Anche se dicono che lo sia anche io, quindi forse parlo per quello.” Moos si strinse debolmente nelle spalle mentre Niki, guardandolo quasi divertita, scuoteva la testa con un appena percettibile accenno di sorriso sulle labbra:
“Tu non sei strano Bartimeus, al massimo sei troppo adorabile per le aspettative sociali. E comunque, diciamocelo, quando ci sono due vittime la seconda è sempre il primo sospettato… Proprio non ci tengo ad essere in cima a quella lista.”
Moos rise ignorando la piena convinzione con cui Niki pronunciò quelle parole e precedette la strega fuori dall’ascensore per inoltrarsi nell’ingresso discretamente affollato, pieno di condomini che si stavano attardando prima di varcare la soglia della stanza dove erano solite tenersi le riunioni dedicate all’amministrazione del palazzo. A Niki non restò altra scelta che seguirlo, anche se avrebbe volentieri fatto a meno dell’incontro ravvicinato con gli Auror a cui stava andando spiacevolmente incontro, ma prima di allontanarsi si voltò per gettare un’ultima occhiata all’interno dell’ascensore, giusto il tempo di ricordare il breve scambio verbale che quella sede l’aveva vista condividere con Montgomery Dawson solo poche ore prima del suo decesso.
Era trascorso un mese, eppure sembravano solo pochi attimi: le porte si erano aperte al tredicesimo piano e se l’era trovata di fronte, portandola a pentirsi immediatamente di aver deciso di ripiegare su quel mezzo di trasporto per raggiungere il pian terreno. Disgraziatamente era in ritardo, impossibilitata ad usare le scale, e dopo una breve e nervosa riflessione si era faticosamente costretta a varcare la soglia dell’ascensore dando le spalle al vicino infilandosi le mani in tasca per celarle alla vista.
Riusciva a rivedere il sorriso con cui l’aveva accolta e le parole che aveva usato, quel “Ciao svitata” che ancora echeggiava nella sua mente, come se quell’incontro avesse avuto luogo solo poche ore prima. Era passato un mese, lui era morto, ma mentre le porte dorate le si chiudevano davanti Niki sentì il proprio stomaco annodarsi proprio come quel giorno.
“Non dovrei aver bisogno di dirti quanto poco gentile sia chiamare in quel modo qualcuno.”
Dopo essere entrata nell’ascensore Niki aveva dato le spalle, più abbassate del normale, a Montgomery senza guardarlo ma riuscendo ugualmente ad immaginarlo appoggiato alla parete e le braccia strette al petto esibendo quella totale noncuranza mista a spavalderia che l’aveva sempre infastidita: l’atteggiamento compiaciuto e sicuro di sé che solo una combinazione di bell’aspetto, denaro e la consapevolezza di poter avere qualsiasi cosa potevano conferire ad una persona.
“Intendi qualcuno come te? O in generale?”

Non lo aveva guardato, eppure aveva in qualche modo percepito il suo sorriso mentre si imponeva di non rispondere, la mascella talmente serrata da farle quasi male mentre le unghie affondavano sempre di più nei palmi sprofondati nelle tasche. Una volta finalmente libera dalla soffocante vicinanza forzata e condivisione di ossigeno con Montgomery Niki avrebbe attraversato il cortile con ampie falcate per distanziarsi il più possibile dal vicino e avrebbe sfilato le mani dalle tasche della giacca in vinile per guardarsi i palmi, trovandoli pieni di segni insanguinati.
 
“Niki?”
Il mite eco della voce di Moos ridestò Niki dai ricordi risalenti ad un mese prima e la riportò al presente, inducendo la strega a ruotare rapidamente su se stessa per consentire al proprio sguardo di tornare a soffermarsi sulla figura del vicino, che la stava guardando incerto a circa tre metri di distanza.
“Andiamo?”
Il capo di Moos si mosse appena percettibilmente verso il resto dell’ingresso, in direzione della loro destinazione ultima, e dopo una brevissima esitazione Niki annuì, infilandosi nuovamente la mani in tasca prima di seguirlo.
 
 
*
 
 
Accecato dalla fredda luce improvvisa che lo investì non appena ebbe aperto gli occhi Mathieu trasalì e serrò d’istinto le palpebre, risollevandole lentamente solo qualche istante dopo per mettere a fuoco ciò che lo circondava. Il primo pensiero che lo colpì fu rivolto alle piastrelle rettangolari e bianche che costituivano il soffitto sopra di lui, portandolo a chiedersi stranito perché non gli dicessero assolutamente nulla e per qualche motivo non ricordasse di averle mai scorte a casa propria; un istante dopo la sua attenzione venne invece catturata dalla fonte della luce bianca che avvolgeva tutta la stanza e che aveva contribuito a destarlo dal sonno, una sottile plafoniera che, esattamente come le piastrelle, non gli risultò per nulla familiare.
Un istante dopo aver formulato quei pensieri Mathieu, che stava disteso supino su un materasso, aggrottò le sopracciglia chiedendosi cosa fosse quell’odore strano che gli aveva appena solleticato le narici, ma almeno a quella domanda riuscì a dare rapidamente una risposta: disinfettante. Ma perché sentisse quel forte odore di disinfettante non se lo riuscì a spiegare, almeno finchè non venne colto da un’improvvisa e spiacevole consapevolezza: c’era un solo luogo che nel suo arsenale di ricordi era strettamente collegato a quell’odore, e gli bastò sollevarsi per mettersi a sedere di scatto per appurare con non poco sgomento di trovarsi in un’asettica stanza d’ospedale. Quel movimento si rivelò una cattiva idea una frazione di secondo dopo averlo compiuto, quando Mathieu venne colpito da una dolorosa fitta alla testa che gli strappò un gemito sommesso e lo indusse a sollevare d’istinto la mano destra per sfiorarsi la fronte. La sensazione più bizzarra, tuttavia, fu quella di déjà-vu che Mathieu ebbe l’impressione di provare a seguito di quel rapidissimo susseguirsi di pensieri, domande e percezioni sensoriali, cosa che contribuì fortemente ad aumentare il suo straniamento dato che era più che certo di non essersi mai svegliato in una stanza d’ospedale senza sapere come e perché ci fosse arrivato.
Ormai preda della confusione più totale gli occhi chiari e sgranati di Mathieu rimbalzarono prima su di sé, appurando con sollievo di indossare vestiti che sapeva per certo appartenergli e soprattutto di non avere arti amputati o lesioni gravi a squarciargli la pelle, e poi sul resto della stanza, finendo con l’imbattersi nel secondo letto che si trovava alla sua destra, vicino all’enorme vetrata che si affacciava sulla città buia e sul fascio di luci e insegne che ogni notte animavano Manhattan. Mathieu si sarebbe interrogato su che ora fosse, presumibilmente notte fonda, se la sua attenzione non fosse stata catturata dalla persona che occupava il letto accanto al suo, un viso familiare la cui vista incrementò il suo sgomento:
“Carter?!”
Il suo vicino stava disteso supino sul letto, ancora addormentato e apparentemente illeso tanto quanto lui, ma Mathieu si affrettò comunque a far scivolare le lunghe gambe giù dal letto rialzato per rimettere i piedi per terra e avvicinarglisi, sperimentando così una seconda fitta di dolore alla testa combinata ad un lieve capogiro. Si sforzò di ricordare come e quando fossero arrivati lì, e perché la testa gli facesse così male, ma non riuscendo a ricavarne nulla Mathieu mise la mano destra sulla spalla di Carter e lo scrollò leggermente, deciso a svegliarlo nella speranza che l’amico avesse qualche risposta da condividere con lui.
“Carter, svegliati.”, asserì Mathieu con tono sbrigativo mentre Carter si agitava nel sonno cercando di scacciargli la mano, finendo col borbottare qualcosa di incomprensibile prima di girarsi sul fianco per dargli le spalle e spingendo così l’amico a scrollarlo con maggior decisione intimandogli di svegliarsi per la seconda volta:
“Carter, svegliati cazzo, siamo in ospedale.”
Menzionare il luogo in cui misteriosamente si trovavano riuscì a far aprire pigramente gli occhi a Carter, che si rimise supino sul materasso prima di sbattere le palpebre nel tentativo di mettere a fuoco l’immagine di Mathieu, le sopracciglia aggrottate e un’espressione perplessa sul bel volto:
“Ospedale? Perché, stai male?”, borbottò il giornalista con voce impastata e guardandolo con sguardo vacuo, ancora non del tutto sveglio, mentre Mathieu scuoteva il capo studiandolo perplesso di rimando, tristemente quasi certo che anche Carter, come lui, non avrebbe ricordato come e perché fossero giunti in quella stanza.
“No, ho solo mal di testa. Tu stai male?”
“Non mi sembra. Oddio, ho qualcosa alla faccia?!”
Il pensiero di poter avere il volto sfigurato gettò Carter in un vortice di terrore irrazionale che lo spinse a tastarsi immediatamente il viso, gli occhi azzurri sgranati e pieni di apprensione, ma il mago si rilassò nel non sentire traccia di ustioni o ferite varie e grazie a Mathieu, che lo rassicurò con una scrollata di spalle e un’occhiata sbrigativa:
“Mi sembra normale.”

“Meno male cazzo, una vita senza bellezza non vale la pena di essere vissuta…”
Con quelle parole Carter si mise a sedere sul letto, probabilmente deciso a controllare che anche braccia e gambe fossero a posto, ma dimenticò cosa lo avesse spinto a muoversi non appena venne colpito da un’improvvisa fitta di dolore alla testa che gli strappò una sonora imprecazione e lo costrinse a serrare d’istinto le palpebre con forza:
“Porco cazzo, che male! Che cazzo ho fatto alla testa?!”
“Non ne ho idea, ma fa male anche a me. Alzati piano.”, gli suggerì Mathieu scrollando leggermente il capo con fare laconico, ormai del tutto persuaso che nemmeno l’amico serbasse ricordi delle ore precedenti mentre il giornalista si massaggiava la testa sotto alla folta chioma di capelli color grano guardandosi pensoso attorno nella stanza spoglia:

“Che ci è successo, siamo scivolati dalle scale? Se qualcuno ci ha spinti so benissimo chi è stato, l’altro giorno ho detto a Niki che se non smetteva di essere acida sarebbe finita come la Turner, e non mi pare l’abbia presa bene.”
“Carter andiamo, è ridicolo che Niki ti abbia spinto dalle scale, al massimo ti avrebbe avvelenato la birra. E poi io che c’entro?!”
“Magari eri con me e mi sei venuto dietro, che ne so, non ricordo un cazzo!” Carter sbuffò e agitò la mano esasperato, profondamente infastidito dal vuoto di memoria che stava provando per la prima volta in tutta la sua vita mentre muoveva nervosamente i piedi in fondo al letto facendo cozzare l’una contro l’altra le punte degli stivali chelsea che indossava, guardandosi nervosamente le scarpe mentre Mathieu, in piedi accanto a lui, si sforzava di risalire all’ultimo ricordo chiaro di cui disponeva:

“L’ultima cosa che ricordo è che eravamo a casa mia, tu io e gli altri. E poi basta, vuoto totale.”
“Anche io. Ma è suonato l’allarme, vero? E all’ora siamo usciti…” La voce di Carter si spense in un flebile mormorio mentre il giornalista studiava pensoso i piedi del letto con le sopracciglia aggrottate e la fronte solcata da delle rughe d’espressione, riflettendo insieme a Mathieu sul significato delle parole che aveva appena pronunciato. Un pensiero preciso s’intrufolò rapido nella mente di Carter appena qualche istante dopo aver menzionato l’allarme, e il ricordo di una sera risalente ad un mese prima, una sera che difficilmente avrebbe mai dimenticato, spinsero il giornalista ad allargare le labbra in un sorriso quasi euforico mentre sollevava lo sguardo per puntarlo su quello dell’amico, gli occhi azzurri improvvisamente animati dall’emozione:
“Matt, l’allarme suonò quando trovarono Montgomery tagliuzzato nel suo bagno. Se fosse morto qualcun altro?!” Il suo accennare ad un potenziale secondo decesso con tale emozione sarebbe stato senza alcun dubbio giudicato di cattivo gusto da qualsiasi persona dotata di giudizio e buonsenso, ma trovandosi solo con Mathieu in una stanza d’ospedale Carter decise di non curarsene minimamente, troppo preso a contemplare sovreccitato la possibilità di essere stato più o meno testimone di un delitto in piena regola.
“Se avessimo visto qualcosa che non avremmo dovuto vedere?” Mathieu diede voce ai pensieri di entrambi inarcando un sopracciglio e con un tono preoccupato che Carter non imitò, anzi il giornalista annuì senza smettere di sorridere entusiasta e prendendo a tastarsi maglione e jeans alla spasmodica ricerca di carta e penna, o ancor meglio della sua bacchetta:
“Cazzo, è meraviglioso! Vedi carta e penna, perché devo segnarmi tutto… Ma dov’è la mia bacchetta?!”
“Ok Carter, stai vivendo il tuo personale podcast true crime ed è meraviglioso, ma non ti domandi per quale motivo siamo qui se davvero abbiamo visto qualcosa legato ad un omicidio?” Tutto sommato Carter fu costretto ad ammettere a se stesso che l’interrogativo sollevato da Mathieu aveva senso e smise di guardarsi intorno alla ricerca della sua bacchetta per riflettere brevemente, ma ritrovandosi sprovvisto di una risposta logica dovette limitarsi ad una lieve stretta di spalle:
“Forse l’assassino ci ha reputati troppo belli per farci fuori.”
Il suono di quelle parole portò Mathieu a scoccare all’amico un’occhiata lievemente esasperata, quasi del tutto certo che le cose non fossero andate esattamente in quel modo, ma prima che potesse farglielo notare la porta di metallo alle sue spalle si aprì con un lieve cigolio, inducendo lui e Carter a volgere lo sguardo sull’ingresso della stanza d’ospedale che li aveva misteriosamente accolti.

*
 
 
Naomi attendeva in un angolo dell’ingresso continuando a gettare occhiate alla porta di vetro, i piedi ridotti ad un impaziente e lieve scalpitio contro il pavimento mentre le unghie rifatte e limate di recente fino a formare degli eleganti ovali picchiettavano sulla superficie rigida della sua borsa beige abbinata alle scarpe. Anche se si trovava lì già da qualche minuto Naomi ancora non aveva seguito il flusso di vicini che si erano diretti, come già accaduto di recente, nella sala dove di norma si tenevano le riunioni ma che ormai sembrava essere stata ufficiosamente adibita alle comunicazioni in merito alle novità sul caso Montgomery Dawson. Aspettava Gabriel, ma l’amico ancora non si era fatto vedere e la strega si sentiva sempre più impaziente, conscia che di quel passo le avrebbero soffiato i posti migliori e lei, essendo alta quanto un ragazzino di undici anni, avrebbe rischiato di non vedere un accidenti.
“Ciao Naomi!”
Udire il saluto di una voce amica fu un sollievo per la strega, che smise di studiare la porta d’ingresso quasi sperando di attirare Gabriel con la forza del pensiero per volgere il proprio sguardo su Eileen, che era appena uscita da uno degli ascensori e dopo averla individuata la stava raggiungendo con un sorriso sulle labbra.
“Ciao Eileen. Come va?”
“Mh, bene, un pochino nervosa. Stai aspettando qualcuno?”
“Gabri. È strano, perché non è un tipo ritardatario.”
“Vuoi sederti davanti per vedere il detective Byrne?” Un sorrisino increspò le labbra di Eileen e un luccichio divertito animò i grandi e belli occhi chiari della strega dal lieve accento scozzese mentre Naomi rispondeva appiattendosi con fintissima disinvoltura i capelli che aveva lisciato la sera prima e che erano stati raccolti in un elegante ed alto chignon.
“Certo che no, sedersi davanti è sospetto. Anche se non mi dispiacerebbe. Più che altro non voglio sedermi troppo in fondo perché, con la fortuna che mi ritrovo, finirei sicuramente dietro a Niki.”
Eileen asserì seria che fosse assolutamente impossibile che quell’eventualità si verificasse sostenendo che la vicina in questione si sarebbe di certo seduta in ultima fila, probabilmente sulla sedia più lontana da chiunque, e Naomi non se la sentì di contraddirla proprio mentre Gabriel varcava finalmente la soglia dell’ingresso salutando Lester e chiedendogli se avrebbe preso parte a sua volta alla riunione. L’anziano signore asserì laconico che sfortunatamente avrebbe dovuto, poiché gli Auror volevano che tutti presenziassero, esprimendo tutto il suo dispiacere per la situazione e per la morte precoce di un ragazzo che aveva visto gattonare. Lester sembrò anche sul punto di aggiungere altro, o almeno così sembrò a Gabriel, ma l’uomo tacque e al tatuatore non restò che congedarsi con un sorriso cordiale e allontanarsi chiedendosi se fosse stata o meno solo una sua impressione. Certo i dubbi di Gabriel svanirono nel nulla non appena ebbe individuato Naomi, che stava in piedi accanto ad Eileen e lo guardava con un’aria di rimprovero in grado di ricordargli puntualmente sua madre.
“Eccomi qui, ciao Eileen. Non guardarmi così, ho accompagnato Chloe e Dec a scuola e non mi mollavano più.” Dopo aver sorriso ad Eileen, che ricambiò allegra, Gabriel incassò l’occhiata di Naomi prendendola a braccetto per condurla verso la loro destinazione ultima sperando che menzionare i suoi nipoti l’avrebbe convinta, ma dopo aver notato quanto l’aspetto di entrambe le streghe fosse particolarmente ben curato decise intelligentemente di sfoderare un sorrisetto e spostare l’attenzione lontano da sé:
“Non siete un po’ troppo ben vestite per ciò che dobbiamo andare a fare, ragazze?”
“Noi siamo sempre ben vestite, cosa insinui?” Eileen si spolverò le lunghe maniche aderenti di tulle trasparente del vestito blu notte che indossava fingendo massima indifferenza, ma il sorriso sul volto di Gabriel si allargò quando il mago fece caso ai capelli inusualmente lisci di Naomi:
“E qualcuno si è anche lisciato i capelli… furbacchiona, ti vuoi sedere in prima fila?”  Naomi non era il tipo di amica in grado di fornire di frequente ottime scuse per essere presa affettuosamente in giro, anzi costituiva forse il miglior esempio di quasi perenne perfezione, specie nelle situazioni sociali, che Gabriel conoscesse. Per questo motivo il tatuatore non si lasciò sfuggire l’occasione e con un sorrisetto accennò ammiccante ai capelli della strega, gesto che unito al suo tono volutamente canzonatorio bastò a farla arrossire e ad intimargli brusca di farla finita:
“E basta con questa prima fila! A me basta poter vedere.”
Gabriel ridacchiò chiedendole chi avrebbe voluto vedere, ma Naomi, ovviamente, non rispose e finse di non aver sentito affatto.
 
Ad Esteban era sembrato strano l’essere arrivato nel cortile persino in anticipo rispetto a Jackson, Orion e Kei quella mattina, pertanto non si stupì affatto quando, un’ora dopo, si ritrovò a varcare di corsa la soglia del palazzo ringraziando gli ottimi riflessi di Lester, che aprì la porta impedendogli di andare a sbattere contro il vetro. Inutile dire che lui e i vicini si erano presi in leggero ritardo chiacchierando, bevendo caffè – soprattutto Orion – e perdendo la cognizione del tempo, ritrovandosi a sfilare di corsa davanti ad un Lester che, perplesso e divertito al tempo, si sentì rivolgere una sfilza di “Buongiorno Lester” e “Come va Lester?” dai quattro giovani maghi.
“Dove ci sediamo? Sempre che troviamo ancora quattro sedie libere vicine.” Domandò Kei seguendo Esteban mentre Orion, alle sue spalle, sbuffava lamentandosi sommessamente della mancata digestione della colazione.
“Lontanissimi dai miei genitori!”, gracchiò Jackson dietro di lui, desideroso di tenersi alla larga dai coniugi Salmon per tutte le ore che lo dividevano dal suo turno di lavoro successivo. Fortunatamente i quattro riuscirono ad individuare un paio di file ancora quasi vuote attorno alla metà della sala e lì si sedettero, immergendosi nel chiacchiericcio e nella curiosità generale che avevano avvolto la stanza dal pavimento di marmo e il soffitto stuccato.
“Ok, stanno parlando con il Signor O’Hara, siamo in orario.” Kei si rilassò contro lo schienale della sedia, seduto tra Esteban ed Orion, quando vide gli Auror, in piedi dall’altro capo della stanza, interloquire con il proprietario del palazzo, riconoscibile anche di spalle dalla statura considerevole e i capelli neri tendenti al riccio brizzolati sulle tempie. Esteban, individuati Naomi, Eileen e Gabriel seduti qualche fila più avanti rispetto a loro nella colonna di sinistra, levò una mano in segno di saluto quando li vide guardarsi attorno mentre Orion scartava un pacchetto di zuccotti di zucca ignorando l’esasperato rimprovero di Kei (“Ma ti pare il momento?!”) e Jackson scrutava i volti che li circondavano cercando quelli dei suoi genitori, finendo col sprofondare nella sedia sperando di camuffarsi con lo schienale bianco – stupido lui ad essersi infilato la coloratissima felpa della sua squadra di basket del cuore quella mattina –. Fu quantomeno un sollievo, per il giovane veterinario, vederli parlare civilmente come due persone normali: Marlene non sarebbe stata certo contenta di dare adito al palazzo di spettegolare sul conto della sua famiglia.
 
Quel giorno Carter non aveva affatto scordato la riunione, a differenza di qualche settimana prima: aveva provveduto a far sapere al capo che quel giorno non si sarebbe presentato in redazione per un imprescindibile ordine del Dipartimento degli Auror, ma anziché infastidirsi egli gli era parso entusiasta, e gli aveva raccomandato con un tono allegro molto raro di sfruttare tutte le informazioni a sua disposizione per continuare a tenere i lettori incollati a quella storia. Quella mattina il giornalista uscì dall’ascensore e attraversò l’ingresso quasi scontrandosi con Lester, che si stava aggiustando nervosamente il cappello sulla testa e i bottoni dorati della divisa verde bottiglia in vista della sua obbligata presenza. Carter lo salutò cordialmente, del resto l’anziano signore gli era stato simpatico dal primo momento in cui aveva messo piede nel palazzo, ma Lester ricambiò senza particolare entusiasmo, nervoso e poco abituato a trovarsi coinvolto in situazioni di quel genere.
“Ma dai Lester, figurati se qualcuno potrebbe mai muovere qualche accusa nei tuoi confronti, piaci a tutti!”  Carter sorrise al portiere con l’intento di rincuorarlo ma egli rispose gettandogli un’occhiata laconica, asserendo che nessuno potesse davvero piacere a tutti. Quelle parole confusero leggermente il giornalista, che aggrottò le sopracciglia mentre guardava il portiere dirigersi verso l’ultima fila di sedie, deciso a tenere fede al suo ruolo: esserci sempre ma non essere notato.
Rimasto nuovamente solo, a Carter non restò che perlustrare attentamente le file e file di persone che gli sedevano davanti dandogli le spalle, chi in silenzio preda di chissà quali riflessioni – magari su come eludere le domande degli Auror, si disse il mago – e chi impegnato a conversare a voce più o meno bassa con i propri vicini. Sapendo con precisione chi stesse cercando per Carter non fu particolarmente arduo individuare una nuca coperta da folti capelli biondo grano pettinati leggermente all’indietro, e fu in direzione di quella fila nella colonna di sinistra, posta più o meno a metà della sala, che il giornalista affrettò rapido il passo.
Camminando nella corsia creata tra le due larghe colonne di sedie Carter superò senza vederli Esteban, Jackson, Orion e Kei e anche una delle sue vicine predilette, la temibile Signora Turner: ella, seduta prevedibilmente accanto alla sua amica dell’appartamento D, a giudicare dallo stralcio di conversazione che capitò a portata d’orecchio di Carter, stava parlando dei suoi amati uccellini, asserendo cupa di averne di recente preso uno nuovo a seguito della tragica scomparsa di un altro.
“Povero Tippy”, mormorò l’anziana donna scuotendo tristemente il capo con un tono che Carter non le aveva mai sentito utilizzare nemmeno nelle rare occasioni in cui l’aveva sentita fare brevemente cenno al defunto marito, “lui e Mrs Gambolini erano inseparabili. Per fortuna presto avrà un nuovo amico a fargli compagnia.”
Fantastico, pensò Carter con una smorfia mentre le sfilava davanti senza essere notato, un altro amabile pennuto. Dopodiché Mrs Turner iniziò a menzionare la sua “dannata artrite”, e Carter filò dritto verso Mathieu per non sentire discorsi che aumentavano drasticamente la sua terribile paura di invecchiare.
Dopo essersi scusato e aver chiesto il permesso di passare all’inquilina del terzo piano cui dovette passare davanti per raggiungere la sedia rimasta vuota accanto a Mathieu Carter riuscì finalmente a raggiungere l’amico, che lo guardò con un inequivocabile sorriso divertito sulle labbra:
Bonjour. Vedo che questa volta non ti sei scordato e non hai portato Sarge.”
“Ah-ah. Potevi anche non sederti proprio qui, avere la Turner alle spalle mi crea ansia, ho sempre il terrore irrazionale che possa pugnalarmi alle spalle con un ferro da maglia.” Carter si lasciò scivolare pesantemente sulla sedia prima di gettarsi un’occhiata guardinga alle spalle – la Turner stava ora raccontando seccata alla sua amica di quanto fossero improvvisamente divenuti sboccati i suoi uccellini: da qualche tempo non facevano che ripetere “porca puttana” a tutto spiano! –, giusto per accertarsi che nessuna vecchina volesse attentare alla sua vita mentre Mathieu, accanto a lui, aggrottava la fronte perplesso
“Ma perché, fa la maglia?”
“Che cazzo vuoi che ne sappia io, è inglese e anziana e questo mi basta!” Dopo aver riflettuto brevemente sull’opinabile teoria dell’amico Mathieu gli avrebbe fatto notare come lui parlasse francese senza però mangiare lumache o andarsene in giro in bici con una baguette sotto l’ascella, ma conoscendo il soggetto in questione da anni decise di sorvolare e di sfoggiare, invece, un’espressione offesa mentre raddrizzava le spalle fasciate dalla giacca blu in tinta con la camicia azzurra con aria sostenuta:
“Bel ringraziamento per averti tenuto il posto. Sai quanti cuori ho infranto per tenerti la sedia libera?”
Carter ignorò deliberatamente il commento dell’amico, anzi si sbilanciò sulla sedia per accostare la testa alla sua e sussurrare approfittando del clamore che ancora avvolgeva la stanza:
“Seriamente, adesso che sei tornato dal tuo finto Thanksgiving…”
“Te l’avrò detto tremiladodici volte Carter, non è finto, è verissimo!”
“… posso dirtelo. Non sai che ho trovato nella borsa di Niki.” Giacché un istante prima si parlava di vecchiette assassine armate di ferri da maglia Mathieu sembrò stupirsi quando l’amico menzionò un’altra delle loro vicine, decisamente lontana da quell’immagine, esitando mentre lo guardava con le sopracciglia aggrottate prima di parlare sforzandosi di sembrare serio:
“La planimetria di una banca e un voluminoso sacco di tela con sopra il simbolo del dollaro?”
“No. Un accendino.”  Ecco, ormai per Mathieu non c’erano dubbi, lo scorse nello sguardo fermo, sovreccitato, quasi compiaciuto dell’amico: Carter aveva la febbre da gialli.
“Ma và? Niki fuma, che c’è di strano? Ce li abbiamo anche noi, degli accendini. Devi smetterla coi podcast, Carter. E poi che ci facevi con la sua borsa? Altro che essere pugnalato con un ferro da maglia, se ti avesse visto ti avrebbe sepolto vivo.”  Mathieu scosse la testa con un sospiro, come se avesse davanti un amico affetto da un grave problema, e Carter sbuffò prima di interromperlo, deciso a non farsi prendere per idiota:
“Non era un accendino normale! Lo avevo già visto, ma non avevo notato un piccolo particolare.”
E così Carter gli spiegò ciò che aveva visto, menzionando l’incisione che corrispondeva alle iniziali di Montgomery. Fu fonte di un gran moto di soddisfazione, per Carter, vedere Mathieu irrigidirsi un poco a sua volta, la fronte aggrottata e solcata da rughe d’espressione nello spazio tra le sopracciglia mentre rifletteva su ciò che l’amico gli aveva appena rivelato.
“Pensi che fosse suo?”
“A meno che non siano le stesse sputate iniziali della nostra spilungona, cosa di cui dubito, è assai probabile. Glie l’ho visto in mano la sera in cui trovarono il corpo, avrebbe potuto tranquillamente essere stato lui a darglielo. O magari se l’è preso lei.”
“Quando era vivo o morto?”   Quella era la parte che, tra tutte le congetture che aveva avuto modo di formulare nel corso dei giorni precedenti, faceva provare a Carter un profondo moto di inquietudine che vide riflesso nello sguardo di Mathieu. Una domanda che preferì eludere, cercando di non pensare a quell’eventualità, scuotendo il capo e procedendo con il discorso:
“Non è tutto. Morivo dalla curiosità ma ancora non volevo andare ad affrontarla, così mi sono messo ad arrovellarmi su tutto ciò che ricordo Niki mi abbia mai detto in relazione a Montgomery. Ho cercato un cenno, qualsiasi cosa, ma niente. Allora ho avuto un’altra idea, e il mio super sesto senso giornalistico sbaglia di rado: sono andato nell’unico posto dove so per certo, per sua diretta ammissione, che si reca di frequente.”
“Ovvero?”
“Siamo andati a fare colazione insieme, una volta, dopo il blackout. Disse che ci andava spesso perché finisce quasi sempre con la dispensa vuota. Sono andato lì e con il mio irresistibile sorriso mi sono piazzato al bancone aspettando che qualcuno desse retta alla mia bella presenza, e dopo aver bevuto, mangiato e aver dispensato sorrisi e complimenti ho ovviamente ottenuto quello che volevo. Ho chiesto se per caso si ricordassero di lei.”
“È non è tipo che passa inosservato.”
“No, per mia fortuna. Sai che mi hanno detto?” Carter finì di parlare allargando le labbra in un sorriso, gli occhi azzurri luccicanti e visibilmente animati dalla soddisfazione di essere l’unico detentore di quella che, era evidente, rappresentava per lui un’informazione particolarmente succulenta. E Mathieu dovette ammettere a se stesso, anche se spesso aveva provato scetticismo nei confronti delle strampalate teorie sulla vicina imbastite dall’amico, di provare non poca curiosità a riguardo.
 
Alcuni metri più indietro rispetto a loro, anche Moos e Niki avevano fatto il loro ingresso nella stanza. Il primo non aveva provato particolare stupore quando la strega aveva manifestato l’intenzione di sedersi in ultima fila, decidendo invece di assecondarla. Si era limitato, dopo aver appurato la presenza del “padrone di casa”, ad informare Niki della sua intenzione di andare a salutarlo:
“Vado a salutare il Signor O’Hara.”  Disse accennando con un lieve movimento della testa in direzione di Jack O’Hara, che sedeva su una sedia distante da quelle di tutti i condomini, addossata alla parete destra della stanza, la più vicina rispetto a dove si erano seduti lui e Niki.
“Sei proprio orribilmente e dannatamente educato, Bartimeus.” La strega aveva risposto accennando un sorriso divertito con gli angoli della labbra, gli occhi verdi celati dalle lenti scure che la strega era tornata a sfoggiare non appena messo piede fuori dalla porta di casa. Moos non aveva risposto, limitandosi a sorriderle prima di alzarsi e dirigersi verso il figlio dell’uomo che, decenni prima, aveva venduto il 6A a suo nonno.
Niki al contrario non si mosse, rimase immobile con le lunghe gambe rigidamente accavallate e il più possibile trattenute contro il corpo seguendo i movimenti di Moos, guardando il vicino finchè non si fu fermato davanti a Jack O’Hara, che gli si rivolse sollevando la testa e con un sorriso per chiedergli come stesse e scambiare un paio di parole. I due stavano ancora parlando sotto lo sguardo assorto Niki quando la strega si riscosse e volse capo e sguardo alla propria destra, colpita dall’impressione di aver scorto qualcuno scivolare sulla sedia accanto alla sua con la coda dell’occhio.
 
“L’hanno vista spesso e, fino a qualche tempo fa, non sempre da sola. A volte in compagnia di un tizio che mi hanno descritto come “alto e moro”. Quest’immagine ti evoca niente?”
Carter concluse il suo resoconto con un sorriso mentre Mathieu, accanto a lui, sgranava gli occhi azzurri. Ma prima che uno dei due potesse dire altro Dom smise di parlare con Walter e Megan e si schiarì rumorosamente la voce per attirare l’attenzione di tutti i presenti – impresa che non gli sarebbe risultata ardua in ogni caso –, ringraziarli per la presenza (“Come se avessimo avuto scelta”, borbottò Orion dalla sua sedia) e informarli di come sfortunatamente avessero bisogno di parlare nuovamente con ciascuno di loro a proposito del giorno che aveva preceduto il decesso di Montgomery Dawson.
“Può anche dire “omicidio”, ormai si sa.”, mormorò Eileen tamburellandosi inquieta le unghie smaltate di un intenso rosso ciliegia sulla coscia.
“Figuriamoci, se c’è anche il Signor O’Hara è ovvio che sia importante. Tu l’hai visto, quella sera?” Naomi parlò con un filo di voce volgendo lo sguardo su Gabriel, tornata improvvisamente adolescente, seduta tra i banchi di scuola mentre cercava di scambiare qualche parola con un compagno di classe senza essere beccata dall’insegnante di turno. L’amico rifletté brevemente aggrottando la fronte mentre cercava di rimettere in ordine i ricordi ormai leggermente annebbiati, finendo con l’asserire di non esserne del tutto certo:
“Ricordo soprattutto tu che ti lagnavi delle pantofole.”
“Ma smettila! A me sembra che ci fosse, parlava proprio con Byrne… Di sicuro se saltasse fuori un cadavere nel mio palazzo accorrerei anche io.”
Anche Carter, seduto qualche fila dietro ai tre, aveva osservato brevemente il proprietario del palazzo che di rado si faceva vedere da quelle parti, specie da quando Montgomery era morto – e non lo compativa affatto –. Poco prima lo aveva visto parlare con Moos, che però era tornato a sedersi da qualche parte in mezzo alle file di sedie bianche, in un punto che Carter, anche voltandosi brevemente, non riuscì ad individuare. Poiché non era affatto preoccupato all’idea di dover parlare con gli Auror – potevano fargli tutte le domande che volevano, lui sapeva per certo di essere rimasto a marcire in redazione, circondato da colleghi pronti a confermarlo, per buona parte della giornata in questione – il giornalista si permise di osservare brevemente O’Hara prima di mormorare un commento a bassa voce:
“Il Signor O’Hara è un gran figo.”
“Potrebbe essere nostro padre, più o meno.” Rispose Mathieu inarcando un sopracciglio e gettando a sua volta un’occhiata all’uomo, ma Carter rispose facendo spallucce:
“È decisamente più giovane di mio padre. E poi è figo comunque.”
“Hai ragione.”
La Signora Turner, un paio di file dietro di loro, pose fine a quel breve scambio di apprezzamenti intimando ai due di tacere con un sibilo minaccioso, e benchè fossero entrambi molto più grandi e grossi di lei incassarono la testa tra le spalle senza più osare aprire bocca.
 
 
*
 

Eileen uscì dall’ascensore senza smettere di rigirarsi tra le dita la minuscola bustina di plastica trasparente che aveva portato con sé dal suo appartamento, gli occhi eterocromi che solcavano di continuo le sagome del minuscolo, comunissimo oggetto che essa conteneva. Non aveva idea sul perché un oggettino del genere dovesse essere importante o degno di attenzione, ma le istruzioni che aveva ricevuto erano semplici, chiare ed inequivocabile: portarlo con sé, mostrarlo agli altri, aprirlo e soprattutto mai toccarlo senza usare i guanti, che in effetti la spagnola aveva portato con sé infilandosene un paio di gialli in tasca prima di lasciare il suo appartamento e Anacleto addormentato sul trespolo.
Non ancora del tutto certa di cosa avrebbe detto per spiegarsi Eileen si fermò davanti alla porta del 14D e suonò il campanello, attendendo pazientemente che la porta le venisse aperta. Bastarono pochi istanti affinché l’anta le venisse spalancata davanti, anche se il volto che l’accolse non fu quello del padrone di casa, bensì quello di Orion, che le sorrise allegro tenendo in mano una Burrobirra:
“Ciao! Vieni, Matt sta impedendo a Carter e a Niki di uccidersi per l’ultimo grissino.”
“Grazie.”
Eileen ricambiò il sorriso e superò il vicino addentrandosi nell’enorme appartamento di Mathieu quando Orion si fu spostato per farla passare, chiudendole la porta alle spalle mentre il suo sguardo curioso e attento indugiava immediatamente su ciò che la strega stava stringendo tra le dita pallide e affusolate.
Gli altri erano già più o meno tutti presenti e radunati nel vastissimo soggiorno, la maggior parte in preda a delle discussioni: Niki e Carter avevano tutta l’aria di aver appena finito di scannarsi a giudicare da come sedevano sullo stesso divano tenendo le braccia strette al petto e facendo in modo che il proprio sguardo non scalfisse in alcun modo l’altro mentre Mathieu sedeva tra loro sgranocchiando un grissino. Kei, Esteban e Naomi stavano invece in piedi davanti all’ormai immancabile lavagna magnetica piena di foto, scritte e frecce, talmente tanto da essere ormai diventata quasi illeggibile, discutendo dei recenti avvenimenti mentre Jackson – che per quel giorno di discussioni ne aveva avuto a sufficienza, ma felice di avere la perfetta scusa per tenersi fuori casa fino all’imminente inizio del suo turno allo zoo – sedeva accanto a Gabriel su un altro divano seguendo la scena.
“Emh… ragazzi?”  Eileen parlò per attirare su di sé l’attenzione dei presenti fermandosi a poca distanza dai divani, la busta di plastica ancora in mano e il tono incerto, come se non avesse idea di che cosa dire per non sembrare una perfetta svitata. Fortunatamemte bastò quel semplice richiamo per far sì che tutti volgessero lo sguardo su di lei, e in un attimo la strega aveva nove paia d’occhi ad esaminarla in attesa.
“So che sembra strano, ma… Leena non è potuta venire, ma mi ha detto di portare questo. Ha detto che è importante, anche se non mi è del tutto chiaro perché. E di non toccarlo.”
La spagnola avanzò senza aggiungere altro verso il tavolino che era stato spostato in modo da trovarsi tra i divani occupati per far spazio all’ingombrante lavagna – a sentire Esteban ne sarebbe presto servita un’altra, notizia che Mathieu non accolse con particolare entusiasmo –, chinandosi per appoggiarci sopra ciò che aveva portato con sé. Chi era seduto si sporse in avanti, chi era in piedi chinò lo sguardo, un istante dopo tutti guardavano ciò che Eileen aveva posato, ignari e più confusi che mai. Niki sorrise, in silenzio e senza che nessuno la notasse, mentre il silenzio calava nel soggiorno fino ad un attimo prima carico di voci.
“Leena ti ha chiesto di portarci un souvenir per non scordarci di lei?” Domandò Kei, e la sua voce risuonò più sarcastica di quanto volesse mentre Eileen, a disagio, scuoteva la testa spostando il peso da un piede all’altro:
“Non saprei dire. Ha detto che si può aprire. Ecco…”
La strega si mise le mani in tasca, infilò rapida i guanti – al solo vederli Carter sfoggiò una smorfia schifata – che forse per tutta la vita, ogni volta in cui li avrebbe messi per pulire, avrebbe ricondotto a quei bizzarri mesi, e aprì la busta per tirarne fuori ciò che aveva portato con sé: un magnete a forma di statua della libertà, e ad essere onesti nemmeno tra i meglio realizzati che avesse visto. Dopo aver sfilato il magnete dalla busta Eileen lo appoggiò su di essa per evitare che entrasse a contatto con il tavolino, sfiorandone i bordi, dove il colore era sbeccato in più punti, in cerca della fessura che, secondo le congetture di Leena, doveva esserci per forza. Fu un sollievo sentire un sottilissimo solco sotto i polpastrelli e il lattice dei guanti, segno che la sua amica ci aveva giusto anche se Eileen ancora non aveva compreso che cosa ci fosse dietro, e un attimo dopo il magnete, identico a quello che faceva capolino su chissà quanti frigoriferi sparsi per il mondo, si aprì in due.
L’interno, capace di contenere solo qualcosa di più piccolo di una monetina, era vuoto, e dato che tutti si erano aspettati il contrario l’aria si fece ben presto carica di delusione. La stessa Eileen udite le parole dell’amica, che le aveva consegnato magnete e busta dandole quelle esigue istruzioni quando aveva suonato il campanello di casa sua al termine dei loro colloqui con gli Auror prima di dileguarsi, asserendo di dover far ritorno di corsa al suo appartamento al primo piano per risolvere chissà quale disastro, si era detta che doveva per forza celarsi qualcosa d’importante all’interno di un oggetto così apparentemente ordinario. E invece nulla, cosa che le fece aggrottare la fronte: Leena era arrivata in ritardo alla riunione, l’aveva vista sedersi in fondo, dietro a tutti, qualcosa che di norma non avrebbe mai e poi mai fatto date le sue teorie strampalate sul dare nell’occhio. Eppure sorrideva, la sua amica, quando si era voltata per accertarsi di trovarla lì, con un compiacimento e un luccichio negli occhi scuri difficili da non notare.
“Beh? Che cosa dovremmo guardare?” A spezzare il silenzio fu infine Gabriel, che guardò prima l’interno vuoto del magnete e poi Eileen, in attesa di una spiegazione che da parte della spagnola non sarebbe potuta arrivare. A parlare in veste di Leena fu invece Niki, memore della ultima conversazione che avevano condiviso in piena notte fonda:
“Ce l’hanno messo dentro. Leena deve averlo recuperato prima di quel pallosissimo pseudo-interrogatorio.”
“Ci hanno messo dentro cosa?” Domandò Eileen, continuando a non capire, guardandola mentre Niki si alzava in piedi stringendosi nelle spalle:
“Qualsiasi cosa avrebbe dovuto uccidere Montgomery. Ciò che è stato messo nel suo caffè quel giorno. Qualcuno si è tenuto a portata di mano una minuscola quantità di veleno, l’ha messa nel caffè e quando pensava di aver fatto quello che doveva se n’è liberato gettandolo giù per il condotto dei rifiuti. Io e Leena ne abbiamo parlato l’altra sera.”
“Ecco cosa facevate qui fuori alle tre del mattino!” Esclamò Mathieu sollevando il mento per guardarla, finalmente consapevole di che cosa avessero combinato le due bizzarre vicine davanti a casa sua la notte immediatamente successiva al suo ritorno a New York.
“No, stavamo appostate sperando che uscissi di casa per farti una foto. Portalo a tuo fratello,” disse Niki volgendo brevemente il proprio sguardo su Kei, che ricambiò scrutandola impassibile “fallo analizzare. Ci troveranno sicuramente tracce di qualcosa dentro, anche se dubito saremo così fortunati da avere delle impronte.”
“Ma Leena è un genio!” Esclamò colpita Naomi fissando attonita il magnete, imitata da tutti gli altri mentre Niki, felice che nessuno le stesse prestando attenzione, salutava Prune con una carezza sulla testa prima di dirigersi verso la porta, scivolando fuori dall’appartamento per lasciare i vicini al fiume di teorie che quella scoperta scaturì.
 
 
*
 
 
Più tardi Carter colpì con decisione la superficie liscia della porta identica in tutto e per tutto a quella di casa sua, fatta eccezione per la lettera che seguiva il numero 13 d’ottone, sbattendoci contro le nocche, determinato a non muoversi dalla soglia fino a quando non avesse ottenuto ciò che l’aveva spinto a deviare la sua traiettoria una volta messo piede fuori dall’ascensore. Stava ormai bussando da almeno tre minuti, deciso a non desistere prima della sua vicina, quando finalmente Carter ottenne il risultato sperato: prenderla per sfinimento.
“Fammi capire, scrivi per un giornale e non sai leggere? Sei un fenomeno da studiare? Gradirei vivere in pace quel che rimane della mia malinconica vita.” La padrona di casa, che come da consuetudine si era già premurata di accertarsi quale inatteso visitatore avesse deciso di bussare alla sua porta attraverso lo spioncino, spalancò bruscamente l’anta gettando un’occhiata infastidita al vicino e accennando allo zerbino ai suoi piedi che Carter non aveva notato e che, Niki ne fu ormai del tutto sicura, era stato acquistato per niente. A quanto sembrava nessuno era disposto a prendere sul serio il divieto di accesso.
“Qui l’unico soggetto che meriterebbe di essere analizzato sei tu. Ti devo parlare, è importante.”
Per un breve, fulmineo istante Carter ebbe l’impressione di scorgere l’ombra di un sorriso sulle labbra di Niki, ma prima che potesse interrogarsi seriamente sul perché di quell’inattesa reazione esso scomparve e la strega tornò a mostrarsi seria ed inscalfibile quanto una statua di marmo.
“Se proprio non puoi esimerti.”  Se c’era qualcosa che Niki era certa di aver compreso del suo vicino era quanto testardo fosse, al punto da essere sicura che non sarebbe riuscita a liberarsene fino a quando Carter non avesse ritenuto di aver affrontato in maniera soddisfacente l’argomento desiderato, qualsiasi esso fosse. Si spostò dunque per consentirgli di superarla e varcare l’ingresso dell’appartamento, invito implicito che il giornalista non si fece ripetere e che colse senza remore con un paio di lunghe falcate. Soddisfatto, del resto aveva sempre avuto un talento naturale nell’infilarsi ovunque, specie quando era a caccia di informazioni, Carter ruotò su se stesso per tornare a posare il proprio sguardo sulla silhouette della vicina celata alla vista da una felpa decisamente troppo larga mentre Niki chiudeva la porta sentendosi ormai rassegnata all’idea di aver messo fine ai suoi giorni di malinconica solitudine nel palazzo quando aveva consentito a quello stesso ragazzo che ora la studiava in maniera indecifrabile di sedersi al suo stesso tavolo all’interno di un affollato ristorante.
“Che cosa vuoi, Carter? Lezioni per camminare sui tacchi?”
“Magari un altro giorno. Vorrei parlarti del tuo accendino, se non ti dispiace.”
Malgrado le intenzioni che lo avevano spinto fino alla porta del 13B fossero altre scorgere eccezionalmente tracce di sincera perplessità farsi largo e infine imprimersi negli occhi verdi e nella mimica facciale di Niki fu per Carter fonte di un moto di soddisfazione che gli si annidò piacevolmente fin nelle viscere. Sembrava che per una volta fosse riuscito a trovarsi qualche passo avanti a lei, dopotutto.
“Il mio accendino?” Fu la strega, per una volta, a parlare come se non avesse ben chiaro di che cosa il vicino stesse parlando o dove volesse arrivare, scrutandolo con sguardo attento mentre Carter annuiva senza riuscire a trattenere un sorriso carico di compiacimento:
“Sì. Giuro che per una volta non volevo ficcanasare, ma mi è capitato tra le mani l’altro giorno, quando ho preso il libro dalla tua borsa. A proposito, l’ho finito. Ho capito chi era stato attorno alla metà.”
L’accenno alla lettura parve esercitare un effetto rilassante su Niki, e Carter la vide abbassare leggermente le spalle e accennare persino un sorriso mentre lo guardava scuotendo il capo, gli occhi verdi animati da un improvviso luccichio divertito mentre si muoveva in direzione della cucina, raggirandolo per dirigersi verso i fornelli.
“Sei in realtà piuttosto lento Cross, era chiaro già da prima. Il primo sospettato crepa per secondo, e a stupirti è sempre chi non immaginavi. Quante cose orribili possono scaturire amore e rimpianto?”
Carter non rispose, deciso ad impedirle di sviare abilmente la conversazione, ma in compenso ruotò su se stesso per dare le spalle all’ingresso dell’appartamento per seguire con lo sguardo i movimenti della vicina, guardandola indugiare davanti all’angolo del ripiano rivestito in legno della cucina che si trovava accanto al frigorifero, di fronte alla costosissima macchina del caffè.
“Dicevi, riguardo a prima? Hai visto il mio accendino? Geniale, Watson, fumo e ne tengo uno in borsa. Roba da non credere. Lo vuoi un caffè?” 
Niki parlò dandogli le spalle, senza curarsi di guardarlo mentre apriva lo sportello nero del pensile che aveva davanti per recuperare una tazza coperta di gattini, il barattolo che conteneva una delle sue miscele preferite, aromatizzata al caramello, e una delle bottiglie di sciroppi allineate sul fondo dello scaffale. Quell’angolo della cucina ordinato con precisione millimetrica sembrava opera di una mente estranea rispetto a quella che abitava tutto il resto dell’appartamento, ma anziché soffermarsi sull’ennesima stranezza riscontrata nella sua vicina Carter annuì, accettando l’offerta più per rendere l’atteggiamento di Niki bendisposto nei suoi confronti il più possibile che per un effettivo bisogno di caffeina.
“Sì, grazie. Niki non trattarmi come se fossi un coglione, so che sai che non lo sono affatto. Il tuo accendino non avrebbe nulla di speciale, non fosse per l’incisione sulla base.”
“L’incisione?”
Una bottiglia d’acqua stava riempiendo autonomamente il serbatorio della macchina quando Niki si voltò per gettargli un’occhiata pigra che non tradì nessuna emozione particolare, portando Carter a chiedersi se quell’espressione indifferente fosse dovuta a sincerità o ad una lunga esperienza di partite di poker. Decise di propendere per la seconda ipotesi mentre ricambiava il suo sguardo senza aggiungere altro, gomiti, avambracci e mani intrecciate piantati sul ripiano dell’isola e occhi fissi su di lei, attendendo che Niki traesse le sue conclusioni mentre riempiva distrattamente di caffè il filtro. Alla strega bastò qualche breve istante per fare i dovuti collegamenti e comprendere ciò che aveva spinto il vicino a bussare alla sua porta, idea che risvegliò un raro accenno di risata roca dal fondo della sua gola:
“Tu pensi… tu pensi che il mio accendino fosse di Montgomery?”  Lo sguardo stralunato quanto divertito che Niki gli lanciò, quasi le avesse confidato di aver visto la Turner ad un torneo di magic-wrestling, non smossero di un centimetro le convinzioni di Carter: che fosse una brava attrice già lo aveva appurato da tempo. Decise invece di annuire, sorridendo amabile mentre si allungava leggermente in avanti sull’isola per sporgersi verso di lei prendendo a picchiettare la punta del piede sinistro contro il parquet:
“Non conoscevo bene Montgomery, ma mi dava proprio l’impressione di essere tipo da possedere un mucchio di gingilli costosi con le proprie iniziali sopra. È un atteggiamento schifosamente tipico della gente come lui, che in effetti equivale alla gente in mezzo a cui sono cresciuto e che, credimi, conosco molto bene. Sai non li so contare, i fazzoletti e le camicie di mio padre che fioccano di iniziali.”
“Su questo penso che tu abbia ragione. Ma il mio accendino non gli è mai appartenuto.”
“Allora è una coincidenza?”   Carter inarcò un sopracciglio, scettico, mentre la guardava accendere la macchina e posizionare le tazze sotto ai beccucci erogatori, le lunghe dita affusolate che tamburellavano lentamente sul legno. Gli occhi chiari di Carter indugiarono sulla garza che le avvolgeva la mano destra, ma non provò nemmeno a fare domande che non avrebbero ricevuto uno straccio di risposta.
“Che cosa pensi esattamente, Carter? Che me lo abbia dato lui? O che lo abbia ucciso io per poi andarmene in giro con un oggetto facilmente riconducibile alla mia vittima come il più coglione degli assassini di CSI? Mi potrei anche offendere.”  Niki scosse debolmente la testa mentre distoglieva lo sguardo da lui per gettare un’occhiata alla macchina e ai rivoli di caffè caldo e profumato che sgorgavano dai beccucci con un suono simile ad un borbottio, impregnando l’aria della cucina con un dolce aroma di caramello.
“Per cosa, per l’allusione al fatto che tu possa aver ucciso una persona o al tuo essere un’assassina stupida?”
Niki non rispose alla provocazione, tuttavia sorrise mentre si avvicinava all’isola per appoggiarvici sopra entrambe le tazze fumanti e ne spinse una verso di lui mentre Carter si accorgeva di aver ricambiato il sorriso quasi senza rendersene conto, quasi stessero facendo un gioco di cui lui non era ben a conoscenza.
“Per cosa stanno quelle lettere, allora? Se vuoi che mi sforzi di credere che l’accendino non fosse di Montgomery devi darmi una spiegazione credibile, spilungona. Chi è “Luke”?” Carter sollevò la tazzina che aveva davanti tenendola per il manico trasparente gettando un’occhiata perplessa alla scritta rossa su sfondo giallo che aveva di fronte
“Non ho tempo e voglia di colmare le lacune della tua ignoranza e non ti devo proprio un cazzo, carino. Per me potete pensare quel che vi pare. Tieni un cinnamon roll. E non fare quella faccia allarmata, non li ho fatti io, li ha portati Bartimeus stamani.”
Alla strega bastò un pigro agitare di bacchetta per far sì che una pirofila di ceramica piena di fiorellini li raggiungesse librandosi in volo da un angolo della cucina sotto lo sguardo inizialmente terrorizzato e subito dopo rilassato di Carter, che non si fece pregare neanche per un secondo e si affrettò a prendere una girella speziata e glassata prima di addentarla con lo stesso entusiasmo di un bambino in un negozio di caramelle. Il dolcetto profumato si rivelò delizioso tanto quanto il suo aspetto aveva fatto intendere, e Carter si leccò la glassa dalle labbra guardando prima la pirofila e poi la vicina scuotendo debolmente il capo:
“Perché tu gli piaccia non me lo spiego.”
“Un mistero indecifrabile, hai ragione.”
Invece di imitarlo Niki si strinse nelle spalle mentre studiava pensosa il suo espresso facendolo roteare all’interno della tazzina nera, prendendone un sorso per scottarsi la gola prima di tornare a rivolgersi al vicino aggrottando la fronte:
“Pensi davvero che l’abbia fatto fuori io? Pensavo che avessimo superato quella parte.” Carter, troppo occupato a masticare, scosse la testa prima di parlare a bocca piena, fregandosene della buona educazione:
“Sai Niki, rendi terribilmente difficile fidarsi di te e non sembrare orribilmente sospetta. Ci provo, ma ti ci impegni proprio, in questo e nell’essere antipatica quanto un letto di ortiche sul culo.”
“È solo un vecchio regalo. Non di Montgomery, levati quest’ossessione di me e lui legati da chissà cosa dalla testa. Che le iniziali siano le sue è una beffarda coincidenza da parte dell’universo.”  Niki scosse la testa con veemenza, e anche se i suoi occhi verdi restarono chini senza incontrare i suoi Carter ebbe comunque l’impressione di vederli incupirsi.
“Non l’ho detto a nessuno, più o meno, perché volevo prima parlarne con te e sentire la tua spiegazione. Ma non mi stai convincendo particolarmente, spilungona.”  Il giornalista parlò scuotendo la testa forzando un tono grave mentre tracciava figure astratte sul legno usando la punta dell’indice, parole che destarono un rinnovato accenno di sorriso, questa volta particolarmente beffardo, sul bel viso della strega:
“Carter, cos’è, ti spiacerebbe se fossi davvero io ad aver ucciso Montgomery. Di questo passo penserò anche che ti sto simpatica!”
“Ma figurati. Ho solo paura, se ti sbattono in gattabuia, che al tuo posto arrivi una tizia ancora più alta e stronza di te. Magari piena di Acromantule domestiche.”
Persino la deliziosa Mrs Turner a confronto di quell’immagine assumeva le sembianze di un tenero, innocente e morbido gattino, e Niki accennò un sorriso mentre picchiettava sovrappensiero le unghie tenute lunghe contro la ceramica della tazzina nera. Trascorse qualche istante, mentre Carter finiva il suo caffè, in cui nessuno dei due parlò e gli unici rumori nell’appartamento furono Carrie e Sam che, inseguendo e lanciando un topo di pezza, sfrecciavano sul pavimento. La mente della loro padrona, molto lontana dall’Arconia, finì col dar voce a parole che prima di quel momento difficilmente avrebbe immaginato di ritrovarsi a pronunciare scandendole con estenuante lentezza, quasi le costassero un’immensa fatica.
“La D è l’iniziale del mio nome. La M della persona che me l’ha lasciato tempo fa. Non di Montgomery!”, si affrettò ad aggiungere la strega con tono esasperato quando scorse il luccichio improvviso animare lo sguardo celeste di Carter, che aveva già aperto bocca per insinuarlo.
“E allora di chi cazzo è l’iniziale, di Madre Theresa?” Carter, che aveva già agguantato un altro cinnamon roll – l’acidona non li meritava certo più di lui –, agitò con scherno e stizza il dolce verso la vicina, che tuttavia scosse il capo e continuò a guardarlo placida, senza scomporsi.
“Il giorno in cui saranno cazzi tuoi te lo verrò a dire, Carter. Limitati a ficcarti in testa che è solo un normalissimo e vecchio accendino di cui dovrei liberarmi da anni e che casualmente riporta le stesse iniziali del nostro caro vicino deceduto.”
Una consistente parte di lui voleva sinceramente credere a quella versione, non sapeva nemmeno lui spiegarsi bene il perché, ma qualcosa in quella spiegazione troppo approssimativa e priva di dettagli glielo impediva. Voleva, doveva saperne di più, non solo a causa della sua spasmodica curiosità di natura professionale.
“Come faccio ad essere sicuro che non menti?”
“Credo che tu non possa. Montgomery è morto e a lui non lo puoi chiedere. Devi scegliere se fidarti della mia parola o no.”
Malauguratamente per Carter riconoscere che la vicina avesse ragione fu quasi immediato: chi si sarebbe potuto ricordare di un anonimo accendino, se nemmeno Kei aveva dato cenno di aver riconosciuto l’oggetto a fronte di una descrizione approssimativa? Forse sua madre, ma se davvero era stato un regalo Montgomery poteva anche averlo acquistato senza mai utilizzarlo, consegnandolo direttamente a lei. Poteva sforzarsi di credere che non fosse mai appartenuto al suo vicino o restare con quel dubbio pressochè in eterno, ma qualcosa di inspiegabile gli suggeriva che forse, per una volta, Niki fosse stata sincera con lui. Non gli restava che aggrapparsi alla convinzione che se davvero quell’oggetto l’aveva in qualche modo legata ad una persona che era stata appena uccisa la sua vicina sarebbe stata comunque troppo sveglia per portarselo in borsa come se nulla fosse. A tutto ciò tuttavia si aggiungeva la questione del tizio “alto e moro” con cui era stata vista. Poteva essere Montgomery, l’individuo misterioso, o solo una coincidenza ancora più assurda? Poteva essere riconducibile a quella persona la fantomatica “M” che spiccava indelebile sulla base dell’accendino? O quelle rivelazioni erano solo frutto di un errore di valutazione, e Niki non era stata davvero vista con qualcuno? Doveva ammettere che immaginare la scena gli risultava piuttosto difficile, soprattutto l’atteggiamento a dir poco scostante, in special modo verso il genere maschile, che la sua vicina sfoggiava dal primo istante in cui l’aveva conosciuta.
“Ricordi quando siamo andati a fare colazione insieme?”
Niki lo guardò stupita all’udire quella domanda, difficile dire se per la sua stessa natura o se invece a causa della repentina deviazione che la conversazione aveva improvvisamente assunto.
“Sì.”
“Niente. Mi chiedevo solo se ti capita di frequente di fare colazione in compagnia.” Il sorriso amabile si rinnovò con dolcezza sulle labbra di Carter mentre il giornalista si stringeva nelle spalle staccandosi dall’isola senza che i suoi occhi lasciassero il volto della vicina, deciso ad individuare qualsiasi potenziale traccia. Niki ricambiò il suo sguardo senza muovere un muscolo, finendo con l’inarcare un sopracciglio e imitare la sua noncurante stretta di spalle:
“Preferisco mangiare da sola. La storia del momento di condivisione su di me non ha mai attecchito. Perché questa domanda?”
“Così per sapere se sono stato particolarmente privilegiato o meno.”
Niki non rispose: strano a dirsi, non aveva più parole da pronunciare in grado di districarsi dal caos che si era immediatamente impossessato della sua mente. Non approfondì la questione chiedendo altro a Carter, rifiutandosi di dargli qualsiasi soddisfazione e limitandosi a scrutarlo mentre le dava le spalle per dirigersi con nonchalance verso l’ingresso – anche se in qualche modo doveva saperlo, che cosa poteva aver smosso pronunciando quelle parole di certo non scelte per caso –. Le dita della mano sinistra si mossero con un lieve scatto involontario facendo per serrarsi a pugno, ma Niki le costrinse rapidamente a distendersi di nuovo, lontane dal suo palmo.
“Perché lo usi se dici che dovresti liberartene?”
Ancora una volta la domanda colse Niki alla sprovvista, cosa che, appurò Carter non senza una buona dose di soddisfazione, irritò profondamente la strega. Dopo un breve attimo di riflessione si strinse nelle spalle e distese la labbra in un debole sorriso, ma Carter avrebbe scommesso tutto ciò che possedeva, animali inclusi, che fosse forzato: chi conosceva i sorrisi forzati meglio di lui, cresciuto con una madre che organizzava cene per gente che nemmeno le piaceva solo per le apparenze?
“Per ricordarmi. Perché in fondo, anche se mi costa ammetterlo, sono stupida come ogni altro essere umano, psicopatici a parte. Sono sentimentale. È difficile lasciar andare le cose, vero?” disse Niki guardando Carter in piedi sulla soglia. Mira balzò sul ripiano dell’isola e la padrona sollevò la mano destra per accarezzarle istintivamente la minuscola testa ramata, strusciando la garza che copriva la pelle contro il pelo corto della gatta.
“Di che cosa?”
“Degli errori.”
La solida freddezza e distanza con cui Niki rispose ricordarono a Carter le distese ghiacciate che si formavano sulla superficie di stagni e piccoli laghi sulle quali da bambino, in vacanza con la sua famiglia, gli era capitato di pattinare. Apparentemente inscalfibile, il ghiaccio rischiava di creparsi al primo eccessivo attrito.
Stava quasi per aprire la porta, la mente ridotta ad un turbinio che necessitava di trovare un ordine, quando un altro pensiero lo colpì balzandogli improvvisamente davanti agli occhi e portandolo a chiedersi come potesse averlo ignorato fino a quel momento:
“D, quindi? Com’è che ti chiami, Daisy?” Malgrado non fosse ancora del tutto certo se crederle o meno in merito alla questione dell’accendino Carter guardò la vicina con un sorriso che gli si estese fino agli occhi, lasciando che la sua voce si librasse tra le pareti come una cantilena mentre Niki, rimasta in piedi dietro all’isola, annuiva prima di fargli cenno in direzione della porta, segno che quella conversazione era giunta al termine:
“Sì. Daisysonocazzimiei. Ora va’ a rimorchiare su MagicMatching, Cross.”
Carter non se lo fece ripetere, certo che nulla avrebbe impedito alla vicina di lanciargli una fattura se l’avesse importunata eccessivamente con le sue domande, ma anche quando si ritrovò solo nel corridoio che collegava le porte dei loro appartamenti seppe che non avrebbe scordato, né accantonato, quella conversazione tanto facilmente. Una parte di lui decise di credere alla versione datagli dalla vicina, ma mentre si dirigeva verso casa per portare Sarge a spasso sentì che qualcosa gli stava scivolando, rapido ed inafferrabile, davanti agli occhi.

 
*

 
“Sinceramente non so niente. Non ho sentito niente né visto niente.”
Gabriel, che aveva preso il posto di Orion sulla sedia di metallo dallo schienale rigido, parlò gettando un’occhiata di sbieco alla penna nera che stava trascrivendo parola per parola tutto ciò che usciva dalla sua bocca su un voluminoso blocco per appunti a spirale: quasi riusciva a sentire la voce di Naomi intimargli di dosare adeguatamente le parole rimbombargli nella mente tante erano state le volte in cui l’amica aveva ripetuto quelle parole fin da quando si erano ritrovati, per la seconda volta in meno di due mesi, ad aspettare risposte nel cortile semibuio e freddo del palazzo.
Lo sguardo di Dom, che gli sedeva di fronte giocherellando distrattamente con una seconda penna facendola rotolare sul tavolo, indugiò a sua volta sulle righe di parole che erano già apparse sul foglio prima di tornare a guardare il tatuatore incalzandolo a continuare agitando debolmente la penna verso di lui:
“Ero a casa del mio vicino quando ha iniziato a suonare l’allarme antincendio, quindi siamo usciti e siamo rimasti nel cortile per tutto il tempo, finchè non ci avete chiesto di seguirvi qui. È tutto quello che è successo stasera.”
“In quanti eravate?”
“Dodici.”
“Elenchi i nomi per favore.”
Dom ascoltò solo distrattamente la voce di Gabriel elencare i nomi dei vicini con cui aveva trascorso la serata mentre contemplava assorto la penna prendiappunti lasciare tracce d’inchiostro sulla carta trascrivendoli uno per uno, finendo col constatare che combaciavano con quelli indicati dalle persone con cui aveva già parlato in precedente tra quelle indicate. Quando la voce del tatuatore si spense, in attesa della domanda successiva, Dom tornò a guardarlo mettendosi a sedere più comodamente contro lo schienale della sedia, la penna stretta tra le dita e gli occhi verdi puntati sul suo viso:
“Che cosa facevate a casa del suo vicino?”
“Niente. Era una serata come tante. C’era la pizza, c’era la birra… non facevamo niente.”
Gabriel si esibì in una noncurante stretta di spalle che non convinse appieno l’Auror, ma Dom decise di tralasciare momentaneamente la questione e si limitò a sporgersi in avanti sulla sedia per indicare l’elenco di nomi con la punta della sua penna:
“Ha detto che siete usciti tutti in cortile quando l’allarme ha iniziato a suonare?”
“Sì.”

“Allora perché abbiamo trovato James Cross e Mathieu Levesque-Simard dentro l’edificio, e non fuori? Sono rimasti dentro mentre voi siete usciti, perché?”
Lo sguardo di Gabriel scivolò fino a raggiungere il blocco per appunti, esitando prima di scuotere lievemente la testa in segno di diniego e affermare di non saperlo. Era la pura e semplice verità, ma seppe di non aver affatto convinto l’Auror con quella risposta quando lo vide gettargli un’occhiata indecifrabile prima di avvicinare la sedia al tavolo di qualche centimetro:
“Perché ha detto che siete usciti tutti se loro sono rimasti all’interno del palazzo?”
“Non credo di aver usato la parola tutti. Può controllare se è scritto.” Gabriel indicò pigramente il blocco per appunti con l’indice senza distogliere lo sguardo da quello di Dom, che gettò una rapida occhiata al foglio di carta prima di tornare a concentrarsi su di lui e annuire con un movimento appena percettibile del capo:

“No, non l’ha detto. Lo ha lasciato intendere.”
“La mia migliore amica è avvocato, e sostiene che affermare e lasciar intendere siano cose molto diverse.” Gabriel accennò un sorriso che Dom non ricambiò, cosa che portò il tatuatore a rendersi conto di non avergli scorto il benchè minimo cenno di mutamento d’espressione in volto da che si era seduto su quella sedia, rendendogli impossibile cercare di capire di quali pensieri fosse preda.
“Quindi non siete usciti tutti. Mi piacerebbe sapere per quale motivo qualcuno dovrebbe non uscire al suono di un allarme.”
“Siamo usciti tutti. Anche loro. sono usciti in cortile con noi ma poi… poi Carter ha deciso di tornare dentro, non so per quale motivo.”
“Carter sarebbe…”  Dom aggrottò le folte sopracciglia brune chinando la testa per tornare a scrutare l’elenco dei nomi, ma Gabriel lo precedette agitando pigramente una mano e affrettandosi a correggersi:
“James. James Cross.”
“Ma non era solo quando lo abbiamo trovato.”
“Mathieu è andato con lui.”

“Perché?”
Gabriel esitò di fronte allo sguardo serio e penetrante dell’Auror, conscio di non aver bisogno di mentire nell’affermare di non saperlo: ricordava chiaramente di averli visti uscire insieme a lui e a tutti gli altri, ma una volta fuori chissà quale pensiero aveva colto Carter, che era corso di nuovo dentro il palazzo dopo appena qualche minuto. Gabriel aveva scorto distrattamente lui e Mathieu dirsi qualcosa mentre udiva la voce di Naomi rimproverarsi di essere uscita senza giacca e con le pantofole a nuvoletta che ormai sembravano perseguitare ogni sua uscita pubblica nel cortile del palazzo, ma li aveva visti dirigersi verso l’ingresso con troppa gente e troppe voci attorno per poter sperare di udire qualcosa e di vederci più chiaro. Il tatuatore finì col sospirare, stanco di quella serata che sembrava destinata a non finire mai, e col scuotere debolmente il capo prima di dar voce ai suoi pensieri:
“Senta, non lo so. C’era un sacco di confusione, eravamo in tanti ammassati nel cortile, la gente già parlava di cadaveri visto quello che era successo con Montgomery Dawson, non so perché siano rientrati. Nessuno credeva davvero che ci fosse un incendio dopo quello che è successo il mese scorso, forse avevano solo dimenticato qualcosa. Chiedetelo a loro.”
Quando Gabriel tacque appoggiandosi stancamente allo schienale della sedia nella stanza calò un silenzio disturbato solo dal fruscio della punta della penna prendiappunti impegnata a riportare le sue parole, e il mago guardò i due Auror esitare e scambiarsi un’occhiata significativa per loro tanto quanto indecifrabile per il tatuatore, che si ritrovò a spostare accigliato lo sguardo dal viso di Dom illuminato dalla luce bianca della lampada a quello avvolto dalla penombra di Megan in attesa di spiegazioni che giunsero poco dopo, quando entrambi tornarono a studiarlo e Dom si espresse con tono pacato ed inflessibile:
“Quando si trattava di Montgomery Dawson l’allarme lo abbiamo attivato noi, questa volta non abbiamo idea di chi sia stato. E comunque i suoi vicini non ricordano niente, Signor Mendoza.”
Il piede destro di Gabriel, che aveva iniziato a muoversi meccanicamente tradendo l’impazienza e il lieve disagio provati, si immobilizzò di colpo contro una delle gambe del tavolo mentre il tatuatore, senza parole, fissava incredulo Dom e l’espressione cupa che gli oscurava i bei lineamenti del volto cesellato:
“Non ricordano niente?!”
 
 
Naomi strofinò con lieve nervosismo la suola dello stiletto nero contro il pavimento di un’indefinita quanto cupa tonalità di grigio, gli occhi verdi chini sulle proprie ginocchia mentre la sua mente era ridotta ad un confuso vortice di pensieri sconnessi. Benchè fosse – tristemente – abituata a far visita a suo fratello in carcere e i tribunali non fossero affatto luoghi a lei estranei il fatto di trovarsi a pochi metri da una sala adibita agli interrogatori la innervosiva non poco, ancor più considerando le pochissime informazioni di cui lei e i suoi vicini disponevano: il fatto stesso di non sapere cosa stesse succedendo la disturbata, se possibile, più del trovarsi in un corridoio semi-buio del M.A.C.U.S.A. a quasi tarda notte.
Dopo aver gettato un’occhiata di sbieco alla porta che si era chiusa alle spalle di Gabriel una decina di minuti prima la strega prese a tormentarsi i ricci capelli castani attorcigliandosene una lunga ciocca attorno all’indice destro, incapace di restare semplicemente immobile mentre si domandava nervosamente quando avrebbe potuto finalmente tornarsene all’Arconia dai suoi animali domestici.
“Che fai Nay Nay, ti scombini i capelli proprio quando è quasi il tuo turno?”
Poiché non aveva mai gradito nomignoli e storpiature di qualsiasi genere da quando era bambina Naomi chiese al vicino di usare il suo nome completo esalando un sospiro stanco mentre Esteban, che aveva smesso di aspettare insieme a lei qualche minuto prima, quando si era alzato decretando di aver urgente bisogno di caffeina, la raggiungeva a metà del corridoio deserto brandendo un sorriso e allungandole un bicchiere di carta pieno di caffè bollente.
“Grazie. Ti hanno lasciato prenderli?” La strega accettò di buon grado la bevanda calda e spostò colpita lo sguardo sul vicino mentre Esteban tornava ad occupare la sedia addossata alla parete accanto alla sua, lieta di avere nuovamente qualcuno con cui interloquire: ad attendere nel corridoio erano rimasti solo loro, e parlare le impediva quantomeno di consumarsi la mente attorno alle esigue informazioni di cui disponeva su quanto fosse accaduto.
“Questo sorriso e questa faccia possono qualsiasi cosa.” Fu esattamente il sorriso di cui parlava che Esteban mostrò compiaciuto alla vicina prima di sorseggiare un po’ di caffè e portarsi la caviglia destra sul ginocchio sinistro per stare più comodo, ormai insofferente alla loro prolungata permanenza al M.A.C.U.S.A. tanto quanto lo era Naomi, che lo imitò assaggiando il caffè bollente, che le scaldò piacevolmente la gola, prima di gettargli un’accigliata occhiata di traverso:
“Fortunato. Anche perché, scusa se te lo dico, sembri uno scappato di casa.”  Naomi non sarebbe riuscita a celare la velata disapprovazione che nutriva nei confronti della tuta sbiadita e troppo larga di Esteban nemmeno provandoci col massimo impegno, ma fortunatamente il ragazzo, anziché prendersela, sorrise e annuì quasi come se la cosa lo divertisse:

“Me lo dice sempre anche mia madre. Aspetta… Ma ti sei cambiata i vestiti?”  Esteban, che fino a quel momento era stato troppo preso dall’elaborare congetture mentali su quanto accaduto per prestare particolare attenzione all’abbigliamento altrui, si accorse solo in quell’istante di come la tuta che Naomi aveva indossato per tutta la sera era svanita e sostituita da abiti scuri e molto più sobri, cosa che lo fece ridacchiare mentre la strega, accanto a lui, arricciava il naso stizzita:
“Secondo te vado a parlare con gli Auror con addosso la mia tuta di ciniglia color zucca?! Ok che è autunno, ma ho una dignità da mantenere.”, asserì Naomi sollevando il mento con aria altezzosa, omettendo accuratamente di far sapere al vicino di indossare ancora i calzini antiscivolo con lo zucchero filato sorridente – ovviamente regalo di Moos – sotto agli stivaletti col tacco. Quelli, per fortuna, nessuno avrebbe potuto notarli.

“Secondo me la gente giudica troppo in base all’abbigliamento. Per questo non me ne curo per niente.”
Per questo e per la consapevolezza di avere un bell’aspetto qualsiasi cosa indossasse, ma Esteban tenne per sé quella parte mentre faceva spallucce studiando distrattamente quel che restava del suo caffè mentre lo faceva roteare agitando il bicchiere.
“Probabilmente hai ragione, ma solo un terremoto riuscirebbe a farmi uscire di casa con una tuta sformata.”
Quando Naomi tacque un breve silenzio inghiottì il corridoio, attimi scanditi solo dal lieve agitarsi del piede destro della strega, che scandiva lo scorrere del tempo picchiettando sul pavimento fissando pensosa la parete che aveva di fronte mentre Esteban, seduto in modo da stare il più comodo possibile quasi sprofondando nella sedia, teneva la testa leggermente reclinata e appoggiata contro il muro.
“Com’è che parliamo di vestiti quanto è appena morta una persona?”, domandò infine la strega voltandosi nuovamente verso il vicino, che a quella domanda parve rianimarsi e tornò a guardarla con gli occhi sgranati e annuendo con enfasi:
“Non me lo dire, pagherei per sapere chi cazzo è morto, questa suspence mi farà venire le rughe!”
Naomi inarcò un sopracciglio sentendosi molto scettica a riguardo, ma prima che potesse rimproverare aspramente Esteban e ricordargli che alla sua età di certo non aveva mezza ruga sul viso, mentre lei già aveva adocchiato qualche capello bianco, la porta davanti a loro si aprì consentendo a Gabriel di raggiungerli nel corridoio, zittendola all’istante.

La curiosità era tanta che la strega fece per chiedere all’amico cosa gli avessero chiesto non appena il tatuatore si fu avvicinato a lei e ad Esteban, ma prima che potesse anche solo aprire bocca Dom la chiamò chiedendole di seguirlo. A Naomi non restò che stringere le labbra e alzarsi, obbedendo e seguendo l’Auror dentro la stanza senza aprire bocca, impaziente di sentire le loro domande per poter dare un senso ai recenti avvenimenti. La porta si era appena chiusa alle spalle di Dom quando Gabriel occupò la sedia dove fino a poco prima era rimasta seduta a lungo la sua amica, rivolgendosi ad Esteban con un nervoso mormorio per riportargli ciò che aveva appena appreso dal suo colloquio con gli Auror:
“Mathieu e Carter non ricordano niente.”
Esteban quasi sputacchiò i rimasugli di caffè che aveva fatto per sorseggiare dopo che la porta si era chiusa udite le parole del vicino, lasciandosi sfuggire un paio di colpi di tosse prima di riprendersi e voltarsi così verso Gabriel, gli occhi ambrati spalancati dalla sorpresa e quasi inorriditi:
“Che cazzo dici?!”

“Così mi hanno detto, non so niente. Ho bisogno di caffè…”   Gabriel non aveva idea di quante ore fossero passate con precisione dall’ultima dose di caffeina che aveva assunto, ma non gli ci volle molto per appurare che fossero troppe, e si appoggiò sospirando con la nuca alla parete cui dava le spalle mentre cercava, senza successo, di dare un senso ai recenti avvenimenti.
“Tranquillo amico, ci penso io.” Con quelle parole Esteban si alzò, assestò una lieve pacca sulla spalla del vicino e poi si allontanò con la massima nonchalance, come se stesse andando ad ordinare qualcosa al bar.

 
Quando la porta venne nuovamente aperta consentendo a Naomi di fare ritorno nel corridoio nemmeno Gabriel, pur conoscendola da anni, riuscì a decifrare l’espressione tesa e concentrata impressa sul bel viso della strega, ma il tatuatore si costrinse a restare in silenzio e ad attendere che Domnhall fosse fuori portata d’orecchi per parlare e confrontarsi con lei in merito alle domande che gli erano state poste mentre Esteban si alzava, quasi sollevato di poter finalmente mettere fine a quella lunga attesa che lo aveva stancato quasi più di una corsa.
Mentre aspettava che Esteban lo raggiungesse Dom, rimasto fermo accanto alla porta, fece rimbalzare lo sguardo da Naomi a Gabriel, che invece di andarsene era rimasto seduto, prima di far sapere con tono pacato ad entrambi che, se volevano, potevano andarsene. Il tatuatore invece non si mosse e nemmeno la strega accennò di voler lasciare l’edificio, esitando prima di voltarsi verso di lui:
“Le dispiace se aspettiamo Esteban?”
“No, certo. Come preferite. Venga Signor Powell.”
Esteban detestava sentirsi chiamare in quel modo – non solo lo faceva sentire vecchio, ma nella sua testa il “Signor Powell” sarebbe sempre rimasto solo e soltanto suo padre –, ma si guardò bene dall’esternarlo a voce alta e si limitò ad accennare una lieve smorfia con gli angoli delle labbra carnose mentre precedeva Domnhall all’interno della stanza affinché l’Auror potesse chiudergli la porta alle spalle. Lo sguardo del ragazzo perlustrò immediatamente l’ambiente inusuale che lo circondava, e non fosse che era appena morta una persona che fino a quel giorno aveva abitato a non troppa distanza da lui avrebbe quasi potuto emozionarsi per la possibilità di vivere in prima persona la scena di una serie tv.
 
Naomi non attese nemmeno un istante quando udì la porta di metallo sbattere, occupò immediatamente la sedia di Esteban e si rivolse all’amico ruotando leggermente il busto verso Gabriel prima di parlare cercando di mantenere un timbro controllato e di contenere l’enfasi:
“Non hanno suonato loro l’allarme.”
“Lo so!”
“Allora chi può averlo fatto? L’assassino per farci uscire, ovviamente. Così nessuno l’avrebbe disturbato.”
“Ma Matt e Carter erano dentro.”

“E infatti casualmente non ricordano nulla.”
 
 
*
 
 
“Pensi che l’abbia ucciso lei?” La domanda a bruciapelo di Kei non sorprese Carter, non dopo ciò che gli aveva raccontato dopo avergli chiesto di raggiungerlo nel suo appartamento con un messaggio, deciso a finire una conversazione che aveva lasciato in sospeso nei giorni addietro. Il giornalista, seduto con Isla sulle ginocchia e una bottiglia di birra aperta in mano, fissò pensoso un punto del tavolino di legno sistemato tra i due divani di pelle color cuoio, uno occupato da lui e uno dal vicino, prima di scuotere leggermente il capo senza smettere di sfiorare affettuosamente il morbido pelo maculato della gatta del Bengala.
“No. Non penso. Non penso che se lo porterebbe dietro, se fosse andata così. Qualsiasi cosa sia Niki non è stupida. Tu lo pensi?”
Anche Kei esitò, riflettendo attentamente su ciò che Carter gli aveva detto mentre Sarge, forse percependo in qualche modo il suo stato d’animo, si faceva accarezzare dopo essersi seduto sul pavimento proprio accanto a lui, tra il divano e il tavolino, gli occhioni castani smaniosi d’affetto e attenzioni. Probabilmente illudersi di essere finalmente venuto a capo del mistero della morte del suo amico e mettersi l’animo in pace sarebbe stata la soluzione più semplice, ma Kei era altrettanto consapevole di dover prendere lucidamente in considerazione tutti gli elementi della storia, e qualcosa gli suggeriva di dover trovarsi d’accordo con il vicino.
“Non lo so. Ma immagino che quello che dici abbia senso. Non penso che lo userebbe, oltre ad essere macabro sarebbe anche piuttosto idiota, viste le iniziali.”
“Magari non era suo. Di Montgomery, dico, come dice lei. Tu per primo dici di non averlo mai visto.”
“Può essere, sì. Penso che lo chiederò a sua madre, tanto per essere sicuro.”
Carter annuì senza rispondere e per qualche istante i due rimasero in silenzio, ciascuno preda delle proprie riflessioni prima che Kei, senza smettere di accarezzare grato la morbidissima testa di Sarge, esalasse un pesante sospiro:
“Vorrei solo capire chi è stato e basta, sarebbe un inizio per non pensarci più. Ma immagino che gettarsi sulla prima soluzione più ovvia non sia il modo giusto per farlo.”
Anche quando Kei ebbe lasciato l’appartamento dopo averlo salutato e ringraziato Carter si distese sul divano continuando a pensare alle sue parole e quell’intangibile traccia di sofferenza presente nella sua voce e sul suo viso. Amava da così tanto tempo le storie di omicidi, persino quelle vere, quelle dei serial killer che avevano segnato la storia degli States, da nemmeno ricordare come quella passione fosse iniziata e da cosa avesse avuto origine. Probabilmente un libro che aveva letto, forse proprio della Christie. Le amava da così tanto tempo, quelle storie, vere e non, da essersi scordato come alle loro spalle ci fosse sempre qualcuno che non traeva alcun intrattenimento, ma che soffriva per la perdita.
 
Anche Kei finì sul suo divano, una volta a casa. Per nulla intenzionato a studiare, talmente prosciugato di qualsiasi stimolo positivo anche per mettersi a scrivere, tutto ciò che riuscì a fare fu abbracciare il suo gatto e telefonare a sua sorella: non poteva contare sulla sua famiglia, non unita almeno, dato che l’unico a vivere vicino a lui era Eita, da troppo tempo. A volte gli mancavano, anche se ai suoi genitori cercava di non pensare mai per non farsi mancare l’aria dai polmoni, più di quanto riuscisse ad ammettere a voce alta.
 
 
*
 
 
Niki si lasciò scivolare lentamente al centro del divano color caramello addossato contro la parete desiderando di sprofondare al suo interno, di rannicchiarsi su quei cuscini e di far sparire ogni sua traccia dal mondo per qualche ora, o giorno, senza smettere di accarezzare meccanicamente la piccola testa color ruggine di Mira, che aveva poco prima raccolto dal pavimento illudendosi che bastasse stringere quella piccola ed indifesa creatura per far dissolvere qualsiasi pensiero negativo. Conscia di non poter scaricare su nessuna delle sue gatte ciò che l’affliggeva la strega lasciò Mira accanto a sé sul divano, consentendole di andare ad acciambellarsi nel suo solito angolino, appoggiata contro un cuscino bianco, e dopo essere rimasta immobile per qualche istante s’infilò la mano destra nella tasca della felpa che indossava per estrarne il suo accendino, rigirandoselo brevemente tra le dita affusolate prima di appoggiarlo sul basso tavolino di legno che le stava davanti.
Niki continuò a scrutare l’accendino sollevando le gambe e raccogliendole contro il petto appoggiando i piedi sul divano e il mento sulle ginocchia, occupando il minor spazio possibile nella stanza avvolta dal silenzio mentre i suoi occhi verdi restavano puntati sull’accendino e la sua mente inghiottita dal turbinio confuso di pensieri a cui stava cercando di dare un ordine da ormai delle ore intere. Dopo qualche minuto, anche se non avrebbe saputo quantificare il tempo trascorso stando seduta immobile sul bordo del divano, smise di stringersi le gambe con le lunghe braccia per sollevare la mano destra e portarsela all’altezza dello sguardo, studiando pensosa la sottile fasciatura bianca che avvolgeva il palmo spiccando sulla pelle olivastra. Dicendosi di averla tenuta ormai più che a sufficienza Niki afferrò l’estremità della garza con la mano sinistra e iniziò a srotolarla fino ad avere la mano completamente libera, lasciando cadere con noncuranza la fasciatura sul tavolo, accanto all’accendino, per poi flettere la mano e osservare il palmo in controluce.
Individuare i solchi sulla pelle liscia non le fu difficile, anche se i tagli stavano andando rimarginandosi, e Niki si ritrovò a flettere le dita sovrappensiero, appoggiando le unghie lì dove indugiavano troppo di frequente prima di distenderle di nuovo e tornare a studiare il suo accendino. Lo prese in mano e sollevò il coperchio per accenderlo e studiare la minuscola fiamma che le si agitava lievemente davanti agli occhi e con cui di solito si accendeva le sigarette, solleticandola piano con l’indice quasi per giocarci. Mira si era ormai addormentata quando la sua padrona si costrinse ad abbassare il coperchio dell’accendino e a rimetterlo sul tavolo, stendendosi supina sui cuscini per non guardarlo e puntare invece lo sguardo sul soffitto che la divideva dal 14B. Il divano sfortunatamente non la inghiottì e per sparire dovette chiudere gli occhi allacciandosi le braccia in grembo, sperando che il suo cervello le desse un po’ di tregua spegnendosi in fretta mentre con le dita della mano sinistra raggiungeva lo spesso elastico nero che le avvolgeva l’ossuto polso destro, stringendolo prima di farlo schioccare contro la pelle.
 
 
 
 
 
 
 
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Angolo Autrice:
Un ritardo simile per questa storia sono sicura di non averlo mai accumulato prima d’ora e non so veramente come scusarmi, l’estate spesso non è per me una stagione particolarmente prolifera per quanto riguarda la scrittura ma quest’anno la mia assenza è stata davvero vergognosa. Spero vivamente, ma ne sono convinta, che l’autunno mi porti più ispirazione essendo anche LA stagione di OMITB 🍁🍂🧡
Mi duole invece mettere un punto a qualcosa che ho rimandato il più a lungo possibile, ovvero l’eliminazione di Piper dalla storia. Non vorrei che qualcuno si allarmasse inutilmente dati i toni del capitolo quindi mi affretto a puntualizzare che la vittima cui si fa riferimento con i numerosi flashforward non è lei, alla nostra Piper non succederà niente e idealmente resterà a vivere all’Arconia con Nia e il gatto Bizet, vicino a Jackie, ma d’ora in poi apparirà solo di sfuggita.
Detto questo spero che il capitolo vi sia piaciuto, ci vediamo domenica con la seconda OS della raccolta autunnale che sarà dedicata a qualcuno tra questi OC, ovviamente non spoilero chi, e alla maggior parte di voi do appuntamento alla prossima settimana per il prossimo capitolo di LMDI.
Buona serata, bacini,
Signorina Granger
   
 
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