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Autore: drisinil    08/10/2023    1 recensioni
Questa è una raccolta di pezzi brevi e brevissimi per il writober, come palestra di scrittura. L'ambientazione è originale, come i personaggi.
Sullo sfondo c'è una relazione MM platonica fra adolescenti.
--> Tutte le storie di questa raccolta partecipano al Writober 2023 di Fanwriter.it
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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6 ottobre - RETROSCENA (che era meglio non conoscere)

 

Esitò solo qualche momento, con il dito sul campanello. Deglutì e gli parve che la saliva fosse amara.

Non era fiero di sé.

Non si può esserlo sempre, del resto. Più cresceva e più diventava chiaro, questo concetto sfuggente, che la coscienza talvolta deve cedere rispetto alla necessità.

La dignità è un lusso.

Non le parole che uno si aspetterebbe da un quindicenne con le braccia sepolte nelle tasche dei pantaloni fino al gomito, la tuta bucata e lo sguardo sempre traverso. Lo stesso quindicenne che si riempie la bocca di pollo fritto fino a non poterla chiudere per masticare.

Gli aveva chiesto in che senso la dignità fosse un lusso, che tipo di lusso, riservato a chi.

A chi è libero - aveva risposto. E poi si era rimesso a fare battement alla sbarra, come un automa.

Non aveva ancora deciso se come risposta avesse senso, ma iniziava a sentirsi esausto di tempestarlo di domande che venivano sistematicamente ignorate. Aveva bisogno di trovare risposte, anche se significava venire a patti con la coscienza.

In realtà forse la sua coscienza era al sicuro, visto che sembrava proprio che nessuno sarebbe venuto ad aprirgli.

Si guardò intorno. Un corridoio, porte tutte identiche con grandi numeri squadrati, come camere d’albergo. 306 era quella di fronte cui stava aspettando.

Provò a immaginarlo lì, che calpestava la moquette polverosa, sbucando dall’angolo del corridoio, silenzioso come un gatto. Che gli avrebbe detto se l’avesse incontrato?

Come si sarebbe giustificato per un’invadenza così feroce? Non ne aveva idea. 

Eppure era convinto di non essere il tipo di persona che affronta gli eventi senza un piano. Stavolta, niente piano. Del resto a quell’ora doveva essere a scuola,seconda lezione: matematica, forse l’unica materia che un po’ gli piaceva.

C’era silenzio, qualche rombo di motore all’esterno, un cigolio di molle dal numero 308, lo scarico di un bagno, il canto di un uccello. Quel posto aveva qualcosa di strano e posticcio che non riusciva a inquadrare, qualcosa di troppo e qualcos’altro che invece mancava.

Suonò ancora, se doveva giocarsi la coscienza poteva anche concedersi un minimo di maleducazione. Non accadde nulla, tutta la trepidazione che aveva in corpo, come preludio a chissà quali grandi rivelazioni, esplose in una bolla di delusione, con un piccolo scoppio sordo.

Aspettò ancora, suonò una terza volta il campanello.

La porta si aprì quando ormai stava per rinunciare.

Si aprì e si bloccò quando la catenella di sicurezza si tese. Nello spiraglio apparve il segmento di un viso di donna. Metà bocca sbaffata di rossetto, un occhio gonfio di sonno, una ciocca di capelli sfatti.

«Chi sei? Che vuoi?»

La zaffata di soju di cattiva qualità arrivò prima e meglio del senso della frase. 

Tuttavia lui presentò e si inchinò, educato e formale come sapeva essere quando voleva piacere agli adulti. Non disse cosa voleva, perché non avrebbe saputo spiegarlo. 

Voleva rendersi conto di dove lui viveva, e come, e con chi, in che situazione. Se la povertà di cui portava i segni era più o meno avvilente di come se l’era immaginata; se i segreti che custodiva erano lì chiusi a doppia mandata dietro una porta numerata, oppure sepolti in profondità, mischiati fra le ossa; se la passione testarda che metteva nelle cose, la poesia che debordava dai suoi movimenti avessero un’origine, una causa, una ragione comprensibile.

Contava sulla propria sensibilità, per avere tutte quelle risposte, e sulle regole base della vita civile che imponevano di far entrare in casa un ospite, qualsiasi fosse il motivo della visita. Si immaginava di entrare facilmente, di imbastire una scusa, trovare le sue risposte e andarsene. Mentre riepilogava questo piano, si rese conto che era privo di fondamento e non era da lui tanta disaccortezza. Aveva voluto andare lì più di quanto fosse razionale.

Comunque, nessuno lo invitò, la porta non si aprì più di pochi centimetri, la donna continuava a guardarlo male. Aveva gli stessi occhi di lui, affilati e profondi, piccoli e brutali. 

«Che vuoi?» ripeté, con la voce spezzata da un singhiozzo.

«Sono un compagno di scuola di suo nipote.»

«L’hai già detto. Ha fatto qualche cazzata, la mia rondinella?» rise, sguaiata. Quando si voltò di profilo, il sole del corridoio le bagnò il viso e i capelli. Era alta, snella, ben fatta, vestita troppo poco. Si portò alle labbra una bottiglia e piegò il collo all’indietro, il mento rivolto al soffitto, nel tentativo di far scendere qualche goccia che però non c’era. Imprecò, lanciando la bottiglia attraverso lo spiraglio.

«Era vuota» si lagnò, contrariata. «Allora? Che ha combinato? Devo pestarlo? Sai che non posso pestarlo, basso com’è, quello picchia più forte di te e di me messi insieme.»

Si aggrappò con la mano all’anta blindata, le unghie erano mangiate fino alla radice, la pelle rovinata e callosa. Non poteva avere più di trentadue o trentatré anni, ma le sue mani parevano aver vissuto il doppio di lei.

«Vai a prenderla» ordinò, indicando la bottiglia.

Lui eseguì e gliela passò, lei la afferrò con malgarbo e la lanciò all’interno. Si udì l’impatto del vetro sul pavimento, senza schianto.

La donna vacillò, recuperò a fatica l’equilibro e si pulì le labbra con la mano, sbaffando ulteriormente il trucco. Poi si sporse nello spiraglio, fissandolo con le pupille dilatate, che le allagavano gli occhi di un nero ubriaco. 

«Senti, bello, dammi retta: stai alla larga da quello lì, che è meglio per te.» Parlava inciampando nelle sillabe, o forse nei suoi stessi pensieri sconnessi.  «È pericoloso, e anche un po’ matto, se vuoi la mia. E ti dico anche che ha le sue buone ragioni per esserlo, cazzo! La vita è una merda, lo sapevi?»

Ogni tanto, ne aveva il sospetto. Tuttavia tacque e la lasciò proseguire.

«No che non lo sai, guardati, di chi sei figlio? Di un professore? Di un dottore? Puzzi di soldi da capo a piedi. Ma che hai a che fare tu, con noi?» 

Era piuttosto chiaro che non si aspettasse una risposta, lasciò cadere la testa in avanti, come se non riuscisse più a sorreggerla.

«Fa freddo» osservò. Non era vero, ma non gli parve il caso di contraddirla.

Quando risollevò con fatica la testa, passò una ventina di secondi a scrutarlo, percorrendo con lo sguardo tutti i suoi lineamenti. Sembrava che lo odiasse

«Fanculo» lo salutò di punto in bianco, sbattendogli la porta in faccia. Era finito un qualche conto alla rovescia di cui non si era accorto. Un istante dopo i versi sofferenti dei conati di vomito si diluirono nel corridoio esterno.

Rimase a fissare la porta per un po’, poi imboccò le scale e le discese lentamente, lasciandosi cadere verso il basso. Qualcosa dentro di lui era precipitato. Non come un corpo che cade dall’alto, ma come precipitano le sostanze chimiche, separandosi dalla parte più leggera della propria essenza e cambiando forma, stato e natura.

Si sentiva diverso come se negli specchi che aveva dentro, non riuscisse più a riconoscere se stesso, né l’altro.

È strano come un’idea nuova, mai pensata, mai immaginata prima, a un certo punto produca una rotazione interiore, un cambiamento di prospettiva che regala a tutto il mondo un senso nuovo. Lembi di realtà che prima non avevano alcuna relazione, si incastrano alla perfezione e compongono una figura completa, sensata, senza più nessuno strappo visibile

Rondinella.

Il buio.

La dignità è un lusso.

Smettila di pensare di consocermi.

Ha le sue buone ragioni.

Quando danzo, non esiste niente prima e niente dopo di me.



 

L’idea era straniante, ma i pezzi combaciavano.

Nell’androne al piano terra due vecchi stavano improvvisando un pansori pieno di amarezza. Non era uno di quelli famosi, non lo aveva mai sentito, il testo parlava di un uomo che abbatte l’albero che accudiva quando capisce che il suo sogno d’amore è fallito. Fra le fronde dell’albero caduto, l’uomo si toglie la vita, avendo perso, oltre che l’amore, anche la speranza e uno scopo esistenziale.

Pensò di applaudire, ma poi cambiò idea e si allontanò. 

Uscendo, restò folgorato dalla targa metallica appesa in bella vista sul muro che fiancheggiava la porta d’ingresso. Lesse il testo una volta. Due volte. Dieci volte. Sperava ogni volta di aver frainteso, ma la targa non cambiava mai.

Un gelo paralizzante risalì dal terreno e lo trapassò, dalle piante dei piedi al cervello, come un fulmine al contrario. Chiuse gli occhi, li aprì e la targa era al suo posto..

Li chiuse ancora, strizzandoli forte. Nulla cambiò. Tranne la consapevolezza, che cambia sempre tutto. A meno di non essere un codardo egoista, nel qual caso è solo un problema di quanto a fondo riesci a spingere la testa sotto la sabbia.

La sabbia gli pizzicava il collo e le spalle. 

Non era fiero di sé.

 
   
 
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