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Autore: RuWeasley    20/10/2023    0 recensioni
ripenso che ogni 'come stai?' tu mi abbia chiesto sia servito solo a riuscire a legittimarti in un posto poco confortevole, come le mie gambe, come il divano di casa, come il sedile della mia macchina.
dodici racconti autoconclusivi di epiloghi imbarazzati, romanticismo abbozzato, cuti sfiorate, sguardi sommessi - un manifesto sulle emozioni lievi, su come non ci sia niente da imparare.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate, Threesome | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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la prima moto vera che ho guidato era un piccolo centoventicinque, la motocicletta di mia cugina che abitava a un centinaio di chilometri da te. praticamente una bicicletta con un motore e quindi tutto sommato mi ci sono trovato bene. mi piaceva che in terza aprivi l’acceleratore e sentivi l’unico pistone che si arrabbiava sulle salite. mi piaceva che per cambiare le marce dovevo pestare sulla leva, mi piaceva la sensazione che tutti i miei arti erano impegnati nel guidare quella bicicletta un po’ pesante. queste sensazioni sono diventate più spinose quando sono entrato nella tangenziale di trento per la prima volta mentre guidavo l’equivalente di un tagliaerba su due ruote. io quando vado in una città che non conosco di solito vado in stazione, e finii per parcheggiare nella via subito dietro. quando scesi guardai il cellulare nervoso e tu eri a pochi isolati da me, erano le dieci credo; ci abbracciammo ed io sentii la tua voce forse per la prima volta, mi dicesti  ‘ciao fiore’ e da lì i tuoi saluti per messaggio li ’ho sempre letti con la tua voce. quando ci incamminammo ti chiesi delle tue giornate e realizzai di quanto fossimo inesistenti nelle nostre vite quotidiane, non ne feci parola. non mi raccontasti di molto e immediatamente pensai a quante cose ci siamo scritti per chat. non mi ricordo di cosa parlammo, io queste cose non me le ricordo mai. mi ricordo parco delle albere e di quanto fosse borghese, ci scattammo una foto sul riflesso di uno dei palazzi, parlavamo dei verdena. poi andammo dall’altra parte del lungadige ed è iniziata la parte più lunga del nostro discorso. il lungadige è sotto l’autostrada, una grande costa verde con pochi alberi e un sentiero battuto. tu avevi una felpa senza cappuccio, grigia e verde, da pischello americano, ci eravamo seduti sotto un albero. stavamo parlando da ore e in un momento di silenzio mi lanciasti una mela. arrossimmo entrambi, e la tua dolcezza mi intimidiva. quando ci abbracciammo tu eri alla mia destra ed entrambi guardavamo il fiume. sentii l’odore di hennè dei tuoi capelli rosso arancioni e tu subito lo commentasti. a me piaceva. mi ricordo quanto ho balbettato dopo averti baciato, di quanto sono andato nel panico nel vederti immobile. mi parlasti anche delle tue fiamme, delle tue cotte. mi dicesti che non dovevo preoccuparmi, e che era solo il tuo primo bacio; ci baciammo ancora. io un po’ tremavo e quando tornammo ci siamo tenuti per mano. sul ponte pedonale ci fermammo per dirci qualcosa che ora non ricordo più.
di trento mi ricordo le cose che mangiammo: una focaccia fredda, del pane alle olive, gli arancini del despar in centro, il cornetto del primo giorno di quando sono tornato. la mela che mi desti non osai toccarla, nemmeno dopo i cento chilometri del ritorno. tornai presto, non volevo tornare con il buio, ed ero stanchissimo. rimasi dietro questo camion per quasi cinquanta chilometri. quando arrivai a casa di mia cugina andai a letto, e tutte le emozioni che provai le accartocciai in un messaggio che ti inviai subito dopo. credo fosse solo un modo molto contorto di dirti che avrei voluto vederti ancora. dopo averti inviato quel messaggio confusissimo guardai la mela gialla pensando che niente di quello che avrei fatto le avrebbe dato giustizia. qualche momento dopo tu mi scrivesti di non aver capito, e io ti dissi che avrei preso dei biglietti per trento e tutto sommato, risolvemmo lì. nel treno sedevo accanto al finestrino e guardai i frutteti di mele, ce n’erano tantissimi. ripensai alla mela che mi desti. a trento rimasi due notti in un ostello che pagai poco. il primo giorno prendemmo un caffè e ti chiesi del tuo bar preferito, non ne avevi uno; ci sedemmo nel primo posto che trovammo e tu prendesti un caffè all’orzo, io un macchiato e un cornetto al cioccolato. mi dicesti come non andassi spesso ai bar, ripensandoci ti costrinsi a più d’uno. andammo in due sulla tua graziella *, e mi portasti al cimitero, dal paki da cui prendevi di solito da bere, al postaccio dei tranci di pizza cheap dove andavi solo per le birre. lì ti chiesi di trento e mi sembrò starti stretta, come se non ci fossi mai entrata dentro; ti chiesi di altro e mi sembrasti vicina, fu dolce. ti guardai e probabilmente non ti dissi niente, e sui tavolini di legno del posto dei tranci avrò pensato qualcosa di semplice - che mi piacevi, che eri bellissima, che forse non eravamo lontanissimi. quella sera andammo ad un concerto all’aperto dove prendemmo un drink che costava troppo e la musica era pacchissima. passammo la serata a pomiciare come dei ragazzini sui gradoni degli spalti finché poi la serata non finì. tornammo all’ostello e ci salutammo, io avrei voluto dormire con te anche se non riuscivo nemmeno ad immaginarmelo. l’ultima mattina siamo stati solo in piazza dante, io avevo il treno per bari all’una. ci scattammo una seconda foto, delle nostre mani. ascoltammo tantissima musica dalla cassa del telefono e scoppiammo quasi a piangere con sober to death - ancora non conoscevo la versione più fica. quando stavo per salire in treno tu scoppiasti a piangere, ed io mi sentii di troppo e non abbastanza. questa sensazione non è mai cambiata. ci abbracciammo e ci abbracciammo forte e un maledetto vecchio mi disse che vai facendo? perché stai lasciando qui una così bella ragazza? o qualcosa di simile, e le sensazioni di inadeguatezza peggiorarono perché possono solo peggiorare. in treno ci scrivemmo e tu mi inviasti la playlist su cui da lì a due anni mi sarei fatto più paranoie della mia vita, con la foto delle nostre mani che scattasti poco prima. fu un’altra mela lanciata, lo trovai dolcissimo e tenero, e come con la mela mi sentii preso da una sensazione di necessità e di inadeguatezza che non riuscivo a smettere di provare. feci anche io una playlist per te, in treno, e te la inviai immediatamente, con la foto delle nostre gambe, scattata il primo giorno che ci siamo visti. sober to death, il pezzo con cui abbiamo quasi pianto in piazza dante, non lo toccò nessuno. te lo misi in playlist solo quando scoprii che c’era la versione più fica - quando la sentii pensai che a trento ero davvero un maledetto pischello.
a bari ti pensavo spesso, e scriverti non mi era ancora difficile. dopo un po’ ci sentimmo sempre di meno, e le paranoie ebbero la meglio, e dopo un po’ smettemmo di sentirci. i tuoi dettagli mi confondevano in quei giorni e non sapevo cosa fare. ricordo di aver letto tutte le cose che postavi con il tuo corsivo pieno di grazie per cercarmi e cercare cosa pensassi. un po’ egoisticamente ti vedevo crescere e non trovarmi tra le tue cose mi faceva sentire male. aggiornai la tua playlist però. diventò una cosa periodica -  a settembre lo facevo con il magone, ormai due elementi tendenzialmente collegati, però poi lo facevo e basta. il tuo pensiero era lì senza che mi creasse qualcosa di acuto o appuntito. era solo lì e quando lo guardavo aggiungevo un pezzo alla playlist, una dinamica piuttosto lineare. quando io mi scontrai con le pene universitarie e andavo incontro alla mia imminente perdita nel sistema burocratico accademico tu mi ricominciasti a scrivere. mi chiamasti di nuovo fiore e trovasti dolce la mia playlist cresciuta. di quei giorni fu l’unica nostra interazione che non mi fece innervosire, però arrossii pensandoti vicina, era gennaio o febbraio e il tempo era una merda.

poi la cosa assunse una strana aria di stabilità quando anche tu iniziasti ad aggiornare la tua playlist. non c'era nessun contatto, nessun messaggio ma solo un periodico-reciproco pensiero di dimensione assolutamente minima e quattro minuti di canzoni. dolce, di poco peso, lontano. lontanissimo. aveva un po' la forma dei ricordi piacevoli ma con quella stupida certezza delle cose presenti. aveva assunto una placida-piacevole forma e non ero poi così sicuro mi stesse bene, ma un po’ mi cullava.

gli ultimi giorni di pioggia ci scrivemmo qualcosa, qualcosa di poco conto, e l’idea che presto ci sarebbe stato il sole me lo rese più facile. quasi per scherzo ti dissi che magari ci saremmo visti quell’estate. i primi giorni di sole aggiungesti alla tua playlist mi piacerebbe ogni tanto averti qui. un po’ lo trovai ironico, un po’ mi bucai il petto. ci scrissi qualcosa di triste e non te lo feci mai leggere. mesi dopo a trento ci finisco di nuovo, con vacca e berardi, dopo duemila chilometri di giretti con la golf. il giorno che arrivammo mi misi i pantaloni a vita alta che mi facevano le gambe lunghe e la mia maglietta preferita. berardi lo notò. passammo da un supermercato, berardi e vacca presero latte e biscotti, io presi un sacchetto di mele, che però lasciai in macchina, parcheggiata qualche isolato dietro a parco delle albere. lì vacca e berardi fumarono un po’ ed io ero teso. quando tu arrivasti ci salutammo senza troppi fronzoli e ci sedemmo in cerchio, berardi ti passò da fumare. passai le due ore insieme a chiedermi cosa ti passasse per la testa o se ti innervosisse la compagnia. guardare vacca e berardi ridere e bere il latte però mi tirava su da morire, e ti scrutavo e un po’ balbettavo senza capire cosa cercassi da te in quel momento. tu dovevi andartene presto, non mi ricordo perché. se vuoi ci incamminiamo insieme, dissi, così poi prendo la macchina ed io e gli altri andiamo al bruno, tu facesti un cenno. camminavi alla mia sinistra e non ci dicemmo niente per tutto il tragitto. io guardavo le siepi alla mia destra e non riuscivo a parlare. arrivati alla golf facemmo per salutarci ed io, nel modo maldestro con cui faccio questo genere di cose, dalla macchina presi una mela e te la porsi. non dicesti niente, e non ci siamo mai più visti.

ho visto che hai fatto la mossa che ti sei messo i pantaloni lunghi oggi

mi fece berardi. lui queste cose le nota sempre.

lei però ha fatto la mossa più di te

mi convinsi di capire questa cosa, io la mossa la feci davvero ma, nonostante passai le ultime due ore a guardarti, la tua mossa in qualche modo non l’ho vista - berardi a guardare queste cose forse è più bravo di me. mi sforzai di togliermi dalla testa la tua immagine mentre andavamo al bruno in macchina. la sera ti scrissi, un po’ brillo, chiedendoti se saresti venuta al bruno. mi rispondesti che non avevi modo di tornare ed io pensai che non ero tenuto a leggere fra le righe da brillo, ti proposi una colazione e una gita al lago, e tu semplicemente non rispondesti più. il mattino dopo non eravamo più a trento, e quasi mi sentii meschino. berardi credo mangiò una delle mele rimaste, io, anche quest’anno, non osai toccarle.



i primi di dicembre aggiornasti la tua playlist con un pezzo heartwrenching con un verso ricorrente - i think you deserve some kind of apology. non sapevo come sentirmi, aggiunsi qualcosa di stupido e un po’ meschino alla mia playlist, perchè ancora non avevo smesso di essere un maledetto pischello. anche quell’anno mi scrivesti il giorno del mio compleanno. ciao fiore, scrivesti ancora una volta, prima di farmi gli auguri. detestavo il tuo ricordartelo e lo detestavo perché era una di quelle cose che mi convincevano di avere un posto che non avevo. detestavo anche quanto un po’ mi sentissi gasato di vedere un tuo messaggio. gli ultimi di dicembre sono sempre così - tu hai il compleanno il venticinque dicembre che si sposa piuttosto bene con la tua iconografia, il mio è solo qualche giorno prima. ci scrivemmo anche il dicembre dopo, fu dolce. aggiungemmo qualche altro pezzo alla playlist, ma l’ultimo dicembre non ci siamo detti niente.

quando per caso iniziammo a chattare per la prima volta mi raccontasti come nell’antica grecia per provarci con qualcuno gli dovevi lanciare una mela. mi chiedo se hai mangiato quella che ti diedi. io non ne ho avuto il coraggio.

// morbida - verdena: dalla mia playlist. la seconda metà del mio primo anno di università caricai delle foto vecchie. anche quella delle nostre gambe riflesse sul palazzo borghese di parco delle albere. tu scrivesti gioia morbidissima, io arrossii. qualche tempo dopo mi innervosivi, qualche tempo dopo ancora smettesti di farlo.

// skin gets hot - fraternal twin: dalla tua playlist. ci sono andato in fissa solo ora. quando guardo la tua playlist penso a tutti i pezzi bellissimi che in qualche modo non avevo ascoltato, che hanno trovato un’altra strada nella mia vita, tendenzialmente più complicata e invece sono sempre stati lì - non sono mai stato paziente forse.
 
   
 
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